Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il lungo regno della regina Vittoria ha caratterizzato un’epoca, sebbene non sia sempre facile trovare elementi univoci nella sua definizione. Certamente le profonde trasformazioni economiche e sociali del Regno Unito, e le loro rappresentazioni letterarie, hanno prodotto uno dei periodi di maggiore interesse della storia europea, coincidente con l’idea stessa di progresso e con uno straordinario sviluppo tecnologico.
L’età che prende il nome dal lungo regno della regina Vittoria incoronata alla morte dello zio, il re Guglielmo IV, nel 1837, vede il primo manifestarsi, o la definitiva affermazione, di gran parte degli elementi che costituiscono la modernità occidentale, e dunque le radici della contemporaneità, sotto i più diversi aspetti: sul piano economico, politico e sociale, oltre che sul piano culturale, sia per quanto riguarda aspetti fondamentali della cultura alta, sia, e forse soprattutto, per quanto coinvolge la cultura popolare nelle sue varie espressioni.
A livello filosofico e ideologico è l’età vittoriana il momento in cui vengono definiti alcuni dei termini di riferimento delle idee sulla “modernità” stessa e su cosa abbia originato il processo a cui attribuiamo questo nome. Così come sono le idee scientifiche e la tecnologia concepite e sviluppate in questi anni che modellano il secolo successivo. A questo proposito è sufficiente nominare Charles Darwin o il fatto che tutte le macchine o gli strumenti tecnologici che tutt’ora utilizziamo sono stati realizzati, “inventati” o anche solo immaginati in questi anni (qualcuno ritiene che lo stesso concetto di “invenzione” sia un prodotto dell’epoca vittoriana). E ancor di più sono tutti questi elementi a trovare posto nelle multiformi espressioni della cultura popolare dell’epoca, all’interno delle quali viene plasmato il modo in cui le trasformazioni economiche, politiche e sociali e il mutare delle idee viene percepito e metabolizzato da un nuovo interlocutore: non le sole élite colte o aristocratiche ma la “massa”, o “folla”, dei cittadini che non sono più la “canaglia” ignorante e sempre pronta a creare disordini (riots) delle rappresentazioni settecentesche e del Barnaby Rudge di Dickens (1841), ma un soggetto politico in via di formazione, protagonista, spesso consapevole, e “vittima” a un tempo delle profonde trasformazioni in corso. Un’epoca, quella vittoriana, di straordinari progressi senza precedenti e tali da mutare il modo di percepire se stessi. Ma anche un’epoca di altrettanto profonda crisi, talvolta non espressa ma sempre presente, perfino nei più entusiastici e celebrativi testi che la letteratura coeva ha prodotto, poiché è costante la difficoltà nell’esprimere, nel trovare forme e parole nuove per rappresentare ciò che si svolge davanti ai propri occhi, in assenza delle quali si ricorre a metafore classiche o a citazioni latine. È in Charles Dickens, più che in ogni altro autore, insieme forse a Thomas Carlyle, che è possibile osservare questa ricerca, e la sua opera diventa negli anni un modo sempre più preciso e acuto di espressione della sottaciuta crisi e del disagio presenti nell’età vittoriana.
Per oltre mezzo secolo, a partire dal Congresso di Vienna del 1815, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, e le sue colonie, sono al centro del sistema internazionale. Non si tratta semplicemente di una superiorità militare: questa, pur rilevante, dopo la fine delle guerre napoleoniche e fino all’ultimo decennio del XIX secolo, ha un ruolo quanto meno secondario nel garantire la centralità ed egemonia che i Britannici esercitano nelle relazioni internazionali. Tre i pilastri su cui si regge questa posizione: il Free Trade, il “libero mercato”, a un tempo una teoria e una prassi dell’agire economico e insieme una vera e propria ideologia (e, talvolta, un dogma), su cui si misurano le scelte di politica estera del Paese; il gold standard, ovvero la convertibilità in oro della sterlina, entrata a regime dal 1821, che rende la carta moneta stampata a Londra la valuta di riferimento del commercio internazionale e la Borsa della città, la City, il centro finanziario del mondo. Il terzo pilastro è il balance of power, l’“equilibrio del potere”, come criterio e strumento informale di regolazione e organizzazione del sistema europeo di relazioni tra gli Stati: dal sistema internazionale “anarchico” nato nel 1648, si passa a uno in cui un primus inter pares, il Regno Unito, assolve al compito di ago della bilancia degli equilibri tra le potenze, allo scopo di impedire il sorgere di una qualsivoglia forma di egemonia sul continente.
La costruzione di questi pilastri politici e della posizione dominante che il Regno Unito assume attorno alla metà del XIX secolo è resa possibile dalla rivoluzione industriale, il fondamentale contesto che permea ogni aspetto dell’epoca e senza il quale non solo quella posizione di potere non vi sarebbe stata, ma lo stesso regno della regina Vittoria non assumerebbe il particolare significato e interesse che noi gli attribuiamo. Il profondo e radicale processo di trasformazione sociale ed economica, iniziato nella seconda metà del Settecento, arriva alla sua definitiva affermazione istituzionale proprio nei primi anni di regno di Vittoria. I presupposti del suo consolidamento sono: le leggi che consentono di disporre di una manodopera a basso costo, con la distruzione del mondo contadino tradizionale e il rapido processo di inurbamento; l’intervento economico statale e il sostegno allo sviluppo tecnologico e industriale negli anni delle guerre con la Francia (1792-1815); le leggi e i regolamenti per il controllo e per la repressione militare di ogni forma di dissenso sociale. È soprattutto il controllo sulla massa di lavoratori impiegati nelle industrie e miniere del paese che desta preoccupazione e porterà a numerosi episodi di violenta repressione anche nei confronti di rivendicazioni moderate (come avviene per il massacro di Peterloo, nel 1819, a Manchester). Lo straordinario processo di sviluppo industriale, che accelera la crescita generale della ricchezza del Paese, ha infatti i suoi lati oscuri. Le drammatiche condizioni di vita e lavoro nei grandi centri industriali, Manchester innanzitutto, la “ciminiera del mondo”, lasciano sbigottiti tutti gli osservatori e viaggiatori dell’epoca: i più favorevoli alle trasformazioni in corso condanneranno le carenze sanitarie e igieniche o di istruzione dei poveri, separando la loro condizione dalle responsabilità del processo industriale; altri come Charles Dickens, Thomas Carlyle, Benjamin Disraeli, non avranno dubbi nell’individuare il nesso tra industria e condizioni di vita dei lavoratori. Il Poor Law Amendment Act del 1834 tenta di dare una risposta moderna al problema della povertà nel paese, ispirata dall’utilitarismo di Jeremy Bentham e dal pietismo evangelico, con la creazione delle working houses: il risultato fu però quello di rendere ancora più terribile la condizione dei molti disoccupati e poveri dei grandi centri industriali, come è ben illustrato da Dickens in Oliver Twist (1837-1839).
Questo aspetto fa da sfondo all’età vittoriana, quasi a sporcare con la onnipresente fuliggine, di cui tutti i testimoni dell’epoca fanno menzione parlando delle città industriali, la lucentezza delle sue realizzazioni e conquiste. Alexis de Tocqueville (1835) metterà in risalto con efficacia le contraddizioni della società industriale vittoriana, parlando di Birmingham: “[...] qui lo schiavo, là il padrone. Là le ricchezze di pochi, qui la miseria di una maggioranza. Da questo fetido scolo fluisce la più grande corrente di industria umana a fertilizzare il mondo intero. Da questa lurida fogna fluisce oro puro. Qui l’umanità raggiunge il suo sviluppo più completo e più bestiale; qui la civiltà opera i suoi miracoli, e l’uomo civilizzato torna ad essere nuovamente un selvaggio”.
Sul piano politico, come su quello economico, i grandi processi di trasformazione sono già avviati quando Vittoria viene incoronata. Nel 1832 il primo Reform Act estende di circa un terzo il numero degli elettori, attraverso la riforma e la ridefinizione dei collegi elettorali, attribuendo un maggiore rilievo ai centri urbani e sottraendo all’aristocrazia terriera il tradizionale controllo sulle candidature. Nel 1867 raddoppierà il numero degli aventi diritto al voto, includendovi per la prima volta importanti quote di lavoratori. Il Reform Act del 1884 e il Redistribution Act del 1885 triplicano il numero degli elettori, includendovi la maggior parte dei contadini e degli operai: il suffragio universale maschile arriverà però solo nel 1918 e quello femminile nel 1928.
La prima estensione del diritto di voto nel 1832 apre le porte allo sviluppo di una intensa propaganda per il suffragio universale, che dal 1836 si trasforma in un movimento interclassista in cui le rivendicazioni delle classi medie e degli operai si uniscono nella richiesta dell’approvazione di una “Carta”, o petizione, che chiede al parlamento di accogliere sei richieste, la più importante delle quali è il diritto di voto esteso a tutti i cittadini maschi. Considerato da alcuni storici una risposta emotiva alle trasformazioni in corso, fondata sulla convinzione utopistica che il diritto di voto avrebbe di per se stesso portato alla soluzione delle drammatiche contraddizioni sociali del Regno Unito, il movimento cartista promuove una crescente mobilitazione politica, che si esprime in enormi manifestazioni, frustrata dalle ripetute bocciature delle sue richieste da parte del parlamento. Nel 1842, l’ultima di queste condurrà a gravi disordini e successivamente all’estinguersi e trasformarsi delle varie anime politiche e sociali del cartismo. Pur non riuscendo ad amalgamarsi con i rappresentanti delle classi medie, la partecipazione di massa degli operai al movimento delinea, e “inventa”, tutte quelle che saranno le modalità di organizzazione, manifestazione e protesta del futuro movimento operaio e sindacale. Per la prima volta, la folla si istituzionalizza: mentre nel passato anche poche decine di persone riunite potevano essere viste come una potenziale minaccia di disordini, le centinaia di migliaia mobilitate dal cartismo manifestano pacificamente in modo ordinato e organizzato, chiedendo un intervento del parlamento per estendere i propri diritti. È un fatto che nemmeno il partito Tory può ignorare.
L’altro grande ed influente movimento di quegli anni è rappresentato dall’Anti Corn Laws League e dalla sua battaglia per il libero mercato e l’abolizione del regime daziario protezionista adottato nel 1815 per salvaguardare la produzione nazionale di granaglie. Nato su ispirazione di David Ricardo, trova in Richard Cobden il suo principale propagandista e leader: esercitando una costante pressione sull’opinione pubblica e sul parlamento, riesce a trionfare nel 1846, ottenendo l’abrogazione dei dazi sul grano, difesi dall’aristocrazia, e determinando, dal 1849, la definitiva affermazione del Free Trade come dottrina economica ufficiale del Paese.
Benjamin Disraeli, uno dei maggiori esponenti tory, leader del partito e primo ministro, comprende la lezione degli anni Trenta e Quaranta: il Regno Unito è una nazione divisa tra i ricchi e i poveri, i padroni e i lavoratori, e solo un compromesso sociale tra le classi potrà ricomporla a unità e salvarla dal pericolo di una rivoluzione sociale. Se lo Stato garantisce i nuovi interessi industriali con l’adozione del libero mercato e la rinuncia a interventi e interferenze in campo economico, è però necessario sostenere i lavoratori per eliminare le condizioni di estrema miseria in cui vivono e per cancellare almeno gli aspetti più oscuri e inaccettabili del sistema industriale, quale il lavoro minorile. Facendosi promotori del nuovo compromesso sociale e governandolo, i Tories potranno ricomporre un’alleanza con le masse dei lavoratori, allontanandoli dalle tentazioni rivoluzionarie ma anche dall’influenza dei liberali. Queste idee porteranno Disraeli a sostenere il secondo Reform Act nel 1867, nella convinzione che estendere il diritto di voto consentirà ai conservatori di poter utilizzare i lavoratori per bilanciare l’influenza della borghesia industriale. Ma da questo momento egli inizia a guardare con sempre maggiore interesse all’idea, o ideale, di “impero”, come quell’elemento astratto ed elevato attorno a cui si potrebbe operare quella che, in termini moderni, potremmo chiamare “costruzione del consenso” dei ceti lavoratori, attorno alla monarchia e allo Stato. È la politica che nel 1876 porta alla proclamazione della regina Vittoria come imperatrice.
La questione imperiale e l’espansione coloniale britannica, ed europea, nella seconda metà del XIX secolo sono certamente tra gli elementi che più caratterizzano l’immagine dell’epoca vittoriana. Il consolidamento del controllo britannico in India dopo la rivolta dei sepoys nel 1857, lo scioglimento della East India Company e la trasformazione in colonie della Corona dei territori che essa amministrava sono l’inizio del British Rule nel subcontinente e la trasformazione dei possedimenti in un vero e proprio sistema imperiale (o “globale”) di relazioni economiche e politiche dirette da Londra. Alla metà del secolo, il Regno Unito ha consolidato il suo impero “informale” in America latina, grazie al ruolo della sterlina nei mercati internazionali e a quello della City come principale fonte di capitali d’investimento. Le colonie d’insediamento bianco (Canada, Australia, Nuova Zelanda, la Colonia del Capo in Africa meridionale), nello stesso periodo, iniziano il grande processo di crescita economica che le caratterizzerà nei decenni seguenti, trasformandole in importanti mercati di esportazione per i prodotti delle industrie britanniche e in aree di crescente immigrazione dalla madrepatria e dall’Irlanda, drammaticamente colpita dalla carestia negli anni Quaranta. La stessa India diviene un essenziale mercato di esportazione per i prodotti inglesi: alla fine del secolo il 27 percento dei tessuti di cotone di Manchester sono esportati nel subcontinente. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che il Free Trade vale solo formalmente nell’impero: esistono molti modi in cui le amministrazioni coloniali possono renderlo ineffettivo e ne faranno ampiamente uso. Le colonie d’insediamento ottengono gradualmente l’autogoverno nella seconda metà del secolo, ma una conseguenza di tale evoluzione sarà la scelta di politiche protezionistiche per difendere la crescita delle proprie economie, pur mantenendo un sistema di preferenze nei confronti dei prodotti britannici.
La natura dell’Impero britannico, le ragioni del suo estendersi in Africa e Asia nel corso del secolo e, più in generale, le ragioni delle politiche imperialistiche del Regno Unito, per esempio in Cina o in Sudafrica, restano tutt’ora questioni aperte all’interno del dibattito storiografico, che negli ultimi due decenni ha rimesso in discussione molte delle certezze (e dei luoghi comuni) consolidati sull’argomento. Uno dei punti più controversi è quanto l’impero sia realmente presente nell’immaginario e nella vita quotidiana dei comuni sudditi o quanto piuttosto non sia una questione che coinvolge le sole élite politiche ed economiche del Paese. Certamente il tentativo di Disraeli di fare della questione imperiale il catalizzatore ideale dell’unità nazionale, messa in pericolo dalla frattura sociale (per alcuni sulla base di un “misticismo cinico”), rende l’impero, e la sua imperatrice, un elemento chiave dell’immaginario collettivo legato all’età vittoriana. È un dato di fatto che le espressioni alte della cultura britannica dell’epoca hanno un riflesso della questione imperiale soprattutto nella letteratura storico-politica, mentre toccano di striscio le espressioni più propriamente letterarie (con poche eccezioni, come Rudyard Kipling, anche se il suo lavoro appartiene solo parzialmente a questa epoca), e quasi mai nei loro esempi migliori. Resta invece più controverso stabilire come le forme di cultura popolare e i prodotti culturali di più largo consumo siano o meno l’espressione di una effettiva presenza del tema dell’impero nella quotidianità di un più vasto pubblico, e in che misura ne influenzino gli orientamenti culturali, sociali o politici.
Il regno della regina Vittoria è durato circa settant’anni, un periodo troppo esteso perché si possano realmente trovare degli elementi di totale continuità e omogeneità tra momenti diversi nel tempo. Di fatto le caratteristiche e i passaggi storici che gli osservatori ritengono più caratterizzanti l’età vittoriana riguardano la parte centrale dell’Ottocento. Le trasformazioni economiche e sociali ne sono gli aspetti più rilevanti sia per la posizione assunta dal Regno Unito sul piano internazionale, sia perché per quasi tutto il secolo esso rappresenta quasi una prefigurazione di ciò che accadrà o potrebbe accadere altrove. Se dobbiamo individuare un tratto comune all’intera epoca che coinvolga le sue varie e cangianti sfaccettature, forse potremmo scegliere il conflitto tra l’utilitarismo sociale di Jeremy Bentham, e dei suoi seguaci, e quello economico di Ricardo e di John Stuart Mill, e la reazione sociale e intellettuale che gli si oppose. L’utilitarismo rappresenterà la filosofia e l’ideologia dominante in campo economico e sociale, su cui più tardi si innesterà il “darwinismo sociale” di Herbert Spencer e, soprattutto le sue volgarizzazioni, in molteplici varianti, dal liberoscambismo alle poor laws. Con uno scenario prefigurato da questa distopia si confrontano, tra gli altri, Dickens, Carlyle, John Ruskin che, insieme ai teologi cattolici del movimento di Oxford, costituiscono la più solida opposizione intellettuale al nuovo mondo industriale e alla sua ideologia. Dickens stesso, con le sue opere, per esempio in Tempi difficili (1854), Carlyle e il cattolico John H. Newman esprimono le voci dall’interno di critica più incisiva e profonda contro ciò che possiamo identificare come la società vittoriana.
La celebre conclusione di un altro cattolico, Gilbert K. Chesterton, al suo pamphlet (1913) sulla letteratura vittoriana racchiude ancora oggi un giudizio sintetico sulle aspettative, i dubbi e le lezioni ignorate dell’epoca: “L’età vittoriana commise uno o due errori, ma furono errori veramente utili; vale a dire errori che erano veri errori. Credettero che il commercio estero di un Paese dovesse portare la pace: ed è certo che spesso ha portato la guerra. Credettero che il commercio all’interno di un Paese dovesse certamente accrescerne la prosperità; e ne ha abbondantemente accresciuto la povertà. Ma per essi questi furono esperimenti; per noi dovrebbero essere insegnamenti. Se continueremo a trattare il popolo come sogliono i capitalisti – se continueremo a servirci delle armi fuori del nostro Paese secondo l’uso capitalista, il nostro modo di agire graverà assai sulla coscienza dei viventi. Il disonore non sarà per i morti”.