L’ingegneria delle difese militari
Teoria e prassi nelle fortificazioni quattrocentesche
Sin dai suoi albori, il 15° sec. registra un graduale quanto evidente aumento della complessità delle strutture difensive, accompagnato da un’opera di progressiva revisione in senso funzionale sia dei singoli apparati sia dei sistemi nel loro complesso. L’origine di tale fenomeno può essere rintracciata nel primo quarto del Duecento, quando, sostenuta da una maggiore consapevolezza progettuale – che taluni attribuiscono all’esperienza delle Crociate –, fu portata alle estreme conseguenze la naturale tendenza delle torri a ‘migrare’ verso l’esterno delle opere fortificate, così da poter difendere le cortine con tiri di fiancheggiamento.
I primi accenni di tale ‘rivoluzione’, che avrebbe fatto la propria comparsa nella penisola italiana all’epoca di Federico II (1194-1250) e sarebbe stata destinata a informare gran parte delle realizzazioni del 14° sec., soprattutto in ambito padano, si riscontrano in alcuni castelli appartenenti alla Corona di Francia (Louvre di Parigi, Dourdan per citare i più celebri) durante il regno (1180-1223) di Filippo Augusto. Da qui discende la denominazione di systéme philippien per quel complesso di accorgimenti – utilizzo di torri di cortina e di spigolo cilindriche, disposte a intervalli regolari lungo cortine organizzate secondo modelli d’impianto rigorosamente geometrici – che, sempre più spesso, iniziarono a connotare le opere militari bassomedievali. In linea generale, due erano gli effetti migliorativi che l’applicazione del modello comportava: una maggiore capacità di sopportare gli urti da parte degli apparati periferici, raggiunta sviluppandone alcune caratteristiche intrinseche quali la geometria e la sezione resistente, e un più efficace controllo del tiro di fiancheggiamento grazie alla riduzione dell’incidenza degli angoli morti determinati dal profilo delle torri nelle traiettorie di tiro (che risulta massima con l’utilizzo di strutture parallelepipede) e a una più coerente gestione del sistema nel suo insieme (J. Mesqui, Castello. Francia, in Enciclopedia dell’arte medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana, 4° vol., 1993, ad vocem).
Se si eccettuano alcuni precoci esempi (tutti riferibili alla committenza dei Malatesta, come il cosiddetto Castel Sismondo di Rimini, costruito a partire dal 1437, e i castelli di Fano e Cesena, opere rispettivamente del 1439-45 e del 1452-66, attribuite al capomastro Matteo Nuti), sono comunque i decenni finali del Quattrocento a registrare le trasformazioni più significative e durature nell’articolazione dei complessi militari. Ciò si deve, essenzialmente, al tentativo di adeguare le opere all’utilizzo sempre più estensivo delle artiglierie trasportabili, la cui potenza di fuoco, prima ancora della precisione, mise ben presto in crisi i sistemi di difesa tradizionali. Nascevano così soluzioni architettoniche, come le cosiddette rocche, organismi per consuetudine qualificati come di transizione, caratterizzate da significative novità nell’articolazione dei perimetri fortificati, sebbene in un contesto culturale che si appoggiava ancora in maniera evidente a una concezione statica, tipicamente medievale, dell’arte militare.
L’attenzione non va dunque appuntata sui più generali principi tattici che governavano i dispositivi militari tardoquattrocenteschi, i quali, molto spesso, appaiono ancora informati ai criteri già introdotti nel systéme philippien e in evidente difficoltà nell’abbandonare gli apparati a sporgere su caditoie introdotti nel corso del 14° sec. per la difesa piombante. Piuttosto, gli sforzi dei progettisti e dei costruttori risultano concentrarsi, almeno in un primo momento, nel miglioramento dei singoli componenti del sistema che vennero ripensati e riorganizzati sulla base delle necessità contingenti. Le cortine, spesso sin dal punto in cui terminava il parapetto – che continuava a essere di norma merlato –, introdussero così un basamento scarpato per limitare l’inerzia offerta dal muro agli urti dei proietti; le torri, quando mantennero una pianta circolare, videro crescere sensibilmente il loro diametro, per poter alloggiare casematte al loro interno, e ne venne ridimensionata l’altezza sino a raggiungere la quota delle cortine, trasformandosi nelle cosiddette rondelle; i fossati furono approfonditi e ampliati.
A livello generale, si può affermare che si tentò di rendere più sfuggente il profilo della fortificazione, incassandola maggiormente nel terreno, e di sfruttare anche nella difesa i vantaggi offerti dalle artiglierie, le quali, di norma, venivano collocate in camere ricavate alla base delle murature e al livello del piano di campagna. Non è dunque un caso che l’impiego di armi in grado di garantire velocità dei proietti e gittate maggiori si accompagni, rispettivamente, all’introduzione di controscarpe in muratura sul lato esterno dei fossati, in modo da favorire il tiro di rimbalzo, e alla graduale eliminazione delle torri di cortina rompitratta, sostituite da rivellini dalla complessa geometria.
È comunque utile osservare che non sempre le novità descritte si traducevano in opere compiute, costruite o ricostruite ex fundamentis, come nel caso delle rocche di Tivoli (questa, per la verità, ancora piuttosto immatura), Volterra, Imola e Pesaro, volute, rispettivamente, da papa Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini) nel 1461, da Lorenzo il Magnifico, all’indomani della conquista della città (1472), da Galeazzo Maria Sforza, che verso il 1473 portò a compimento la revisione delle strutture di una precedente fortificazione, e da Costanza Sforza, che nel 1474 ne affidò il progetto a Luciano Laurana (1420-1479). Di fronte alle difficoltà oggettive di governare l’alzo delle artiglierie d’assedio, molto spesso era infatti sufficiente circoscrivere le strutture preesistenti con una nuova cinta, strutturalmente e geometricamente aggiornata (la cosiddetta falsabraga), cui era demandato il duplice compito di allontanare il fronte difensivo e garantire una migliore protezione del nucleo centrale del castello.
Tale soluzione godette di una certa fortuna soprattutto nel caso di edifici caratterizzati da una prevalente destinazione d’uso residenziale, che risultava difficile comprimere entro spazi concepiti esclusivamente in funzione militare, e ha lasciato abbondanti tracce di sé soprattutto in area padana. Tra i numerosi esempi, meritano senz’altro una menzione i castelli di Casale Monferrato e di Saluzzo, potenziati per iniziativa, il primo, del marchese Guglielmo VIII Paleologo non oltre il 1470 e, il secondo, del marchese Ludovico I di Saluzzo entro il 1475. Entrambi guardano in maniera evidente al castello milanese di Porta Giovia (cosiddetto Castello Sforzesco), fatto ricostruire da Francesco Sforza all’indomani della presa di possesso della città (25 marzo 1450) e caratterizzato, sul lato rivolto verso lo spazio urbano, dalle due celebri torri cilindriche con paramento in serizzo lavorato a punta di diamante, opere che la storiografia oscilla nell’attribuire ad Antonio Averlino, detto Filarete (1400 ca.-dopo il 1465) o a Bartolomeo Gadio (1414-1484), ingegnere subentrato nella direzione dei lavori nel 1454.
A partire dalla fine degli anni Settanta – e con maggiore intensità negli anni Ottanta-Novanta – del 15° sec., di pari passo con i progressi tecnici e scientifici della balistica, si assiste a un incremento qualitativo e quantitativo degli studi teorici sui principi della difesa. Un ruolo di assoluta preminenza culturale in tale campo è da assegnare al senese Francesco di Giorgio di Martino, meglio noto come Francesco di Giorgio (1439-1501), non fosse altro perché unico tra gli architetti-ingegneri all’epoca impegnati nella revisione dei sistemi militari ad aver lasciato un significativo contributo teorico. Scorrendo le pagine del suo Trattato di architettura civile e militare (che si conosce in più copie manoscritte con varianti, derivate però tutte da un originale composto nel 1478-81), si ha infatti la netta impressione di trovarsi di fronte a una vera e propria rifondazione delle stesse basi epistemologiche dell’arte di costruire fortezze. Oggetto del suo interesse, sebbene non manchino numerose pagine dedicate a studi di dettaglio, non sono infatti più soltanto gli aggiornamenti strutturali e formali dei singoli elementi componenti le fortificazioni, ma la stessa ratio alla base della loro progettazione. La ricerca teorica si focalizza così in una revisione dell’assetto geometrico dei sistemi difensivi nella loro globalità e nel rapporto, non scevro da valori simbolici, con il sito in cui sorgevano, prediligendo impianti poligonali sempre più articolati ed estesi. A partire dai nuovi assunti, ci si impegna in una riorganizzazione degli elementi salienti e delle opere esterne, introducendo un’ampia gamma di profili sfuggenti e assai complessi, perlopiù generati dall’intersezione di forme triangolari e circolari, per meglio coordinare le torri di cortina e i rivellini tra loro e con le cortine retrostanti, onde ottimizzare il tiro di fiancheggiamento delle artiglierie di posizione. La filosofia di fondo, che segna il definitivo superamento della difesa statica di matrice medievale è, di fatto, riassunta da Francesco di Giorgio in un breve passo del Trattato: «Li torrioni sono ver la offesa» (Trattati di architettura, ingegneria e arte militare, a cura di C. Maltese, 2° vol., 1967, p. 482).
La convinzione che fosse necessario riflettere in maniera più organica e coerente sulle qualità complessive di una fortificazione nacque in Francesco di Giorgio, con ogni probabilità durante gli anni (1475-1485 ca.) in cui prestò servizio per il duca d’Urbino Federico da Montefeltro, tanto da riflettersi nelle scelte operate sin dai suoi primi interventi. Tra questi si ricordano Cagli (1478-82) e Mondavio (1483-90), assegnabili con certezza al senese, San Leo (1476-78), Sassocorvaro (1476-90) e Fossombrone (1480 ca.), a lui attribuibili sulla base delle analogie riscontrabili con alcune delle fortezze raffigurate nel Trattato. Anche le strutture realizzate, con l’ausilio di Antonio Marchesi da Settignano (1451-1522), nell’Italia meridionale per Ferrante I e Alfonso d’Aragona a partire dal 1491 introdussero significative novità nel panorama militare del Regno in anni prossimi alla sfortunata campagna di Carlo VIII di Francia, a cominciare dal Castel Nuovo di Napoli (dal 1499) e proseguendo con gli interventi, in realtà di dubbia attribuzione, realizzati a Taranto (1492 ca.), Monte S. Angelo (1491-97), Otranto e Gallipoli per la difesa costiera contro i turchi.
In un mondo in cui lo scambio di informazioni doveva essere piuttosto rapido ed efficiente e in cui non era raro che le carriere professionali si incontrassero, non stupisce pertanto osservare che quanto rappresentato e realizzato da Francesco di Giorgio fosse, in realtà, un patrimonio comune e condiviso da un’intera generazione di ingegneri. Tra i tanti, merita senz’altro un cenno Francesco di Giovanni, detto Francione (1428-1495), anch’egli al servizio del duca di Urbino pochi anni prima rispetto all’architetto senese ed esponente di primissimo piano della cosiddetta scuola fiorentina insieme a Giuliano Giamberti, detto Giuliano da Sangallo (1445-1516) e Antonio Giamberti, detto Antonio da Sangallo il Vecchio (1453-1534), Baccio (1450 ca.-dopo il 1494) e Piero Pontelli e molti altri ancora. A lui si devono le celebri fortezze di Sarzana e Sarzanello (precisata poi, quest’ultima, con l’aggiunta del rivellino nell’aprile del 1500), edificate a partire dal 1487 con l’aiuto di Luca del Caprina per conto di Lorenzo il Magnifico a protezione dei confini nord-occidentali dei domini fiorentini. Sono invece progetti di Baccio Pontelli – che ebbe modo di collaborare con Francesco di Giorgio – la rocca di Senigallia, avviata nel 1480 su incarico di Giovanni della Rovere, genero di Federico da Montefeltro, e, con ogni probabilità, quella di Ostia, realizzata tra il 1483 e il 1486 su incarico di papa Sisto IV (al secolo Giuliano della Rovere) che l’aveva chiamato a Roma forse su suggerimento del nipote Giovanni.
La nascita e lo sviluppo del bastione agli inizi del 16° secolo
L’idea, cara alla storiografia di matrice ottocentesca, secondo cui Francesco di Giorgio sia da indicare quale ‘inventore’ del bastione appare oggi, in buona sostanza, da rifiutare. Egli, piuttosto, introdusse nel dibattito disciplinare un principio di maggior dinamismo formale, assumendo in pratica che l’assetto geometrico delle torri e delle opere avanzate non dovesse rispondere a criteri astratti, ma adeguarsi alla forma complessiva che la natura dei siti imponeva al sistema nel suo complesso. Un ruolo senz’altro più attivo ebbero, a partire dagli anni Novanta del 15° sec., alcuni allievi di Francione, in primis Giuliano e Antonio da Sangallo il Vecchio. Anche in questo caso, però, sarebbe sostanzialmente scorretto ritenere le soluzioni da loro introdotte come bastioni in senso stretto.
I due fratelli risultano attivi, insieme agli altri esponenti della scuola fiorentina, sin dagli anni Sessanta del 15° secolo. Il loro contributo alla difesa dei domini della Signoria medicea da un lato e papale – o più correttamente, della famiglia Borgia, all’epoca in cui Rodrigo ascese al soglio pontificio con il nome di Alessandro VI –, dall’altro, fu dunque considerevole per durata e numero di opere progettate e realizzate. Fondamentali per tracciare il percorso che, in capo a una ventina d’anni, avrebbe condotto alla trasformazione della torre in bastione risultano essere, tuttavia, principalmente quattro complessi: la fortezza di Poggio Imperiale a Poggibonsi, quella di Civita Castellana, quella di Nettuno e quella di Pisa.
La prima, realizzata nel 1496-1513 su un progetto di Giuliano del 1488, risente ancora in maniera evidente dei modi di Francesco di Giorgio e adotta, a protezione delle cortine, una serie di baluardi a puntone, armati con casematte affacciate sui fianchi e ricavate nelle basi scarpate. La fortezza di Civita Castellana (1494-1501) risulta ancora informata dalla medesima cultura progettuale, ma mostra nel contempo i primi, timidi, sviluppi del tipo, ricorrendo a torri differenziate nella forma (a pianta circolare, con profilo a goccia, a puntone con e senza spigoli smussati) in modo da migliorarne il coordinamento con le cortine e rendere più efficace il tiro di fiancheggiamento. Le novità più interessanti si incontrano però a Nettuno (1501-1503), dove, per la prima volta, viene sperimentata una nuova soluzione per i baluardi angolari che sarebbe stata riproposta senza sostanziali variazioni – elisione degli ormai inutili apparati a sporgere a parte – nelle fortezze di Sansepolcro (1502) e di Arezzo (1503, 1506-1508). Proprio tale soluzione formale, ulteriormente precisata, fu in seguito alla base delle grandiose realizzazioni di Pisa (1509-11) e, qualche anno dopo, di Livorno (1519-26).
L’obiettivo implicito – e, forse, da principio inconsapevole – che emerge da un’analisi diacronica delle opere citate parrebbe essere, prima ancora che precisarne posizione e orientamento, quello di nascondere, per proteggerle dai tiri delle artiglierie d’assedio, le troniere, aperte nei fianchi dei baluardi per battere con tiro radente le cortine. Nell’arco di una dozzina di anni, Giuliano e Antonio il Vecchio, i cui ruoli specifici nei singoli cantieri restano sfuggenti, giunsero così a sperimentare l’adozione di quello che in seguito si sarebbe chiamato orecchione, da loro gestito alla stregua di una torre cilindrica inserita in corrispondenza del vertice formato dall’incrocio delle cortine della faccia e del fianco del puntone. Ciò permetteva senz’altro un efficace occultamento delle postazioni di artiglieria (i cui pezzi assunsero, non a caso proprio in quegli anni, la denominazione di traditori), sebbene nelle prime applicazioni determinasse non pochi problemi di congruenza formale e funzionale, soprattutto alla base delle opere dove le scarpature murarie dell’orecchione e della cortina, su cui il baluardo si innestava, tendevano a sovrapporsi, fondendosi. Tale nodo geometrico, ancora difficoltoso nelle fortezze di Nettuno e Sansepolcro, sarebbe stato risolto nei cantieri pisani e livornesi semplicemente aumentando la profondità del fianco.
Se il contributo dei Sangallo nel porre le basi per la nascita del bastione propriamente detto fu senza dubbio rilevante, occorre osservare che alla graduale precisazione di tale dispositivo concorsero, nei primi due decenni del 16° sec., esperienze condotte in contesti territoriali e culturali tra loro assai differenziati. Un laboratorio ‘naturale’ di sperimentazione può essere, per es., individuato nell’Italia settentrionale occupata dagli eserciti francesi di Luigi XII, dove le scelte degli ingegneri paiono precocemente orientarsi verso soluzioni che, se da un lato si dimostrano del tutto indifferenti alle novità toscane e laziali, dall’altro mirano a perfezionare il rapporto dimensionale reciproco tra il tratto murario verticale e la base a scarpa dei baluardi, a tutto vantaggio di quest’ultima.
Sebbene saldamente ancorate alla cultura del puntone pentagonale, alcune realizzazioni del 1507-1508, che la storiografia è orientata ad assegnare a Leonardo da Vinci (1452-1519), introdussero evidenti novità, soprattutto nella gestione degli elevati delle facce e dell’angolo da loro formato con la capitale. Unico esempio di questo genere a essersi conservato con un buon grado di leggibilità (ma numerosi manufatti simili sono documentati per via grafica, anche in territori all’epoca non assoggettati ai francesi, come il marchesato di Monferrato) pare essere, al momento, il baluardo costruito nel 1508 a potenziamento del castello di Lugano.
Con il senno di poi si può, tuttavia, affermare che il contributo decisivo alla formulazione di un modello che avrebbe condizionato in modo permanente l’ingegneria militare (se si escludono i miglioramenti di dettaglio e i periodici adeguamenti imposti dal potenziamento delle artiglierie) giunse da due branche della scienza che godettero di ampia fortuna nel Rinascimento: la geometria e la meccanica empirica.
Luca Pacioli (1446/1448-1517), nel suo De divina proportione (pubblicato nel 1509, ma apparso per la prima volta in forma manoscritta nel 1498), descrivendo le proprietà dei numeri, affermava che «mesura e lor proportioni se retrovaranno fabricati e formati» nelle «rocche, torri, revelini, muri, antemuri, fossi, ponti, turrioni, merli, mantelli e altre fortezze». Di per sé, l’affermazione non può certo ritenersi rivoluzionaria. Tuttavia, se si tiene conto che nel trattato vengono accomunate al medesimo «fondamento» matematico anche «tutte artiglarie, instromenti e machine militari» nonché le città nella loro interezza, il salto logico appare in tutta la sua evidenza: nessun progettista si sarebbe più potuto sottrarre dal verificare complessivamente e su più ampia scala gli assunti teorici del proprio lavoro.
Meno scontata appare, invece, la genesi di un’idea che iniziò a prendere rapidamente piede nei primi anni Venti del Cinquecento e che imponeva di trattare i baluardi, in ragione della loro stessa funzione, come manufatti elastici, capaci di assorbire i colpi inferti dai proietti più che opporre loro una resistenza puramente statica. In altri termini, gli ingegneri militari iniziavano a interrogarsi se non fosse più opportuno, per rompere il circolo vizioso che imponeva di adottare murature sempre più spesse di fronte alle crescenti capacità offensive delle artiglierie, ricorrere ad altri materiali. Prendeva così avvio la grande stagione delle fortezze in terra.
La storiografia, da sempre, ha indicato quale prototipo di questa nuova generazione di fortificazioni caratterizzate da dimensioni colossali, rigido controllo geometrico e assoluta efficienza balistica, utilizzo di bastioni maturi dal punto di vista della forma e della congruenza con gli angoli di incidenza delle cortine e, come detto, dall’ampio ricorso all’uso di terrapieni in terra, la Fortezza da Basso di Firenze, costruita da Pier Francesco Florenzuoli (Pierfrancesco da Viterbo, 1470 ca.-1537) con Alessandro Vitelli (1500-1554) e Antonio Cordini, detto Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546) tra il 1533 e il 1537 per ordine di Alessandro de’ Medici, nipote di Giulio, asceso al soglio pontificio nel 1523 con il nome di Clemente VII. A ben vedere, la fortezza fiorentina, ancorché ben conservata, non costituisce però né il primo né, tutto sommato, il più aggiornato esempio del suo genere. Sin dal 1524 il papa aveva ordinato un diffuso ammodernamento delle mura di Piacenza, alle quali avrebbe atteso, a partire dal 1526, Antonio il Giovane con la sua équipe – che comprendeva, tra gli altri, Baldassarre Peruzzi (1481-1536) e Michele Sanmicheli (1484-1559) – e nelle quali il ricorso a bastioni terrapienati risultava ormai codificato. Primo progettista e direttore dell’opera dal 1525 fu, anche in questo caso, Florenzuoli, «ingegnere valentissimo» secondo il giudizio di Giorgio Vasari, la cui attività professionale contribuì in maniera decisiva all’affermazione dei nuovi criteri di fortificazione.
La sua carriera si svolse perlopiù accanto a Francesco Maria I della Rovere duca di Urbino (1490-1538), abile uomo d’armi ed esperto di fortificazioni, che negli anni Venti e Trenta del secolo ottenne incarichi di grande prestigio, quali il ruolo di capitano generale degli eserciti degli Stati italiani che avevano aderito alla Lega di Cognac e governatore generale delle milizie della Serenissima. Florenzuoli fu così intensamente impegnato, accanto ai migliori ingegneri del tempo – tra i quali occorre ricordare almeno Giovan Giacomo Leonardi (1498-1562) e i già citati Matteo Sanmicheli e Antonio da Sangallo il Giovane –, in un numero impressionante di cantieri, distribuiti su un territorio assai ampio che abbracciava i possedimenti marchigiani del ducato d’Urbino, lo Stato della Chiesa, i domini veneziani di terra e il Regno di Francia, dove è documentato con frequenza, a diretto servizio di Francesco I, fino al 1533. Oltre ai casi citati, egli risulta infatti attivo presso la fortificazione di Verona (1525, accanto al della Rovere nella progettazione del bastione delle Maddalene), di Padova e Parma (1526, nel secondo caso insieme ad Antonio da Sangallo), Legnago (1527, con Sigismondo de Fantis e Leonardi), Pesaro e Senigallia (1528), Firenze (1529, come consulente per le opere intraprese da Michelangelo Buonarroti), Ascoli e Ancona (1536).
Due le novità riscontrabili, per via documentaria o materiale, negli interventi dell’ingegnere viterbese: predilezione per l’uso di terrapieni, talvolta definiti sin dall’origine, talaltra solo in un secondo momento, da cortine di contenimento in muratura, e l’abbandono dell’orecchione in curva a protezione dei fianchi del bastione. Scelta questa ritenuta dai trattatisti successivi tipica dell’opera di Francesco Maria della Rovere che, se da un lato risulta essere la logica conseguenza del sistematico ricorso all’uso della terra, dall’altro parrebbe accompagnarsi alla progressiva introduzione delle cosiddette piazze ribassate. Si tratta di una soluzione che, apparentemente, segna una fase di semplificazione – per non dire una regressione funzionale – nell’articolazione geometrica dei bastioni, ma che con ogni evidenza fu determinata dall’impossibilità pratica di ricoverare in casamatta i pezzi di artiglieria a fronte sia del progressivo incremento dei loro calibri (e, dunque, delle cariche di lancio, dell’intensità del rinculo e della densità dei fumi di espulsione), sia del numero di serventi necessari.
Quel che pare essere il tratto caratteristico dei sistemi bastionati degli anni Trenta, segnati da una recrudescenza delle guerre d’Italia, è, comunque, l’elevato grado di sperimentalismo che accompagnava ogni progetto di fortificazione. I baluardi (di cui sopravvive il cosiddetto Bastion Verde) di Torino, realizzati a partire dal 1536 da Betto e Girolamo de’ Medici su ordine del governatore Claude d’Annebault, utilizzavano orecchioni in curva. Nello stesso anno, sempre per interessamento francese, Fossano vedeva sorgere la piattaforma del Salice, dotata di orecchioni con un raggio che sorpassa il profilo delle facce e che, pertanto, sembra riprendere certe soluzioni introdotte da Antonio e Giuliano il Vecchio da Sangallo. Più aderenti al modello introdotto da Florenzuoli a Piacenza appaiono invece i bastioni del castello di Bene Vagienna, fatti costruire da Gian Ludovico Costa, e quelli di Chivasso, progettati da Pietro Angelo Pelloia, ma tutti riferibili ad anni successivi al 1543. Nello «Stato da Mar» veneziano, costantemente sottoposto alla pressione turca, Michele Sanmicheli – incaricato nel 1538 di visitare tutte le principali fortezze – non mancò, all’occorrenza, di ricorrere all’uso di orecchioni dal profilo curvilineo. Nel Regno di Napoli, gli interventi condotti a Gaeta tra il 1528 e il 1535 per volere dell’imperatore Carlo V risultano aderenti alle più recenti sperimentazioni e il bastione a fianchi rettilinei viene adottato con sistematicità.
Bisogna comunque attendere la seconda metà degli anni Quaranta per vedere infine affermarsi un nuovo modello di baluardo la cui fortuna sarebbe stata vastissima, trovando sistematica applicazione in tutte le principali realizzazioni della seconda metà del secolo. Si tratta del bastione a fianchi ritirati, una soluzione perfezionata nelle fortezze in terra realizzate in occasione dell’ultima fiammata delle guerre d’Italia (1551-59) e che consentiva ai terrapieni delle facce di mascherare e meglio proteggere le piazze ribassate.
Il necessario e l’ideale: le grandi fortezze del Cinquecento
Filarete negli anni Sessanta del Quattrocento (Trattato di architettura, Milano, Biblioteca Trivulziana, ms. 863) e Pacioli nel De divina proportione, in modi e tempi tra loro assai diversi, avevano di fatto affermato la superiorità della geometria tra le scienze ‘utili’ alla fortificazione. In realtà, sino alla metà del 16° sec. non risulta che tale principio abbia avuto alcuna applicazione estensiva e rigorosa. Senza dubbio, come si è detto, la definizione dei rapporti tra la forma dei singoli bastioni e l’orientamento delle cortine avveniva sulla base di un’attenta valutazione delle variabili geometriche, alla cui definizione concorrevano sempre più spesso anche le competenze di tecnici di specifica formazione militare e di artiglieri.
Tuttavia, non pochi fattori agivano contro una loro applicazione idealizzata, «bellissima et bonissima» per usare un’espressione che ricorre con frequenza nei documenti dell’epoca per qualificare le opere caratterizzate da un’adeguata precisione (cfr., per es., le lettere di Francesco Paciotto, in N. Ragni, Francesco Paciotti architetto urbinate (1521-1591), 2001, p. 122). Tra i tanti, un rilievo non indifferente assumono l’urgenza con cui ci si trovava quasi sempre a intervenire e i condizionamenti indotti dalle preesistenze tardomedievali, le quali, seppure di norma abbandonate a favore di nuovi e più ampi circuiti difensivi, erano spesso riutilizzate come spine murarie utili a irrobustire e/o contenere terrapieni e cavalieri. Solo all’indomani del trattato di Cateau-Cambrésis (1559) e della pacificazione tra Francia e impero, la possibilità di rivedere alla radice l’assetto difensivo dei propri domini, senza l’urgenza della guerra, avrebbe permesso ai principi di intervenire integrando i sistemi territoriali con nuove fortezze (perlopiù cittadelle), la cui costruzione fu accolta dagli ingegneri come un’opportunità per sperimentare infine impianti geometrici più raffinati e rigorosi.
Nel frattempo, l’escalation militare che infiammò l’Europa nei decenni centrali del secolo divenne la palestra per un’intera generazione di professionisti, dominata – ma sarebbe più corretto dire rappresentata in toto – da tecnici italiani e luganesi, le cui capacità erano ormai riconosciute e apprezzate universalmente. Tra i tanti, meritano almeno una menzione Camillo e Girolamo (1490 ca.-1553 ca.) Marini, Pietro Angelo Pelloia (anni Novanta del 15° sec.-1555), Francesco Bernardino da Vimercate (1500 ca.-1559), Francesco Horologi (inizio del 16° sec.-1577 ca.) e Giovan Tommaso Scala (prima del 1532-dopo il 1552), arruolati negli eserciti di Francia; Gian Maria Olgiati (1494 ca.-1557), Francesco de Marchi (1504-1576), Gabrio Serbelloni (1509-1580), Francesco Paciotto (1521-1591) e Giovan Giacomo Paleari, detto Fratino (anni Venti del 16° sec.-1586), attivi invece a servizio di Carlo V. Inquadrati con ruoli di comando o come ufficiali superiori nei ranghi dei due eserciti, essi, da un lato si dimostrarono determinanti per gli esiti delle singole operazioni militari in virtù della capacità di ‘riconoscere’ i siti fortificati e, dall’altro, ebbero modo di precisare ulteriormente i propri strumenti disciplinari attraverso un’imponente e reiterata attività di fortificazione a una scala che sarebbe ben presto divenuta, in senso proprio, mondiale. Mentre gli ingegneri di Enrico II furono perlopiù impegnati nei territori francesi e subalpini, quelli ‘imperiali’ si trovarono, infatti, ben presto proiettati in uno scenario di ben più vaste proporzioni, che spaziava dalla Spagna alla Boemia, dalle coste mediterranee dell’Africa alle Americhe.
Gli anni Quaranta conobbero un’intensa attività fortificatoria, concentrata principalmente lungo quelli che sarebbero stati i fronti di guerra, ovvero le Fiandre, la Piccardia, la Lorena, il Piemonte e la Lombardia. A posteriori, si può affermare che la sollecitudine con cui i tecnici erano chiamati a rispondere alle esigenze militari determinò un’attività caotica e non sempre efficace. L’urgenza – che spesso ebbe la meglio sulla coerenza progettuale – consacrava però definitivamente la fortificazione in terra, legno e fascine, priva di cortine murarie. Datano, non a caso, agli anni Cinquanta due scritti piuttosto espliciti in materia: i due libri dedicati nel 1559 da Giacomo Lanteri (m. 1560) al Modo di fare le fortificationi di terra e il capitolo intitolato Ragioni del fortificar di terra inserito da Horologi, uno tra gli ingegneri più attivi nei territori subalpini, nelle sue Brevi ragioni del fortificare, trattatello composto tra il 1555 e il 1559 e dedicato a Enrico II di Francia. Le uniche eccezioni a questa tendenza si riscontrano nell’Italia centrale, nella Repubblica di Lucca – il secolare cantiere per la costruzione delle celebri mura della città fu infatti avviato, nel 1544, sotto la direzione di Iacopo Seghizzi, detto il Frate da Modena (1484-1565) –, nella Toscana di Cosimo I de’ Medici e nello Stato della Chiesa.
In linea di massima – e comunque mai nei principali teatri in cui si consumò l’ultima campagna della guerra d’Italia – gli effetti degli interventi condotti negli anni Quaranta-Cinquanta del secolo furono solo eccezionalmente duraturi. Vuoi perché le opere erano state in massima parte realizzate con materiali e tecniche che richiedevano un’attenta e costante manutenzione, vuoi perché il trattato di Cateau-Cambrésis aveva sì imposto ai francesi la restituzione delle piazzeforti sottratte ai nemici, ma disarmate da tutto ciò che era stato realizzato nel frattempo, il dopoguerra impose una completa revisione dei sistemi fortificati. Questa, molto spesso, prima che dar vita a un’opera di sistematico potenziamento delle fortezze, fu l’occasione per una vera e propria rifondazione delle stesse logiche che governavano la difesa dei singoli Stati, assumendo sin dagli inizi l’indirizzo di una selezione funzionale delle opere ereditate dal conflitto, risolta con la progressiva polarizzazione delle risorse su alcuni, ben individuati, cantieri.
Nel gennaio del 1560, entrato in possesso della relazione e dei disegni da lui elaborati per la costruzione di una nuova cittadella a Torino (prima del 1559), il duca di Savoia richiedeva al doge di Venezia i servizi di Horologi per valutare la fattibilità dell’opera. Della sua realizzazione fu incaricato, nel 1564, Francesco Paciotto da Urbino, poi richiamato, nel 1567, dall’imperatore per occuparsi della costruzione della cittadella di Anversa. Si tratta di due complessi sostanzialmente identici, dove le necessità simboliche (rappresentazione del potere sovrano) e militari (contro più che a favore delle città presso cui si era deciso di fondarli) si materializzavano in vasti organismi pentagonali con bastioni a fianchi ritirati posti in corrispondenza dei singoli vertici. Il fatto che pochi anni dopo, nel 1572, dietro sollecitazione di Guglielmo Gonzaga, intenzionato a fortificare i domini monferrini acquisiti nel 1536, lo stesso architetto urbinate inviasse un disegno che proponeva nuovamente una cittadella pentagonale per Alba con bastioni a fianchi ritirati, disinteressandosi del tutto del sito dove questa sarebbe stata realizzata, la dice lunga sul grado di astrazione e dogmatizzazione che la disciplina aveva ormai raggiunto.
Sostenuto dalla progressiva diffusione di trattati e atlanti, da un lato, e dall’ormai consolidata natura itinerante della professione di ingegnere, dall’altro, il modello della cittadella pentagonale regolare conobbe un’amplissima fortuna: fu utilizzato a Roma nelle fortificazioni di Castel Sant’Angelo, inizialmente in terra (opera di Camillo Orsini del 1556-57) e poi sostituite con opere murarie da Francesco Laparelli (1521-1570) a partire dal 1561; ricorre nel progetto attribuito a Vespasiano Gonzaga (1531-1591) per Pamplona (1571) e si ritrova, infine, a Ferrara e a Parma. Seppure declinate in forme diverse e caratterizzate da un’evidente tendenza al gigantismo, appartengono al medesimo ceppo culturale anche l’esagonale cittadella di Casale Monferrato (1590) e, soprattutto, l’ennagonale Palmanova. Progettata probabilmente da Buonaiuto Lorini (1540 ca.-1611) – che ebbe modo di vedere il cantiere della cittadella di Anversa –, ma realizzata a partire dal 1593 da Giulio Savorgnan (1516-1595), essa materializzava, portandola alle estreme conseguenze, un’idea che si ritrova già nell’utopica Sforzinda di Filarete e, con alcune varianti, nelle elaborazioni teoriche del senese Pietro Cataneo (I quattro primi libri d’architettura, 1554, ff. 14v e segg.): la città militare a impianto radiale.
La scelta di dotare un territorio di una piazzaforte delle dimensioni e della complessità strutturale di quelle menzionate non poteva essere priva di conseguenze. Tralasciando disagi e danni arrecati alle popolazioni dei centri individuati per ospitare tali complessi – i quali, dovendo essere di necessità separati dagli edifici circostanti, comportavano spesso complesse opere preparatorie di demolizione e livellamento del terreno –, è evidente che una cittadella, per ‘funzionare’, aveva bisogno di uomini. Tuttavia, mentre nel tardo Medioevo la difesa era perlopiù affidata ai cittadini, a partire dal 16° sec. ciò non era più possibile, e non solo per ovvie ragioni di opportunità politica e segretezza. Gestire e utilizzare correttamente un parco di artiglieria, coordinare efficacemente i tiri delle batterie, attivare, maneggiando esplosivi, i complessi dispositivi di difesa sotterranea (gallerie di mina e di contromina) cui era sempre più spesso affidata la reale capacità di tenuta di una fortezza, richiedeva inevitabilmente l’impiego di militari professionisti. E più erano grandi e articolati i sistemi fortificatori, tanto maggiore era il numero di uomini necessari per renderli pienamente operativi. Il tema si sarebbe posto drammaticamente nel corso del 17° sec., ma già nel secondo Cinquecento iniziava a farsi strada la consapevolezza che garantire la costante efficienza di una cittadella di dimensioni medio-grandi era uno sforzo in grado, da solo, di inghiottire una quantità di risorse economiche e umane tale da mettere in ginocchio uno Stato.
Non deve pertanto stupire che la sola comparsa dei progetti per le prime cittadelle fosse stata sufficiente a instillare, nelle menti più raffinate, il dubbio se «le fortezze introdotte in uso molto frequente dai principi moderni apportino comodo, e vera sicurezza agli stati», per usare le parole di un anonimo trattatista che si ritiene possa essere Horologi (G.G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da’ letterati del Friuli […], 3° vol., 1780, pp. 35-37). La consapevolezza, tuttavia, che l’alternativa sarebbe risultata altrettanto onerosa, dal momento che avrebbe imposto la costituzione di eserciti immensi per l’epoca, consigliò ai principi di proseguire sulla strada intrapresa, limitando semmai la costruzione di cittadelle ai soli casi strettamente necessari. Tutta la seconda metà del 16° sec. registrava così una successione pressoché ininterrotta di interventi più o meno complessi e più o meno efficaci. Come in una sorta di guerra fredda ante litteram, nessuno poteva esimersi, prima ancora che dal mantenere in efficienza le proprie fortezze, dal potenziarle e aggiornarle di continuo: la miglior garanzia di pace era l’esibizione della forza militare.
Due generazioni di professionisti formatisi accanto o all’ombra dei grandi maestri del secondo quarto del Cinquecento si trovarono così impegnate in un’opera ciclopica di revisione formale, funzionale, logistica e finanche topografica dei sistemi difensivi territoriali dei nascenti Stati assoluti europei.
Senza voler entrare nel dettaglio di un’elencazione che difficilmente riuscirebbe a essere esaustiva – e di ancor minore utilità –, non ci si può comunque esimere dal ricordare al riguardo, con riferimento specifico all’ambito italiano, il contributo offerto da Girolamo Martinengo (1519-1570), Francesco Malacreda (n. 1523), Lorini e molti altri, sotto la direzione di Giulio Savorgnan e Sforza Pallavicino (1520-1585), alla revisione delle fortezze dei domini «da terra» e «da mar» della Repubblica di Venezia.
Nei territori soggetti al dominio o all’influenza della Corona di Spagna – il ducato di Milano e il Regno di Napoli in primis, ma anche la Sardegna, il Finalese e i ducati di Mantova e di Monferrato – si distinsero Giorgio Paleari Fratino (anni Venti del 16° sec.-1589), autore, tra gli altri, di progetti per i castelli di Casale Monferrato (1568 ca.) e Milano (1578 ca.), Bernardino Faciotto (1535 ca.-dopo il 1597) e Gabrio Serbelloni, impegnato negli anni Sessanta del secolo in una complessiva revisione delle difese costiere pugliesi, prima di essere inviato a dirigere il cantiere della cittadella di Anversa. Una menzione a sé spetta a Vespasiano Gonzaga per il progetto di Sabbioneta, elaborato insieme a Domenico Giunti (1505-1560), avviato nel 1554 e portato a termine solo nel 1591, anno della sua morte.
I duchi di Savoia, che sin dagli anni Sessanta decisero di fondare la stessa sopravvivenza fisica del proprio Stato su un’opera di fortificazione estensiva delle piazze recuperate nel 1559, non mancarono di arruolare alcuni tra i migliori nomi dell’ingegneria militare, dai milanesi Alessandro Resta (m. dopo il 1578), attivo anche negli interventi di potenziamento delle mura di Lucca degli anni Sessanta del secolo, e Gabrio Busca (1540 ca.-1605), che portò a termine la cittadella di Torino, al ticinese Giacomo Soldati (1540 ca.-prima del 1600), al toscano Ferrante Vitelli (prima del 1550-1584), all’orvietano Ascanio Vitozzi (1539-1615).
La Toscana, rimasta tutto sommato marginale rispetto allo scenario bellico franco-imperiale, appare interessata da una precoce attività di potenziamento delle proprie difese, avviata e sostenuta con convinzione da Cosimo I de’ Medici. Tra i professionisti di maggior rilievo, attivi sin dagli anni Quaranta del secolo – ma impegnati a fondo nella revisione delle fortezze di confine soprattutto dopo l’annessione della Repubblica di Siena nel 1555 –, è opportuno menzionare Giovanni Battista Belluzzi, detto il Sanmarino (1506-1554), che ebbe modo di entrare in contatto con l’opera di Francesco Maria della Rovere lavorando alle fortificazioni di Pesaro; Giovanni Camerini (m. 1570), che diresse, dal 1548, il cantiere delle fortificazioni progettate dallo stesso Sanmarino per Portoferraio (Cosmopoli) e avviò, nel 1564, la costruzione di Terra del Sole (Eliopoli); Baldassarre Lanci (1510-1571), autore del forte di Siena (1561) e delle difese della piazza di Grosseto (1564). L’opera più nota portata a termine nella seconda metà del secolo risulta però legata al nome di Bernardo Buontalenti (1531-1608), progettista della nuova fortezza di Livorno, realizzata a partire dal 1575.
Da ricordare, infine, per quanto riguarda lo Stato pontificio, l’opera di sistematico potenziamento della tenuta difensiva dei confini seguita alla costruzione delle cittadelle di Castel Sant’Angelo a Roma, Ancona e Perugia – queste ultime entrambe progettate da Antonio da Sangallo il Giovane rispettivamente nel 1532 e nel 1540-1543 –, ma portata a compimento solo nel 17° secolo. Nella seconda metà del Cinquecento gli unici interventi degni di nota si registrano ancora ad Ancona, per mano di Francesco Paciotto prima (1550-1555, 1572-1573) e di Giacomo Fontana (m. dopo il 1590) poi (1569-1575), a Civitavecchia (dal 1574, nuovamente su progetto di Paciotto) e, in generale, nei principali porti e siti fortificati della costa adriatica, visitati da Laparelli tra il 1562 e il 1564.
L’ottica territoriale della difesa nel Seicento
Nei decenni tra 16° e 17° sec. la diffusione in Europa del sapere fortificatorio e dei modelli introdotti dagli ingegneri italiani condusse alla formazione di scuole locali, soprattutto in Francia e nei Paesi Bassi, che avrebbero raggiunto la loro massima espressione con Sébastien le Preste de Vauban (1633-1707) e Menno van Coehoorn (1641-1704).
Frattanto, in Italia, continuava ad adottarsi il modello della fortezza bastionata a pianta geometrica, tranne nei casi di localizzazione in siti montani, ove prevaleva la logica dell’adattamento al terreno, come per il forte di S. Maria nella valle di Susa, che Gabrio Busca eresse per volere di Carlo Emanuele I di Savoia negli anni 1590-92. Le scelte formali per la definizione dell’impianto nelle strutture ex novo prescindevano ovunque da motivazioni di strategia militare per rifarsi piuttosto alle scelte progettuali degli autori, tecnici di varia formazione. Ritroviamo così il permanere del pentagono alla base del Castello nuovo di Parma (1591-97) voluto da Alessandro Farnese, così come della fortezza di Ferrara, prevista sin dall’annessione allo Stato pontificio del territorio estense nel 1598 e realizzata dal 1607-1608 come presidio verso la Serenissima, su progetto di Giovan Battista Aleotti, detto l’Argenta (1546-1636) e poi di Pompeo Targone (1575-1630 ca.).
Si optò, invece, per forme esagonali a Casale Monferrato ove, nel periodo dal 1590 al 1612, venne edificata la gigantesca cittadella, per volere del duca Vincenzo I Gonzaga, su progetto del friulano Germanico Savorgnan (1554-1600). L’impianto quadrilatero fu usato in ambito fiorentino con il forte di S. Giorgio, eretto nella prima metà degli anni Novanta, e nel 1629 per la nuova fortezza di Castelfranco ai confini del ducato di Modena (il cosiddetto Forte Urbano dal nome del papa suo committente) pur se l’ambasciatore veneto Alvise Contarini, nella sua relazione (1632) lo giudicava «un forte quadro con quattro baloardi uguali, figura di tutte la peggiore» (Le relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneziani nel secolo XVII, a cura di N. Barozzi, G. Berchet, 3° vol., Relazioni da Roma, t. 1, 1877, p. 359).
Analogamente, negli anni Trenta del secolo si può registrare una certa preferenza degli ingegneri militari sabaudi per le cittadelle quadrate (giudicate anch’esse di scarsa efficienza) che crearono a Trino nel Vercellese, ad Asti e a Ivrea nel Canavese, erette a baluardo contro la Lombardia spagnola. Anche la forma del bastione poteva variare. La spalla, ovvero il raccordo tra faccia e fianco, poteva essere a musone o a orecchione (di forma prismatica o pseudocilindrica), pur se si assisteva a un diffuso ritorno in auge dell’elemento curvilineo, soprattutto legato alle tenaglie. Pressoché sempre, comunque, il bastione risultava a fianco ritirato.
I più significativi aggiornamenti delle strutture durante il 17° sec. non riguardarono tuttavia la linea magistrale della difesa, quanto piuttosto i settori esterni al corpo della piazzaforte. Vennero inserite tenaglie tra i bastioni sovrastati a loro volta dai cavalieri e, al di là dei fossati, si crearono mezzelune collegate dai passaggi protetti delle caponiere. Lungo il frastagliato perimetro esterno affacciato sul glacis si sviluppò il cammino coperto – con le sue varie piccole piazze d’armi, ulteriormente protette da palizzate – che era stato aggiornato da Bartolomeo Campi (1525 ca.-1573) nell’edificare la paciottiana cittadella di Anversa. E ancora, all’esterno, si poterono prevedere ulteriori opere staccate, occupando spazi di vastità sempre maggiore, mentre si consolidò l’uso di gallerie di mina e contromina. Lo sviluppo del potenziale offensivo delle artiglierie d’assedio fu di certo la causa del proliferare delle opere esterne, così come lo era stato agli albori delle fortificazioni «alla moderna» per l’ispessimento e l’abbassamento delle mura: mentre nel primo caso l’operazione di adeguamento si praticava sul circuito più antico coinvolgendo un’area di dimensioni pressoché invariate, si andava ora sperimentando una logica di appropriazione di nuovi settori territoriali che si sarebbe via via affermata sino al prevalere nell’Ottocento del sistema difensivo del campo trincerato a forti distaccati.
Durante quello che, per l’arte della guerra, è definito il secolo di Vauban, si venne intanto affermando una visione innovativa della difesa che travalica, nei progetti, l’idea della perfezione in singole piazzeforti, articolandosi invece, con un ulteriore salto di scala rispetto alle proposte di Belluzzi nel suo Nuova inventione di fabricar fortezze (1598), nell’approfondita conoscenza dei luoghi da proteggere, per i quali prevedere le strutture campali di appoggio alle fortezze principali, i percorsi per garantire il mutuo soccorso fra i nodi del sistema difensivo, la salvaguardia delle città trasformandole in città-fortezza.
In una serie di questi progetti a scala urbana e territoriale si mise in evidenza un nutrito gruppo di ingegneri militari di varia provenienza, chiamati al servizio del ducato di Savoia, che, non a caso, viene giudicato come il più significativo settore di sviluppo della cultura militare seicentesca in Italia (Fara 1993, p. 87). Per la sua ben nota situazione di Stato cuscinetto conteso tra Francia e Spagna, il piccolo ducato era in situazione di emergenza in tutto il periodo qui esaminato, perlopiù costretto a difendersi: scarsamente dotato di uomini, armamenti e mezzi finanziari, non poteva che affidarsi a opportune alleanze e all’opera dei più esperti tecnici, che furono costretti a sperimentare un sempre variabile assetto fortificatorio, nel resto della penisola di fatto già assestatosi.
La campagna per la conquista della Provenza, attivata sin dal 1590 da Carlo Emanuele I, inserì il sovrano piemontese tra le opposte fazioni durante le guerre di religione e costituì un campo sperimentale per tali nuove soluzioni alle quali lavorarono Ascanio Vitozzi (1539-1615) ed Ercole Negro (1541-1622), dal 1589 conte di Sanfront, il primo di nascita piemontese tra i tecnici militari alla corte torinese. L’uno, di famiglia orvietana imparentata con l’alta nobiltà romana, fu ‘prestato’ a Torino dal papa nel 1584, mentre l’altro, prima ingegnere del re di Francia, entrò al servizio ducale nel 1588. I due ufficiali, durante la vittoriosa avanzata sino alla Camargue, ebbero modo di progettare, oltre a un sistema di forti e fortini lungo tutta la fascia mediterranea che venne attentamente rilevata, nuove soluzioni urbanistiche per le città costiere.
Per Antibes, Cannes, Grasse, Vitozzi elaborò vari progetti prevedendo nuovi perimetri bastionati che imponevano la revisione o l’ampliamento dell’assetto urbano interno, con un’ottica territoriale che prevedeva ardite proposte tecniche, quali l’abbassamento di quota di siti vallivi onde renderli esondabili dalle acque del porto. Pur se in schizzi veloci, si intravede nel progetto urbanistico delle espansioni entro la cinta bastionata la tendenza al tracciamento ortogonale del reticolo viario con interposte piazze e l’ubicazione delle porte a metà cortina: accorgimenti in funzione militare che troveranno definitiva codificazione nel cosiddetto terzo sistema Vauban.
Il Sanfront si dedicò, invece, a migliorare la situazione difensiva di Nizza, il prezioso sbocco al mare sabaudo, con un grandioso progetto che ampliava di oltre un terzo la superficie urbana della città-fortezza, regolarizzando in un perimetro uniforme il sistema bastionato a orecchioni, mediante la deviazione del corso fluviale del Paillon.
Non a caso queste precoci esperienze, in cui il tema della difesa si salda con quello urbanistico per lo sviluppo della città, troveranno conferma nei progetti dei due ingegneri per Torino: da quello datato al 1610 e recentemente attribuito a Vitozzi in collaborazione con il duca (M. Viglino Davico, Ascanio Vitozzi. Ingegnere militare, urbanista, architetto (1539-1615), 2003, pp. 159-61), che prevedeva il circuito bastionato per gli ampliamenti Sud-Est sino alla testa di ponte sul Po, a quello di Negro (1618), la cui proposta ne esplicitava le motivazioni essenzialmente militari. La città-fortezza che ne nacque si ampliò a Sud e all’opposto annettendo il Borgo Dora, ma soprattutto a levante ove il presidio del fiume sarebbe stato integrato da un ampio circuito difeso collinare. L’assetto urbanistico era impostato su due assi viari che permettevano il veloce spostamento di truppe dal castello alle nuove porte, sui quali si sviluppava il reticolo a scacchiera. Il sistema dei bastioni riproponeva quelli a fianchi ritirati della cittadella, pur se le linee visuali di tiro partivano qui a metà cortina anziché dagli angoli: un sistema che verrà invece realizzato con baluardi a musone.
A rielaborare e realizzare i progetti per la capitale sabauda sarà infatti una nuova generazione di tecnici: a Vitozzi era succeduto nel 1615 Carlo di Castellamonte (1560-1641) – ben più valente architetto civile che ingegnere militare – presto aiutato dal bresciano Pietro Arduzzi (1590 ca.-1668), mentre l’eredità di Negro dal 1622 era passata al pavese Carlo Morello (1580 ca.-1655). Questi tecnici, le cui biografie militari non risultano ancora esaustive, nei decenni centrali del Seicento divennero i più attivi gestori dell’apparato difensivo torinese che si realizzò in due fasi. A Sud, dal 1619 sull’impronta del progetto Negro e per opera del Castellamonte, duramente criticato da Morello nei suoi Avvertimenti del 1656 (f. 19) per le errate varianti al previsto impianto fortificatorio; a Est, dopo il decisivo parere di Vauban, a Torino nel 1670 come consulente strategico, il quale fece arretrare le difese dai due fiumi, escludendo i borghi esterni. Il complesso assetto difensivo della città-fortezza – documentato nell’atlante di Michel Angelo Morello scoperto di recente – venne inaugurato da Carlo Emanuele II nel 1673.
L’emblematico caso torinese della creazione di una nuova città concepita in base alle sue necessità di difesa non trova riscontro in situazioni di altri Stati italiani nei quali, nel 17° sec., si opta piuttosto per la creazione di fortezze non condizionanti un nuovo assetto urbano e per l’aggiornamento e l’implementazione delle strutture esistenti. Giovanni Botero (1543-1617), nel Discorso intorno allo Stato della Chiesa (in Dell’uffitio del cardinale libri due, 1599, p. 154), fornisce, per es., un panorama in cui l’organizzazione difensiva del papato nell’età di Urbano VIII, oltre alle fortezze di Ferrara e Castelfranco a guardia dei confini, si occupa piuttosto di fortificazioni temporanee o di migliorie, come al porto difeso di Civitavecchia e, nella capitale, in Castel Sant’Angelo o nella nuova cinta sul Gianicolo tra le porte Portese e Cavalleggeri. Allo stesso modo, nello Stato mediceo, l’efficienza delle fortificazioni, una priorità indiscussa nel 16° sec. (che ancora nell’ultimo decennio aveva portato a realizzare le fortezze buontalentiane di Livorno e di San Giorgio a Firenze, 1590-95) andò scemando nel Seicento. I più significativi interventi, rimasti allo stato di progetto, riguardano l’opera, negli anni Cinquanta, di Annibale Cecchi (1610 ca.-dopo il 1662), un architetto studiato di recente, che propose, per Portoferraio come per Livorno, soluzioni bastionate del tutto tradizionali.
Mentre l’attività fortificatoria effettuata ex novo nei centri urbani andava a mano a mano esaurendosi, restava invece sempre viva la necessità di erigere forti isolati per proteggere i confini o i percorsi strategici. Nacque in questo modo il cosiddetto Forte Fuentes (1603-12), dal nome del governatore di Milano, un complesso dall’incerto perimetro, ma capace di ospitare sino a 400 soldati, al confine tra la Lombardia spagnola e la Valtellina soggetta alle leghe dei Grigioni.
Su un’altra via essenziale per i collegamenti iberici dal Finale alle Fiandre, anche a Castelgovone e a Palestro Gaspare Beretta (1620-1703), ingegnere maggiore dell’esercito e delle fortezze dello Stato di Milano, negli anni Settanta propose nuovi presidi difesi e, ricercando sbarchi alternativi per le truppe spagnole, progettò nel 1682 una nuova strada da Portofino al Tortonese attraverso la val Trebbia. Nuovi sistemi fortificati potevano ancora sorgere per ragioni contingenti, come nella Repubblica di Genova. Fin dal 1607 questa aveva provveduto a murare La Spezia, ma, allarmata dai previsti attacchi del duca di Savoia (che due anni prima aveva inviato come spia Morello per rilevarne le difese), dal 1626 realizzò nella capitale una cinta amplissima di 49 bastioni che, sotto il doge Giacomo Lomellini nominato magistrato delle mura nuove, venne ultimata nel 1634.
Fu invece la rivolta antispagnola a Messina (1678) la causa per cui, da lì a due anni, vi fu eretta, su progetto di un ingegnere fiammingo, una cittadella a pentagono regolare prospettante il mare, che sarebbe stata ultimata nel 1687: l’ultima fortezza del secolo.
Il constatato rallentamento, nel Seicento, dell’attività costruttiva in Italia si riscontra altresì nell’elaborazione teorica. Se infatti i trattati degli ingegneri italiani cinquecenteschi avevano costituito l’avanguardia del sapere fortificatorio in tutta Europa, nel nuovo secolo venne invece diffondendosi la trattatistica straniera, soprattutto francese, attraverso i molteplici seguaci di Vauban che, come Alain Manesson Mallet (1630-1706) nel suo Les travaux de Mars del 1684, tentavano una formalizzazione del sapere aggiornato, cercando di fornire fondamenti teorici ad azioni sempre più complesse e non più dominabili dalle sole regole della geometria.
Ai trattati francesi ci si rifece anche in Italia, magari con edizioni semplificate e reinterpretate. È il caso del libretto dedicato ai convittori del Collegio ducale dei nobili di Parma, ivi edito nel 1695 a cura di Giuseppe Rossetti, Fortificazione del signor di Voban [sic]. Vi fu invece un’ampia diffusione degli atlanti ove venivano raccolti i disegni degli apparati difensivi del proprio e degli altrui Stati che gli ingegneri militari offrivano «a principi et a generali d’eserciti» arricchendoli di «brevi osservationi per assedii, per soccorsi, per espuniatione, per diffese delle delineate fortezze» (C. Morello, Avvertimenti sopra le fortezze di S.R.A. del capitano Carlo Morello […], 1656, Torino, Biblioteca Reale, Manoscritti, Militari 178, f. 2).
Sviluppi dei sistemi difensivi nel secolo dei lumi
Nello Stato sabaudo, ormai proiettato verso una dimensione internazionale dopo che il trattato di Utrecht (1713) aveva riconosciuto a Vittorio Amedeo II il titolo di re di Sicilia – commutato in re di Sardegna nel 1720 –, il 18° sec. si aprì con il cantiere di una fortezza che sarebbe stata senz’altro ritenuta ‘moderna’ un secolo e mezzo prima, ma che all’epoca mostrava evidenti limiti tattici e logistici, e si chiuse con la realizzazione di un’opera destinata invece a suscitare ampia ammirazione tra i contemporanei. Si trattava, rispettivamente, della cittadella di Alessandria (La cittadella di Alessandria. Una fortezza per il territorio dal Settecento all’Unità, a cura di A. Marotta, 1991), progettata nel 1728 da Ignazio Bertola (1676-1755) e realizzata di lì a quattro anni sul sito del quartiere di Bergoglio, che fu evacuato e smantellato di pari passo con il procedere dei lavori di fortificazione – conclusi di fatto solo in età napoleonica – e del Forte San Vittorio di Tortona (Tortona e il suo castello dal dominio spagnolo al periodo postunitario, a cura di V. Comoli, A. Marotta, 1995), ricostruito a partire dal 1773 su progetto di Lorenzo Bernardino Pinto di Barri (1704-1798).
Il potenziamento delle due fortezze è da inquadrare nell’opera di complessiva revisione dei presidi dello Stato verso il ducato di Milano e la Repubblica di Genova, resasi necessaria a seguito del progressivo ampliamento dei confini orientali, una prima volta nel 1707 e quindi, dopo il trattato di Aquisgrana, nel 1748. Sebbene entrambe le strutture condividessero dimensioni ciclopiche, gli esiti non potevano essere più diversi. La cittadella alessandrina, sprofondata entro ampi fossati al punto da emergere assai poco rispetto al piano di campagna circostante, assunse forma di esagono schiacciato, con bastioni a orecchione in corrispondenza dei vertici, rafforzati all’esterno da mezzelune e controguardie. Il forte tortonese, abbattuto nel 1801, aveva invece un impianto più lineare che assecondava il sito rilevato dove sorgeva, e si sviluppava soprattutto in altezza, per via dell’estensiva introduzione di postazioni di tiro in casamatta, disposte su tre ordini sovrapposti. Si trattava di un’innovativa concezione della difesa che, a partire dalle prime sperimentazioni condotte dallo stesso Pinto nelle fortezze di Exilles (dal 1750 ca.), Brunetta di Susa (dal 1754), Demonte (dal 1757) e Fenestrelle (dal 1779-80), nei primi decenni del 19° sec. sarebbe divenuta la cifra dei forti sabaudi di confine, Bard in primis, ricostruito a partire dal 1830 su progetto di Francesco Antonio Olivero (1794-1856).
L’enorme distanza culturale che divide l’opera di Bertola, ancora saldamente legata al principio tattico del bastione, da quella di Pinto, che invece ne segna il rifiuto a vantaggio di una nuova generazione di fortezze caratterizzate da un’evidente semplificazione della geometria delle cortine, trova una sua logica spiegazione nel profondo rinnovamento cui andò incontro, a partire dagli anni Trenta del secolo, la trasmissione dei saperi di base dell’ingegneria militare.
L’intuizione che i tempi fossero ormai maturi per dare vita a corsi di studio codificati e orientati alla formazione specialistica di una nuova generazione di professionisti, paradossalmente, dev’essere attribuita proprio a Bertola, autore nel 1736 del Progetto […] per la Scuola militare di fortificazione. Nel 1739 nascevano così le Regie scuole teoriche e pratiche d’artiglieria e fortificazione, seguite a un dipresso dall’istituzione dell’Ufficio di topografia reale, profondamente rinnovato nel 1775 da Filippo Giambattista Nicolis di Robilant (1723-1783) e, nel 1752, del Corpo reale degli ingegneri. La direzione delle Scuole fu affidata a Bertola, che la tenne sino alla sua morte. Gli subentrò Alessandro Vittorio Papacino d’Antoni (1714-1786), cui si deve la stesura, in collaborazione con Ignazio Andrea Bozzolino (1719-1791), Dell’architettura militare per le Regie scuole teoriche d’artiglieria e fortificazione (1778-1782). Su tale, fondamentale, opera in sei volumi ebbe senz’altro modo di soffermarsi anche Pinto di Barri, cui era stato affidato, nel 1774, il comando del Corpo degli ingegneri e che, nel 1789, avrebbe assunto la direzione dell’Ufficio di topografia.
La rifondazione disciplinare su basi rigorosamente scientifiche – che, beninteso, interessò non solo le scuole di ingegneria sabaude, ma tutti i principali istituti di formazione europei – rappresentò uno tra i principali stimoli che spinsero in direzione di un radicale rinnovamento dei sistemi difensivi, il cui punto di arrivo fu, nella prima metà del 19° sec., il cosiddetto campo trincerato a forti distaccati. Si trattava di un complesso apparato, rapidamente diffusosi dopo la realizzazione delle nuove difese di Parigi nel 1840, composto da opere autonome e separate, ma collocate secondo un rapporto di prossimità tale da renderne possibile, in contemporanea, la protezione reciproca con il tiro teso e il collegamento con trincee. Tali forti, cui era demandato il compito di presidiare i punti nevralgici delle reti infrastrutturali del territorio, venivano quindi distribuiti in modo da formare un poligono aperto intorno al sito da proteggere (il più delle volte fortificato), che si sviluppava mantenendo da esso una distanza pari o superiore alla gittata delle artiglierie d’assedio.
In area italiana meritano senz’altro almeno una menzione i campi trincerati di Casale e di Alessandria, progettati, rispettivamente nel 1851 e nel 1857, nell’imminenza della seconda guerra d’indipendenza; di Verona, realizzato su iniziativa austriaca a protezione del cosiddetto Quadrilatero nel 1859-1860; di Bologna, Piacenza e Ancona, progettati da Luigi Federico Menabrea (1809-1896) nel 1860; di Mestre, avviato nel 1866, e di Roma, allestito sotto la direzione di Luigi Durand de la Penne (1838-1931) tra il 1877 e il 1891 a difesa della nuova capitale d’Italia.
Opere
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F. Horologi, Brevi ragioni del fortificare di Francesco Horologi, vicentino, 1555-1559, Firenze, Biblioteca nazionale, cod. Magliabechiano XIX 127.
G. Lanteri, Duo libri […] del modo di fare le fortificationi di terra, Vinegia 1559.
G. Maggi, G. Fusto il Castriotto, Della fortificatione delle città, Venetia 1564.
G. Alghisi, Delle fortificationi […] libri tre, s.l. [ma Venezia] 1570.
G. Cataneo, Nuovo ragionamento del fabricare fortezze, si per prattica come per theoria, Brescia 1571.
F.M. della Rovere, Discorsi militari […] nei quali si discorrono molti avantaggi e disvantaggi della guerra, utilissimi ad ogni soldato, Ferrara 1583.
G. Busca, Della espugnatione et difesa delle fortezze […] libri due, Turino 1585.
B. Lorini, Delle fortificazioni […] libri cinque, Venetia 1596.
G.B. Belluzzi, Nuova inventione di fabricar fortezze, di varie forme, in qualunque sito di piano, di monte, in acqua, con diversi disegni et un trattato del modo che si ha da osservare in esse, con le sue misure, et ordine di levar le piante […], Venetia 1598.
F. de Marchi, Della architettura militare […] libri tre, Brescia 1599.
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G. Rossetti, Fortificazione del signor di Voban con un trattato preliminare de principii di geometria […], Parma 1695.
G. Nicolis di Robilant, La science de la guerre ou connoissances par tous ceux qui entreprennent la profession des Armes, Turin 1757.
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Bibliografia
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