L’industria e le crisi degli ultimi decenni
La grande impresa: un declino che viene da lontano
Il destino dell’Italia industriale ha rappresentato un leitmotiv delle analisi e dei confronti sul nostro modello economico ancora prima che la crisi intervenisse a renderne più problematiche le prospettive. Da più di un decennio ci si interroga sulle risorse e le potenzialità del nostro apparato produttivo, sulla sua capacità di rigenerarsi e durare o sulla necessità di subire un ridimensionamento. Aveva cominciato l’«Economist» a sollevare dubbi sulla tenuta di un sistema manifatturiero che assorbiva in percentuale più addetti sul totale dell’occupazione rispetto agli altri Paesi, dubbi presentati nell’articolo Industrial metamorphosis del 29 settembre 2005. L’Italia sembrava un’anomalia perché era l’unica nazione, oltre alla Germania, ad avere una quota di occupati nell’industria superiore alla soglia del 20%. Ciò che appariva naturale per la Germania, terra di grandi imprese, non lo era invece per noi, a causa della predominanza di aziende di piccole dimensioni.
Poi il sopraggiungere della crisi ha fatto mutare il tono e la qualità del dibattito: l’industria è stata esaltata come un aggancio forte con l’economia reale, reso labile dall’espansione dei servizi finanziari. Ma, al di là della retorica, la crisi non poteva non mordere nella carne viva delle strutture della produzione, toccate dall’intensità e dall’ampiezza della contrazione delle attività economiche. È così riemersa una netta distinzione fra le imprese che operano sui mercati internazionali e quelle vincolate al mercato interno, finendo per affidare la presenza industriale dell’Italia alle imprese orientate all’export, facendo di esse le rappresentanti di un capitalismo dinamico che è una sorta di punta di lancia della nostra modernità economica. Un pezzo di capitalismo italiano tuttavia insufficiente per dimensioni e per peso economico e, perché no, politico per poter rappresentare da solo la panacea di tutti i mali di un’economia che sta soffrendo più di altre la crisi attuale.
Le imprese che riescono a competere con successo sui mercati esteri sul fronte della qualità e dell’innovazione sono ancora troppo poche e molto spesso troppo piccole. Secondo i dati Istat-ICE sull’universo degli esportatori italiani, nel 2006 – un anno non toccato dagli effetti della recente crisi finanziaria e della recessione internazionale – le imprese manifatturiere esportatrici erano circa 190.000, il 4,2% delle imprese nazionali, e impiegavano circa il 20% della forza lavoro totale. Circa l’80% degli esportatori aveva meno di 15 dipendenti, contando tuttavia solo per il 16% delle esportazioni totali rispetto al 60% di quelli con più di 100 dipendenti. Il problema dell’industria italiana è quindi tornato a essere quello dimensionale, e nel dibattito pubblico si è ripreso a parlare di «scomparsa dell’Italia industriale», già paventata da Luciano Gallino in un suo fortunato pamphlet, La scomparsa dell’Italia industriale (2003).
Per il sociologo torinese, già all’esordio del 21° sec. l’Italia risultava ben addentrata nel lungo vicolo cieco che l’avrebbe portata alla liquidazione delle componenti più consistenti e significative del proprio apparato produttivo. La scomparsa o la perdita di importanza dei settori dell’industria nazionale – informatica, aerospazio, chimica, automotive ecc. – ad alta intensità di capitale e maggiormente dipendenti dalla capacità d’innovazione tecnologica andavano addossate a «imprenditori, top manager, uomini politici, affiancati dai loro consiglieri economici» (Gallino 2003, p. 5). Su di loro ricadeva la responsabilità di aver bruciato «immensi capitali» in operazioni dissennate, specie mediante la politica delle privatizzazioni, che ha consegnato nelle mani degli investitori stranieri imprese ad alta tecnologia, un tempo orgoglio del sistema produttivo nazionale. Inoltre, essi avevano attuato scriteriate strategie di diversificazione che li avevano portati a «cimentarsi in settori produttivi nei quali non possedevano né preparazione né esperienze adeguate, […] sino a perdere di vista la ‘missione’ primaria, intanto che si dimostra[va]no incapaci di inventarne un’altra». In questo modo avevano finito con il cedere alla lusinga della finanza, sino a credere che l’industria fosse in fondo soltanto «un’appendice fastidiosa», «perché obbliga a faticare di più mentre fa guadagnare di meno». Era stato questo il fondamentale errore di prospettiva di manager che si erano creduti onnipotenti, capaci di passare senza esitazioni da un modello all’altro. Frattanto, i modelli organizzativi dell’industria nazionale esigevano «tassi di produttività molto elevati da forze di lavoro con un livello di istruzione piuttosto basso», rinunciando a «investire più largamente in ricerca e sviluppo e formazione […]» (pp. 6-7).
Storici ed economisti riflettono da tempo sul significato da attribuire al «compromesso senza riforme» (per questa interpretazione cfr. Barca 1997) e all’«approdo mancato» (Amatori, Colli 1999, pp. 265-75) che si delinea a partire dalla conclusione del «miracolo economico», ma non hanno mai riferito a quell’epoca e alle sue conseguenze le origini del declino italiano: hanno detto, semmai, che nelle scelte mancate di quel periodo e nell’incapacità di far pervenire a una maturazione congiunta gli elementi economici e le forme di regolazione politico-istituzionale va letta, in controluce, la successiva instabilità dello sviluppo del nostro sistema nazionale, che porterà quest’ultimo a perdere il contatto, che per un po’ di tempo aveva mantenuto, con Germania e Giappone, i Paesi cardine della crescita postbellica.
In Giappone, nazione dai caratteri ben dissimili da quelli dell’Italia, ma con alcuni tratti di analogia se si considerano la periodizzazione dello sviluppo industriale e il ruolo giocato dall’attore pubblico, nel secondo dopoguerra si è assistito al ritiro dell’intervento pubblico diretto: i grandi ministeri dirigono la politica industriale grazie alla moral suasion sulle imprese, che accettano di seguire le guidelines tracciate da burocrati di carriera. Si delinea una sorta di quadratura del cerchio per cui lo Stato protegge e sostiene le grandi imprese, ma le obbliga a confrontarsi con il mercato globale. A posteriori è forse possibile affermare che in Italia lo Stato avrebbe dovuto imitare l’esempio giapponese, abbandonando l’intervento diretto nell’economia e dedicandosi alla creazione di un quadro di regole all’interno delle quali la grande impresa potesse prosperare: un’efficace protezione degli investitori di Borsa, la promozione dell’institutional investment, la revisione della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta hausbank, una legislazione antitrust; tutte cose che arriveranno a vedere la luce solo negli anni Novanta, con almeno trent’anni di ritardo (cfr. Amatori 2006).
Fra le tare del sistema politico-istituzionale italiano degli anni Sessanta e Settanta va inoltre annoverata anche l’incapacità di governare le trasformazioni sociali e il conflitto sociale. È il ‘lungo autunno’, il periodo che inizia con la vertenza Fiat del settembre 1969 e che si conclude sempre alla Fiat con la cosiddetta marcia dei quarantamila nell’ottobre del 1980, a rappresentare emblematicamente l’incapacità di incanalare politicamente e istituzionalmente giustificate rivendicazioni, sulla falsariga del modello tedesco di cogestione.
E tuttavia il gap con gli altri due Paesi, che insieme all’Italia avevano conosciuto i tassi di sviluppo più elevati nel quarto di secolo successivo alla Seconda guerra mondiale, appare evidente sul piano delle istituzioni più che su quello dello sviluppo economico. Nonostante la crisi severa attraversata dalle grandi imprese nazionali e i fallimenti dello Stato imprenditore, l’Italia degli anni Settanta continua a crescere, seconda solo al Giappone fra i Paesi dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Si ‘riscopre’ allora il ruolo giocato nello sviluppo italiano dalla piccola impresa, spesso organizzata nella forma del distretto industriale.
L’alternativa dei distretti
La letteratura di matrice economica ha visto quasi unanimemente nell’ascesa dei distretti una delle ‘sorprese’ degli anni Settanta (cfr. Bellandi 1999) quando, a causa della crisi della grande impresa, il processo di industrializzazione si è esteso a nuove aree del Paese, il cosiddetto NEC (Nord-Est-Centro).
Alcuni studiosi (cfr., per es., De Cecco 2000) l’hanno addirittura interpretata come una conseguenza della spirale inflazionistica innescata in seguito al crollo del sistema di cambi fissi previsto dagli accordi di Bretton Woods e agli shock petroliferi, la quale avrebbe favorito la competitività delle imprese di minori dimensioni e a più alta intensità di lavoro che producevano beni a basso contenuto tecnologico, a scapito della competitività delle grandi imprese fordiste.
Gli storici hanno invece puntato l’attenzione sulle origini delle piccole imprese italiane e dei sistemi locali di produzione di cui spesso si trovano a fare parte. Il ‘dualismo’ della struttura industriale italiana è stato così fatto risalire fino al periodo preunitario, mentre è stata enfatizzata la capacità della componente ‘manchesteriana’, rappresentata dalle piccole e medie imprese, di rimanere competitiva senza il continuo ricorso ai salvataggi di Stato e alla domanda pubblica (Cafagna 1999).
I distretti affondano le proprie radici in un vasto humus produttivo diffuso in molte aree del Centro-Nord: vi confluiscono la tradizione corporativa, il retaggio mezzadrile con l’etica del lavoro, le tante abilità manuali, uno ‘spirito imprenditoriale’ diffuso, senza dimenticare la lunga tradizione di raffinata domanda urbana e la vocazione a inserirsi nei circuiti del commercio internazionale. In ogni caso, quello dei distretti è un successo che non si spiega soltanto con la qualità e la quantità dei fattori individuali: decisivo è l’apporto di un’istituzione come la famiglia per aziende nelle quali padroni e operai sono spesso parenti. Così come in primo piano è la comunità locale, nell’ambito della quale la concorrenza è bilanciata da un senso di solidarietà, e le conoscenze tecniche e professionali sono patrimonio di larghi strati della popolazione.
Altrettanto importanti sono le istituzioni locali sia con interventi positivi, come, per es., nel campo dell’istruzione e della costruzione di infrastrutture, sia anche però con la tolleranza verso comportamenti discutibili come l’evasione fiscale. Non si può non trascurare inoltre l’aspetto relativo all’omogeneità politica: i distretti fioriscono in aree o fortemente ‘rosse’ o a netta prevalenza cattolica. Si tratta di un fattore decisivo per evitare il conflitto sociale che lacera la grande impresa.
Dopo il 1975, l’aggravarsi dei meccanismi di costo ha eroso i margini delle grandi imprese più di quelli delle minori, o almeno di quella parte di esse che attraverso i distretti ha individuato il proprio asse di crescita. Certo, esse appartengono ai comparti leggeri dell’industrializzazione, cioè a settori meno nobili, secondo il metro di giudizio dei sostenitori del primato della grande impresa, come il tessile e l’abbigliamento, le calzature, le piastrelle e il legno, e non a quelli pesanti che avevano caratterizzato la crescita postbellica come l’auto, la siderurgia, la meccanica, la gomma. Settori, i primi, che verranno raggruppati, dopo il loro successo, sotto l’etichetta estensiva del made in Italy, a sintetizzare una combinazione di attitudini produttive e di creatività progettuale, di flessibilità operativa e di duttilità nell’approccio al mercato.
Le costellazioni territoriali di piccola impresa si avvalgono di una maggiore disponibilità nell’uso della forza lavoro, che deriva anche da un ventaglio più ampio di professionalità operaie, non appiattite dall’omogeneità dell’assembly line, e possono fare leva sul vantaggio di una maggiore elasticità organizzativa. Sono pronte a incunearsi negli interstizi, sempre più larghi, dei mutamenti di un mercato recalcitrante davanti a una standardizzazione delle forme di consumo ormai obsoleta. La loro partita economica si gioca su una produzione per piccoli lotti, quindi flessibile per definizione, commisurata a nicchie di consumo che introducono un segno potente di discontinuità nella massificazione e nella omologazione che avevano imperato negli anni Cinquanta e Sessanta. È logico allora che recuperino appieno elementi e valori professionali della tradizione artigianale, tutt’altro che antiquati o inutili se inseriti in una strategia che esalta la specializzazione, l’attitudine all’adattamento, il rapporto fecondo con il mercato finale.
Passo dopo passo, quasi inavvertibilmente, i distretti industriali diventano così il «secondo motore dello sviluppo» italiano, come ha scritto, in un articolo ne «Il Sole-24 ore» dell’11 maggio 1999 (ora in Becattini 2000), Giacomo Becattini, l’economista che più si è speso per dimostrare come essi rappresentino la via specificatamente italiana alla modernità industriale. A mano a mano che il loro peso economico aumenta – mediante quote crescenti delle esportazioni, livelli di profitto spesso superiori a quelli delle grandi imprese e, con il tempo, trattamenti salariali per i dipendenti migliori rispetto alle medie italiane –, i distretti assumono la dignità di un modello economico che viene loro riconosciuta da osservatori e studiosi stranieri. È anche per merito loro se la specializzazione flessibile guadagna terreno come alternativa concreta alla declinante produzione di massa. La forma del distretto sembra perfino stamparsi sull’evoluzione di imprese che non hanno nulla a che spartire con il microcapitalismo. Capita così che anche la rapidissima crescita aziendale della Benetton possa essere assimilata al retroterra distrettuale, grazie a un sistema di connessioni con il territorio d’origine – Ponzano Veneto – che fa svanire le dimensioni effettive d’impresa, incorporando la produzione in un flusso continuo di attività non riconducibile al tradizionale spazio della fabbrica. Adattabilità, flessibilità e modularità risultano qui, come nelle aree di piccola impresa, i caratteri portanti di un processo industriale che fa a meno di contorni definiti, di gerarchie cristallizzate, dell’ordine e delle regole dell’organizzazione fordista.
Ha ragione Becattini a ravvisare nei distretti industriali e nelle imprese distrettuali – cioè operanti in una cornice territoriale e produttiva omogenea – i protagonisti veri del made in Italy e a ricercare anche nelle periferie industriali l’asse dello sviluppo italiano, per tracciare una storia del progresso economico che ruota attorno a «piccole-grandi storie di tessuti, piastrelle, di occhiali, di mobili, di gioielli, di scope, di prosciutti» e, «ancora, di macchine (e procedimenti tecnici) tessili, per il legno, per la concia, per l’imballaggio», «di filati, di pannelli, di coloranti, di colle speciali», «o di affettatrici, di bilance, e così via» (Becattini 2000, pp. 25-32). Un’Italia industriale magari minuta, a prima vista, ma pulsante di attività e brulicante di una varietà di forme d’impresa, viva grazie alle risorse di un microcapitalismo capace di attingere a un saper fare stratificato e differenziato.
Nel 1991, quando il Parlamento approva una legge che intende tutelarli, vengono censiti 199 distretti che, insieme, contano 2.200.000 addetti, ossia il 45% dell’occupazione manifatturiera complessiva; numeri che attestano definitivamente la conquistata centralità della piccola impresa distrettuale per l’industria italiana.
Non mancano, tuttavia, i motivi di riflessione. Con l’apologia dei distretti industriali c’è il rischio di alimentare «le illusioni sull’eterna ‘terza via’ degli italiani», come ha notato Marcello De Cecco, un economista avverso allo scenario di un capitalismo minimo, all’insegna del ‘piccolo e bello’ e incline a prosperare pur non espandendosi e non crescendo di scala. Senza grandi imprese – anzi senza imprese che tendano al massimo dimensionamento possibile –, aggiunge De Cecco, non c’è ricerca di alto profilo, simbiosi fra università, scienza e sistemi aziendali dinamici, non ci sono insomma le condizioni per partecipare al mondo del capitalismo contemporaneo: «altro che distretti industriali» (De Cecco 2000, pp. 14-15). Non si possono poi negare le ombre gettate sul modello distrettuale da questioni quali la sottocapitalizzazione delle imprese, il rischio di sclerosi produttiva, la volatilità dei mercati al cui interno i distretti operano e, come già accennato, la diffusa piaga dell’evasione fiscale.
Quello che è certo è che non si può dimenticare il debito accumulato dall’Italia produttiva verso la galassia distrettuale nel corso degli anni Settanta. Le esportazioni e l’occupazione nelle fabbriche tengono grazie ai distretti, quando invece l’universo delle macro-organizzazioni subisce prima una battuta d’arresto per poi contrarsi, cedendo posizioni. È soprattutto grazie all’aumento di giri del ‘secondo motore’ se il primo, la componente storica dell’industria italiana – quella attestata attorno alle grandi imprese e concentrata nel Nord-Ovest –, può avviare nella prima metà degli anni Ottanta un ormai improrogabile processo di ristrutturazione, senza che ciò si ripercuota eccessivamente sugli equilibri sociali ed economici nazionali. Si tratta di un grande momento di cambiamento, testimoniato dal drastico processo di snellimento della struttura occupazionale.
Fra il 1980 e il 1985 gli addetti all’industria manifatturiera raggruppati nell’Italia del Nord-Ovest passano da oltre 2.512.000 a 1.992.000. Gli andamenti di settore riflettono la tendenza, confermando che la caduta occupazionale è più evidente là dove è maggiore il grado di concentrazione produttiva e nei comparti in cui è più salda l’egemonia industriale del Nord-Ovest. Gli addetti alla metalmeccanica passano da 1.253.600 del 1980 ai 984.900 del 1985, mentre ancora più visibili sono gli effetti della trasformazione nel settore della produzione di autoveicoli e mezzi di trasporto, anche per la scelta della Fiat di localizzare i nuovi impianti nel Mezzogiorno: dai 261.000 addetti che il Nord-Ovest contava nel 1980 si passa ai 185.900 di cinque anni dopo.
La crisi dei primi anni Novanta
Nella seconda metà degli anni Ottanta l’effetto congiunto dello snellimento occupazionale e dei processi di ristrutturazione interni sembrò addirittura permettere ai grandi gruppi italiani un rilancio dai risultati sorprendenti. Si trattava, tuttavia, soltanto di una breve ‘estate di San Martino’: all’inizio del decennio Novanta già trapelavano gravi segni di cedimento, delle crepe profonde che incrinavano la struttura d’impresa e che ne avrebbero pregiudicato la tenuta nel periodo seguente (cfr. Borsa, De Biase 1992). Nel volgere di pochi anni, la posizione economica delle imprese maggiori conobbe un deterioramento che non venne più arrestato, al punto da porre in discussione la sopravvivenza stessa di alcune tra le più importanti società italiane come la Montedison e la Olivetti. Non uscì diminuita soltanto la loro presenza di mercato e ridotto il loro raggio d’azione: si operò un contenimento delle loro dimensioni, con una perdita di peso relativo delle strutture aziendali che doveva condizionare la configurazione del capitalismo italiano.
Nel passaggio tra anni Ottanta e Novanta cambiò quindi la morfologia del sistema imprenditoriale, una modificazione permanente della sua configurazione che ne avrebbe spostato definitivamente il baricentro in direzione delle imprese minori e dei distretti industriali. Dopo quella stagione, le grandi imprese non dovevano più recuperare il ruolo che avevano detenuto in passato, limitandosi o ad amministrare il loro declino o a una semplice gara di resistenza nell’attesa di alleanze internazionali in grado di offrire loro uno sbocco alla situazione di stallo in cui erano precipitate.
A rileggere oggi la stampa economica di metà e fine anni Ottanta, risalta pienamente il declino che le poche grandi imprese italiane avrebbero subito nel volgere di pochi anni. Annunciato nel 1983 e diffuso nel 1984, il personal computer M24 assicurava in questo stesso anno una quota del 7% del mercato mondiale alla sua casa produttrice. L’anno seguente, l’Olivetti produsse 490.000 computer, di cui 215.000 destinati all’americana AT&T, con la quale il gruppo di Ivrea aveva stretto un’alleanza strategica e che commercializzava l’M24 sul mercato statunitense con il proprio marchio. Così la quota mondiale salì al 13%, fatto che rendeva quel computer uno tra i più venduti su scala mondiale (su questi dati cfr. De Witt 2005, p. 220).
Nello stesso periodo la Fiat mieteva i propri successi maggiori sul mercato europeo, dopo il lancio della Uno, la sua vettura più fortunata e diffusa, che faceva seguito al buon successo della Panda. Fiat e Volkswagen si disputavano allora, mese per mese, il primato continentale, con volumi di produzione e di vendita sostanzialmente allineati. Non a caso fu nella seconda metà degli anni Ottanta che la Fiat raggiunse i propri migliori risultati di bilancio (nel 1986, l’utile operativo sfiorava i 3000 miliardi di lire su un fatturato di 30.000 miliardi: Castronovo 1999, p. 1577). Era però l’industria italiana nel suo complesso a segnare risultati positivi in vari settori. Nel campo dell’abbigliamento, un’altra azienda torinese, il Gruppo finanziario tessile (che realizzava all’estero circa la metà del proprio fatturato), coglieva un grande successo commercializzando, anzitutto sul mercato americano, gli abiti firmati da stilisti come Giorgio Armani e Valentino che davano un grande risalto al made in Italy. Qualche anno dopo, di queste affermazioni non restava più traccia. Le imprese italiane, che erano apparse capaci di aprirsi ai mercati internazionali, ripiegavano dentro i confini nazionali, dismettendo i propri piani di espansione più ambiziosi, tramontati per sempre. Come spiegare questa brusca inversione di tendenza?
Capofila delle imprese private, la Fiat si era giovata della ristrutturazione dei primi anni Ottanta in una misura paragonabile soltanto alla modernizzazione della struttura produttiva condotta nel secondo dopoguerra. Per giunta, la Fiat si poneva come paradigma della nuova stagione industriale, imperniata sull’aumento della produttività e sulla presentazione di nuovi modelli capaci di rinnovare il richiamo esercitato dalle utilitarie degli anni Cinquanta e Sessanta. Come sempre, la Fiat dimostrava di saper fare leva soprattutto sulla capacità di progettazione delle vetture di costo contenuto, anche se dava prova di saper presidiare le altre fasce di gamma (attraverso modelli come la Lancia Thema e la Croma). E, tuttavia, era evidente che il successo non sarebbe potuto durare senza una crescita ulteriore della sua presa di mercato. Già allora, uno dei temi ricorrenti nei discorsi del suo presidente, Gianni Agnelli (1921-2003), era che il futuro avrebbe inevitabilmente portato a una concentrazione del numero dei produttori, sicché era imperativo sviluppare alleanze e acquisizioni per raggiungere le dimensioni necessarie. L’acquisizione di maggior rilievo realizzata dalla Fiat fu però quella dell’Alfa Romeo nel 1986, dismessa dall’IRI nella convinzione di non poter recuperare i margini di redditività necessari alla sua sussistenza. Il governo preferì accogliere la sollecitazione della Fiat a cedere l’Alfa al gruppo torinese, lasciando cadere la possibilità alternativa costituita dalla cessione alla Ford. La pressione della Fiat, molto attenta a difendere le sue elevatissime quote sul mercato interno, fu determinante per la decisione governativa (Castronovo 1999, pp. 1562-69).
Eppure, poco tempo prima, fra il 1984 e il 1985, la Fiat aveva vagliato la possibilità di far convergere in un unico organismo d’impresa le attività produttive sue e della Ford Europa, dando luogo a un’operazione che avrebbe portato alla creazione del primo gruppo automobilistico continentale. Il progetto venne lasciato cadere di fronte al fatto che nessuna delle due società accettava la prospettiva di uno stabile ruolo di minoranza, seppure con una quota azionaria molto elevata nella nuova impresa. In particolare, la Fiat, che avrebbe dovuto detenere la guida manageriale, non accettava un ruolo subordinato, così come sembra che la Ford non volesse aderire all’ipotesi di uno scambio azionario che avrebbe finito con l’assegnare un peso troppo elevato al partner italiano anche in America. Così l’operazione naufragò e, con essa, le speranze di Vittorio Ghidella (1931-2011), amministratore delegato di Fiat auto, di guidare la nuova società internazionale. Diverso, qualche anno dopo, il caso della trattativa avviata con la Chrysler, che la Fiat aveva ipotizzato di rilevare dopo la fase di rilancio gestita da Lee Iacocca (n. 1924). Dopo un lungo vaglio delle complessità di quell’acquisizione, nell’estate del 1991 la Fiat decise di non darvi seguito (Castronovo 1999, pp. 1566-71, 1690-91).
La conseguenza fu che, pur teorizzando la necessità di una crescita dimensionale che avrebbe avuto ripercussioni elevate sull’assetto proprietario, la Fiat scelse di ripiegare, sotto la direzione di Cesare Romiti (n. 1923), sul mercato italiano, dove intanto aveva iniziato a perdere massicciamente quote a vantaggio dei concorrenti esteri, in un periodo in cui la progettazione di nuovi prodotti ristagnava. Fu come se, nell’impossibilità di mantenere le quote di mercato nell’auto (dove intanto la Volkswagen aveva spiccato il volo, distaccando irreversibilmente il vecchio concorrente), la Fiat scegliesse di costituire una sorta di cordone di sicurezza, un salvagente tale da tenerla faticosamente a galla. La gravità della crisi doveva emergere fra il 1993 e il 1994, quando l’industria italiana subì un vero e proprio rivolgimento delle proprie basi produttive (cfr. Berta 2009, pp. 247 e segg.).
La Olivetti non seppe preservare e sviluppare l’alleanza con l’AT&T: le ‘affinità asimmetriche’ (cfr. Ciborra 1986), che sembravano aver portato alla convergenza dei due gruppi, si rivelarono un’illusione e l’intesa naufragò subito dopo aver dato i suoi frutti con il successo del computer M24. Dal 1986, le vendite dei personal computer diminuirono e ben presto i prodotti con il marchio Olivetti vennero soppiantati da quelli di altri produttori, rinnovati con una frequenza e una velocità che a Ivrea erano impensabili. Così alla fine degli anni Ottanta, la Olivetti era già un’impresa dal futuro incerto e nebuloso, apparentemente un paradosso per l’azienda che meglio di tutte aveva portato a termine una ristrutturazione radicale, completando il passaggio dall’elettromeccanica all’elettronica e all’informatica, per di più senza suscitare nessuna delle violente tensioni politiche e sindacali che avevano invece scandito la trasformazione della Fiat. Carlo De Benedetti (n. 1934), entrato alla Olivetti alla fine degli anni Sessanta con un duro programma di riorganizzazione e ridimensionamento del personale contro cui si erano mobilitati i sindacati, era riuscito in pochi anni ad accreditarsi come il principale interlocutore, sul fronte imprenditoriale, della sinistra e del mondo del lavoro.
De Benedetti, tuttavia, non era disposto più di tanto a concentrare la sua attenzione sulla Olivetti. I suoi interessi in quegli anni spaziarono dalla Buitoni al Credito Romagnolo, dalla Mondadori alla Société générale du Belgique, per il cui controllo ingaggiò una delle battaglie più aspre nel 1990, alla fine risoltasi negativamente per lui. Ne doveva derivare una sostanziale destabilizzazione del vertice della Olivetti, sottoposto a continue riorganizzazioni e riassetti che ne logorarono la tenuta, mentre l’azienda si decideva ad abbandonare progressivamente il settore dell’informatica per dirigersi invece verso quello più nuovo e più promettente della telefonia cellulare. Ma la mancanza della guida e, soprattutto, della convinzione dell’azionista finì per rendere precarie le azioni intraprese dalla Olivetti e per far affiorare un’incertezza strategica di fondo che questa non avrebbe più superato (si vedano a tale riguardo le considerazioni di Cisnetto 2000, pp. 51 e segg.).
Anche la Pirelli, al pari delle altre maggiori imprese italiane del tempo, era dominata dall’intenzione di pervenire a dimensioni ben più vaste di quelle che caratterizzavano allora il gruppo milanese. Come la Fiat e, almeno agli inizi, la Olivetti, anche la Pirelli aveva maturato la convinzione che per raggiungere una solidità di mercato tale da porla in posizione di sicurezza sarebbe stato necessario incrementare fortemente le proprie dimensioni. Un simile obiettivo non poteva essere conseguito che per il tramite delle acquisizioni. Ecco perciò che la Pirelli mise dinanzi a sé il traguardo di condurre in porto l’incorporazione di un’altra azienda, che avrebbe consegnato nelle sue mani una condizione di forza nel campo dei pneumatici. Prese così in considerazione l’acquisto della Firestone, che si rivelò ben presto impossibile. Di qui l’interesse rivolto alla tedesca Continental, un obiettivo lungamente perseguito in una guerra di logoramento che pose a repentaglio le risorse finanziarie della Pirelli (sui rapporti tra Pirelli e Continental cfr. Lavista 2008). All’epoca si disse che il sistema tedesco aveva fatto muro per difendere la Continental dall’iniziativa italiana. In realtà, altre imprese italiane avevano realizzato acquisizioni in Germania di minore importanza. Ma il punto è che a pregiudicare il tentativo della Pirelli fu più l’inadeguatezza delle risorse finanziarie che erano state attivate che la resistenza tedesca. Semplicemente, a posteriori si può concludere che la Pirelli non disponeva della forza necessaria per portare a termine un’acquisizione così cara e consistente. L’impresa lombarda finì con l’uscirne sfibrata, ricevendo un contraccolpo duraturo sulle sue strategie e sul suo stesso assetto di vertice. Leopoldo Pirelli (1925-2007) dovette lasciare le responsabilità aziendali, mentre incominciava un cammino in discesa, destinato a provocare un ridimensionamento cospicuo delle ambizioni nutrite. Dagli anni Novanta in poi, la Pirelli non occuperà più la posizione di rilievo che aveva detenuto negli equilibri del capitalismo italiano.
Il tramonto delle aspettative di espansione della Montedison si consumò prima che per gli altri gruppi. Al momento in cui Raul Gardini (1933-1993) subentrò alla sua guida, la fase delle strategie era già passata, dopo che era fallito il progetto di Mario Schimberni (1923-2001) di trasformare l’azienda di Foro Buonaparte in una public company, innovando la tipologia delle forme d’impresa italiane. Tra il 1986 e il 1990, la Montedison e il gruppo Ferruzzi scatenarono una girandola di iniziative finanziarie di cui è difficile ancora oggi cogliere l’esatto significato. In quel periodo, la Montedison effettuò acquisizioni per 10.000 miliardi di lire e dismissioni per 5000 miliardi. Nel 1988 il fatturato si aggirava attorno ai 34.000 miliardi e i dipendenti erano 80.000. Erano dimensioni raggiunte al prezzo di una gravosissima esposizione finanziaria, che aveva alterato l’intera architettura aziendale, sbilanciandola.
Gardini – il cui programma può forse essere riassunto nella sua sventurata affermazione: «La chimica italiana sono io» – non pare aver posseduto una strategia di prodotto, dal momento che lasciò declinare degli autentici punti di forza come le controllate Himont ed Erbamont. Quanto alla strategia finanziaria, la conduzione dissennata di tutte le aziende di cui si occupò, come del gruppo Ferruzzi, che era stato il suo trampolino di lancio, è una dimostrazione della sua inconsistenza. Tanto meno si rivelò in grado di creare e dirigere una compagine manageriale che, dopo l’uscita di scena di Schimberni, semplicemente cessò di esistere. Nessun altro caso come la chimica italiana di quegli anni mise a dura prova la capacità di interpretare le scelte e le decisioni che furono compiute riconducendole a una logica riconoscibile.
Non c’è dubbio che una rilettura storica, in mancanza di nuovi documenti sulle vicende economiche e imprenditoriali di quegli anni, è destinata a restare assai approssimativa. Si possono avanzare così soltanto alcune ipotesi che enfatizzano nodi e passaggi in vista di una ricostruzione puntuale. Il primo elemento che va sottolineato è l’estrema fragilità del nucleo di vertice del capitalismo italiano di allora. Esso transitò, nell’arco di un quinquennio, da una condizione di apparente rilievo a uno stato di progressivo disarmo, mentre i suoi esponenti più in vista continuavano a enunciare obiettivi e programmi che non potevano effettivamente perseguire. Si può dire che, a metà del decennio Ottanta, le grandi imprese italiane puntassero a espandere le proprie dimensioni, soprattutto attraverso acquisizioni.
La Fiat, in particolare, per bocca del capofila dei suoi azionisti, ripeteva assiduamente che, per reggere nel tempo, il gruppo avrebbe avuto bisogno di collocarsi fra i cinque o sei maggiori produttori mondiali di auto. A questa enunciazione non fecero però seguito atti e decisioni conseguenti perché avrebbero comportato una riduzione del peso della famiglia Agnelli nella compagine azionaria. Si preferì così scegliere la via dell’autocontenimento, accontentandosi di cifre e risultati economici sempre più modesti e insoddisfacenti. A mano a mano che calavano quote e presenza di mercato, si ripiegava sulla scena nazionale dove, attraverso il controllo di attività differenziate e dei grandi giornali, si poteva esercitare una rilevante influenza politica, con l’effetto di allontanare lo sguardo dai conti economici negativi.
Una grande opportunità per questa strategia di ripiego sulla base nazionale di partenza fu offerta dal prolungato boom di Borsa, che favorì le grandi imprese nell’opera di canalizzazione a loro vantaggio del risparmio privato. Le imprese che ne ebbero la capacità si poterono rifornire di risorse finanziarie in una misura senza precedenti. Fu questa cornice, d’altronde, a consolidare il profilo di un capitalismo insieme oligarchico e collusivo, che moltiplicava i legami e le reti di solidarietà opaca grazie a cui i suoi principali esponenti potevano salvaguardare al contempo i loro interessi e il loro ruolo pubblico. Frutto evidente di questa dinamica fu la degenerazione della normale interazione tra sistema delle imprese e sistema politico. Alla fine degli anni Ottanta sia le imprese sia la politica avevano bisogno di una massa di risorse più ingente. E questo processo di convergenza non dovette essere estraneo alle dinamiche di Tangentopoli, che conobbero la loro accelerazione proprio in quel periodo. Se è vero, infatti, che fenomeni come quello delle tangenti e dei ‘fondi neri’, erogati dal sistema imprenditoriale ai partiti politici, sono di lunga durata, è assai probabile che la loro intensità e le loro dimensioni siano cresciute notevolmente proprio allora. E, d’altra parte, le grandi imprese che, dopo le fallimentari sortite sui mercati esteri, facevano ritorno nel loro ambiente di origine, erano naturalmente indotte a ricercare un rapporto più stretto con la politica, che poteva garantire loro delle aree protette in cui tutelare i propri interessi.
Un problema di crescita
Non stupisce, quindi, che all’inizio degli anni Novanta, di fronte al progressivo svelamento dell’intreccio di interessi e di interdipendenze venutosi a creare fra le grandi imprese e il sistema politico, siano proprio i sistemi di piccola impresa e le aree distrettuali, il cui ruolo nell’economia industriale completa definitivamente la sua parabola dalla periferia al centro, a venire proposti come simbolo di un capitalismo spontaneo e legato al territorio, antitetico per carattere e profilo a quello di vertice incarnato nei ‘salotti buoni’ delle grandi imprese. Nonostante il declino della grande impresa fordista, nell’Italia degli anni Novanta non si assiste quindi all’inverarsi dello spettro della deindustrializzazione. Ci si accorge anzi che il Nord del Paese – il Nord-Est con una visibilità più alta, il Nord-Ovest in misura non molto inferiore – è percorso da un’intensissima spinta alla moltiplicazione delle forme di attività economica e di lavoro.
Il Nord Italia nella sua interezza è, secondo il sociologo Aldo Bonomi (1997), una società «al lavoro», che si mobilita per obiettivi di acquisizione economica tanto diffusi da dare il tono alla dinamica sociale. Una mobilitazione estesissima e in grado di permeare una pluralità di sfere – così da colpire l’attenzione degli osservatori che tende ad appuntarsi sull’area forse più stupefacente per i suoi successi economici, quella veneta –, ma unificata da un individualismo accentuato. È un «capitalismo molecolare» quello che va crescendo, capillare e pervasivo proprio perché incardinato su unità economiche di dimensioni contenute, spesso microimprese, talora forme di vero e proprio «capitalismo personale» (Bonomi 1997). Preso atto del tramonto della grande impresa in Italia, Bonomi si spinge a sostenere la tesi che all’Italia non convenga giocare nella serie A dello sviluppo economico, dove non ha la possibilità di rivaleggiare con i Paesi maggiori, quando le è piuttosto congeniale la serie B, in cui ha tutte le carte in regola per eccellere.
Non mancano, tuttavia, i lati oscuri nella nuova fisionomia che il sistema produttivo va assumendo dopo la crisi degli anni Novanta. Il paradosso apparente dell’Italia di fine secolo sta nell’essere una nazione che patisce sia un eccesso di industria sia il suo contrario. O meglio, è un Paese che conserva un comparto manifatturiero diffuso, ma con un numero decrescente di imprese di grandi dimensioni. Per di più il suo punto di forza, il made in Italy, affidato spesso a piccole unità produttive e a una massa di lavoratori che non posseggono una formazione elevata, la espone alla concorrenza dei Paesi emergenti, là dove i costi di lavoro estremamente contenuti si combinano con condizioni tecnologiche facilmente esportabili. Debole e in ritirata appare invece il sistema delle imprese maggiori, costrette a un ripiegamento drastico, con un’imprenditorialità pronta a spostarsi in direzione dei grandi servizi di pubblica utilità, dove i profitti si convertono spesso in rendite da monopolio. Inoltre, se è vero che l’economia italiana aveva manifestato una tendenza al rallentamento fin dagli anni Settanta – sulla falsariga della maggior parte delle economie europee –, è altrettanto vero che la caduta della sua performance, rivelata in primo luogo dal decremento della quota italiana nel mercato mondiale, ha inizio proprio alla metà del decennio Novanta.
All’inizio del nuovo secolo diventa ormai chiaro come l’Italia si trovi a dover fare i conti con un ‘problema di crescita’, i cui contorni sono stati efficacemente tratteggiati da un economista come Pierluigi Ciocca (2007). Secondo la sua analisi, superata la recessione del 1992-93, è mancata «l’impennata negli investimenti» – in particolare nei più innovativi – che sarebbe stata necessaria ai fini della crescita, nonostante i mezzi finanziari fossero disponibili; il gravame del debito pubblico ha imposto una penuria delle risorse di bilancio necessarie per ammodernare le infrastrutture, divenute del tutto inadeguate, e per ridurre il costo del lavoro per le imprese; «l’ordinamento giuridico dell’economia, cruciale per la crescita, si è dimostrato sempre meno acconcio, nelle norme e nella loro applicazione». E poi, naturalmente, ha inciso la questione della «frammentazione del sistema delle imprese e [del]l’incapacità delle piccole di accrescere la propria dimensione», fattori che rientrano tra i «tratti storici del capitalismo italiano». Per Ciocca fra le ragioni per cui all’impresa italiana appare conveniente restare piccola vi sono anche cause «giuridiche, burocratiche, fiscali», capaci di rappresentare un freno notevole in una fase in cui le tecnologie dell’informazione restituiscono alle grandi imprese «margini di flessibilità più ampi». Dunque, «la condizione di ‘piccole donne che non crescono’ delle aziende italiane, lungi dall’essere imposta dal modello di specializzazione, congela quel modello, restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni». Il tramonto dell’impresa pubblica «ha fatto venir meno un’alternativa, un potenziale concorrente, rispetto all’impresa privata». Nella cornice di un Paese che ha conosciuto una riduzione del tasso di concorrenza interno, ciò ha fatto sì che i livelli di profitto, risaliti negli anni Novanta, non si siano convertiti in maggiori livelli di investimento. Soltanto la parte dell’economia italiana effettivamente internazionalizzata ha sentito il morso della concorrenza; chi ha operato prevalentemente sul mercato interno non ha percepito un clima più competitivo e di conseguenza non è stato indotto a incrementare la mobilità del capitale e la produttività, nonché a ricercare minori costi e innovazione. L’Italia è stata così incalzata sia dai Paesi emergenti, Cina in testa, «propensi a esportare beni di consumo che l’Italia produce e a importare beni capitali che l’Italia non produce» (Ciocca 2007, pp. 316-46), sia da economie come quella statunitense, caratterizzate da produzioni ad alto valore tecnologico.
Crisi e metamorfosi dell’industria italiana: le medie imprese
In questo scenario di stagnazione, che torna a far temere una prossima caduta verticale dell’industria, compare un nuovo protagonista: l’impresa di medie dimensioni, che in pochi anni sembra diventare una sorta di nuova ossatura del bacino storico dello sviluppo manifatturiero italiano, il Nord-Ovest. Si deve, infatti, all’aumento dei dipendenti delle medie imprese il fatto che nei primi anni del 21° sec., nonostante il calo sostenuto degli addetti delle imprese di maggiori dimensioni, l’occupazione industriale non frani come sembrava dovesse accadere, ma addirittura si verifichi un leggero aumento del numero di posti di lavoro del settore industriale: da 1.943.000 a 2.001.000 addetti fra il gennaio 2000 e il gennaio 2003. Questo mentre l’occupazione industriale arretra invece, nel medesimo periodo, da 1.385.000 a 1.371.000 unità nel Nord-Est e con una flessione più marcata, da 927.000 a 891.000 unità nel centro Italia.
Nel 2000, secondo l’indagine di Mediobanca e Unioncamere (2003), l’aggregato delle medie imprese del Nord-Ovest constava di 1578 società, dotate di un fatturato compreso fra i 13 e i 260 milioni e di un numero di occupati variante da 50 a 499. Le medie imprese, scartando quelle controllate da grandi gruppi italiani ed esteri, risultavano una realtà in crescita, giacché il loro numero ammontava a 1472 nel periodo 1996-98 e a 1491 nel 1999. La determinante del loro sviluppo era identificata nell’«aumento dell’intensità di capitale con la conseguente introduzione di innovazioni di processo», dato che contribuiva a spiegare come le medie imprese del Nord-Ovest si concentrassero nella metalmeccanica e nell’elettronica per il 44,2% del totale, per il 19,8% nella chimica e meno, invece, nei settori (alimentari, beni per la persona e la casa) appannaggio delle medie imprese considerate su scala nazionale. L’impresa di medie dimensioni appariva sovrarappresentata nel Nord-Ovest rispetto alla distribuzione di tutte le imprese. In Lombardia si addensava ben il 76,5% delle aziende dell’area – una quota del 32,6% sul totale nazionale – con una evidente prevalenza della classe di imprese fra i 100 e i 249 addetti (p. VIII).
Sempre nel 2000 le società medie realizzavano circa il 15% del valore aggiunto dell’industria manifatturiera del Nord-Ovest, un apporto ancora limitato, se confrontato con le quote delle grandi e delle piccole imprese, che contavano rispettivamente per il 36% e per il 49% del valore aggiunto (p. X). Le medie imprese esibivano una capacità di espansione ben superiore a quella delle maggiori: fra il 1996 e il 2000 il loro fatturato era aumentato del 27% con un contributo delle esportazioni (+33%) di gran lunga superiore a quello delle vendite all’interno (+24%). Sul piano dei profitti le medie imprese registravano risultati inferiori ai complessi più grandi, ma, secondo gli estensori del rapporto, questo accadeva soprattutto a causa «del forte ridimensionamento degli organici che (aveva) comportato – contrariamente a quanto avvenuto per le medie imprese – un calo consistente del peso del lavoro a beneficio del margine operativo» (p. XV).
La comparsa delle medie imprese – definite nel 2003 dal rapporto del Censis il «sottosistema» destinato a essere il protagonista economico dei prossimi decenni (si veda il capitolo dedicato a Le considerazioni generali del 37° Rapporto sulla situazione sociale del paese 2003) – sembrava archiviare finalmente il paesaggio industriale del Novecento (quello che aveva trovato il proprio senso nella polarizzazione fra un nucleo di grandi imprese e una massa di attività minori), prospettando in cambio una nuova architettura economica, contrassegnata dalla condizione progressivamente centrale dell’universo delle medie imprese. Al loro interno, inoltre, si andava profilando la presenza di un grappolo nutrito di soggetti imprenditoriali più dinamici, spesso individuati da dimensioni crescenti, costituito da «multinazionali tascabili», cioè da imprese fortemente internazionalizzate, ma portate ad agire entro mercati di nicchia, capaci sia di attingere alle specifiche dotazioni italiane (dalle risorse territoriali alla qualità) sia di giovarsi delle possibilità di coordinare produzione e distribuzione offerte dalle nuove tecnologie. Per loro veniva coniato il termine di «quarto capitalismo» (cfr. Colli 2002).
A distanza di alcuni anni, l’auspicio di trovare nelle medie imprese la nuova nervatura economica e industriale del Paese non è stato ancora esaudito. Il numero delle medie imprese del Nord-Ovest, dopo aver toccato un massimo di 1834 nel 2007, è sceso a 1310 nel 2009 (Mediobanca-Unioncamere 2012), un dato inferiore a quello degli anni Novanta. Fra il 2000 e il 2009 il numero delle medie imprese è diminuito di 363 unità, valore del saldo tra 1327 ingressi e 1690 uscite. Fino all’esercizio 2002 il limite superiore era stato fissato in 260 milioni di euro. La soglia superiore è stata elevata a 290 milioni di euro nel 2003 e a 330 milioni di euro nel 2008, anno in cui anche la soglia inferiore è stata portata a 15 milioni. Tali ultime modifiche hanno comportato una diminuzione netta nel totale di bilancio e nel fatturato intorno al 2%, con una variazione negativa sull’universo delle imprese pari a poco più di 140 società rispetto al 2007.
I dati forniti da Mediobanca e Unioncamere evidenziano una grande turbolenza in prossimità della soglia di fatturato inferiore: nei dieci anni considerati vi sono state 1188 piccole imprese divenute medie e 1205 medie tornate piccole. Il passaggio alla grande impresa ha riguardato 237 società (con il 5% di fallimenti successivi all’aumento del fatturato), cui si sono contrapposte 86 imprese che hanno percorso la strada inversa. Per l’universo delle medie imprese del Nord-Ovest, il saldo dei movimenti ascensionali e regressivi si è tradotto, nei nove anni, in una diminuzione contenuta del fatturato, pari al −0,4%, e in una più marcata dei dipendenti, pari al −18,5% (Mediobanca-Unioncamere 2012, p. XII). In calo rispetto al 2000 anche il contributo al valore aggiunto dell’industria manifatturiera, con una quota del 13% (Mediobanca-Unioncamere 2012, p. XVI).
Al netto degli effetti della crisi internazionale, non si può quindi non constatare che allo stato attuale le medie imprese non sono ancora arrivate a rappresentare un’autonoma via allo sviluppo in grado di far conseguire all’Italia esiti e risultati paragonabili alle acquisizioni del passato, nonostante rappresentino certamente il segmento più dinamico del capitalismo italiano. Per il momento il contributo più importante delle medie imprese, o almeno quel segmento che è emerso dai distretti industriali e in essi ha creato precise gerarchie, è l’impulso dato alla rinnovata vivacità di alcuni sistemi distrettuali. In questo senso il processo di ristrutturazione e di riorganizzazione delle filiere produttive intrapreso negli ultimi anni dalle medie imprese distrettuali ha sicuramente contribuito al recupero di competitività ottenuto dai distretti industriali negli ultimi anni.
Come rilevato nell’Osservatorio nazionale distretti nazionali. III Rapporto (2012), nel corso del 2011 il livello delle esportazioni fatto registrare dai distretti è cresciuto notevolmente (intorno al 15% in termini tendenziali) proseguendo sulla scia positiva iniziata già l’anno precedente, tanto che quasi tutte le aree produttive hanno recuperato, in termini di export, le posizioni perse nel 2008. Particolarmente brillanti appaiono le performances recenti della lavorazione dei metalli di Brescia, del polo fiorentino della pelle, della metalmeccanica di Lecco, delle macchine per imballaggio di Bologna, della meccanica strumentale di Vicenza, della rubinetteria e valvolame di Lumezzane. Anche i distretti del Sistema moda, tra i più colpiti negli anni passati, come il tessile-abbigliamento di Biella, Empoli e Como, oppure il calzaturiero di Fermo e la Riviera del Brenta, cominciano a mostrare segni di una rinnovata capacità di penetrazione dei mercati esteri.
Non si tratta tuttavia di un ritorno in auge del vecchio modello distrettuale illustrato da Becattini. Infatti, «sul fronte interno [il distretto] manifesta se non segni di cedimento, una forza centrifuga che va interpretata come il segnale di un cambiamento dell’organizzazione produttiva e sociale», e ancora, «dal punto di vista dell’organizzazione della produzione e delle reti di relazione sul territorio molti modelli e architetture, descritti ampiamente dalla letteratura, sembrano venire meno» (Osservatorio nazionale distretti nazionali. III Rapporto, 2012, p. 112). A venire meno è soprattutto «l’idea di un confronto permanente tra le imprese di distretto e della conseguente generazione di forme implicite, prolungate nel tempo, di conoscenza e innovazione condivisa da un largo numero di imprenditori, tali da generare quella particolare ‘atmosfera industriale’ descritta dalla letteratura» (p. 114). Il processo di modernizzazione dei distretti industriali passa ora da «un controllo sempre più intenso da parte delle imprese leader di funzioni tipicamente terze rispetto al core business, ovvero alla produzione vera e propria, come nel caso del controllo delle attività distributive e dei controlli di qualità sulle produzioni dei sub-fornitori, anche quelli collocati all’estero, nei mercati più lontani» (p. 122).
Una metamorfosi in atto
Ci troviamo quindi di fronte alla necessità di ridisegnare la carta della geografia e delle funzioni dell’Italia industriale ricorrendo a tassonomie che non possono più essere quelle del passato. C’è infatti l’esigenza di aggiornare la nostra rappresentazione secondo schemi di classificazione originali. Non possiamo più ricorrere all’immagine dell’Italia dei distretti; ma nemmeno evocare il profilo delle medie imprese dinamiche ed esportatrici basta più per cogliere i caratteri specifici del nostro sistema manifatturiero. L’impressione è che la durissima crisi in corso stia fortemente riducendo, fra l’altro, le distanze fra i vari tipi di organizzazione.
Pensiamo alle nuove fabbriche che possono essere definite grandi: Pomigliano d’Arco è oggi, con i suoi 2000 addetti attuali, l’avamposto di Fiat-Chrysler in Italia, come lo è per la Pirelli lo stabilimento di Settimo Torinese, che concentra un numero anche più ridotto di lavoratori (circa 1250). Di fatto, nel prossimo futuro, il divario, anche dal punto di vista delle unità produttive, fra gli assetti di imprese di diversa dimensione sarà molto più contenuto. Si sta andando verso modelli organizzativi in cui la scala dimensionale non segna più confini insuperabili. La direzione di marcia è verso strutture snelle e integrate, che però esigono volumi d’investimento elevati, perché i livelli tecnologici devono essere incrementati fortemente, a prescindere dalle dimensioni degli impianti. Un ulteriore elemento di trasversalità è costituito dall’innalzamento della qualità del capitale umano, cui le nuove fabbriche richiedono maggiori doti di discrezionalità, oltre alla capacità di supervisione e intervento rispetto a flussi produttivi complessi e caratterizzati dall’automazione.
A una prima osservazione d’insieme, pare che si stia delineando un modello industriale italiano articolato intorno a un insieme di gangli di «manifattura intelligente», entro imprese in cui la produzione si coniuga con la ricerca di alta qualità nei livelli di servizio e assistenza. Un reticolo che travalica le precedenti linee di demarcazione dimensionali e territoriali, il cui disegno risulta però decisamente ancora embrionale, appena accennato.
Nell’immediato, tuttavia, prevale lo scenario di incertezza determinato dalla recessione globale, avviatasi dal 2008. Appare assai probabile che il profilo dell’Italia industriale finirà con l’uscirne radicalmente trasformato.
Da un lato, infatti, la grave contrazione del mercato interno ha accentuato il dualismo del sistema delle imprese, che pure s’era già manifestato in precedenza, separando e quasi contrapponendo le aziende che hanno come referente principale il mercato interno e quelle che operano invece sullo scacchiere dell’economia internazionale. Le prime rischiano di essere decimate dalla crisi, mentre le altre, pur messe anch’esse sotto sferza, riescono non soltanto a consolidare nel complesso le loro posizioni, ma persino in certi casi a migliorarle, situazione che denota un dislivello significativo di performances e di capabilities.
Dall’altro lato, la crisi minaccia alcuni settori storici dell’industrializzazione italiana come l’acciaio, dove la crisi dell’Ilva e la messa in mora del suo maggiore stabilimento, quello di Taranto, rilevato dall’Italsider, a opera dei provvedimenti della magistratura che ne hanno colpito la pericolosità ambientale, possono portare a un abbandono definitivo della produzione di base nel nostro Paese. S’intravede in prospettiva la possibilità della disarticolazione di alcune filiere industriali, che hanno formato il nerbo e l’ossatura del sistema industriale italiano. La drammatica restrizione del mercato europeo sta così imponendo una drastica operazione di riposizionamento dell’industria automobilistica, in cui Fiat-Chrysler si sta orientando a potenziare le produzioni destinate all’alto di gamma, riducendo fortemente quelle dove i margini di profitto risultano inferiori.
Più in generale, il mondo dell’impresa industriale sembra intenzionato a rivolgersi sempre di più ai mercati di nicchia mondiali, fatto che costituisce probabilmente un passaggio ineludibile, anche se comporta una durissima selezione degli attori. Allo stato attuale, è impossibile prevedere il peso e il rilievo che l’industria italiana riuscirà a mantenere in futuro, dopo l’attuale crisi. Innegabile è la tendenza al ridimensionamento degli impianti e alla contrazione del numero delle imprese, anche se il processo di ritorno del manufacturing nelle aree di antica e consolidata industrializzazione, dovuto alla nuova fase di sviluppo tecnologico simbolizzata dallo stampaggio tridimensionale, potrebbe toccare anche l’Italia. D’altronde, il suo tessuto imprenditoriale potrà essere favorito in questo senso dalle caratteristiche di flessibilità e di adattabilità all’evoluzione dei mercati, insieme a quelle caratteristiche di duttilità operativa che hanno costituito in passato un suo punto di forza. Fondamentale è, altresì, che si crei un circolo virtuoso di alimentazione reciproca tra i gangli della produzione manifatturiera e la componente più avanzata del terziario (logistica, magazzinaggio, servizi ICT, servizi di ricerca, noleggio macchine, attività di consulenza), che dovrebbe ormai essere assunto come chiave di lettura dei processi di trasformazione, nonché incentivato da precise azioni di sostegno, tali da sollecitare i diversi attori del sistema economico e industriale ad agire insieme secondo schemi di cooperazione. Si tratta di una partita decisiva per definire una visione condivisa dello sviluppo che sia in grado di contribuire al superamento della crisi.
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