L'incontro con Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo le prime esperienze e i primi scontri del III secolo a.C., Roma, nel corso della prima metà del II secolo a.C., realizza la conquista del mondo greco, decretando la fine del regno di Macedonia e della dinastia antigonide. La conquista militare, scandita dalle celebri battaglie di Cinoscefale e Pidna, permetterà la ricezione a Roma dell’immenso patrimonio culturale greco.
La diabasis dell’Adriatico nel 229 a.C. da parte di contingenti dell’esercito romano, in occasione della cosiddetta prima guerra illirica (230-229 a.C.) contro la regina Teuta, ha sicuramente una notevole valenza simbolica: per la prima volta, infatti, Roma si volge a Oriente, facendo attraversare alle sue truppe il breve tratto di mare che separa le coste italiane da quelle della penisola balcanica. Da quella data allo scontro con i Greci vero e proprio, che segnerà in maniera indelebile lo sviluppo politico e culturale di Roma, passano pochi anni.
Ciò non vuol dire che i Romani vengano a contatto con i Greci per la prima volta nella seconda metà del III secolo a.C. Di incontri ce ne sono stati molti, e da molto tempo: le tracce di Roma nella storiografia greca rimontano addirittura a Ellanico di Lesbo, nel V secolo a.C.; nel IV secolo a.C. personaggi come Teopompo, Aristotele e Teofrasto, suo successore al Peripato, conoscono Roma e cominciano ad apprezzarne l’importanza, così come farà lo storico Timeo di Tauromenio a cavallo tra il IV e il III secolo a.C. La conoscenza reciproca, del resto, è facilmente veicolata dagli scambi che Roma intrattiene con le poleis greche dell’Italia meridionale e della Sicilia: contatti sempre vivi e di enorme importanza, attraverso i quali, tanto per fare un esempio, viene recepito e adattato in Italia l’alfabeto che ancora adesso usiamo.
Un momento importante di questa storia di contatti è costituito dalla spedizione del re epirota Pirro in Italia (280-275 a.C.). Pirro è una delle figure di rilievo del variegato panorama dinastico ellenistico: uno dei tanti, mancati candidati alla successione di Alessandro per fascino e capacità. Il fatto che i Romani siano riusciti ad avere la meglio, sia pure con enormi difficoltà, dopo varie sconfitte sul campo (le famose “vittorie di Pirro”, eclatanti quanto, alla fine, inutili) rende chiaro al mondo greco che la città italica è destinata a ricoprire un ruolo di grande importanza nello scacchiere mediterraneo.
Eppure, nonostante tutti gli scambi e nonostante il sorgere di leggende tendenti a collegare le origini di Roma al mondo greco (la più celebre sarà l’epopea celebrata dall’Eneide virgiliana della fondazione troiana della città), alla fine del III secolo a.C. resta ancora forte la percezione che Roma sia estranea all’universo di valori concepito dai Greci. Basta leggere le celebri parole che Polibio attribuisce ad Agelao, ambasciatore dell’Etolia alla conferenza di pace di Naupatto (217 a.C.), che pone fine alla guerra sociale (220-217 a.C.).
I Romani sono dunque diversi dai Greci. Ciò non impedisce certo ai più intelligenti tra questi ultimi di osservarli, come fa Polibio quando i casi della vita lo costringono a frequentarli più da vicino. Uno degli osservatori più attenti è niente meno che il re Filippo V, testimone nel suo lunghissimo regno di tutta la parabola vincente dei Romani; nello scrivere ai maggiorenti di una delle poleis del suo regno, Larisa, Filippo osserva che “è cosa opportunissima che quante più persone possibile partecipino alla cittadinanza, in modo che la città sia forte e la campagna attorno non rimanga vergognosamente deserta, come è adesso. Penso che nessuno di voi sia disposto a negarlo: si può vedere che gli altri ammettono in maniera simile molti nuovi cittadini, tra cui anche i Romani, che allargano la cittadinanza anche agli schiavi quando li affrancano e li fanno accedere alle cariche pubbliche e in questa maniera hanno non soltanto ingrandito la loro città, ma anche dedotto colonie in quasi settanta posti diversi” (SIG 543).
La missiva – conservata epigraficamente – è del 215 a.C.: Filippo non mostra una grande precisione nei dettagli (alcune informazioni sono sbagliate), ma coglie acutamente il dato generale: i Romani sono molto più generosi nel concedere la cittadinanza agli stranieri e persino agli ex schiavi di quanto non lo fossero i Greci, da sempre restii ad allargare a chicchessia questo privilegio; una differenza che gioca a favore dei Romani e costituisce in effetti un dato fondamentale tra quelli considerati per spiegare il successo della città.
Polibio, come è noto, ha fissato a 53 anni l’arco di tempo entro il quale Roma si è impadronita del mondo. Le date corrispondenti sono grosso modo quelle tra lo scoppio della seconda guerra punica (219-202 a.C.) e la battaglia di Pidna (168 a.C.), alla fine della terza guerra macedonica (171-167 a.C.): ma sarà opportuno aggiungervi altri 22 anni, per giungere fino al 146 a.C., quando i Romani sconfiggono la Lega achea a Corinto. Alcuni degli scontri decisivi per l’imporsi dell’imperialismo romano sono già stati descritti: qui ci concentreremo sulle cosiddette guerre macedoniche, che riguardano lo scontro diretto tra Roma e quello che è di gran lunga il potentato più grande del mondo greco: il regno di Macedonia, retto per buona parte di questi anni da Filippo V (sovrano dal 221 al 179 a.C.) e poi da suo figlio Perseo (sovrano dal 179 al 168 a.C.).
La prima guerra macedonica (215-205 a.C.) si svolge contemporaneamente al durissimo scontro della repubblica romana con Annibale: non a caso scoppia all’indomani della terribile sconfitta romana di Canne (216 a.C.), con un’alleanza tra Filippo V e Annibale, in quel momento padrone della situazione. I Romani sfruttano abilmente, così come faranno assai spesso in seguito, la mancanza di unione dei Greci, stipulando un’alleanza con la Lega etolica e gli Spartani. Dopo numerosi episodi di saccheggi e devastazioni di un territorio greco già impoverito, la pace di Fenice (205 a.C.) stabilisce il ripristino, sostanzialmente, dello status quo precedente alla guerra: il conflitto vero e proprio viene così rimandato, anche se di pochi anni.
La seconda guerra macedonica (200-197 a.C.) scoppia quando i Romani, sollecitati dagli ambasciatori di Rodi e del re Attalo I di Pergamo, intimano a Filippo V di interrompere le manovre tese a spartirsi con il re seleucide Antioco III il debole regno egiziano. Nei primi anni non si verificano episodi decisivi: nel 198 a.C., peraltro, si registra l’importante decisione della Lega achea di rompere l’alleanza con la Macedonia, scegliendo di farsi portavoce degli interessi romani in Grecia. L’anno seguente il comando dell’esercito romano viene assunto da Tito Quinzio Flaminino, non ancora trentenne, brillante ma senza esperienza militare, la cui principale credenziale è l’ottima conoscenza della lingua greca. Flaminino non si mostra certo inferiore alle attese: i Romani ottengono infatti la decisiva vittoria presso Cinoscefale (197 a.C.), in Tessaglia, avvenimento epocale anche per la storia militare, con la falange macedone sconfitta dopo 150 anni di dominio nelle battaglie del mondo mediterraneo.
L’anno seguente, ai giochi istmici di Corinto, lo stesso Flaminino proclama di fronte a coloro che si sono riuniti in una delle occasioni sacre della tradizione ellenica la libertà di tutti i Greci, padroni di amministrarsi come meglio avrebbero desiderato, mentre le guarnigioni, simbolo di sottomissione, sarebbero state ritirate. Si tratta, ovviamente, di una libertà condizionata e priva effettivo valore, ma il motivo propagandistico è comunque di enorme effetto e, almeno nel breve termine, di vasto successo. Pur fortemente ridimensionato, il regno di Macedonia sopravvive alla sconfitta. Filippo V muore nel 179 a.C., dopo ben 42 anni di regno, e a lui succede il figlio Perseo, anche se i Romani avrebbero preferito che la scelta cadesse sul secondogenito Demetrio. Rivelando notevoli capacità, Perseo si dedica riorganizzazione del regno, in vista di un riscatto contro i Romani; dopo alcuni anni di preparativi, durante i quali il re ha buon gioco a ingraziarsi gran parte del mondo greco largamente deluso dal dominio romano, la guerra scoppia di nuovo nel 171 a.C. (terza guerra macedonica).
Come possiamo osservare in molte altre occasioni, i Romani inizialmente non affrontano il conflitto in maniera adeguata; ma nel 168 a.C., sotto il comando del console Lucio Emilio Paolo, presso Pidna, avviene la battaglia decisiva. Perseo è sconfitto e condotto in catene a Roma, dove morirà di lì a poco.
La battaglia segna un punto di non ritorno nei rapporti tra Roma e il mondo greco: la dinastia antigonide viene soppressa e per la prima volta nella sua storia il territorio macedone, diviso in quattro repubbliche indipendenti, non sarà retto da una monarchia. Vengono poste forti restrizioni sulle attività economiche, chiuse le miniere d’oro e d’argento della regione; alleati titubanti come la Lega achea, colpevole di non essersi schierata con decisione a fianco dei Romani, sono puniti con durezza; anche l’isola di Rodi, fino ad allora fedelissima e ricompensata con un ruolo centrale nel commercio del Mediterraneo, che l’ha resa ricchissima, paga il suo tentativo di mediazione durante la guerra: viene infatti creato il porto franco di Delo, che ridurrà in pochi anni in maniera drammatica il volume d’affari dell’isola, costretta di conseguenza a rinunciare alla sua potente flotta e ad un ruolo politico indipendente.
Con ancora maggiore durezza e provvedimenti che evocano ai nostri occhi l’ombra del genocidio, i Romani puniscono anche gli Epiroti: Lucio Emilio Paolo ne distrugge infatti 70 centri, rendendo schiavi ben 150 mila abitanti.
L’assetto dato dai Romani ai territori appartenuti al regno macedone costituisce una materia complessa, sulla quale non ci si soffermerà in questa sede; solo gradualmente si giungerà alla creazione delle province di Macedonia e Acaia, i nomi che troviamo sulla carta geografica della Grecia a partire dal I secolo a.C.
Vanno però ricordati alcuni tentativi di rivolta al potere romano: nel 149 a.C. un avventuriero di nome Andrisco cerca di farsi passare come figlio di Perseo e dunque erede degli Antigonidi. Ottiene notevoli successi, sfruttando anche la nostalgia per la monarchia e la situazione generale di insoddisfazione e le difficoltà seguite all’assetto deciso dai Romani dopo Pidna.
I Romani, come di consueto, fanno fatica a sedare definitivamente la rivolta, che si conclude solo nel 148 a.C. con la vittoria di Quinto Cecilio Metello su Andrisco, ancora una volta presso Pidna.
Nel 146 a.C., invece, la rivolta (tradizionalmente denominata guerra acaica) parte dal Peloponneso e dal tentativo della Lega achea di riacquistare una certa autonomia politica. I Romani intervengono in modo brutale, senza le tradizionali esitazioni. Corinto viene distrutta dall’esercito di Lucio Mummio, le opere d’arte esportate a Roma. La Grecia smette di essere un’entità politica dotata di una sia pur limitata autonomia. Inizia un’altra storia, nella quale essa giocherà comunque un ruolo di grande rilievo all’interno dell’impero di Roma.
La conseguenza più immediata della conquista romana è la fine dei conflitti tra Greci, dei loro “giochi da bambini”, come li aveva descritti l’etolo Agelao nel 217 a.C. I Greci, in effetti, cessano quasi del tutto di combattere tra di loro. Quando questo accade, una delle due parti, di solito la più debole, non esita a recarsi presso il senato romano, che funge da arbitro o delega altri a tale funzione, scegliendo di solito di ripristinare gli assetti trovati all’arrivo sul suolo greco. Così, tanto per fare un esempio, finisce nel 160 a.C. una contesa di confine tra Atene e Oropo, un contenzioso che, sotto diverse forme, andava avanti da almeno tre secoli: Atene viene fermata dal senato e costretta a pagare una multa.
Non è facile riassumere l’atteggiamento verso i Greci, ma sembra inevitabile sottolineare le differenze all’interno della classe dirigente romana. Alcuni amano profondamente la cultura greca: è per costoro che vale il celebre verso oraziano Graecia capta ferum victorem cepit (“La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore”, Epistole, 2.1.156), che rimane la sintesi più efficace e brillante per descrivere la lenta creazione di una cultura greco-romana, con il tacito riconoscimento reciproco della superiorità culturale greca e del dominio politico-militare romano: un tema enorme, che occupa i successivi tre secoli e non può essere affrontato in questa sede.
È anche vero che molti Romani guardano con fastidio e con disprezzo al mondo greco, ritenendo i Greci sudditi come gli altri, per di più particolarmente inaffidabili. Il valore della presenza di un passato glorioso a volte suscita grandi emozioni, a volte grande irritazione. Ne è testimonianza la risposta che molti anni più tardi, nell’86 a.C., Silla dà agli Ateniesi assediati, venuti a discutere la resa, non senza una punta di arroganza: “Siccome questi non facevano niente per ottenere la salvezza, ma anzi parlavano con boria di Teseo, di Eumolpo e delle guerre persiane, Silla disse loro: ‘Tornatevene da dove siete venuti, o cari, e portatevi dietro questi discorsi: se i Romani mi hanno mandato ad Atene non è perché mi istruisca, ma perché sottometta i ribelli’”.
Sul piano politico-militare, in effetti, la resistenza del mondo greco non è eccezionale, anche se pur sempre superiore, complessivamente, a quella degli altri regni ellenistici. L’esercito macedone, a Cinoscefale come a Pidna, è un’eccellente macchina da guerra, la migliore del mondo ellenistico; come è stato detto più volte, le mancanze sono molto maggiori sul piano diplomatico, poiché i Romani sono sempre in grado di trovare alleati all’interno della Grecia e di sfruttare, quindi, le sue tradizionali divisioni.
Anche se la storia del mondo greco, come è ovvio, non finisce e si proietta nei secoli dell’impero romano, la nostra storia finisce qui, nel 146 a.C.: un anno terribile, in cui vengono distrutte (pur provvisoriamente: le città sono presto ricostruite) due dei più importanti centri urbani del Mediterraneo: Cartagine e Corinto. Dopo quell’anno nulla è più come prima: il dominio di Roma nel mondo allora conosciuto è ormai privo di una vera opposizione, anche se le fonti a noi pervenute sono troppo sbilanciate a favore dei vincitori, come sempre accade: tracce di una storiografia antiromana e, in generale, di atteggiamenti contrari alla dominazione romana, non mancano nel II-I secolo a.C. (J.-L. Ferrary). Come è nelle loro migliori tradizioni, per realizzare questa impressionante impresa, i Romani si servono degli strumenti forniti dal nemico: alcuni storici (E.S. Gruen) hanno infatti sottolineato il quadro di continuità con il mondo ellenistico dal punto di vista politico e diplomatico (istituti, prassi, convenzioni), in cui si compie la conquista romana.