di Anna Vanzan
La morte di una studentessa dell’Università di Nuova Delhi avvenuta a seguito di uno stupro di gruppo nel dicembre 2012, ha provocato sdegno e ira tra la società civile indiana. Nel paese del miracolo economico’ vigono ancora molte norme sociali, comportamenti e attitudini che contribuiscono al mantenimento di una cultura della violenza perpetuata contro le donne. Tale atteggiamento misogino affonda le radici nell’India feudale e patriarcale che ha sublimato come modelli femminili figure della mitologia hindu (quali Sitra e Savitri), le cui qualità consistono nell‘assoluta e cieca devozione ai propri mariti, alla morte dei quali esse dovrebbero immolarsi bruciando sulla pira (sati), rituale abolito ufficialmente da circa due secoli, ma che in qualche seppur raro contesto ha continuato ad essere praticato. D’altro canto, la comunità musulmana, che, seppure cospicua, si sente schiacciata numericamente dalla maggioranza hindu, rafforza la propria identità rendendo le donne veri e propri marcatori culturali, al punto da isolarle dalla sfera sociale (purdah) pur di preservarle da possibili ‘scandali’. Tale divisione etnico-religiosa tra le due principali comunità del paese comporta, tra l’altro, la mancata unione d’intenti tra i due rispettivi movimenti femminili, il cui sforzo verso obiettivi comuni è spesso vanificato da preoccupazioni di lealtà verso il gruppo d’appartenenza anziché verso l’acquisizione di diritti in quanto donne. La violenza contro le indiane inizia prima ancora della loro nascita: com’è noto, infatti, l’amniocentesi e altri esami concepiti per effettuare diagnosi prenatali vengono usati per disfarsi di feti femminili, riducendo in modo drastico la percentuale di neonate. Così le famiglie si liberano alla radice dell’onere di dover provvedere alla dote matrimoniale delle figlie. La dote, peraltro, divine ennesimo pretesto di violenza contro le spose, le quali sono vittime di ‘incidenti’ domestici, spesso architettati da mariti e suocere che intendono così ricattare la famiglia d’origine della donna onde ottenere una dote più cospicua; oppure, che vogliono liberarsi della sposa per impalmarne un’altra dotata di maggiori mezzi economici. Ad aggravare questa situazione si aggiunge la lenta e riluttante risposta delle autorità al problema della violenza; basti pensare che, nonostante il movimento femminista abbia posto la violenza come obiettivo primario di lotta fin dagli anni Settanta, solo nel 2005 il governo indiano ha promulgato una legge (Protection of women from domestic violence act) che finalmente prende una decisa posizione nei confronti delle violenze domestiche, tanto fisiche quanto psicologiche. E ciò, dopo che nel 2001 aveva emanato un altro provvedimento legislativo in cui, tra l’altro, si esprimeva a favore della donna maltrattata solo nei casi di ‘violenza prolungata’, concedendo al marito l’immunità qualora questi avesse reagito a ‘minacce nei propri confronti’. Tuttavia, la legge del 2005 è ancora insufficientemente implementata, per vari motivi, tra i quali spiccano l’insensibilità delle autorità di polizia cui le donne si recano per sporgere denuncia, e la complicità patriarcale dei medici addetti a riscontrare le prove di violenza fisica, i quali spesso si rifiutano di redigere il rapporto. Inoltre, la stragrande maggioranza delle donne, dopo il matrimonio, si reca a vivere nella casa maritale assieme ai suoceri; pertanto, anche nel caso in cui la donna trovi il coraggio di denunciare il marito e il tribunale lo allontani, la vittima rimane comunque esposta alla vendetta dei familiari acquisiti. Nel caso, invece, che sia lei ad andarsene, superando la paura dello stigma sociale per l’ ‘abbandono’ del tetto coniugale tornando a quello d’origine, si trova spesso esposta al biasimo della propria famiglia, perché la violenza domestica continua ad essere considerata un affare privato, da non denunciarsi in pubblico in quanto, paradossalmente, discredita e arreca disonore alla vittima e alla sua famiglia. Gli stessi limiti e contraddizioni sono ben presenti pure nella legislazione tesa a punire e arginare lo stupro, che non criminalizza, però, quello coniugale. Nonostante, infatti, le pressioni della società civile a seguito del luttuoso evento del dicembre 2012 abbiano portato a una revisione degli articoli del Codice penale riguardati lo stupro, l’Anti rape bill in vigore dall’aprile 2013, pur introducendo alcune importanti novità (quale, ad esempio, l’aumento di pena per alcuni reati a sfondo sessuale, per gli attacchi con acidi, per lo stalking e il voyeurismo) non penalizza il sesso non consensuale imposto alla moglie. Il giudizio critico con cui le associazioni per i diritti delle donne hanno accolto la nuova legge sembra purtroppo confermato da una raffica di stupri avvenuti in India proprio dopo la sua approvazione. Ciò conferma che, oltre alle leggi, deve radicalmente cambiare l’attitudine patriarcale nei confronti delle donne; al contempo, il governo indiano deve mantenere le proprie promesse realizzando il piano di aiuti economici e sociali per le vittime e le possibili vittime di odiosi crimini sessuali, promesso nel febbraio 2013 e mai avviato.