Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il secolo XIII vede il fiorire delle università, istituzioni di alto prestigio intellettuale che propongono modalità e tecniche nuove di produrre e diffondere cultura, molto diverse da quelle sviluppate nelle scuole monastiche dei secoli alti del Medioevo. La musica è parte dell’insegnamento universitario nelle facoltà delle Arti: i maestri continuano a collocarla fra le discipline matematiche, secondo l’insegnamento di Boezio. I temi di maggiore interesse speculativo sono lo statuto scientifico della musica, la misurazione del tempo, la natura del suono e, non ultima, un’attenzione via via più consapevole alla “pratica” della musica, che comincia a essere considerata parte integrante e imprescindibile del sapere musicale.
Gli insegnamenti di Boezio relativi alla musica entrano nel curriculum di studi proposto dalle facoltà delle Arti delle università medievali fin dagli inizi del secolo XIII. Come nei secoli precedenti, la musica è considerata una scienza del quadrivium (con aritmetica, geometria e astronomia), da studiare nel contesto di una formazione matematica di base. Benché la scarsità di testimonianze provenienti dalle sedi universitarie sembri indicare un limitato interesse verso la musica e le discipline sorelle, tanto da aver fatto parlare di “eclissi” del quadrivium, in realtà la speculazione scientifica dimostra notevoli vitalità e innovazione, dovute anzitutto all’ingresso in Occidente degli scritti di Aristotele sulla scienza e la filosofia naturale.
Negli Analitici secondi, Aristotele pone fra le sue argomentazioni l’assunto che la matematica è una scienza universale delle cause, in quanto garantisce una conoscenza certa e una dimostrazione rigorosa, fondata su assiomi evidenti. Ma per Aristotele non tutte le discipline matematiche derivano i loro principi dagli assiomi. È il caso, ad esempio, della musica e dell’astronomia, che sono scienze applicate a enti naturali, rispettivamente il suono e il moto dei corpi celesti. La matematica della musica, che gli intellettuali medievali avevano ereditato da Boezio, grazie alla conoscenza di Aristotele acquisisce quindi uno statuto scientifico “intermedio”. Come afferma Tommaso d’Aquino nel suo Commento agli Analitici secondi, la musica è una scientia media, in quanto si colloca fra l’aritmetica e la filosofia naturale, che sono discipline diverse per oggetto e finalità. La prima si occupa di quantità in via deduttiva (partendo da assiomi generali e pervenendo a conclusioni particolari), la seconda verte su enti concreti conosciuti per induzione (partendo dai casi particolari e giungendo a conclusioni generali). Anche altri maestri commentatori di Aristotele pervengono a conclusioni analoghe, sottolineando che la musica è subalterna, cioè “sottoposta”, in parte all’aritmetica, in parte alla filosofia naturale. Tale idea di subalternità si ritrova anche nella trattatistica musicale, declinata secondo diverse sensibilità. Ad esempio, per il teorico Giacomo di Liegi, sostenitore nel suo ingente Speculum musicae (1325 ca.) del sistema notazionale dell’ars antiqua, la subalternatio si applica a tutti e tre i generi della musica definiti da Boezio (mondana, humana e instrumentalis), oltre che alla musica divina dei cori angelici, ma solo la “strumentale” è subalterna all’aritmetica; le altre lo sono alla filosofia naturale, mentre la divina, la più eccelsa, sottostà alla metafisica.
Magister Lambertus
Artefice è colui che, nella pratica, elabora i neumi e le armonie e i loro possibili accidenti, ed è colui che, nella teoria, insegna come queste cose possono essere fatte secondo l’arte e come esse possano muovere gli affetti umani. Infatti, altro è il compito pratico, altro il teorico. Compito pratico, appunto, è comporre armonie secondo l’arte, compito teorico è comprendere la conoscenza delle specie di armonie, e come e perché si compone.
Altre impostazioni teoriche testimoniate nei trattati dei secoli XIII e XIV fanno capire l’importanza che gradualmente assume l’integrazione fra pratica e speculazione musicale. Il teorico domenicano Girolamo di Moravia, influenzato dalla filosofia di Tommaso d’Aquino, sottolinea nel suo Tractatus de musica (scritto verso il 1280) che il vero oggetto della musica non è il numero, come diceva Boezio, ma il “suono discreto” (sonus discretus), cioè il suono fisico che l’uomo “traduce” in rapporti numerici definiti in altezza e durata. Altri trattatisti, come ad esempio il Maestro Lamberto, operante a Parigi verso la metà del XIII secolo e autore anch’egli di un Tractatus de musica, ribadiscono l’integrazione fra momento teorico e pratico della musica, entrambi utili alla perfetta conoscenza di quest’arte.
Nel Tractatus de musica del parigino Giovanni de Grocheo, che scrive alla fine del XIII secolo, la practica ha addirittura un significato capitale. Per questo teorico, il suono è il vero “oggetto” di studio della musica e l’aspetto scientifico della musica si riassume nel “trasmettere i principi” di un’arte, quella del canto. Seguendo l’ Etica aristotelica, in cui è posta la differenza fra sapere speculativo e pratico, Giovanni de Grocheo rimuove la musica dalle discipline speculative, come stabiliva la sua tradizionale appartenenza al quadrivio, e la colloca fra le operative, utili all’uomo e alla società per correggere i costumi e lodare Dio. L’attenzione verso il mondo dei suoni, resi “arte” dalla musica, diviene quindi concreta, e la teoria si fa portavoce di questo nuovo sentire.
Johannes de Grocheo
Diciamo quindi che la musica è l’arte o la scienza del suono numerato considerato armonicamente, deputata a cantare con facilità. E dico che è scienza in quanto trasmette la conoscenza di principi, e arte poiché regola l’intelletto pratico attraverso l’operare, e dico che riguarda il suono armonico, poiché questo è la materia specifica sulla quale essa opera, e attraverso il numero è individuata la sua forma. Infine, per cantare è comportata un’operazione, alla quale la musica è deputata in senso proprio.
Il trattato di Giovanni è una miniera preziosa per la moderna musicologia, proprio per l’attenzione che pone alla realtà musicale del tempo, ma, come abbiamo visto, tale attenzione non è “estemporanea”, bensì guidata da una nuova concezione della disciplina musicale.
In questo contesto, la matematica non è più “scienza delle cause”, ma una disciplina atta a studiare la realtà empirica attraverso la misurazione. Le calculationes tardomedievali furono sofismi ed esercizi logici, elaborati attraverso specifici “linguaggi di misura”, e l’interesse verso il tema della “misura” domina anche nei trattati di musica.
Nel corso del XIV secolo il dibattito sulla natura della scienza si fa più acceso, anche perché alcuni aspetti della teoria aristotelica sono messi in crisi da nuove impostazioni filosofiche. Nel contesto del cosiddetto “movimento occamista”, ispirato ai principi filosofici del filosofo francescano Guglielmo di Ockham, la scienza è considerata un insieme di conoscenze fondate sull’evidenza del dato singolare, connesse attraverso particolari procedure logico-analitiche: alla verità delle proposizioni scientifiche si sostituisce la valutazione delle condizioni di validità logica delle stesse. In questo contesto, la matematica non è più “scienza delle cause”, ma una disciplina atta a studiare la realtà empirica attraverso la misurazione. Le calculationes tardomedievali furono sofismi ed esercizi logici, elaborati attraverso specifici “linguaggi di misura”, e l’interesse verso il tema della “misura” domina anche nei trattati di musica.
Il magister artium parigino Giovanni de Muris, sostenitore del nuovo sistema di notazione dell’ ars nova francese, sottolinea nella sua Notitia artis musicae (scritta nel secondo decennio del 1300) che la teoria (cioè la matematica) musicale è arte, o scienza, tanto quanto lo è la pratica della musica, la quale include lo studio della polifonia. Entrambe, però, si fondano sull’esperienza fattuale (experimentum) relativa al suono, senza la quale nessuna conoscenza ha inizio. Universale, nella scienza/arte della musica è solo il principio della misurazione, che, una volta stabilito, è uniforme e sempre applicabile a ogni singola esperienza uditiva. Un ragionamento analogo è anche in Marchetto da Padova, il maggiore teorico dell’ ars nova italiana, per il quale la nota musicale, nei suoi parametri misurabili di altezza e durata, esprime la “vera essenza” della musica.
Marchetto da Padova
Gli elementi sostanziali ed intrinseci del canto e della musica sono le note, nelle quali consiste essenzialmente la scienza della musica; […] in quanto per mezzo di esse possiamo cantare qualcosa in modo misurato. La misura nel suo complesso consiste in una quantità e in un tempo precisi; infatti il tempo è la misura del movimento secondo Aristotele, nel quarto libro della Fisica. A proposito del tempo, bisogna quindi vedere per prima cosa in che modo venga inteso nella musica e come sia applicato alle note, per vedere poi in che modo queste note siano accolte nel canto misurato e in che modo siano misurate.
Differentemente dai trattati musicali dell’alto Medioevo, quelli composti nei secoli XIII e XIV hanno quindi chiara la consapevolezza che la musica è un “linguaggio” che parla attraverso le note musicali, “suoni misurati” nell’altezza e nella durata e rappresentati attraverso un sistema di segni notazionali sempre più accurati nell’esprimere le intenzioni del compositore. Sullo scorcio del secolo XIV, i trattati ormai dimostrano la consapevolezza che la “creazione” musicale è un prodotto artificiale, plasmato dalla capacità e dalla tecnica del compositore. Questa consapevolezza emerge nell’idea di “nuovo stile” introdotto da Giovanni Ciconia nella sua Nova musica, scritta agli inizi del Quattrocento. Per questo teorico è indispensabile definire un metodo innovativo per la composizione musicale, che evidenzi il rapporto di analogia fra la musica e il linguaggio. Prendendo a prestito la terminologia delle arti del trivio, Ciconia individua nella notazione musicale una vera e propria “tecnica dello scrivere”, come Giovanni di Grocheo aveva già affermato un secolo prima.
Johannes de Grocheo
Allo stesso modo in cui al grammatico fu necessaria l’arte dello scrivere e l’invenzione delle lettere, affinché ricordasse le parole inventate e imposte a significare attraverso la scrittura, così anche al musico tale tecnica è necessaria, affinché per mezzo di essa possa conservare i diversi canti composti da vari tipi di concordanze.
Fra i problemi più interessanti che emergono nella trattatistica musicale dalla metà del XIII secolo e nei primi decenni del XIV vi è quello della misurazione delle durate delle note. Il problema emerge dagli sviluppi del linguaggio polifonico, che nei sistemi notazionali dell’ars antiqua (nel secolo XIII) e dell’ars nova (a partire dagli inizi del XIV secolo) prevede l’attribuzione di un valore individuale di durata a ogni nota e pausa, e un sistema di relazioni fra tali valori, fondato sulla durata assegnata a una nota scelta a unità di misura.
Recenti studi hanno messo in evidenza come il problema filosofico sulla natura del tempo abbia avuto un peso rilevante nella messa a fuoco dell’idea di tempo musicale nell’ambito della “diatriba” fra i sostenitori dell’ ars antiqua e quelli dell’ ars nova. I due punti di vista sono esemplati nei trattati di Giacomo di Liegi e Giovanni de Muris. Entrambi, come del resto fanno altri teorici, partono dalla definizione aristotelica del tempo, presente nella Fisica, per cui esso è misura del movimento secondo il prima e il poi (si veda ad esempio la citazione dal Pomerium di Marchetto, riportata sopra). Ma il modo in cui è intesa la misura del tempo è differente nelle due concezioni. Giacomo, difensore delle ragioni filosofiche e teologiche che fondano la speculazione musicale come scienza aritmetica, ritiene che il numero sia la forma essenziale del tempo, al contrario di Giovanni che lo considera una forma accidentale. Per Giacomo, quindi, la divisione ternaria delle durate delle note è una caratteristica che rivela la natura intrinseca del progetto divino, che si esprime attraverso la perfezione del numero tre, mentre per Giovanni la divisione ternaria è perfetta solo per convenzione. Infatti, l’unità di misura del tempo musicale per lui è “un certo lasso” di tempo, quindi è essa stessa una grandezza divisibile a piacimento: per due, per tre o per qualsiasi altro numero, fino all’infinito, come afferma nella Notitia artis musicae. Questa concezione si conforma al principio occamista per cui il tempo non è una “realtà fisica”, ma un concetto che “connota” un’operazione mentale applicata alla percezione di un movimento (nel caso della musica è il processo di divisibilità all’infinito della durata di una nota). Per Giacomo, la concezione è del tutto differente, in quanto l’unità di misura della nota è “una” e perfetta, essendo una proprietà essenziale della nota stessa. La concezione del tempo musicale è quindi quella di un “discreto”, cioè di una quantità che non si può dividere all’infinito, avendo il suo minimo naturale nella divisione ternaria della nota brevis. L’idea di “tempo discreto” si sviluppa in ambito teologico per rispondere al problema di come gli esseri spirituali, come gli angeli e i beati, misurano le durate, tematica sviluppata negli scritti di maestri parigini quali Enrico di Gand, a cui Giacomo sembra ispirarsi.
A seguito della conoscenza della filosofia naturale aristotelica, anche i problemi di acustica divengono argomenti di dibattito fra i maestri universitari.
I temi in discussione riguardano la natura del suono (se sia “cosa” o “qualità”), la sua propagazione, la ricezione all’udito. Queste e altre questioni, alcune delle quali costituiscono, ad esempio, la trattazione del domenicano Vincenzo di Beauvais nel suo Speculum naturale, scritto verso il 1260, conducono a concepire il suono come un fenomeno qualitativo, dotato di un’esistenza instabile e delimitata nella durata.
Altre prospettive dimostrano invece un approccio differente, e una di queste merita un accenno per il suo collegamento con la teoria della musica. Si tratta dell’idea che il suono sia un fenomeno luminoso, ipotesi originatasi sulla base della fisica della luce elaborata nella seconda decade del secolo XIII dal maestro inglese Roberto Grossatesta, e sviluppata da un anonimo commentatore del De institutione musica di Boezio, operante intorno alla metà del secolo XIII, forse a Oxford. Egli tenta di dimostrare come questa idea renda coerente il collegamento fra l’acustica e la matematica musicale. Infatti, la proporzione numerica che esprime la consonanza è individuata nel rapporto fra la quantità di luce emessa dalle due diverse vibrazioni dell’aria che generano la consonanza.
Questa singolare dottrina implica che anche la luce celeste si riversi sulla terra sotto forma di suono, incorporandosi nelle molecole di aria. Così, la boeziana musica delle sfere non è più considerata come prodotta dalla velocità di rotazione dei pianeti, dottrina contraria alla fisica aristotelica, ma dalla luminosità dei corpi celesti. Questa idea godrà di un certo consenso: oltre che dal commentatore di Boezio e da alcuni maestri francescani inglesi è sostenuta nella Philosophica disciplina, un manuale universitario del 1245, nell’Opus tertium di Ruggero Bacone e nella Divisio scientiarum, del 1250 circa, di Arnaldo di Provenza.
L’interesse verso la natura del suono si fa più acceso nel secolo XIV, quando le nuove tecniche di misura consentono di ridefinirne lo studio su basi diverse rispetto alla fisica aristotelica. L’importante trattato del filosofo parigino Nicola Oresme, il De configurationibus qualitatum et motuum, prevede una sezione dedicata al suono, con una relativa sezione “estetica” centrata sulla musica, che dimostra l’attenzione dello scienziato parigino verso la pratica musicale del suo tempo, certamente maturata dalla familiarità con compositori del calibro di Philippe de Vitry.
L’interesse di Oresme è incentrato sulle caratteristiche misurabili della “qualità” suono. L’ intensio, cioè la variabilità del suono, è riscontrabile in quattro parametri: altezza, intensità, numero e mescolanza di vibrazioni. Essi definiscono la gradevolezza di quattro “livelli” di sonorità: il singolo impulso dell’aria, il singolo suono, la melodia, cioè l’insieme di suoni susseguentisi l’uno all’altro “come in una cantilena o in un’antifona” e infine il canto polifonico, che si ha “quando cori gradevoli mescolano modulazioni soavi”. Ogni livello ha delle caratteristiche proprie, e dalla loro proporzionata convergenza risulta la bellezza della musica. La fisica del suono si apre quindi a importanti considerazioni di tipo estetico musicale.