L’insediamento delle strutture commerciali
Nel 2012 il Consiglio di Stato ha affrontato la questione (attuale anche dopo gli ultimi interventi legislativi sulle cd. liberalizzazioni) dell’insediamento degli esercizi commerciali alla luce dei rapporti tra disciplina del commercio e pianificazione urbanistica. In particolare, quel Giudice ha cercato di chiarire quale sia il rapporto tra le previsioni del piano commerciale e quelle del piano urbanistico: concludendo che la diversità degli interessi tutelati da questi due strumenti impedisce di attribuire in astratto prevalenza al piano commerciale.
Con una pronuncia del 20121 il Consiglio di Stato, occupandosi della questione dell’insediamento degli esercizi commerciali, ha cercato di fare chiarezza sui rapporti tra programmazione della rete distributiva e pianificazione urbanistica: rispetto alle sentenze precedenti, di cui si dirà, questa decisione sembra meglio presidiare le prerogative urbanistiche dei Comuni.
Infatti, quel Giudice ha affermato che «le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti commerciali, dunque alla libertà di iniziativa economica», e che «la diversità degli interessi pubblici tutelati impedisce di attribuire in astratto prevalenza … al piano commerciale rispetto al piano urbanistico».
Di conseguenza, il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la revoca di un titolo annonario disposta perché lo strumento urbanistico comunale vietava per l’area in questione lo svolgimento di attività commerciali: ritenendo a tal fine irrilevante che le stesse fossero invece consentite dal piano di sviluppo della rete distributiva.
Ogni attività umana – ivi incluse quelle commerciali – ha ricadute sul territorio, il cui ordinato assetto e sviluppo è assicurato dagli strumenti di pianificazione urbanistica.
In considerazione di ciò, questi strumenti disciplinano la totalità del territorio comunale e stabiliscono le diverse destinazioni d’uso (compresa quella commerciale) e le trasformazioni possibili per ogni area.
Da qui il problema del rilievo che assumono le valutazioni urbanistiche ai fini dell’esercizio delle attività commerciali e, soprattutto, la questione del coordinamento tra lo strumento a monte del rilascio dei singoli titoli annonari – cioè il piano commerciale – e il piano urbanistico2.
Sul piano legislativo, come noto, la prima normazione generale in materia di commercio fu recata dal R.d.l. 16.12.1926, n. 2174, convertito con l. 18.12.1927, n. 2501, il quale introdusse un regime autorizzatorio corredato da un sistema di controlli e licenze di polizia a tutela dell’ordine pubblico e dell’igiene.
La Carta costituzionale del 1948 stabilì poi il principio fondamentale (art. 41, co. 1) secondo cui «l’iniziativa economica privata è libera»: l’esercizio dell’attività commerciale era dunque “affare privato”, ma solo in linea di principio3, poiché il commercio poteva essere soggetto a limitazioni funzionali alla necessità di tutelare interessi pubblici sia a programmi e controlli (art. 41, co. 2 e 3, Cost.).
Il boom economico nazionale rese necessario un intervento di riforma del sistema4, che si concretizzò nella l. 11.6.1971, n. 426, con cui si toccò «il punto massimo di interventismo pubblico raggiunto in un settore che, ai tempi dello Stato liberale classico, aveva registrato unicamente un controllo pubblico per finalità di polizia di sicurezza e di igiene e sanità»5.
In particolare, quella legge si fondava su due elementi caratterizzanti: l’istituzione del registro degli esercenti il commercio (Rec) e la pianificazione strutturale del commercio a livello comunale.
Quanto a quest’ultimo elemento, al fine di favorire una più razionale evoluzione dell’apparato distributivo, ai Comuni era demandata la «formazione di un piano di sviluppo e di adeguamento della rete di vendita» – cioè il piano commerciale – chiamato, «nel rispetto delle previsioni urbanistiche, … ad assicurare la migliore funzionalità e produttività del servizio da rendere al consumatore e il maggior possibile equilibrio tra installazioni commerciali a posto fisso e la presumibile capacità di domanda della popolazione stabilmente residente e fluttuante»6.
I rapporti tra attività commerciali e strumentazione urbanistica erano poi descritti dall’art. 13 di quella legge, secondo il quale nella formazione e revisione dei piani generali dovevano essere indicate «le norme per l’insediamento di attività commerciali e, in particolare, le quantità minime di spazi per parcheggi in funzione delle caratteristiche dei punti di vendita»; nella formazione dei piani esecutivi, invece, dovevano essere «determinati gli spazi eventualmente riservati ai centri commerciali all’ingrosso e al dettaglio, ivi compresi i mercati rionali, ed ai grandi esercizi di vendita, con superficie superiore ai millecinquecento metri quadrati, esclusi magazzini e depositi».
Il cambio di rotta si ebbe con il d.lgs. 31.3.1998, n. 114, salutato come un manifesto della liberalizzazione del commercio in virtù del richiamo ai principi della tutela della concorrenza e della libera circolazione delle merci.
Il decreto, ancora vigente, supera il vecchio sistema mediante tre misure fondamentali: l’abolizione del Rec e delle cd. tabelle merceologiche, la semplificazione procedimentale e, soprattutto, la dequotazione della pianificazione commerciale.
Infatti, non è più previsto il piano commerciale, ma allo stesso subentra la fissazione di indirizzi e criteri demandata alle Regioni in vista del disimpegno della successiva attività comunale.
In particolare, nel nuovo sistema le Regioni devono definire «indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali» nonché fissare «criteri di programmazione urbanistica riferita al settore commerciale», affinché gli strumenti urbanistici dei Comuni individuino poi «a) le aree da destinare agli insediamenti commerciali ed, in particolare, quelle nelle quali consentire gli insediamenti di medie e grandi strutture di vendita al dettaglio; b) i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonché dell’arredo urbano, ai quali sono sottoposte le imprese commerciali nei centri storici e nelle località di particolare interesse artistico e naturale; c) i vincoli di natura urbanistica ed in particolare quelli inerenti la disponibilità di spazi pubblici o di uso pubblico e le quantità minime di spazi per parcheggi, relativi alle diverse strutture di vendita; d) la correlazione dei procedimenti di rilascio della concessione o autorizzazione edilizia inerenti l’immobile o il complesso di immobili e dell’autorizzazione all’apertura di una media o grande struttura di vendita7, eventualmente prevedendone la contestualità»8.
2.1 Liberalizzazioni e insediamenti commerciali
Dopo la riforma costituzionale del 2001, il legislatore statale è di nuovo intervenuto, con il d.l. 4.7.2006, n. 2239, incentivando la tutela della concorrenza anche nel settore del commercio e in particolare: facendo venir meno una serie di limiti e prescrizioni nello svolgimento delle attività commerciali, quali il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attività appartenenti alla medesima tipologia di esercizio, le limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali, il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale; nonché disponendo l’abrogazione delle norme statali confliggenti con quelle pro-concorrenziali e l’adeguamento di quelle regionali entro il 1 gennaio 2007.
In questo contesto normativo si sono poi inseriti ulteriori interventi legislativi volti a perseguire l’obiettivo della liberalizzazione10, tenendo però in adeguata considerazione le esigenze connesse alla cura di altri interessi pubblici meritevoli (tra cui quello urbanistico).
In particolare, nel recepire la direttiva servizi (2006/123/CE), il legislatore statale ha stabilito che limitazioni o restrizioni all’accesso e all’esercizio di un’attività di servizio (inclusa quella commerciale) sono consentite solo se sussistono «motivi imperativi di interesse generale», cioè «ragioni di pubblico interesse, tra i quali l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, la sicurezza stradale, la tutela dei lavoratori compresa la protezione sociale dei lavoratori, il mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, la tutela dei consumatori, dei destinatari di servizi e dei lavoratori, l’equità delle transazioni commerciali, la lotta alla frode, la tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, la salute degli animali, la proprietà intellettuale, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico, gli obiettivi di politica sociale e di politica culturale»11.
Nel 2011, inoltre, egli ha sancito che «costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali»12, con abrogazione di ulteriori restrizioni13 allo svolgimento di attività economiche.
In quest’ultimo anno, infine, è stata disposta14 l’abrogazione15 delle «norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell’amministrazione comunque denominati per l’avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità», di quelle norme che «pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite», nonché delle «disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate».
Tutti questi interventi legislativi di liberalizzazione sono sicuramente rilevanti ai fini del concreto disimpegno delle funzioni di programmazione della rete distributiva da parte di Regioni e Comuni, dal momento che questi Enti – in sede di redazione rispettivamente di indirizzi e criteri per l’insediamento di strutture di vendita e dei piani commerciali – non possono stabilire limiti e restrizioni quantitative che non rispondano a motivi imperativi di interesse generale, bensì a finalità di politica economica.
Gli interventi legislativi de quibus non privano però di attualità la questione qui affrontata e ciò dal momento che con essi il legislatore non ha certo voluto consentire una «liberalizzazione assoluta o selvaggia»16. Limitazioni all’apertura di nuovi esercizi commerciali sono, infatti, tuttora possibili purché «non si fondino su quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite, ossia ... sull’apprezzamento autoritativo dell’adeguatezza dell’offerta alla presunta entità della domanda»17. In altri termini, «se è ben vero che le autorizzazioni commerciali non possono essere limitate avendo quale parametro di riferimento la pretesa sufficienza degli esercizi esistenti, è altrettanto vero che la c.d. “urbanistica commerciale” può individuare altri elementi di limitazione, riferiti, ad esempio all’essere determinate zone più o meno servite …, ovvero alla presenza di monumenti di particolare significanza o di panorami, o bellezze d’insieme, che non si vogliono turbare con la presenza di strutture incongrue, o ancora all’inadeguatezza della rete viaria»18.
Come detto, la questione che continua tuttora a porsi riguarda i rapporti tra programmazione della rete distributiva e pianificazione urbanistica.
Nel sistema delineato dalla legge del 1971, quei rapporti erano chiaramente esplicitati: il piano commerciale doveva essere conforme al piano urbanistico19.
A ciò si aggiungeva la previsione – racchiusa nel citato articolo 13 della medesima legge – secondo cui lo strumento urbanistico generale era chiamato a stabilire le norme per l’insediamento di attività commerciali, mentre a quello esecutivo competeva di determinare gli spazi eventualmente riservati ai centri commerciali ed ai grandi esercizi di vendita.
Sulla base di queste disposizioni era stato affermato il primato del piano urbanistico, nel senso che lo strumento commerciale doveva essere approvato in conformità alle previsioni urbanistiche ed essere adeguato alle stesse in caso di loro variazione20.
Il d.lgs. n. 114/1998 ha poi – come detto – tentato di far venir meno quel sistema piano urbanistico/piano commerciale mediante la dequotazione di quest’ultimo strumento pianificatorio: i problemi di raccordo avrebbero così dovuto essere del tutto esclusi. Tuttavia, il citato art. 6 di quel decreto – nel momento in cui ha soppresso lo specifico strumento commerciale – ha affidato alle Regioni il compito di dettare «indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali» e «criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciali», preordinati a far sì che gli strumenti urbanistici dei Comuni individuino: le aree per l’insediamento delle medie e grandi strutture di vendita; i limiti connessi alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonché dell’arredo urbano; i vincoli di natura urbanistica; le modalità di correlazione dei procedimenti di rilascio del titolo edilizio e dell’autorizzazione commerciale per l’apertura di una media o grande struttura di vendita21. Di conseguenza, in concreto molto è dipeso dalle scelte operate dalle singole Regioni nell’esercizio della loro potestà legislativa22 e regolamentare in materia di commercio.
È accaduto, infatti, che quel piano commerciale superato (nei termini suddetti) dal citato decreto n. 114/1998 sia stato sovente “mantenuto in vita” (magari con sembianze diverse) dai legislatori regionali: con la conseguenza che continua a rivestire attualità la questione dei rapporti tra quel piano e lo strumento urbanistico.
Nel tentativo di offrire una soluzione alla questione in parola, s’è detto che, se «il rilascio di autorizzazioni commerciali presuppone la conformità urbanistica, vi è una innegabile connessione anche sul piano programmatorio: la programmazione commerciale non può essere disgiunta dalla pianificazione urbanistica, ma anzi presuppone che i due aspetti vengono valutati congiuntamente e contestualmente»23.
E così il Giudice amministrativo ha reputato illegittime le scelte di pianificazione urbanistica assunte senza considerare quanto stabilito dal piano commerciale alle stesse previgente: annullando – per violazione del principio di coordinamento – una variante urbanistica adottata «senza una verifica della pianificazione commerciale e delle precedenti scelte di collocare in quella zona una struttura commerciale»24.
Parrebbe pertanto esser venuto meno il primato che il piano urbanistico rivestiva nel sistema del 1971, almeno se inteso come tale da comportare l’obbligo per il piano commerciale non solo di essere approvato in conformità alle scelte di pianificazione urbanistica, ma pure di adeguarsi alle stesse in caso di loro variazione25.
Inoltre, pure a fronte di normative regionali che non esplicitavano in alcun modo i rapporti di forza tra strumenti urbanistici e specifiche norme dettate per lo sviluppo della rete distributiva, s’è giunti ad affermare che, «laddove non vi sia conformità o coerenza tra le previsioni dello strumento di promozione e quelle degli strumenti urbanistici, sono queste [ultime, n.d.r.] a dover essere adeguate» e «tale obbligo di adeguamento deve ritenersi previsto essenzialmente per l’ipotesi che le previsioni urbanistiche impediscano la realizzazione delle previsioni del piano commerciale»26.
Ancora, in altri casi il Giudice amministrativo27 ha sottolineato che sarebbe «evidente la volontà del legislatore di assegnare allo strumento (comunque definito) con il quale si individuano le aree da destinare ad insediamenti commerciali, una funzione esaustiva di ogni esigenza sia di carattere commerciale, sia di carattere urbanistico» e ha soggiunto che di «tale espressa ed inequivoca volontà legislativa è prova la stessa lettera dell’art. 6 d.lgs. n. 114/1998»: da cui si dedurrebbe «in primo luogo, che il legislatore non intende duplicare la programmazione dell’utilizzazione del territorio, separando in distinti atti la programmazione urbanistica e la programmazione commerciale28; in secondo luogo, che l’atto di individuazione delle aree da destinare agli insediamenti commerciali costituisce “strumento urbanistico” … ed è in tale strumento che devono essere sia individuate le suddette aree sia dettate tutte le prescrizioni urbanistiche di specie»29.
Secondo quest’orientamento, cioè, lo specifico strumento per lo sviluppo dell’apparato distributivo verrebbe a «definire (ed esaurire) l’esercizio del potere di programmazione e pianificazione del territorio, ai fini urbanistici e commerciali», con la conseguenza che non sarebbe necessaria l’adozione di varianti urbanistiche per la localizzazione di strutture commerciali30 o di ulteriori strumenti urbanistici attuativi propedeutici al rilascio delle autorizzazioni commerciali31. È chiaro che riconoscere al piano commerciale l’effetto di integrare e/o variare le scelte di assetto del territorio vuol dire affermare la prevalenza di quel piano sullo strumento urbanistico32.
Diversa la posizione assunta nel 2012 dal Consiglio di Stato33, per il quale – come detto – non solo i piani urbanistici sono legittimati a porre limiti agli insediamenti commerciali (e dunque alla libertà di iniziativa economica) ma la diversità degli interessi pubblici avuti di mira impedisce di accordare prevalenza alle ragioni commerciali rispetto a quelle urbanistiche.
In questo modo, il supremo Consesso pare allora aver meglio salvaguardato l’interesse pubblico all’ordinato assetto e sviluppo del territorio rispetto alle esigenze connesse allo sviluppo della rete distributiva: affermando che anche nel sistema attuale sussiste, quantomeno in astratto34, il primato della pianificazione urbanistica.
1 Cons. St., sez. VI, 10.4.2012, n. 2060, in www.lexitalia.it.
2 In proposito v.: Morbidelli, G., Rapporti tra disciplina urbanistica e disciplina del commercio, in Riv. giur. urb., 1990, 159 ss.; Gallo, C.E., Autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, in Scritti in onore di G. Guarino, Padova, 1998, 435 ss.; Caia, G., Governo del territorio e attività economiche, in Dir. amm., 2003, 707 ss.; Caputi Jambrenghi, M.T.P.-Saitta, F., Rapporti tra pianificazione urbanistica e disciplina del commercio, in www.giustamm.it; De Giorgi, G., Gli insediamenti commerciali, in Sciullo, G., a cura di, Governo del territorio e autonomie territoriali, Bologna, 2010, 221 ss.; Traina, D.M., Disciplina del commercio, programmazione e urbanistica, in Riv. giur. edil., 2011, 119 ss.
3 Amorth, A., Commercio (disciplina amministrativa), in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 808 ss.
4 Orlando, A., Il commercio, in Cassese, S., a cura di, Tratt. Cassese, pt. spec., IV, Milano, 2003, 3534 ss., offre un’attenta disamina dell’evoluzione normativa in materia di commercio; v. anche Sanviti, G., Commercio (disciplina amministrativa), in Dig. pubbl., III, Torino, 1989, 200 ss.
5 Cintioli, F., Concorrenza, istituzioni e servizio pubblico, Milano, 2010, 93 ss.
6 Art. 11, l. n. 426/1971. Ai sensi dell’art. 12 della medesima legge, il piano in questione: «rileva la consistenza della rete distributiva in atto nel territorio del comune, detta norme e direttive per lo sviluppo e l’adeguamento della medesima, e può determinare, per i vari settori merceologici, la superficie minima dei locali adibiti alla vendita»; «per il rilascio di nuove autorizzazioni […] determina, eventualmente anche con riferimento a singole zone, il limite massimo in termini di superficie globale, separatamente per settori merceologici, della rete di vendita per generi di largo e generale consumo in modo da promuovere, anche con l’adozione di tecniche moderne, lo sviluppo e la produttività del sistema e da assicurare il rispetto della libera concorrenza nonché un adeguato equilibrio tra le varie forme distributive».
7 Si precisa che l’apertura, il trasferimento e l’ampliamento di un esercizio di vicinato non sono – come noto – soggetti al rilascio di apposita autorizzazione da parte del Comune, essendo stati assoggettati sin dal 1998 a mera comunicazione (v. art. 7, co. 1, d.lgs. n. 114/1998 nella formulazione originaria) e ora a S.c.i.a. (art. 65, co. 1, d.lgs. n. 59/2010 nel testo vigente).
8 Art. 6, co.1 e 2, d.lgs. n. 114/1998.
9 Convertito con l. 4.8.2006, n. 248 e rubricato «Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale».
10 Il riferimento è soprattutto a: d.lgs. n. 59/2010; d.l. n. 138/2011, convertito con l. n. 148/2011; d.l. n. 201/2011, convertito con l. n. 214/2011; d.l. n. 1/2012, convertito con l. n. 27/2012; d.l. n. 5/2012, convertito con l. n. 35/2012.
11 Ai sensi del combinato disposto dell’art. 8, co. 1, lett. h) e art. 12, d.lgs. n. 59/2010 cit.
12 Art. 31, co. 2, d.l. n. 201/2011 cit.
13 In particolare, «il divieto di esercizio di una attività economica al di fuori di una certa area geografica e l’abilitazione a esercitarla solo all’interno di una determinata area; l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio di una attività economica; il divieto di esercizio di una attività economica in più sedi oppure in una o più aree geografiche; la limitazione dell’esercizio di una attività economica ad alcune categorie o divieto, nei confronti di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti; la limitazione dell’esercizio di una attività economica attraverso l’indicazione tassativa della forma giuridica richiesta all’operatore; l’imposizione di prezzi minimi o commissioni per la fornitura di beni o servizi; l’obbligo di fornitura di specifici servizi complementari all’attività svolta» (art. 34, co. 3, d.l. n. 201/2011 cit.).
14 Art. 1, co. 1, d.l. n. 1/2012 cit.
15 Dalla data di entrata in vigore dei regolamenti di cui all’art. 1, co. 3, d.l. n. 1/2012.
16 TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 11.3.2011, n. 145, in www.giustizia-amministrativa.it.
17 TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, n. 145/2011 cit.; Cons. St., sez. V, 5.5.2009, n. 2808 e Cons. Stato, sez. V, 31.3.2011, n. 1973, in www.giustizia-amministrativa.it.. In particolare, per il TAR Trieste i limiti ai nuovi insediamenti commerciali potrebbero essere giustificati anche da ragioni «di salvaguardia del tessuto commerciale esistente». V. inoltre TAR Trento, 11.11.2011, n. 284, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui «la localizzazione delle strutture di vendita, in base alla dimensione territoriale del comune, involge varie considerazioni di carattere urbanistico (come l’orografia dei luoghi, la vocazione delle diverse aree e le specifiche condizioni di viabilità) le quali … non sono affatto assorbite nella pretesa alla libera iniziativa commerciale, senza alcun limite o vincolo di contingentamento quantitativo, in applicazione della CE 123/2006, poiché proprio quest’ultima fa salvi i vincoli di carattere urbanistico». Per la conferma che, anche dopo i recenti interventi legislativi sulle liberalizzazioni, siano legittime limitazioni e restrizioni di carattere urbanistico purché necessarie e proporzionate rispetto alla finalità di tutela dell’ambiente (anche urbano) e del paesaggio con le stesse perseguita cfr. la segnalazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato AS960 del 13.7.2012 («Disposizioni in materia di programmazione urbanistica del settore commerciale»), in www.agcm.it.
18 TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, n. 145/2011, cit. Cfr. inoltre TAR Campania, Salerno, sez. II, 11.1.2012, n. 26, in www.giustizia-amministrativa.it.
19 Ai sensi dell’art. 11, l. n. 426/1971, cit. i Comuni dovevano, come detto, procedere alla formazione del piano di sviluppo e di adeguamento della rete di vendita «nel rispetto delle previsioni urbanistiche».
20 Cons. St., sez. IV, 7.6.2005, n. 2928, in www.giustizia-amministrativa.it.
21 Art. 6, co. 1 e 2, d.lgs. n. 114/1998, cit.
22 Si consideri, in proposito, che la riforma costituzionale del 2001 ha lasciato per silentium alla competenza legislativa residuale delle Regioni (ai sensi dell’art. 117, co. 4, Cost.) la materia del commercio. In virtù di questa potestà esclusiva le Regioni hanno iniziato a legiferare, spesso introducendo prescrizioni vincolistiche che sono andate ad incidere in materia significativa sul sistema delineato dal decreto n. 114 del 1998.
23 TAR Lombardia, Milano, 25.7.2008, n. 2994, in www.giustizia-amministrativa.it.
24 TAR Lombardia, Milano, sez. II, 4.5.2011, n. 1148, in www.giustizia-amministrativa.it. V. altresì TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.6.2009, n. 3971, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui pianificazione urbanistica e pianificazione commerciale devono essere coordinate, con la conseguenza che è illegittima per violazione di questo principio una «variante urbanistica contenente una modifica della disciplina commerciale, senza tuttavia alcuna attività istruttoria in merito alla realtà commerciale né agli aspetti urbanistici connessi alla struttura di vendita oggetto della disposizione».
25 Cons. St., n. 2928/2005, cit.
26 TAR Umbria, Perugia, 12.8.2003, n. 650, in www.giustizia-amministrativa.it, per cui è ormai lo strumento di promozione a stabilire «le localizzazioni, potendo determinare anche il numero delle autorizzazioni rilasciabili per le medie strutture di vendita» e «le previsioni di tale strumento condizionano da subito il rilascio delle autorizzazioni commerciali». Dopo aver fatto queste considerazioni quel Giudice ha affrontato la questione dell’efficacia delle «previsioni relative alle localizzazioni degli insediamenti commerciali contenute nelle pianificazioni urbanistiche preesistenti allo strumento di promozione» e ha affermato che «laddove prevedano mere possibilità di localizzazione (ancorché puntuali, ma pur sempre costruite come standard sulla tipologia, le superfici ed i volumi massimi consentiti), non ancora attuate mediante il rilascio delle autorizzazioni, queste restino inoperanti, fino a che le previsioni dello strumento commerciale non si pongano in sinergia con esse».
27 TAR Campania, Napoli n. 2668/2002, cit.
28 Secondo la sentenza in questione, ciò apparirebbe evidente dalla «lettera del comma 2 dell’art. 6, dove si fa espresso riferimento a “criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale”».
29 Quest’interpretazione sarebbe, sempre secondo quel Giudice (TAR Campania, Napoli, n. 2668/2002, cit.), «del tutto ragionevole anche sul piano logico-sistematico, non essendo certo coerente con il principio di buon andamento amministrativo una eventuale duplicazione e distinzione di funzioni di programmazione e pianificazione con riferimento al medesimo territorio, con la conseguente, paradossale intersecazione di atti generali e/o di pianificazione».
30 TAR Campania, Salerno, sez. II, 5.3.2012, n. 415; TAR Campania, Salerno, sez. II, 11.1.2012, n. 26; TAR Campania, Salerno, sez. II, 3.12.2010 n. 13082 (tutte in www.giustizia-amministrativa.it). In queste sentenze, però, per giungere a siffatta conclusione il Giudice ha valorizzato pure una specifica previsione racchiusa nella legge regionale sul commercio (l’art. 13, l.r. Campania n. 1/2000), affermando che lo strumento di programmazione per la rete distributiva, «nell’individuare le aree sulle quali poter allocare le attività commerciali, ben può indicare zone del territorio comunale per le quali il PRG non prevede tale destinazione, derivando da ciò una variazione ovvero una integrazione delle previsioni dello strumento urbanistico, conformemente alla natura dello strumento di programmazione previsto dal citato art. 13 … che costituisce “piano di strumento integrato del PRG”» ed è sottoposto al visto di conformità regionale (cioè al controllo degli Enti d’area vasta, come avviene per la formazione e/o variazione degli strumenti urbanistici).
31 TAR Campania, Napoli n. 2668/2002 cit.
32 Anche se, è bene precisarlo, su questa conclusione potrebbero aver notevolmente influito le specifiche previsioni regionali in rilievo (art. 13, l.r. Campania n. 1/2000 cit.), le quali – come detto – qualificano espressamente quello strumento programmatorio come «piano di strumento integrato del PRG».
33 Con la sentenza n. 2060/2012 cit.
34 Cioè fatte salve eventuali previsioni regionali che disciplinino in modo diverso il rapporto tra i due strumenti pianificatori in questione.