Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Un indicatore della portata del rinnovato interesse del mondo cristiano per le matematiche greche è costituito dal fatto che la spinta a compiere traduzioni dall’arabo di testi filosofici e scientifici non si esaurisce nel XII secolo, ma prosegue per tutto il secolo successivo. Fu anzi in quest’epoca che, per cercare di superare difficoltà e incertezze emerse dai testi arabi, la traduzione di molte opere viene affrontata più volte e, sempre più spesso, ricercando le fonti greche originali a cui gli islamici avevano attinto. Acquisita maggior confidenza con i contenuti dei testi matematici, gli europei possono infine affrontare in modo più maturo alcuni di quei lavori che avrebbero condizionato la cultura occidentale fino al XVII secolo.
Su suggerimento di Tommaso d’Aquino, verso la metà del XIII secolo Guglielmo di Moerbeke si cimenta nella traduzione quasi completa delle opere di Aristotele dall’arabo e dal greco, e nella traduzione dal greco del De coelo et mundo di Simplicio (VI sec.), il più noto commentatore medievale di Aristotele. Il pensiero aristotelico ha così modo di affiancarsi al pensiero platonico, coltivato specialmente a Chartres fino dalla metà del XII secolo, per costituire la cornice in cui inquadrare i vari aspetti delle scienze naturali.
Il Timeo di Platone era già servito a veicolare l’idea di un mondo costituito da quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) e regolato da due moti naturali, il moto verticale rettilineo nelle regioni del cosmo sottostanti la sfera della Luna e il moto circolare uniforme intorno alla Terra per le regioni del cosmo oltre la sfera della Luna. Lo studio di Aristotele consolida questa idea fornendole una fisica, vale a dire uno sfondo teorico di tipo deduttivo avente un riscontro nei fatti empirici. In questo modo la visione mitica del cosmo di Platone, che si adattava a quella cristiana a patto di trasporre il demiurgo del Timeo nel Dio creatore della Genesi e le intelligenze motrici degli astri negli angeli, comincia a slittare nella cosmologia fisica di Aristotele, dove prevale la concezione di una macchina del mondo che, mossa da un Dio ad essa esterno, è regolata da precise leggi fisiche. Queste ultime sono ben distinte e diverse nel passare dalla regione sublunare, continuamente mutevole per il continuo ricombinarsi dei quattro elementi platonici, a quella sopralunare, sempre uguale a se stessa per la natura incorruttibile dello speciale elemento che la compone, l’etere cristallino o quintessenza.
Tuttavia, se nei principi generali le scienze matematiche europee si appoggiano alle concezioni di Platone e di Aristotele, l’impianto formale, le tecniche di ricerca, i metodi di calcolo e i risvolti pratici delle singole discipline sono fortemente condizionati dalle conoscenze ricavate dalle opere degli studiosi islamici. Alle traduzioni dall’arabo e al più brillante matematico europeo dell’epoca, Leonardo Fibonacci, o Leonardo Pisano, si deve per esempio il mutamento sostanziale negli aspetti basilari della numerazione e dei metodi di calcolo. Fibonacci aveva seguito il padre, un mercante pisano, in Africa settentrionale, e qui aveva avuto modo di apprendere la matematica da un maestro islamico, nonché di viaggiare in Egitto e in Siria. Lo studio e i viaggi gli permettono di apprendere le pratiche contabili degli ambienti commerciali e, in particolare, l’impiego dei numeri cosiddetti arabi e i metodi di calcolo a essi collegati, dovuti in gran parte a Muhammad ibn Musa al-Khuwarizmi. Questa esperienza permette a Fibonacci di completare nel 1202 il Liber abaci, uno fra i primi trattati in latino contenenti la descrizione completa della struttura e dell’uso dei numeri “arabi”, spesso prendendo a pretesto per le analisi teoriche problemi contabili di tipo monetario. È l’uso dei numeri “arabi” in luogo di quelli romani a permettere di risolvere alcuni problemi algebrici di tipo ricorsivo – per esempio quante coppie di conigli sono prodotte dopo un intervallo di tempo dato a partire da un’unica coppia – aventi come risultato particolari serie numeriche ancora oggi legate al nome di Fibonacci.
Un’altra delle scienze matematiche in cui l’influenza islamica ha effetti determinanti è l’astronomia, nei due aspetti legati alla determinazione del tempo e all’elaborazione degli oroscopi. In entrambi i casi i modelli geometrici descritti nell’Almagesto di Claudio Tolomeo (II sec.) per prevedere le posizioni dei pianeti lungo lo zodiaco dovevano essere trasformati in tavole di calcolo e in strumenti il cui uso non richiedesse raffinate conoscenze matematiche.
Tale trasformazione era stata in parte tentata dallo stesso Tolomeo con la redazione delle Tavole pratiche, ma sono gli astronomi islamici che, a partire dal IX secolo, spinti da esigenze di culto, trasformano le tavole astronomiche in un vero e proprio genere della letteratura scientifica. Una delle versioni più recenti di queste tavole viene realizzata nell’XI secolo da al-Zarqali, un matematico originario di Cordova e attivo a Toledo, noto anche con il nome latinizzato di Arzachele. Tradotte in latino da Gerardo da Cremona, le Tabulae Arzachelis o Tavole toledane hanno un numero notevole di riedizioni e diffondono il genere nel mondo latino. Con delle buone tavole sotto mano qualunque individuo dotato di conoscenze matematiche elementari poteva calcolare la posizione dei pianeti mediante somme e moltiplicazioni, anziché risolvendo complessi problemi di geometria piana e sferica.
Le tavole erano tuttavia di limitata utilità se non si disponeva anche di strumenti materiali per la misura del tempo o per la risoluzione di altri problemi astronomici. L’astrolabio piano, nato intorno al VII secolo, assurge presto a strumento simbolo del calcolo astronomico e del primato detenuto dagli islamici nelle scienze matematiche. Lo strumento, una sorta di calcolatore analogico, è composto da varie parti mobili le une rispetto alle altre. Reca anteriormente un elemento mobile, detto “rete”, che riproduce in una particolare proiezione, concepita da Ipparco di Nicea, alcune stelle fisse e il percorso annuo del Sole lungo lo zodiaco. La rete può ruotare sopra una parte fissa, chiamata “timpano”, che riporta invece una griglia di coordinate celesti riferite all’orizzonte dello specifico luogo d’osservazione. Sul retro dell’astrolabio c’è poi una serie di promemoria in forma di scale graduate di vario genere. Fra esse sono di solito incluse una scala per misurare le altezze degli astri sopra l’orizzonte tramite un braccio girevole munito di mire, una scala zodiacale divisa in dodici sezioni di 30° ognuna per le costellazioni dall’Ariete ai Pesci, e una scala calendariale divisa in dodici mesi per trovare il punto dello zodiaco dove si trova il Sole in ciascun giorno dell’anno. Come spiegavano vari trattati islamici, con un buon astrolabio si potevano compiere una cinquantina di operazioni diverse: ricavare l’ora dall’altezza del Sole o di una stella sull’orizzonte, determinare l’istante del sorgere o del tramontare del Sole o di un altro astro in qualunque giorno dell’anno, stabilire la lunghezza del crepuscolo, individuare l’ascendente astrologico in base all’ora e alla data di nascita di un individuo, convertire le ore dall’uno all’altro dei vari sistemi usati per misurare il tempo e, all’occorrenza, stimare l’altezza di montagne, la profondità di pozzi, la distanza di città.
Per buona parte del XIII secolo pochissimi astronomi europei sanno come usare un astrolabio piano o una delle sue numerose varianti escogitate dai matematici islamici. A maggior ragione quasi nessuno ha le conoscenze materiali per costruire strumenti del genere. A quest’ultimo proposito, l’inglese Ruggero Bacone si trova costretto a ammettere che per compiere indagini astronomiche, oltre a buoni strumenti, occorrono anche molti soldi per procurarseli. Di solito, acquistare strumenti significava rivolgersi direttamente ai produttori islamici attraverso i due mercati privilegiati della Spagna e della Sicilia, come sembra dimostrare l’uso frequente di riadattare gli oggetti più complessi, e specialmente gli astrolabi piani, raschiandone via le originali incisioni in arabo per sostituirle con nuove incisioni in latino.
Anche il primo tentativo di produrre tavole astronomiche e strumenti propriamente europei appare in realtà fortemente debitore dell’islam. Alfonso X di Castiglia, detto el Sabio, si rivela un mecenate attento ai vari aspetti della cultura scientifica e in particolare all’astronomia. Egli raduna alla propria corte un gruppo di matematici islamici, ebrei e cristiani allo scopo di aggiornare in modo decisivo i risultati dell’astronomia tolemaica, ottenendo tuttavia un successo alterno. Da un lato il gruppo di matematici prepara, grazie alla padronanza delle conoscenze islamiche concernenti la soluzione per via trigonometrica dei triangoli piani e sferici, una nuova serie di tavole astronomiche che passano alla storia come le Tavole alfonsine. Data la precisione che permettevano di ottenere nella previsione delle posizioni celesti, queste tavole acquistano una fama superiore a quella delle Tavole toledane e godono di numerose riedizioni sia manoscritte che a stampa fino a tutto il XVI secolo. Da un altro lato, i matematici di Alfonso X compongono una serie di scritti in lingua castigliana specificamente dedicati a particolari problemi o strumenti astronomici, che vengono riuniti in un’opera ponderosa intitolata Libros del saber de astronomia. L’opera ha una stretta dipendenza dall’astronomia tolemaica nel caso dei modelli planetari e dei grandi strumenti da utilizzare nelle osservazioni astronomiche, e da quella islamica nel caso della realizzazione degli strumenti di calcolo e di misura del tempo: astrolabi piani di vario genere, orologi a acqua, a mercurio o a polvere, ecc. Anche se alcune parti dei Libros del saber vengono tradotte in latino, l’insieme ha scarsissima circolazione.
Di fatto, fino alla metà del XV secolo la preferenza degli europei va a lavori di cosmologia elementare, quali le Teoriche planetarum della scuola di Gerardo da Cremona o il De sphaera dell’inglese John of Holywood, noto anche come Sacrobosco. Questa seconda opera in particolare, fortemente influenzata dalla traduzione degli Elementa astronomiae di Ahmad al-Farghani, è utilizzata come libro di testo nelle università, a cominciare da quella di Parigi, fino a buona parte del XVII secolo. È di fatto sul De sphaera, su suoi commenti o su opere consimili, come le Theoricae planetarum di Giovanni Campano da Novara, e non direttamente sull’Almagesto, che generazioni di matematici europei apprendono i rudimenti teorici dell’astronomia tolemaica. Soltanto le traduzioni o i riadattamenti di alcuni singoli scritti dei Libros del saber riguardanti questo o quello strumento hanno una circolazione separata, a dimostrazione dell’interesse che, accanto alle cognizioni cosmologiche generali, gli europei cominciano a nutrire per gli aspetti materiali della maggiore esattezza possibile nella misura del tempo e per le predizioni astrologiche.
Una significativa esemplificazione del diverso grado di interesse nutrito per l’astronomia planetaria e per l’astronomia pratica emerge dalle opere di due degli intellettuali più noti del XIV secolo, entrambi fortemente suggestionati dalle conoscenze scientifiche islamiche. Per delineare l’impianto cosmologico della Divina commedia, e in particolare quello del Paradiso, Dante Alighieri segue in parte gli insegnamenti di Aristotele, delineando intorno alla Terra sferica una regione celeste costituita da un sistema di sette sfere cristalline concentriche, una per ciascun pianeta conosciuto, alle quali vanno aggiunte l’ottava sfera delle stelle fisse, la nona sfera del primo mobile introdotta da Thabit ibn-Qurra e il coronamento cristiano costituito dalla decima sfera immobile dell’Empireo. Seguendo invece gli insegnamenti di Tolomeo, recepito da Dante attraverso la traduzione latina degli Elementa astronomiae di al-Farghani, il movimento dei singoli pianeti all’interno delle sette sfere più interne appare regolato da sistemi di epicicli, descritti però in modo molto sommario. Diversamente da Dante, per accedere alla soluzione di problemi astronomici particolari, Geoffrey Chaucer si dedica allo studio e alla costruzione dell’astrolabio piano. Influenzato dalla traduzione latina del trattato attribuito a Mashallah, Chaucer scrive un proprio lavoro elementare sullo strumento, il Treatise on the astrolabe, destinato, a quanto sembra di capire dall’introduzione, al proprio figlio Lewis.
Molto più omogenea è invece l’assimilazione dei principi dell’ottica geometrica da parte di vari studiosi europei. Le due più importanti opere islamiche sull’argomento, scritte da al-Kindi e da Ibn al-Haytham, erano divenute disponibili in lingua latina entro la fine del XII secolo. Entrambe sono alla base dell’approccio sia geometrico che sperimentale alla materia che va delineandosi nel secolo successivo.
Roberto Grossatesta adotta infatti metodi sperimentali per indagare nuovamente alcuni punti toccati dall’Opticae Thesaurus di Ibn al-Haytham, come per esempio la natura dell’arcobaleno, che studia a partire dal comportamento dei raggi luminosi attraverso lenti sferiche. Queste ultime cominciano a circolare in Europa proprio nel XIII secolo e Grossatesta cerca di spiegarne il funzionamento elaborando la propria teoria della doppia rifrazione. La capacità di ingrandimento di una lente era dovuta al prodursi di una prima rifrazione dei raggi di luce quando essi passavano dal mezzo rarefatto dell’aria al mezzo più denso del vetro, e di una seconda rifrazione inversa quando essi uscivano dal vetro per tornare all’aria. Grossatesta si dedica del resto a cercare di individuare la legge geometrica che regola il fenomeno della rifrazione e al tentativo di promuovere l’uso delle lenti per aiutare la vista nella lettura.
La circolazione dei primi occhiali mette a disposizione di chi voleva compiere indagini di ottica lenti convesse di varia dimensione e ingrandimento, sebbene tutte di scarsissima qualità. Proseguendo l’opera di Grossatesta, Bacone si dedica a tali lenti e alle possibilità offerte dalla loro combinazione per migliorare la vista. Egli delinea in questo modo l’ampia gamma di prospettive, talora del tutto fantastiche, che si aprivano davanti a chi coltivava l’ottica, quali la possibilità di combinare lenti e specchi in modo da bruciare oggetti grazie alla concentrazione dei raggi solari o la possibilità di creare visioni apocalittiche in grado di terrorizzare gli eserciti nemici. Su più solide basi sperimentali e di osservazione – avvalendosi per esempio di un astrolabio piano per compiere accurate misurazioni di angoli – Bacone prosegue il lavoro di Grossatesta sull’arcobaleno sia confermando i risultati ottenuti nell’antichità da Aristotele, sia sviluppando alcune ipotesi originali.
La circolazione accanto ai testi islamici delle traduzioni dall’arabo dell’Ottica di Euclide, delle Coniche di Apollonio di Perga e dell’Ottica di Tolomeo dà modo ai dotti europei di creare un canone organico di testi su cui si fonda la cosiddetta tradizione perspettiva dell’ottica. Sebbene non aggiungano nulla di veramente nuovo all’ottica islamica, le opere successive di Witelo, di John Peckham e di Teodorico d Freiberg danno sempre maggior consistenza e impulso a questo canone. Ad esso si rivolgono per vari secoli quanti erano interessati alla possibilità di costruire lenti e specchi ustori o di individuare i punti in cui si formavano le immagini da essi prodotte. In generale, l’ottica perspettiva rafforza anche nell’Occidente latino l’idea, già maturata nel mondo islamico e presente soprattutto negli scritti di astronomia, che gli effetti dei fenomeni sensibili possano sempre essere correttamente studiati e previsti grazie all’osservazione, all’esperimento e alla definizione di relazioni matematiche e geometriche. Questione ben diversa è invece considerata l’investigazione delle cause prime all’origine dei fenomeni così interpretabili, ritenuta compito specifico della speculazione filosofica.