L’improcedibilità e l’appello
Nel corso del 20131, in tema di appello amministrativo, non sono intervenute novità, normative e giurisprudenziali, di particolare rilievo; nondimeno si pongono all’attenzione dell’interprete una serie di pronunce nelle quali il Consiglio di Stato si è soffermato sull’improcedibilità, esaminando in dettaglio taluni profili applicativi di un istituto al quale il nuovo codice, diversamente dalla previgente disciplina processuale, ha dedicato molteplici disposizioni. L’esame del peculiare fenomeno di chiusura anticipata del giudizio, cui l’improcedibilità dà luogo, intercetta – di qui l’interesse dell’argomento – numerose problematiche di interesse teorico generale e di estrema delicatezza quali, tra le altre, quelle relative alla natura e agli effetti della pronuncia d’improcedibilità, ai limiti della rilevabilità d’ufficio e della riproponibilità della questione in appello, alle conseguenze in ordine all’eventuale rinvio del processo al primo grado e al regolamento delle spese processuali.
L’accertamento dell’improcedibilità di un ricorso determina la fine anticipata del giudizio, precludendo ogni indagine sul merito della controversia; ciò significa che, laddove l’improcedibilità non trovi causa in una piena soddisfazione della pretesa della quale si sia chiesta tutela, il diritto di difesa, costituzionalmente tutelato (art. 24, co. 1, Cost.), non avrà modo di dispiegarsi in modo completo e satisfattivo.
1.1 L’improcedibilità nel codice del processo amministrativo
La considerazione dei rischi connessi ad improprie declaratorie di improcedibilità - in grado di arrecare un vulnus, talora irreparabile, al valore cardine dell’effettività della giurisdizione - ha verosimilmente guidato il Legislatore delegato nella stesura del d.lgs. 2.7.2010, n. 104, posto che il codice del processo amministrativo, molto più della previgente normativa processuale2, dedica all’istituto dell’improcedibilità - nonostante le perduranti incertezze del relativo inquadramento teorico3 - plurime disposizioni la cui comune ratio è ravvisabile nell’obiettivo di coniugare l’esigenza di una rapida celebrazione di giudizi non più sorretti da un reale interesse delle parti a una definizione nel merito con la contrapposta necessità di circoscrivere l’ambito dell’estesa potestà giurisdizionale di gestione del processo.
Senza pretese di esaustività, possono ricondursi, direttamente o indirettamente, alla disciplina della procedibilità di un ricorso (o di un’impugnazione) i seguenti articoli: 39, in relazione al fondamentale art. 100 c.p.c., 34, 35, 45, 49, 55, 56, 73, 74, 84, 85, 87, 94, 95, 96, 99, 104, 105 e 109 c.p.a.
La lettura complessiva e sistematica, sia pure non analitica, di tali previsioni codicistiche consente di delineare i tratti caratteristici dell’istituto.
In linea generale va osservato che, secondo il Codice:
l’improcedibilità, sia in primo sia in secondo grado, è oggetto di una (assorbente) statuizione in rito, a contenuto dichiarativo, sollecitata da un’eccezione di parte o resa d’ufficio dal giudice (art. 35, co. 1, c.p.a.);
l’improcedibilità non è in senso stretto una causa di estinzione del giudizio (art. 35, co. 2, c.p.a.) e, nonostante le rilevanti affinità, si distingue dalle figure della cessazione della materia del contendere (art. 34, co. 5, c.p.a.), della perenzione, della rinuncia al ricorso e della mancata prosecuzione o riassunzione del giudizio nel termine fissato (art. 35, co. 2, c.p.a.);
inoltre, mentre l’inammissibilità è determinata da una carenza di interesse o dalla sussistenza di altre ragioni ostative a una pronuncia sul merito, preesistenti o coeve alla proposizione del ricorso (art. 35, co. 1, lett. b), c.p.a.), l’improcedibilità, dal punto di vista cronologico e processuale, è sempre successiva all’instaurazione del giudizio;
le vicende che possono condurre a una pronuncia di improcedibilità sono essenzialmente tre: a) la sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione; b) l’omessa integrazione del contraddittorio nel termine assegnato; c) ogni altra ragione sopravvenuta che osti a una pronuncia sul merito (art. 35, co. 1, e 95, co. 3, c.p.a.);
la manifesta improcedibilità del ricorso preclude, sia in primo (art. 49, co. 2, c.p.a.) sia in secondo grado (art. 95, co. 5, c.p.a.), la possibilità di integrare del contraddittorio eventualmente carente e obbliga il giudice a definire il processo con una sentenza in forma semplificata;
qualora rilevata d’ufficio durante la discussione della causa, la questione di procedibilità deve essere sottoposta al contraddittorio delle parti nei modi previsti dall’art. 73, co. 3, c.p.a.;
non si determina alcuna improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse di una domanda ex art. 29 c.p.a., quand’anche l’annullamento richiesto non risulti più utile, ogniqualvolta il giudice ravvisi comunque l’esistenza di un interesse di parte all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato, seppure soltanto ai fini risarcitori (art. 34, co. 3, c.p.a.);
l’improcedibilità, a seconda della fase del giudizio in cui intervenga, può essere dichiarata con decreto monocratico, con ordinanza di opposizione confermativa di detto decreto o con sentenza (art. 85 c.p.a.).
1.2 Le pronunce del Consiglio di Stato nel 2013
Su questa trama legislativa si sono innestate le recenti sentenze del Consiglio di Stato, del cui essenziale contenuto occorre dar conto.
Con la sentenza della Terza sezione, 14.3.2013, n. 1534, il Consiglio, nell’accogliere un appello con il quale si era contestata la sussistenza dell’improcedibilità dichiarata dal TAR (che aveva tenuto conto di un provvedimento adottato dall’amministrazione in esecuzione di una precedente ordinanza cautelare emessa dallo stesso Tribunale), ha precisato in che cosa consista e quando si determini l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, nonché sotto qual profilo essa si distingua dalla rinuncia (v., infra, § 3.2). In particolare, il Consiglio di Stato ha escluso, richiamando un consolidato indirizzo pretorio4, che ricorra alcuna improcedibilità nel caso in cui l’amministrazione abbia adottato atti in ottemperanza di provvedimenti giurisdizionali di natura cautelare, stante l’intrinseca provvisorietà di questi ultimi. Nel ribadire la natura oggettiva della situazione che può condurre all’improcedibilità, il Consiglio si è soffermato sull’obbligo del giudice di valutare sempre con il massimo scrupolo la permanenza, o no, dell’interesse a coltivare l’impugnativa, onde non incorrere in sostanziali elusioni del dovere di esaminare la fondatezza delle domande.
Con la sentenza n. 1094 del 22.2.2013 la Sesta sezione del Consiglio di Stato ha invece affermato che esigenze di economia processuale giustificano la rilevabilità d’ufficio della carenza di interesse al ricorso, sia originaria (inammissibilità) sia sopravvenuta (improcedibilità), in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, anche in appello; il Consiglio ha così escluso che siffatta rilevabilità incorra nella preclusione derivante dalla regola del cd. “giudicato implicito”5, valendo quest’ultima - in assenza di una norma di legge che ne estenda l’ambito di applicabilità - esclusivamente per le questioni di giurisdizione. In termini analoghi si è pronunciata anche la Quarta sezione con la sentenza n. 489 del 25.1.2013, aggiungendo che, in appello, l’eccezione di improcedibilità può essere sollevata dalle parti anche con semplice memoria (sempre che il TAR non si sia pronunciato sul punto).
Con la sentenza n. 384 del 23.1.2013 la Sesta sezione ha, tra l’altro, statuito che il giudice di appello non è tenuto a rinviare il processo in primo grado, pur avendo rilevato un difetto di integrità del contraddittorio, qualora il ricorso originario si presenti improcedibile.
Infine, con la sentenza n. 1216 del 28.2.2013, la Quinta sezione ha sostenuto che la litispendenza nel giudizio amministrativo si verifica per effetto della sola notificazione del ricorso, cosicché il successivo deposito di esso assume il valore di una mera condizione di procedibilità.
L’esegesi delle disposizioni codicistiche di cui alla precedente rassegna (v., supra, § 1.2) conduce a ritenere che l’improcedibilità si determini, come rivela la stessa denominazione dell’istituto, allorquando il processo - una volta instaurato in primo o in secondo grado - versi in una situazione di impasse, tale da arrestare la progressione del giudizio verso l’approdo naturale della decisione della lite nel merito, a causa della mancanza di un elemento essenziale. Gli elementi la cui mancanza può dar luogo a un’improcedibilità sono di due tipi: il primo, più significativo per la teoria generale del processo, è rappresentato dalla sopravvenuta carenza dell’interesse a ricorrere o ad impugnare; il secondo consiste invece nell’inadempimento di un onere procedurale gravante in capo a una parte. Per una migliore intelligenza dei principi, di recente enunciati dal Consiglio di Stato nelle succitate decisioni, è necessario focalizzare l’attenzione su tali due generali cause di improcedibilità.
2.1 L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse
Anche nel processo amministrativo, in forza del rinvio esterno operato dall’art. 39 c.p.a., vale la regola scolpita dall’art. 100 c.p.c., secondo cui per proporre una domanda6 occorre avere un interesse e, pertanto, la prospettazione, esplicita o implicita, di detto interesse è oggetto di uno specifico onere del ricorrente. La ratio della previsione è individuata nell’esigenza7, di economia processuale – sulla quale oggi converge anche il principio di non irragionevole durata del giudizio (art. 111 Cost.) –, di impedire la proposizione e la prosecuzione di azioni giudiziarie inutili. Secondo la concorde giurisprudenza, civile e amministrativa8, l’interesse ad agire (e a ricorrere) postula sempre, da un lato, a.1.) un interesse oggettivo dell’istante a prevenire o rimuovere la lesione di un bene-interesse sostanziale, a.2) non altrimenti evitabile se non attraverso l’intermediazione giurisdizionale e, dall’altro lato, b) che l’adozione del provvedimento in concreto richiesto al giudice sia idonea a scongiurare il vulnus prospettato e a conseguire l’utilità pratica, anche di natura strumentale9 (ossia non immediatamente satisfattiva della pretesa sostanziale, ma in grado di rimettere in discussione il rapporto controverso ai fini del riesercizio del potere), avuta di mira dal ricorrente. Ancora, in base alla comune opinione giurisprudenziale: 1) l’interesse a ricorrere è un presupposto processuale o, meglio, una condizione (dell’azione) per la pronuncia della decisione nel merito e, dunque, 2) esso deve sussistere al momento dell’instaurazione del processo e deve permanere, ove pur parzialmente modificato, in ogni stato e grado del giudizio10; inoltre 3) l’assenza iniziale dell’interesse a ricorrere comporta l’inammissibilità dell’azione, mentre, l’estinzione di detto interesse in pendenza del processo determina la cessazione anticipata del giudizio11.
L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse si verifica dunque nell’ipotesi in cui intervenga una nuova situazione di fatto o di diritto, radicalmente diversa da quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e assoluta l’inutilità, anche soltanto morale o strumentale, di una futura pronuncia sul merito della lite12.
Va evidenziato che il Consiglio di Stato, con la surricordata sentenza n. 1216/2013, nel valorizzare le tesi di un orientamento pretorio in precedenza minoritario13, ha individuato – così operando un significativo avvicinamento tra il rito civile e quello amministrativo – il momento determinante la litispendenza nella notificazione del ricorso (o dell’impugnazione). Con tale interpretazione il Consiglio ha, per un verso, ribaltato un tradizionale indirizzo che intravedeva nel tardivo deposito del ricorso un’ipotesi tipica di inammissibilità e, per altro verso, ha chiarito definitivamente il significato giuridico dell’aggettivo “sopravvenuta”, predicato dell’improcedibilità per carenza di interesse: se, difatti, il deposito, una volta notificato il ricorso, costituisce una condizione di procedibilità del processo (anche d’appello), allora l’improcedibilità è “sopravvenuta” ogniqualvolta essa si determini in rapporto a situazioni concretatesi dopo la notificazione dell’atto introduttivo del singolo grado del giudizio.
2.2 L’improcedibilità per inosservanza di un onere procedurale
Accanto alla principale ipotesi della sopravvenuta carenza dell’interesse, il codice del processo amministrativo contempla una seconda casistica, comprendente una varia tipologia di fattispecie, in cui l’improcedibilità discende dall’inadempimento di un onere procedurale. Tra le ipotesi, legislativamente tipizzate, riconducibili a questa seconda categoria vanno ricordate quelle di cui agli artt. 55, co. 4, e 56, co. 1, secondo periodo, c.p.a., (secondo cui la domanda cautelare è temporaneamente improcedibile in mancanza dell’istanza di fissazione dell’udienza di merito), ai quali rinvia l’art. 98, co. 2, c.p.a. per i processi di impugnazione, nonché quella prevista dall’art. 95, co. 4, c.p.a., nel caso della mancata integrazione del contraddittorio nel termine stabilito dal giudice dell’impugnazione (analogamente a quanto avviene in primo grado a norma degli artt. 35, co. 1, lett. c) e 49, co. 3, ultimo periodo).
Così inquadrato l’istituto, è ora possibile esaminarne i molti aspetti problematici, alcuni dei quali intercettati dalle pronunce del Consiglio di Stato sopra richiamate.
3.1 L’interesse a ricorrere nel giudizio amministrativo
Principiando dalla disamina dell’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse, occorre innanzitutto considerare che, nel giudizio amministrativo, l’interesse a ricorrere è isomorfico rispetto a quello ad agire e, pertanto, esso sussiste, come sopra accennato, ogniqualvolta sia prospettata una lesione, concreta e attuale, ad un bene della vita efficacemente tutelabile soltanto in via giurisdizionale14.
Al di là di siffatta identità strutturale (e funzionale), esistono tuttavia delle differenze quantitative e qualitative tra le ipotesi della carenza d’interesse, rispettivamente, nel processo civile e in quello amministrativo. Sul versante quantitativo, il sopravvenuto difetto dell’interesse alla coltivazione della lite si presenta nel processo amministrativo con frequenza ben maggiore di quanto accada nel giudizio civile. D’altronde tale aspetto quantitativo del fenomeno si spiega alla luce di uno specifico profilo qualitativo che attiene alla natura, proteiforme e cangiante, dell’interesse legittimo (al quale l’interesse a ricorrere si collega); difatti l’interesse legittimo, posizione giuridica priva della tendenziale stabilità del diritto soggettivo, muta continuamente finalismo e contenuto, seguendo sia l’evoluzione dei singoli procedimenti dai quali origina o nei quali si innesta, sia il mutare del quadro normativo di riferimento. Accade così, assai spesso, che le vicende di un procedimento amministrativo svolgentesi contemporaneamente al relativo giudizio possano riverberarsi sull’interesse a ricorrere, modificandolo o finanche estinguendolo. Un’analoga interferenza tra il procedimento e il processo può verificarsi anche quando il giudizio sia approdato al secondo grado.
Va precisato, tuttavia, che il codice del processo amministrativo ha sensibilmente ridotto, rispetto al passato, l’incidenza dell’improcedibilità, adeguando le regole del rito al riconoscimento, prima giurisprudenziale15 e poi legislativo16, del sostrato sostanziale dell’interesse legittimo e della sua risarcibilità: ciò è avvenuto con l’introduzione, nell’art. 34, co. 3, c.p.a., di un meccanismo di conversione ex lege di un’azione di annullamento, divenuta improcedibile (per sopravvenuta inutilità dell’eliminazione dell’atto impugnato), in una di più ristretto contenuto volta, ove sorretta da finalità risarcitorie, all’accertamento dell’illegittimità amministrativa denunciata. Merita segnalare che siffatto meccanismo di conversione dell’interesse a ricorrere opera anche dopo il passaggio del giudizio dal primo al secondo grado qualora, in relazione all’atto amministrativo attinto dal ricorso originario, venga meno soltanto in pendenza dell’appello l’interesse all’annullamento, se tale annullamento sia stato negato dal TAR con la sentenza nel frattempo gravata.
3.2 Le figure affini all’improcedibilità
Si è sopra scritto che l’improcedibilità dà luogo alla fine anticipata del giudizio; essa può dunque considerarsi un fenomeno “estintivo” seppur anomalo (giacché legalmente tipizzato, ma non incluso formalmente nel novero delle ipotesi contemplate dall’art. 35, co. 2, c.p.a.). Nondimeno è utile indicare le differenze tra l’improcedibilità e le altre fattispecie di chiusura anticipata del giudizio.
In primo luogo l’improcedibilità si distingue dalla rinuncia, disciplinata dagli artt. 35, co. 2, lett. c), 84 e 85 c.p.a.: sul piano formale, l’art. 84 c.p.a. richiede infatti, per la presentazione dell’istanza di rinuncia, il rispetto di alcuni oneri (quali la sottoscrizione della parte o dell’avvocato munito di mandato speciale, la notifica alle altre parti e il deposito in segreteria); sul versante sostanziale, la rinuncia, a differenza dell’improcedibilità, poggia sempre su una volontà abdicativa del ricorrente (in primo o in secondo grado) e può spiegare effetti soltanto se le controparti, potenzialmente interessate alla prosecuzione del giudizio, non si oppongano all’estinzione del processo. Bisogna tuttavia ricordare che, al cospetto di una rinuncia carente sotto il profilo formale (cd. “rinuncia impropria”), il giudice, a norma dell’art. 84, co. 4, c.p.a., può comunque ritenere, motivando adeguatamente sul punto, che sia venuto meno l’interesse della parte alla decisione della causa, con conseguente improcedibilità del giudizio.
La natura abdicativa dell’istituto giustifica la regola, non automaticamente trapiantabile al caso dell’improcedibilità, secondo cui il rinunciante, salvo diversa valutazione del giudice, debba sempre farsi carico delle spese processuali. Identica nelle due ipotesi è invece la disciplina del rito dettata dall’art. 85 c.p.a.
Diversa dall’improcedibilità è pure la perenzione, di cui il codice del processo amministrativo conosce tre differenti ipotesi (rispettivamente previste dagli artt. 81, 82 e 1 dell’Allegato 3 al d.lgs. n. 104/2010), che si verifica in conseguenza di specifiche inattività delle parti e della decorrenza di distinti termini.
Riconducibile in senso lato all’improcedibilità, quale specie di un genere17, è poi la cessazione della materia del contendere, menzionata dall’art. 34, co. 5, c.p.a., la cui peculiarità risiede nel fatto che la sopravvenuta carenza dell’interesse alla decisione della controversia trova causa nell’attività dell’amministrazione, qualora quest’ultima, nel corso del giudizio, abbia completamente soddisfatto la pretesa del ricorrente. Il codice del processo amministrativo ha però notevolmente ridotto, rispetto al passato, l’ambito applicativo dell’istituto, atteso che dell’art. 34, co. 5, c.p.a. si impone una lettura combinata con il precedente co. 3 della medesima disposizione, sicché il giudice non potrà dichiarare cessata la materia del contendere ogniqualvolta l’amministrazione abbia accolto soltanto la pretesa correlata a una domanda di annullamento (riformando o ritirando l’atto impugnato, in tutto o in parte) e nondimeno il ricorrente conservi un interesse alla decisione, sebbene ai soli fini risarcitori.
Pacificamente si ritiene che le pronunce giurisdizionali che diano atto della rinuncia o della perenzione abbiano un contenuto dichiarativo e investano il mero rito; quelle in tema di cessazione della materia del contendere, ancorché dichiarative, attingono invece il merito della controversia, recando l’accertamento dell’intervenuta soddisfazione della pretesa azionata. Più controversa, invece, come si vedrà infra (nel successivo § 3.4), è la natura delle pronunce sull’improcedibilità.
3.3 La tassatività delle ipotesi di improcedibilità
Le ipotesi di improcedibilità non sono tassativamente indicate dalla legge processuale. In tal senso è eloquente l’ultima parte dell’art. 35, co. 1, lett. c), c.p.a. che, dopo aver accennano alle due figure di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione e per omessa integrazione del contraddittorio processuale, indica genericamente i casi in cui sopravvengano «altre ragioni ostative a una pronuncia sul merito». Alcune di tali ulteriori ipotesi sono menzionate in differenti disposizioni del codice del processo amministrativo (si vedano, ad esempio, i già citati artt. 55 e 56 c.p.a., ma, soprattutto, l’art. 84, co. 4, c.p.a.), altre sono state ricostruite e tipizzate dalla giurisprudenza (v., sul punto, la fattispecie di cui alla citata sentenza del Consiglio di Stato n. 1216/2013).
3.4 La natura della pronuncia sull’improcedibilità
Di particolare interesse dal punto di vista della teoria generale del processo è l’indagine sulla natura della pronuncia in tema di improcedibilità. Essa è certamente di tipo dichiarativo (v. l’art. 35, co. 1, c.p.a.) e postula un accertamento. Più complesso è stabilire se tale accertamento attenga al rito o al merito della controversia. Sul punto l’art. 35 c.p.a. sembra aver preso posizione a favore della tesi tradizionale, sulla natura in rito delle relative decisioni, in tal senso deponendo la rubrica della disposizione. La soluzione però non convince pienamente. Ed invero, premesso che la rubrica di un articolo, non avendo contenuto normativo, può orientare l’esegesi, ma a rigore non vincola l’interprete, va considerato che la natura della pronuncia in questione può in concreto variare a seconda del tipo di improcedibilità dichiarata. In particolare, può convenirsi con la scelta qualificatoria compiuta dal Legislatore delegato laddove l’improcedibilità sia da ricondursi all’inadempimento di un onere procedurale (v., supra, § 2.2) o ad altre analoghe vicende; non altrettanto è a dirsi, per contro, in relazione all’improcedibilità che trovi causa in una sopravvenuta carenza di interesse, dal momento che l’estinzione dell’interesse a ricorrere presuppone un accertamento che attiene sì, tipicamente, a una questione pregiudiziale18 da esaminare in via prioritaria, ma che involge altresì una valutazione, sia pur sommaria e prognostica, dell’esito finale della lite (e, quindi, del cd. “merito” della controversia). Militano a favore di tale conclusione l’art. 34, co. 3, e l’art. 84, co. 4, c.p.a., atteso che la prima disposizione converte, come sopra osservato, l’azione di annullamento in una di accertamento dell’illegittimità e ciò, a contrario, implica che l’improcedibilità potrà essere dichiarata soltanto se difetti anche qualunque interesse aquiliano; sennonché la verifica dell’eventuale sussistenza di un interesse del genere postula che, in via delibativa, il giudice accerti la sussistenza dei presupposti della relativa domanda e, dunque, almeno in parte, il merito della controversia; l’art. 84, co. 4, c.p.a. rileva poi nella parte in cui la disposizione subordina l’accoglimento di un’istanza di cd. “rinuncia impropria” al preventivo accertamento a) di atti o fatti univoci intervenuti dopo la proposizione del ricorso oppure b) di comportamenti processuali tenuti dalle parti. Allora, quanto meno nell’ipotesi a), il giudice dovrà sindacare, sia pur sommariamente, il merito della controversia sotto il profilo dell’incidenza su di esso delle indicate sopravvenienze.
3.5 La sopravvenuta carenza dell’interesse ad impugnare
L’improcedibilità può determinarsi anche nel corso di un processo di impugnazione e, tuttavia, il fenomeno si connota in modo peculiare. Se, difatti, con riferimento all’ipotesi dell’inadempimento di un onere procedurale, non si registrano particolari differenze tra il primo e il secondo grado del giudizio, non altrettanto accade per il caso della sopravvenuta carenza di interesse. Per chiarire il punto occorre prendere l’abbrivo dalla considerazione che l’interesse a impugnare è considerato dalla giurisprudenza19 una species dell’interesse a ricorrere e, pertanto, esso deve indefettibilmente sussistere al momento della proposizione dell’impugnazione e perdurare fino alla decisione di secondo grado. Va altresì ricordato che il giudizio, pur potendo articolarsi in un primo e in un eventuale secondo grado, rimane nondimeno una vicenda unitara e, quindi, l’improcedibilità, ove dovuta a una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, è del tutto indifferente alla circostanza che il giudizio sia già transitato in secondo grado, segnandone comunque l’arresto. Quest’ultimo rilievo intercetta il tema, assai dibattuto, dell’autonomia, o no, dell’interesse ad impugnare rispetto alla soccombenza: orbene, proprio la configurabilità di un’improcedibilità in appello per una sopravvenuta carenza di interesse, specialmente se causata dall’interferenza di fenomeni esterni al processo20, conforta la tesi dell’autonomia dell’interesse ad impugnare, giacché diversamente opinando un’improcedibilità dell’appello per sopravvenuta carenza di interesse non potrebbe mai concepirsi in presenza di una soccombenza in primo grado.
3.6 La rilevabilità d’ufficio in primo e in secondo grado
Sul versante processuale il profilo applicativo più controverso dell’intera disciplina dell’improcedibilità attiene all’individuazione degli eventuali limiti alla rilevabilità d’ufficio. La questione impone una disamina differenziata del primo e del secondo grado del giudizio.
Non vi è dubbio che, avanti il TAR, l’improcedibilità possa essere eccepita, anche con semplice memoria, dalla parte resistente (rispetto al ricorso principale o incidentale) e che essa possa anche essere rilevata d’ufficio dal giudice, nel rispetto dell’art. 73, co. 3, c.p.a. (sul punto, v. infra, § 3.8).
Più articolata si presenta la situazione in secondo grado.
Innanzitutto bisogna considerare l’ipotesi dell’improcedibilità dovuta all’inadempimento, da parte dell’appellante principale o incidentale, di un onere procedurale relativo al solo giudizio di impugnazione: questo caso non presenta difficoltà essendo in tutto analogo a quello dell’improcedibilità determinatasi in primo grado.
Richiedono, invece, un separato esame il caso I) dell’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse correlata a una vicenda afferente al solo processo di impugnazione e II) quello attinente a un’improcedibilità: a) già determinatasi in primo grado, ma non rilevata d’ufficio né eccepita, oppure b) determinatasi in primo grado ed eccepita da una parte, ma non dichiarata dal TAR. L’ipotesi sub I) è assimilabile a quella dell’improcedibilità per inadempimento di un onere procedurale relativo al solo processo di impugnazione. Il caso sub II), a sua volta comprendente due fattispecie, solleva invece alcuni interrogativi in ordine alla rilevabilità d’ufficio. Al riguardo, in costanza del precedente regime processuale, si era unanimemente sostenuto che l’assenza di interesse, rilevando ai fini dell’esercizio di un potere pubblico (id est la giurisdizione), fosse rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, fatta salva la formazione di un giudicato esplicito in parte qua21. Della perdurante validità teorica di tale approdo, ancorché ribadito dal Consiglio di Stato con le sunnominate sentenze n. 489/2013 e n. 1094/2013, va nondimeno verificata la sostenibilità alla stregua dell’attuale disciplina codicistica e, in particolare, rispetto alle disposizioni recate dagli artt. 9, co. 1, secondo periodo, 101, co. 2, e 104, co. 1, c.p.a. con le quali sono stati introdotti significativi limiti alla possibilità di sollevare eccezioni direttamente (e soltanto) nel secondo grado del giudizio. Occorre tuttavia considerare che la regola restrittiva dettata dall’art. 9, co. 1, secondo periodo, c.p.a. costituisce un’eccezione, tassativa, non applicabile a casi non contemplati dalla relativa fattispecie legale. Non sembra, pertanto, sostenibile la tesi secondo cui il cd. “giudicato implicito” possa precludere, in secondo grado, il rilievo d’ufficio dell’eventuale assenza di una delle indefettibili condizioni dell’azione. Anzi, appare pienamente condivisibile la citata sentenza n. 1094/2013, là dove il Consiglio di Stato ha osservato che, in mancanza di una specifica previsione legislativa, il giudicato processualmente rilevante è unicamente quello esplicito22; del resto, l'espressa valorizzazione del giudicato implicito da parte del succitato art. 9 c.p.a. riposa su esigenze di economia processuale e di minor aggravio per il ricorrente, enfatizzate in non remoti indirizzi esegetici della Corte di cassazione23 e della Corte costituzionale24.
Se, dunque, non si forma il giudicato implicito sulla procedibilità del ricorso di primo grado e se la verifica in ordine alla perdurante sussistenza delle condizioni dell’azione può e deve essere compiuta dal giudice in ogni stato e grado del giudizio, allora rimane valido il precedente orientamento esegetico, del quale si è dato sopra conto, circa la pacifica rilevabilità d’ufficio, anche nel corso del processo di impugnazione, della sopravvenuta improcedibilità del ricorso originario in tutte le ipotesi sopra indicate sub I) e II). La conclusione appena raggiunta implica altresì che sulla parte interessata a sollevare in appello un’eccezione di improcedibilità, già proposta in primo grado, ma non esaminata dal TAR, graverà l’onere di rispettare il termine stabilito dall’art. 101, co. 2, c.p.a. onde non incorrere nella decadenza ivi prevista e che, però, tale decadenza, quand’anche prodottasi, comunque non limiterà in alcun modo la potestà del giudice dell’impugnazione di rilevare d’ufficio la medesima improcedibilità. Inoltre, ovviamente, nessuna preclusione alla possibilità di sollevare in appello eccezioni di improcedibilità potrà scaturire dal divieto dello ius novorum di cui all’art. 104, co. 1, c.p.a., trattandosi, per l’appunto, di eccezioni rilevabili d’ufficio.
L’unico ostacolo al rilievo d’ufficio in appello dell’improcedibilità determinatasi in primo grado rimane, dunque, l’espressa statuizione del TAR (sull’insussistenza dell’improcedibilità): in questo caso, infatti, la parte interessata a dedurre la questione avrà l’onere di proporre una specifica impugnazione.
3.7 Le conseguenze dell’improcedibilità dichiarata in appello
Differenti, dal punto di vista logico-giuridico, sono le conseguenze dell’improcedibilità dichiarata in appello a seconda che essa sia maturata nel corso del primo o del secondo grado del giudizio.
Provando a sviluppare una tassonomia delle varie fattispecie può affermarsi che:
a) la dichiarazione di un’improcedibilità per inosservanza di un onere procedurale, determinatasi in pendenza del processo di appello, comporta il formarsi del giudicato sulla sentenza impugnata e così accade anche nella (rara25) ipotesi della dichiarazione di un’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse relativa al solo processo di impugnazione;
b) l’accertamento, in appello, di un’improcedibilità per inosservanza di un onere procedurale determinatasi in primo grado, conduce alla riforma della sentenza - in accoglimento dell’impugnazione (se la questione sia stata dedotta o ritualmente eccepita) o con una pronuncia sull’appello (qualora rilevata d’ufficio dal giudice) - nel senso della declaratoria di improcedibilità del ricorso, principale o incidentale, di primo grado; identico è il caso dell’accertamento da parte del giudice di appello di un’improcedibilità per una sopravvenuta carenza d’interesse maturata in primo grado;
c) infine, l’ipotesi più controversa concerne l’accertamento di un’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse insorta dopo l’instaurazione del secondo grado e avente causa in fattori, rilevanti sul piano processuale, ma esterni26 al giudizio: tale situazione dà luogo all’improcedibilità dell’appello e anche del ricorso originario. In questa evenienza il giudice del secondo grado dovrebbe dunque dichiarare l’improcedibilità del primitivo ricorso e, per l’effetto, anche l’improcedibilità dell’impugnazione.
Un ultimo profilo degno di nota attiene al caso, del tutto particolare, dell’accertamento, in secondo grado, del vizio procedurale consistito nella declaratoria, da parte del TAR, di un’improcedibilità rilevata d’ufficio, ma non preventivamente sottoposta al contraddittorio delle parti a norma dell’art. 73, co. 3, c.p.a. In siffatta evenienza, stante l’art. 105 c.p.a., il giudice di appello sarebbe tenuto a rimettere la causa al TAR; sennonché, evidenti ragioni di economia processuale sconsigliano, nella sola ipotesi in cui l’improcedibilità dichiarata irritualmente dal TAR effettivamente sussista, di attivare un meccanismo circolatorio della controversia obiettivamente inutile. Sembra doversi ammettere, allora, che in tal caso il giudice dell’impugnazione possa comunque ritenere la causa per la decisione (così come accade quando il TAR abbia erroneamente dichiarato l’improcedibilità del ricorso di primo grado27).
3.8 Il contraddittorio sull’improcedibilità
Il rilievo d’ufficio dell’improcedibilità, sia in primo sia in secondo grado, è assoggettato, come accennato, alla disciplina dettata dall’art. 73, co. 3, c.p.a., volta a scongiurare pronunce cd. “a sorpresa”. In particolare, onde tutelare le esigenze del contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio (idonee a definire il giudizio), si è stabilito che il giudice comunichi, secondo varie modalità, le sue valutazioni alle parti prima del passaggio della causa in decisione.
Si è esaminata (v., supra, §. 3.7) l’ipotesi dell’inosservanza, in primo grado, dell’art. 73, co. 3, c.p.a. La medesima violazione, ove occorra in appello, non sembra invece aggredibile con la proposizione di un ricorso per cassazione a norma dell’art. 110 c.p.a., giacché il vizio in parola – anche a voler estendere al massimo la dottrina (della Cassazione) in tema di sindacato sulle modalità di esercizio effettivo della iurisdictio28 – non appare in alcun modo riconducibile a un motivo inerente la giurisdizione.
3.9 Ricadute sul regolamento delle spese
Va segnalato, infine, che dalla dichiarazione di improcedibilità di un’impugnazione (ad esclusione del ricorso per cassazione), quand’anche incidentale, può conseguire un aumento del contributo unificato dovuto dalla parte soccombente. Difatti l’art. 1, co. 17, della l. 24.12.2012, n. 228 ha modificato il d.P.R. 30.5.2002, n. 115 (T.U. in materia di spese di giustizia), inserendo nell’art. 13 un nuovo co. 1 ter che, con decorrenza dall’1.1.2013, ha previsto, tra l’altro, che, quando un’impugnazione venga dichiarata improcedibile, la parte che l’abbia proposta sia tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato. L’applicazione di tale maggiorazione – che ha il sapore di una sanzione volta a disincentivare la proposizione di impugnazioni non sorrette da un consistente interesse – non è però automatica, essendo rimessa alla prudente valutazione del giudicante.
1Almeno fino al mese di settembre 2013.
2 La l. 6.12.1971, n. 1034 menzionava l’improcedibilità del ricorso solo nel co. 4 dell’art. 23, mentre l’istituto era essenzialmente ignorato sia dal r.d. 26.06.1924, n. 1054 sia dal r.d. 17.08.1907, n. 642.
3 Le prime ricostruzioni teoriche dell’istituto risalgono a Lugo, A., Inammissibilità e improcedibilità, in Nss.D.I., VIII, Torino, 1962, 483 e a Sandulli, A.M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 1187. La nozione di improcedibilità utilizzata nel testo si ispira a quella fornita da Villata, R., Inammissibilità e improcedibilità, III) Procedimento e processo amministrativo, in Enc. giur., XVI, ad vocem.
4 V. Cons. St., sez. III, 4.7.2011, n. 4000 e, di recente, Cons. St., sez. V, 8.01.2013, n. 240.
5 Secondo tale regola, ricavabile dall’art. 9, co. 1, secondo periodo, c.p.a., ogni pronuncia di primo grado sul merito della lite postula una statuizione implicita sulla sussistenza della giurisdizione e tale statuizione, sebbene implicita, è idonea a passare in giudicato se non espressamente impugnata.
6 L’art. 100 c.p.c. menziona anche l’interesse a contraddire, ma quest’ultimo non rileva ai fini del tema trattato, posto che, secondo la giurisprudenza (v. Cass., sez. lav., 2.08.2003, n. 11796), detto interesse è sempre implicato dalla legittimazione processuale passiva.
7 Luiso, F.P., Appunti di diritto processuale civile, Parte generale, Pisa, 1989, 162.
8 Cass., sez. l., 4.5.2012, n. 6749; Cons. St., sez. IV, 27.8.2012, n. 4621.
9 Cons. St., sez. V, 10.12.2012, n. 6277.
10 Tra le molte, Cons. St., sez. III, 11.12.2012, n. 6353.
11 Per un caso del tutto particolare di improcedibilità, v. l’art. 109, co. 2, c.p.a.
12 Così Cons. St., n. 1534/2013, citata nel testo.
13 In tema, con riferimento al nuovo Codice, v. il parere del C.g.a., 12.12.2012, n. 1330/12.
14 Tra le pronunce più recenti, Cons. St., sez. IV, 7.1.2013, n. 24.
15 Si allude alla celeberrima pronuncia, Cass., S.U., 22.7.1999, n. 500.
16 Il riconoscimento legislativo della risarcibilità dell’interesse legittimo in ogni ambito di giurisdizione amministrativa rimonta alla modifica del primo periodo dell’art. 7, co. 3, della l. n. 1034/1971, operata dall’art. 7 della l. 21.7.2000, n. 205.
17 Ferrari, E., Sub art. 23 l. TAR, sez. IV, II, in Romano, A., a cura di, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2001, 865, giustamente rileva che potrebbe ritenersi improcedibile un ricorso anche qualora intervenga un atto amministrativo non del tutto satisfattivo delle pretese avanzate dal ricorrente.
18 Tra le altre, Cons. St., sez. V, 27.4.2012, n. 2459.
19 Cons. St., sez. IV, 27.6.2011, n. 3837.
20 Si pensi al caso, assai frequente nella materia dei pubblici appalti, dell’improcedibilità di un appello proposto avverso una sentenza che abbia rigettato un ricorso diretto contro un’aggiudicazione provvisoria (impugnabile in via facoltativa), qualora la parte appellante non abbia proposto ricorso anche contro l’aggiudicazione definitiva successivamente intervenuta (che non è mai meramente confermativa di quella provvisoria: v. Cons. St., sez. V, 27.3.2013, n. 3497).
21 Tra i molti precedenti, Cons. St., sez. IV, 22.3.2007, n. 1407, nonché Cass., sez. II, 30.6.2006, n. 15084.
22 Nella medesima sentenza si è pure osservato che la sentenza pronunciata su un ricorso improcedibile è solo inutile, mentre quella resa da un giudice privo di iurisdictio è invalida.
23 Tra le prime pronunce sull’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., v. Cass., S.U., 9.10.2008, n. 24883.
24 In tema, v. il leading case sulla cd. translatio iudicii: C. cost., 12.3.2007, n. 77.
25 Ad esempio, è il caso di un’impresa che, avendo infruttuosamente impugnato in primo grado sia il provvedimento di esclusione da una gara sia la successiva aggiudicazione in favore di un controinteressato, risulti soccombente in appello sulla questione dell’esclusione con la conseguente consolidazione di quest’ultimo provvedimento e la perdita di qualunque residuo interesse a contestare l’aggiudicazione (v. Cons. St., Ad. Plen., 7.4.2011, n. 4 e Cons. St., sez. V, 27.3.2013, n. 1824).
26 V. il caso descritto nella precedente nota 20.
27 Tra le molte, Cons. St., sez. VI, 27.4.2011, n. 2482.
28 Indirizzo inaugurato da Cass., S.U., 23.12.2008, n. 30254.