L'insegnamento della religione
In Europa come negli Stati Uniti d’America, tutti (o quasi) i sistemi scolastici hanno una comune eredità di origine religiosa. La relazione ‘religioni-scuola’ è pertanto un dato primario che deve essere considerato come problema storico, nella sua evoluzione. In Occidente le scuole sono una filiazione delle Chiese. Si tratta di un dato inconfutabile che porta con sé anche un’inevitabile conflittualità, almeno sin dal momento in cui la scuola comincia a rivendicare la propria autonomia dall’istituzione ecclesiastica. Ma se è vero che la scuola ha avuto la sua incubazione nell’ambito della Chiesa, è vero anche che l’autorità civile ha progressivamente rilevato – considerandole di sua propria competenza – l’insieme delle principali attività connesse all’istruzione del popolo. Per la precisione: quest’ultima è diventata, grosso modo a partire dall’epoca moderna, dovere istituzionale dello Stato.
Non bisogna dimenticare che, nell’ambito della moderna cultura europea, i primi sforzi concreti in direzione di un’autentica alfabetizzazione del popolo furono attuati sotto il decisivo impulso dellaRiforma protestante. Lutero non si limitò a scrivere i suoi catechismi per promuovere una cultura biblica e teologica nelle famiglie cristiane del suo tempo. Al contrario, egli intervenne con grande energia affinché le autorità civili promuovessero l’educazione del popolo, conducendo al tempo stesso in prima persona un’assidua opera di convincimento presso i genitori, che esortava a mandare i loro figli a scuola1. Né si può passare sotto silenzio l’infaticabile lavoro svolto da Erasmo, da Filippo Melantone e più in generale da molti altri esponenti dell’umanesimo europeo a favore della cultura e della scuola. In una prospettiva cristiana, dunque, scuola e catechismo non si escludono ma anzi si integrano a vicenda. Quanto poi la centralità della Bibbia sia stata assunta a metodo pedagogico dell’insegnamento scolastico è ben testimoniato, per esempio, dall’opera del grande pedagogo e teologo moravo Jan Amos Comenius, vissuto tra la fine del Cinquecento e gli anni Settanta del Seicento. È un’epoca non ancora caratterizzata dalla conflittualità tra Chiesa e scuola, in cui si cerca di far convergere gli sforzi compiuti per la formazione del cristiano ‘e’ del cittadino ovvero del cittadino ‘e’ del cristiano. L’educazione religiosa tende perciò in questa fase alla formazione del buon cattolico come pure del buon protestante – per la tradizione ebraica, che ha le proprie scuole, vale peraltro lo stesso discorso. Nelle terre degli Stati Uniti d’America, colonizzate dai puritani protestanti, sono state per contro le scuole domenicali, cioè le scuole bibliche delle singole Chiese locali, a creare la rete di scuole pubbliche2.
In Occidente le cose cambieranno solo in seguito alla Rivoluzione francese e alla progressiva rivendicazione di autonomia degli Stati rispetto al potere temporale della Chiesa cattolica. Anche in Italia questo processo sfocerà in un inarrestabile quanto normale e necessario processo di laicizzazione, fino a che la conflittualità tra Chiesa e Stato assumerà toni forti e talvolta anche aspri. La storia d’Italia, dall’Unità ai nostri giorni, è stata – ed è tuttora – segnata da questa conflittualità. Una conflittualità che né il Concordato del 1929 né la sua successiva revisione (1984) hanno potuto attenuare. Per certi versi essa sembrerebbe anzi ulteriormente accentuata. È in questa cornice che affronteremo nel prosieguo il tema dell’insegnamento della religione nelle scuole.
Punto di inizio e di riferimento del nostro percorso è loStatuto albertino del 4 marzo 18483, una data ormai lontana nel tempo ma che ha impresso un marchio indelebile, se così si può dire, agli sviluppi della politica scolastica del Regno sabaudo prima, e della Repubblica italiana poi. All’atto dell’Unità d’Italia lo Statuto di Carlo Alberto divenne la costituzione del Regno. L’articolo 1 non subì modifica alcuna. Esso recita: «La Religione Cattolica, Apostolica Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alla legge». Lo Statuto albertino va oltre il vecchio principio augustano del cuius regio, eius religio, che imponeva ai sudditi la religione del sovrano, ma si allinea all’accordo fra trono e altare e al tempo stesso allo spirito di restaurazione che si oppone all’emergenza dello stato liberale moderno come pure alla piena libertà religiosa dei cittadini. Il Regno di Sardegna è pertanto uno Stato ‘confessionale’ che ‘tollera’ la presenza sul suo territorio di altre forme religiose, registrando, sul piano giuridico, una situazione di fatto: l’esistenza di comunità religiose non cattoliche. Questi gruppi ‘altri’ sono fondamentalmente due: la Chiesa valdese e la Comunità ebraica.
La presenza dei valdesi è attestata in Piemonte sin dal XIII-XIV secolo. L’applicazione del principio di tolleranza ‘conformemente alla legge’ permetterà loro di muoversi liberamente entro i confini del Regno, e così sarà per la comunità ebraica.
La nuova politica di tolleranza del sovrano Carlo Alberto non era certo una concessione dovuta alla magnanimità del re quanto piuttosto alle pressioni esercitate dalle ambasciate protestanti con sede a Torino e da personalità quali Roberto d’Azeglio, Camillo Benso di Cavour, Vincenzo Gioberti. Si arrivò così alla pubblicazione delle Regie lettere patenti, in data 17 febbraio 1848, nelle quali si affermava fra l’altro: «I valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi, a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici. Nulla è però innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette»4.
Le lettere patenti del 1848 precisano i limiti entro i quali situare i diritti relativi all’emancipazione: i valdesi sono ora considerati cittadini a tutti gli effetti ma non vi è per loro il riconoscimento della libertà religiosa. Non essendo riconosciuta la libertà religiosa, si ‘tollera’ una diversa pratica religiosa rispetto a quella cattolica e al tempo stesso si riconosce l’autonomia dell’istruzione scolastica impartita nelle «scuole da essi dirette».
Poche settimane dopo, l’emancipazione giunse anche per gli ebrei, con il decreto del 25 marzo, in cui si afferma: «La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all’ammissibilità alle cariche civili e militari». In Piemonte ciò significava la fine del ghetto. La legge 4 luglio 1857 n. 2325 – nota anche come legge Rattazzi – sancì inoltre lo status delle comunità ebraiche e delle «università israelitiche»5.
Al momento dell’emancipazione, nelle Valli Valdesi (Val Pellice, Val Chisone, Val Germanasca) esistevano ben 169 scuole con 4.479 alunni6. Queste scuole erano gestite dalle Chiese locali, a loro volta finanziate – in larga parte – dai comitati delle Chiese sorelle straniere: scozzesi, inglesi, olandesi e svizzere. Grazie all’iniziativa dell’anglicano Charles Beckwith, la rete di scuole elementari già esistenti venne moltiplicata in modo che ogni villaggio ne avesse una propria, cosa che permise ai valdesi di disporre d’un rapido quanto efficace strumento di alfabetizzazione, che eliminò alla radice l’analfabetismo. Va da sé che, in questo quadro, la Bibbia occupava un posto centrale nell’istruzione dei ragazzi e delle ragazze. In sostanza, pur nell’assenza di un riconoscimento ufficiale della libertà religiosa, il fatto che i valdesi potessero mantenere in piena autonomia la rete delle loro scuole significava, per loro, la difesa della propria identità culturale e religiosa.
Come primo importante tentativo di offrire una visione della scuola finalmente liberata dal marchio dell’autorità clericale va ricordata la leggeBon Compagni (4 ottobre 1848), che deve il suo nome a Carlo Bon Compagni di Mombello, già più volte ministro e allora presidente della camera dei deputati del Regno di Sardegna. Nella stessa prospettiva di Cavour, Bon Compagni sosteneva una posizione liberale molto chiara:
«Voglio la libertà per la Chiesa, come la voglio per tutte le altre comunioni dissidenti; voglio la libertà del cattolico come quella dell’incredulo; voglio la libertà per la Chiesa come la voglio per lo Stato, come la voglio pel comune, come la voglio per la scuola, come la voglio per l’industria, come la voglio per tutto ciò che rappresenta un grande interesse ed un grande principio»7.
Questa visione, che profumava di cultura europea (il motto fatto suo dal Cavour «libera Chiesa in libero Stato» è in realtà attribuibile al noto teologo protestante svizzero Alexandre Vinet), e non di provincia, non trovò però modo di realizzarsi nel successivo decorso degli avvenimenti politici. Questo sia per l’opposizione del potere temporale della Chiesa, sia perché restarono in vigore il primo articolo dello Statuto albertino e l’articolo 15 della stessa leggeBon Compagni, che non poteva che essere interpretato se non in relazione con lo Statuto medesimo8.
In seguito, la leggeCasati, promulgata il 13 novembre 1859, introdurrà quella che Nicola Pagano ha definito «la prima legge a carattere nazionale della scuola pubblica italiana»9, dal momento che, dopo l’Unità, le leggi in vigore in Piemonte saranno progressivamente estese all’intera nazione. Questa legge – come già quella precedente del Bon Compagni – aveva il chiaro obiettivo di promuovere l’autonomia dell’istruzione pubblica dal vincolo ecclesiastico cattolico, e veniva di conseguenza a contrastare con la politica delle scuole cattoliche allora egemonizzate dai Gesuiti10.
La legge Casati del novembre 1859 precisa le modalità dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Esso è reso obbligatorio in tutte le scuole elementari come anche nei licei-ginnasi e negli stabilimenti dell’istruzione tecnica, lasciando però ai genitori degli alunni il diritto di richiedere l’esonero11. Una volta raggiunta l’Unità d’Italia, e soprattutto all’indomani della promulgazione del Sillabo di Pio IX, si assisterà ad un sostanziale inasprimento nelle relazioni tra Stato e Chiesa. Si trattò di un vero e proprio duello per la conquista dell’egemonia nel campo dell’educazione. Dal canto suo, la minoranza valdese, ancora isolata nelle sue montagne, insisteva affinché fosse impartito a tutti i ragazzi e a tutte le ragazze un insegnamento di buon livello tanto in ambito scolastico quanto – e soprattutto: in seguito al Risveglio che aveva rivitalizzato la vita delle Chiese locali – sul fronte della catechesi. Il sinodo del 1866 rivolse così un appello ai Concistori per far sì che fossero moltiplicate le scuole domenicali (articolo XVI). Nella Chiesa valdese, ormai impegnata nell’opera di evangelizzazione, dalle Alpi alla Sicilia, si respirava aria di libertà e per due anni consecutivi (1873, 1874) il sinodo invierà al re e al Parlamento parole di gratitudine per la «libertà religiosa di cui gode l’Italia».
Con la promulgazione del Sillabo (in appendice all’enciclica Quanta cura, 8 dicembre 1864) si colpì duramente tutta la cultura liberale moderna che si era affermata in Europa e che aveva raggiunto anche il versante italiano delle Alpi, trovando eco nelle posizioni moderate, ma aperte, di uomini come Gino Capponi,Antonio Rosmini, Raffaello Lambruschini, Ferrante Aporti. Il papa non aveva però esitato a dichiarare errata la tesi secondo cui Chiesa e Stato devono essere separati («libera Chiesa in libero Stato»). Oltre a ciò, il pontefice dichiarava che la libertà di coscienza e di culto altro non era se non una «opinione sommamente ruinosa, per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime» (proposizioni XV-XVI).
Nonostante l’opposizione radicale della Chiesa cattolica alla politica scolastica liberale, il Parlamento procedette per la sua strada, convinto di riuscire a imporre la sua politica alla Chiesa. Questa tendenza si accentuò ulteriormente nel momento in cui la sinistra assunse il potere (1876) e deliberò una serie di provvedimenti legislativi tesi, nel loro insieme, a realizzare un’impostazione laica della scuola. Va qui ricordata, in particolare, la legge Coppino del 15 luglio 1877, che introdusse l’obbligo scolastico fino ai 9 anni d’età e che cancellò la religione dal novero delle materie d’insegnamento12. In essa si accenna, per contro, allo studio delle «prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino». La legge Coppino, che intendeva sostenere la visione di una scuola laica, in cui la religione fosse un elemento facoltativo, non aveva però alcuna possibilità di imporsi, e già il Consiglio di Stato, in data 17 maggio 1878, esprimeva il parere secondo cui essa non aveva modificato il disposto della legge 13 novembre 1859 (legge Casati), in cui l’istruzione religiosa figurava fra le materie di insegnamento13. L’indubbio processo di laicizzazione in atto a fronte della politica conservatrice e ‘reazionaria’ della Chiesa cattolica – il codice civile del 25 giugno 1865 stabiliva che soltanto il matrimonio civile era da considerarsi valido a tutti gli effetti – metteva in questione l’egemonia cattolica sulla vita nazionale, ed è per arginare questo processo che Pio IX incoraggiò, nel 1868, la costituzione della Gioventù cattolica italiana, che svolgerà un ruolo importantissimo negli anni successivi.
Pochi giorni dopo la presa di Roma, il 29 settembre 1870 – evento che, fra l’altro, pose fine al ghetto in cui erano ancora costretti a vivere gli ebrei –, il ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti emanava la circolare n. 274, stando alla quale i genitori degli alunni erano tenuti a fare esplicita domanda perché i loro figli potessero partecipare all’insegnamento religioso, che era così reso «facoltativo»14.
Convinto di potersi imporre, il nuovo Stato approfondì ulteriormente la sua politica di progressivo affrancamento dal potere ecclesiastico. Il 29 gennaio 1874 il deputato della sinistra ‘storica’ Benedetto Cairoli presentò un emendamento con cui si dava «facoltà ai comuni di sopprimere l’insegnamento religioso»15. Anche questo provvedimento, tuttavia, non ebbe seguito.
Ciò che in Europa si era progressivamente realizzato all’indomani della Rivoluzione francese con l’affermarsi del principio di laicità dello Stato, cercava di farsi strada anche in Italia negli anni in cui la sinistra era al potere. Ma con quali reali possibilità in un paese che aveva conosciuto soltanto la Controriforma e in cui il papato aveva combattuto con ogni mezzo il processo di unificazione nazionale? La minoranza valdese, come quella ebraica, non aveva esitazioni nell’augurarsi che lo Stato liberale riuscisse, come diceva Settembrini, a ‘spapare’ l’Italia. I valdesi, però, temevano che le tendenze anticlericali e laiciste potessero in qualche modo introdursi nelle loro scuole, in cui, come s’è detto, l’insegnamento della Bibbia occupava un posto centrale. Questo rischio venne percepito dal sinodo valdese del 1871, che ritenne utile precisare il proprio punto di vista, respingendo l’idea di escludere la Bibbia dalle scuole primarie:
«Di fronte alle tendenze che si manifestano in luoghi diversi per escludere la Bibbia dalle scuole primarie, ilSinodo, convinto che sia il dovere della Chiesa valdese di mantenere la Parola di Dio alla base dell’educazione, raccomanda vivamente ai Concistori di vegliare affinché il Santo Libro sia letto regolarmente e con rispetto nelle scuole di loro competenza e di avere a tal fine il massimo scrupolo nella scelta dei maestri e delle maestre ben qualificati dal punto di vista della pietà cristiana16 (art. 16)».
Un cenno a sé merita la decisione che comportò la soppressione delle Facoltà teologiche statali nel 1873. Lo stesso ministro Correnti avanzò la proposta di sopprimere le Facoltà teologiche statali (nel 1870-1871 ve ne erano 13, sparpagliate su tutto il territorio nazionale) che avevano un bassissimo numero di iscritti ed erano osteggiate dalle autorità ecclesiastiche (sospensione a divinis per i sacerdoti, scomunica per i laici che volessero insegnare o studiare in dette Facoltà). Tale proposta incontrò favori ma anche forti opposizioni. Nacque un dibattito serrato che non si esaurì in sede parlamentare e che coinvolse numerose riviste. In esso si manifestarono posizioni convergenti e divergenti all’interno degli stessi schieramenti.Emilio Broglio per esempio, contrario alla soppressione, non poteva ammettere che fossero gli italiani a voler «recidere questo gran ramo dell’albero della scienza e lasciar unicamente alla Chiesa la cura di trapiantarlo, di coltivarlo a suo modo, di fargli produrre quei frutti che soli piacciono a lei»17. La proposta di soppressione venne infine presentata in Parlamento e approvata a larga maggioranza (148 favorevoli e 67 contrari alla camera; 66 favorevoli, 8 contrari e 1 astenuto al senato) nel gennaio 1873. A questo proposito, Emilio Butturini osserva che tale esito fu determinato dal fatto che prevalse – dall’una e dall’altra parte – il fronte della «bipolarità», risultando così vincente «fra i cattolici, la rivendicazione del monopolio ecclesiastico degli insegnamenti teologici e, fra i laici, il principio separatistico»18. Ne derivò, inevitabilmente, un sostanziale impoverimento per il confronto culturale a livello accademico su tutti i problemi religiosi e al tempo stesso la fine della ricerca scientifica per mancanza di risorse.
Tutte queste vicende si verificarono nel contesto della contrapposizione tra lo Stato liberale, che cercava con fatica di dare un volto laico all’Italia risorgimentale, e la Chiesa cattolica, che non intendeva rinunciare al suo potere temporale e alla sua egemonia nel campo dell’educazione.
Nonostante il progressivo diffondersi nella penisola di gruppi protestanti appartenenti alle varie missioni inglesi e americane nonché partecipi del tentativo, attuato dalla minoranza valdese, di ‘evangelizzare’ l’Italia, le loro voci sulla questione dell’insegnamento della religione nella scuola furono assolutamente marginali. Per i valdesi la questione dell’insegnamento religioso si poneva ancora tutta nell’ambito delle loro scuole e delle loro chiese. Ciò che stava loro a cuore era la libertà religiosa, che ancora non era loro riconosciuta, anche se le antiche discriminazioni erano terminate dopo il 1848. L’esser costretti a vivere in un angolo delle Alpi senza poter intrattenere relazioni con la realtà circostante aveva obbligato i valdesi a tessere relazioni con le nazioni europee d’Oltralpe dove si formava l’élite dei pastori: la Svizzera, la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra, la Scozia. Non a caso, i valdesi salutarono con favore la Rivoluzione francese (1789) e l’era napoleonica, che li riconobbe come citoyens de la République in un’area circoscritta del Piemonte, dove, per tutto il periodo napoleonico, l’‘esser cittadini’ significava ben altra cosa dall’‘esser correligionari’19. Ma fu un tempo assai breve e presto anche quest’angolo delle Alpi Cozie ritornò nei domini di Casa Savoia. Si cercherà invano negli interventi del parlamentare valdese Giuseppe Malan (deputato per tre legislature fra il 1849 e il 1860) come anche dell’evangelico Bonaventura Mazzarella (deputato per sei legislature del 1865 al 1882), un intervento concernente la questione dell’insegnamento religioso nella scuola20. Per contro, i sinodi della Chiesa valdese di quegli anni testimoniano un’attenta gestione delle loro scuole elementari, diffuse in ogni borgata delle Valli, del Collegio di Torre Pellice e della Facoltà di teologia, che, fondata nel 1855, era stata trasferita a Firenze nel 1860. D’altra parte, i valdesi seguirono – seppur a prudente distanza – quanto stava accadendo nella diatriba tra liberali e cattolici sulla scuola. Nel 1879 si porrà la questione del ‘pareggiamento’ del Collegio e dei professori e a questo fine sarà nominata un’apposita commissione di studio per esaminare le varie proposte in discussione. Nel 1881 sarà quindi approvata la raccomandazione di «istituire al Collegio un corso regolare di istruzione catechetica» (art. 20).
Come già abbiamo detto, accennando al versante cattolico, le conseguenze del Sillabo di Pio IX furono nefaste per l’intero paese e crearono fratture all’interno dello stesso mondo cattolico italiano. Come osserva Pagano, rifiutando radicalmente lo Stato liberale, la cultura e la civiltà moderna, il Sillabo «recide le residue speranze di quei cattolici che intendono mediare tra le posizioni dello Stato e quelle della Chiesa»21.
All’inizio del secolo XX si assiste a un vivace dibattito all’interno del mondo cattolico circa il ruolo dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica. L’occasione si presenta innanzitutto nel 1904, durante il dibattito parlamentare sul testo di legge presentato dal ministro della Pubblica Istruzione Vittorio Emanuele Orlando. Il provvedimento, successivamente approvato (legge 8 luglio 1904 n. 407), introdusse una nuova organizzazione nella scuola elementare e, accogliendo la proposta dei socialisti, elevò a 12 anni l’obbligo scolastico. Il punto di maggior frizione fu rappresentato dall’articolo 10 della legge: fra le materie di insegnamento della quinta e della sesta classe erano previste sì alcune nozioni di morale civile, non compariva però la religione. Il che riaprì la questione, che già abbiamo ricordato, relativa alla legge Coppino. La diversità di posizioni in ambito cattolico si manifestò, fra l’altro, nel vivace scambio di idee fraAntonio Fogazzaro, assai vicino alle posizioni moderniste, eFilippo Crispolti, uomo di fiducia della Santa Sede22.
Fu però il congresso di Napoli della Federazione nazionale insegnanti scuola media (Fnism) del 1907 a infiammare gli animi. Il relatore Alberto Fioravanti sostenne la tesi dell’abolizione di ogni insegnamento religioso nella scuola di Stato, da sostituire con un’educazione morale civile, posizione che si ispirava alla legge di separazione francese del 1904. Analogo punto di vista espresseGaetano Salvemini, il quale tenne a sottolineare l’idea che tutti gli studi dovessero essere condotti con metodo critico e razionale. A questa visione si oppose Giovanni Gentile, che criticò il concetto di ‘laicità negativa’ propria della posizione laica, sostenendo invece l’esigenza di una ‘laicità positiva’. Naturalmente, preciserà Gentile, quando si parla di religione in realtà si parla di cattolicesimo. Il congresso si concluse con l’approvazione di una mozione a favore della soppressione dell’insegnamento della religione nelle elementari e di una seconda mozione favorevole alla laicizzazione degli insegnanti23.
Si giunse in tal modo al confronto parlamentare del 1908 sulla proposta di legge diLeonida Bissolati. Il regolamento Rava (datato al 6 febbraio 1908) ribadiva l’impegno dei comuni ad assicurare l’insegnamento della religione su richiesta delle famiglie e in accordo con gli insegnanti – cosa che però metteva in difficoltà i comuni stessi, che erano in larga maggioranza contrari all’insegnamento della religione. Di fatto, però, tale insegnamento possedeva carattere obbligatorio, come lo stesso Consiglio di Stato aveva sancito il 12 dicembre 1907. La tensione tra una scuola laica e una scuola cattolica andava dunque crescendo, e una decisione doveva esser presa. Cosa che avvenne quandoBissolati propose appunto la sua mozione, in cui si affermava: «La Camera invita il Governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito sotto qualsiasi forma l’insegnamento religioso»24. Il dibattito parlamentare fu fitto e ad esso partecipò, fra gli altri, anche Sidney Sonnino, deputato cristiano non cattolico, bensì anglicano, che volle presentare una propria mozione, dove tra le altre cose affermava: «La Camera invita il Governo a presentare un disegno di legge per regolare la questione dell’insegnamento religioso nelle scuole primarie»25. Sonnino era contrario alla mozione Bissolati e cercava una soluzione ai contrasti nel solco tracciato dal regolamento Rava, come «misura di pacificazione e di transizione tra le opposte tendenze», cercando di andare oltre la politicizzazione di un problema che non poteva essere ridotto a mera questione di schieramento politico: «Sono disposto a fare buon viso al metodo proposto, perché mi pare che segni un nuovo passo sulla via liberale, mettendo in maggior rilievo di quanto non si sia fatto finora, il principio della separazione tra lo Stato e la Chiesa, la distinzione tra la laicità della scuola e l’istruzione confessionale»26. La mozione Bissolati venne battuta a larga maggioranza (60 i voti a favore, 347 quelli contrari), mentre la mozione che impegnava il governo ad applicare il regolamento Rava venne approvato a larga maggioranza (279 voti a favore, 129 contrari, 1 astenuto). Neppure in questo modo, tuttavia, trovò soluzione l’annosa questione di fondo. La confusione perdurò anzi a livello della politica locale dei comuni, anche se un nuovo problema emerse nel momento in cui il governo propose la statalizzazione delle scuole elementari, misura considerata necessaria dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, per combattere con efficacia l’analfabetismo. I grandi comuni erano contrari così come lo erano, soprattutto, i Gesuiti, che condussero una dura battaglia. La legge che segnava il graduale passaggio della gestione delle scuole elementari allo Stato venne infine approvata, malgrado le innumerevoli perplessità di ordine finanziario (legge 4 giugno 1911 n. 487 nota anche come legge Daneo-Credaro).
La nascita del Partito popolare di don Luigi Sturzo (1919) nell’Italia appena uscita dalla tragedia della Prima guerra mondiale, introdusse nuovi elementi di dibattito e nuove prospettive culturali nel panorama politico italiano. Era una voce cattolica costruita a partire dal basso e non di rado in aperta contrapposizione al magistero della Chiesa. Nel tempo, le posizioni sulla scuola del nuovo partito cattolico avrebbero dovuto verificare la propria consistenza sia verso l’interno – vale a dire confrontandosi con il magistero cattolico, restio al rinnovamento – che verso l’esterno – confrontandosi da un lato con i partiti socialista e comunista, dall’altro con la crescente influenza delle organizzazioni fasciste27. Con la nomina del filosofo Giovanni Gentile a ministro della Pubblica Istruzione da parte di Mussolini si giunse così alla riforma del 192328, che prese il nome del ministro. Gentile aveva affermato che: «[…] al fanciullo italiano deve essere insegnata la religione cattolica, nello stesso modo che gli si insegna la lingua degli scrittori italiani»29. Occorreva, in conseguenza di ciò, restaurare l’istruzione religiosa in tutte le scuole elementari, cosa che nella concezione diGentile sarebbe equivalsa a «una prova della laicità dello Stato», perché questa era la realtà italiana: «[…] se è coscienza attiva nazionale, coscienza dell’avvenire in funzione del passato, coscienza storica, esso è coscienza religiosa cattolica»30. Come osserva Pagano, si trattava di una riforma organica della scuola secondaria, media e media superiore «ristrutturata in un sistema di indubbia coerenza e, soprattutto, di evidente funzionalità al fascismo, tanto che Mussolini la definì la “più fascista delle riforme”»31. L’insegnamento della religione cattolica fu reso obbligatorio nella scuola primaria, ed è in questa circostanza che compare, per la prima volta, la nozione di religione cattolica intesa come «fondamento e coronamento dell’istruzione elementare» (regio decreto 1 ottobre 1923 n. 1285, articolo 3). Si introduceva in tal modo nell’ordinamento il carattere ‘pervasivo’ di tutta l’attività educativa e scolastica. Come fa notare Butturini, per molti cattolici questa visione poteva essere accolta favorevolmente, nella prospettiva di una vera e propria «restauratio catholica per fascismum»32. E chi cattolico non era? Le conseguenze della politica gentiliana e fascista non furono indolori per quel pezzo d’Italia protestante delle Valli Valdesi del Piemonte. Poiché le piccole scuole rurali costituivano un onere per lo Stato, venne decisa la chiusura degli istituti che contavano meno di 15 allievi. Il provvedimento colpì numerose scuole di quartiere delle zone di montagna. L’obbligo scolastico dell’insegnamento religioso cattolico provocò tutta una serie di difficoltà per i valdesi delle Valli piemontesi, dove gli allievi di confessione valdese seguivano unicamente un corso di storia biblica, mentre i cattolici, in minoranza, ne erano esentati. La Tavola valdese intervenne facendo presente che, a differenza dei cattolici, che avevano conferito un carattere catechistico all’insegnamento religioso scolastico nelle scuole pubbliche, i valdesi avevano sempre e soltanto impartito un insegnamento biblico, riservando l’istruzione catechistica alla domenica in chiesa. Il moderatore Bartolomeo Léger, fortemente preoccupato per questa situazione, cercò di avere un incontro con il ministro, cosa che avvenne il 7 febbraio 1923. Alla richiesta di Gentile di fargli avere un promemoria sulle questioni controverse, il moderatore gli inviò un memorandum in cui chiedeva che l’insegnamento religioso nella scuola pubblica fosse «semplicemente cristiano» e che alla dimensione ‘dottrinale’ fosse riservato uno spazio più contenuto rispetto a quella ‘etico-storica’33.
Fuori dal piccolo mondo valdese piemontese non mancò, in ambito evangelico, l’attenzione ai problemi politici generali, e in particolare al problema religioso. Il settimanale «Conscientia»34 seguì il dibattito in corso con grande attenzione, assumendo una posizione sempre più critica, e così anche la rivista «Bylichnis»35. Ma ormai la politica scolastica di Gentile era presa nel morso del nazionalismo fascista e usata per individuare una sintesi tra cattolicesimo e fascismo: è quanto sarà offerto su un piatto d’argento alla Chiesa cattolica con i Patti Lateranensi del 1929.
Il Concordato del 1929 non è stato un fulmine a ciel sereno nella realtà politica e culturale italiana quanto piuttosto il compimento di un processo iniziato con la progressiva affermazione del fascismo. Già al principio del 1928 era stato emanato il testo unico delle leggi concernenti l’istruzione elementare che recita:
«A fondamento e a coronamento dell’istruzione elementare in ogni suo grado è posto l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica […]. Sono esentati dall’istruzione religiosa nella scuola i fanciulli i cui genitori dichiarino di volervi provvedere personalmente» (regio decreto 5 febbraio 1928 n. 577)36.
Pagano ricorda giustamente un secondo testo significativo – il regolamento generale, emanato con il regio decreto 26 aprile 1928 n. 1297 – in cui si precisano aspetti come le ore di insegnamento (art. 108), il meccanismo dell’idoneità e di nomina degli insegnati di religione (artt. 109, 110 e 111), l’obbligo per i genitori e gli esercenti la patria potestà intenzionati a esentare i propri figli dall’insegnamento religioso cattolico di presentare una dichiarazione scritta, indirizzata al direttore didattico di istituto (art. 112). Questa linea di tendenza porterà, l’11 febbraio 1929, alla firma dei Patti Lateranensi. In essi viene confermato il principio, già consacrato nel primo articolo dello Statuto albertino, secondo cui: «la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione dello Stato».
Con questa firma Mussolini – l’uomo che «la Provvidenza Ci ha fatto incontrare», per riprendere le note parole di Pio XI37 – aveva messo a tacere ogni forma di dissenso. Sulla base dello Statuto del 1848 venne sottoscritta la dichiarazione seguente:
«L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato. Tale insegnamento sarà dato a mezzo di maestri e professori, sacerdoti o religiosi, approvati dall’autorità ecclesiastica, e sussidiariamente a mezzo di maestri e professori laici, che siano a questo fine muniti di un certificato da parte dell’Ordinario Diocesano. La revoca del certificato da parte dell’Ordinario priva senz’altro l’insegnante della capacità di insegnare. Pel detto insegnamento religioso nelle scuole pubbliche non saranno adottati che i libri di testo approvati dall’autorità ecclesiastica»38.
Successivamente ci si curò di regolare, con un apposito provvedimento, la questione dei rapporti con le confessioni diverse da quella cattolica (legge 24 giugno 1929 n. 1159). Questa legge sostituì, all’art. 1, la dizione «culti tollerati» del regio decreto del 1848 con la formula «culti ammessi». Col senno di poi, i valdesi e gli altri evangelici italiani sarebbero stati più prudenti nell’accogliere una tale modifica con smisurato entusiasmo, come giustamente osserva Jean-Pierre Viallet39. La politica di autodifesa e di rassegnato silenzio che caratterizzò gli anni del regime fascista non permise ai valdesi e agli evangelici italiani, se non in alcune frange minoritarie, di rendersi pienamente conto di quale era la reale posta in gioco e di ciò che stava succedendo40.
Giorgio Peyrot ha giustamente fatto notare che il fascismo non ha mai accettato la concezione cattolica della scuola anche se ha utilizzato l’insegnamento della religione a cui ha riconosciuto un valore educativo e morale, limitando il ruolo e la presenza dell’autorità ecclesiastica nella scuola, avocando allo Stato il compito dell’insegnamento religioso nella scuola e infine garantendo la libertà di coscienza degli alunni di altra religione con l’istituto della dispensa. Il fascismo non ha mai accettato la visione cattolica della scuola secondo cui «la Chiesa dovrebbe avere una potestà diretta sull’insegnamento religioso ed una indiretta su tutte le altre materie di studio»41. Solo quando furono pubblicate le norme di attuazione della legge sui culti ammessi ci si rese conto del loro carattere fortemente restrittivo42. Con il Concordato del 1929 l’insegnamento religioso diventa obbligatorio nella scuola di Stato, non soltanto nelle scuole elementari, ma viene esteso anche alla scuola media. Chi cattolico romano non è ricorrerà all’esonero da tale insegnamento, e questa prassi resterà in vigore fino alla revisione del Concordato del 1984. Un ulteriore irrigidimento confessionale avvenne successivamente con l’introduzione dei nuovi programmi didattici per le scuole elementari e materne con il decreto-legge 24 maggio 1945 n. 459, che favorì il dilagare dell’‘insegnamento diffuso’ della religione cattolica oltre a quello ‘speciale’ di tipo catechistico, con un proprio orario43. Il progressivo scivolamento in questa direzione fece sì che l’insegnamento della religione cattolica perse il profilo di una materia d’insegnamento e che gli insegnanti di religione assunsero sempre più, con grande disinvoltura, il ruolo di ‘esperti d’umanità’44.
La fine della seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo insieme al referendum popolare che trasformò l’Italia da Regno a Repubblica ponevano l’esigenza di individuare le nuove basi per l’avvio di una vita nazionale nel segno della libertà e della democrazia. Ci si aspettava pertanto che dalla Costituente potesse emergere una visione dello Stato capace di superare definitivamente l’idea di Stato confessionale – qual era l’Italia – e di guardare al problema dell’insegnamento religioso nella scuola di Stato in una nuova ottica. Le cose però andarono diversamente. Gli evangelici italiani e gli ebrei, che avevano partecipato in modo attivo alla Resistenza, si spesero con grande generosità a favore della libertà religiosa e della laicità dello Stato.
Dopo ripetuti interventi rivolti all’Assemblea Costituente, il 3 marzo 1947 l’Unione delle comunità israelitiche inviò un documento ufficiale sul progetto in discussione, sottoscritto dal presidente dell’Unione Raffaele Cantoni, in cui si afferma tra l’altro:
«È superfluo osservare […] che i concetti di parità e di uguaglianza escludono non soltanto quello di ‘tolleranza’ dello Statuto albertino, ma anche quello di ammissione, delle leggi fasciste. Lo Stato non deve né ‘tollerare’ né ‘ammettere’. Esso deve dichiarare e riconoscere semplicemente che ognuno ha il diritto di professare o non professare un culto, e che, professando o non professando, resta un cittadino come tutti gli altri […]»45.
Gli evangelici, dal canto loro, istituirono subito un Consiglio federale come voce ufficiale per rappresentare la loro posizione alla Costituente. Numerosi furono gli interventi e le dichiarazioni dei protestanti italiani sul tema della libertà religiosa. Il Centro evangelico di cultura di Roma riassunse la propria posizione in tre principi fondamentali: la piena e «completa libertà di coscienza e di religione», l’«assoluta indipendenza di tutte le Chiese» e la «neutralità religiosa», che non vuol dire:
«professione di ateismo, ma imparzialità dello Stato, non confessionale e libero da ogni ingerenza ecclesiastica. Alla parità dei culti e all’eguaglianza dei cittadini indipendentemente dal culto professato, consegue la libera attività delle Chiese, la laicità della scuola pubblica e la libertà dell’insegnamento religioso privato. Nella libertà e nella parità nessuno è diminuito nei suoi diritti, ma ciascuno vive nel mutuo rispetto di tutte le esigenze spirituali»46.
La voce protestante e quella ebraica non riuscirono però a far breccia in mezzo ai compromessi politici fra democristiani e comunisti che si erano ormai delineati e alla loro posizione sulla libertà religiosa – come quella di autorevoli voci laiche: Lelio Basso e Piero Calamandrei fra tutti – non fu riservata grande considerazione. Si giunse così all’approvazione degli articoli 7 e 8 della Costituzione47.
Il 25 marzo 1947 la maggioranza dell’Assemblea costituente, con il voto determinante del Partito comunista, decise di richiamare nella Carta costituzionale dell’Italia democratica i Patti Lateranensi, un vero e proprio corpo estraneo alla vita democratica e alla libertà religiosa di un paese moderno. Piero Calamandrei, che si era opposto a quella decisione con grande tenacia, commentò la votazione con queste parole:
«Quando fu proclamato il risultato (359 favorevoli e 149 contrari) nessuno applaudì, nemmeno i democristiani, che parevano fortemente contrariati da una vittoria raggiunta con quell’aiuto. Neppure i comunisti parevano allegri; e qualcuno notò che uscendo a tarda ora da quella seduta memoranda, camminavano a fronte bassa e senza parlare»48.
Il peso di questa decisione fu tale che neppure la revisione concordataria del 1984 riuscì a incidere sulla sostanza del problema. Come diremo fra poco, l’enorme macigno che condiziona la vita democratica italiana in tutte le sue molteplici dimensioni è tuttora assai difficile da rimuovere. Sergio Lariccia49 ha messo in evidenza le numerose contraddizioni – esse stesse lesive, peraltro, del principio fondamentale della libertà religiosa – che questa decisione ha comportato per la vita democratica del nostro paese: contraddizioni che si sono ripetute, mutatis mutandis, anche all’indomani della firma del nuovo Concordato (1984).
La revisione del Concordato del 1984 avrebbe dovuto tradurre nella pratica il necessario aggiornamento nei rapporti Stato-Chiesa invocato dal concilio Vaticano II. Ciò che non si era osato fare prima, nonostante i diversi tentativi compiuti dai vari governi succedutisi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta50, e che avrebbe forse permesso una più dignitosa revisione concordataria, avvenne sotto la presidenza del socialista Bettino Craxi. Il presidente del Consiglio, animato da grandi propositi, finì per sottoscrivere un testo che ben poco aveva a che fare, in realtà, con la migliore tradizione socialista, e ancor meno con gli orizzonti di apertura e di novità profilati dal concilioVaticano II. Ancora una volta la politica vaticana era riuscita a dettare la propria legge, rifiutando di prendere in esame la posizione di quei cattolici che, nella scia degli elementi di novità introdotti dal concilio Vaticano II, erano pronti a impostare in modo nuovo l’insegnamento della religione nella scuola di Stato, prendendo atto sia del pluralismo religioso esistente in Italia, sia di nuove esigenze dettate dalla moderna pedagogia religiosa51. Queste idee innovative, espresse da illustri pedagogisti e da uomini politici anche democristiani, non furono tenute in alcun conto. In concreto, tra le diverse ipotesi circolanti in quel periodo, la più plausibile era quella di attivare, all’interno della scuola, un duplice insegnamento: uno di cultura religiosa, obbligatorio, aconfessionale, rivolto a tutti gli studenti, e un secondo – invece confessionale – facoltativo. Era l’ipotesi del ‘doppio binario’, che venne però bocciata dagli organi ufficiali della Chiesa cattolica e considerata con sospetto da molti laici52. Vanno altresì menzionati l’impegno anticoncordatario delle Comunità cattoliche di base (Cdb), i numerosi convegni e documenti in cui si richiedeva l’abolizione dell’insegnamento religioso nella scuola53 e ancora il movimento Cristiani per il socialismo54. È importante ricordare questi movimenti e le iniziative da loro allestite – che videro la partecipazione anche di numerosi giovani protestanti italiani – perché essi testimoniavano la presenza di una voce viva del cristianesimo italiano: di un cristianesimo che cercava il cambiamento e che era animato, in definitiva, da una forte volontà ecumenica, di rinnovamento ‘anticostantiniano’ della Chiesa e della società.
Il 18 febbraio 1984 vennero stipulati, come noto, gli accordi di Villa Madama. Sul tema dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole di Stato, il nuovo testo concordatario prevede quanto segue:
«La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. – Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. – All’atto di iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione» (art. 9, comma 2).
Nel complesso, l’accordo ha ben poco a che fare con lo ‘spirito’ del Vaticano II. Questo risulta evidente soprattutto se si considera il passaggio della costituzione pastorale Gaudium et spes in cui si dichiara la disponibilità della Chiesa a «rinunciare», per testimoniare con maggiore coerenza il Vangelo, «a certi diritti legittimamente acquisiti» (§ 76).
Butturini osserva che rappresenta certamente un elemento di «incongruenza» il fatto che da un lato si riconosca il valore della cultura religiosa e l’appartenenza dei principi del cattolicesimo al patrimonio storico del popolo italiano, mentre dall’altro si faccia poi appello alla libertà di coscienza rispetto alla possibilità di avvalersi o di non avvalersi di tale insegnamento. Parimenti contraddittorio è inoltre il fatto di ammettere una scelta pretendendo che essa non comporti, di per se stessa, «una discriminazione»55. In realtà, cosa viene offerto a chi sceglie di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica? E di fronte a un insegnamento confessionale che non offre alternative concrete, praticabili, l’esercizio della libertà di coscienza non rischia di ridursi a una semplice ‘libertà di ignoranza’? Se è venuto a cadere il riferimento al «fondamento e coronamento» presente nel Concordato del 1929, l’insegnamento confessionale cattolico si è ulteriormente ampliato, ma soprattutto si è confermata la norma per la quale i docenti, pur pagati dallo Stato, sono scelti dalle curie.
La nuova concezione concordataria è espressa dal concetto di ‘cooperazione’ tra Chiesa cattolica e Stato in vista della maturazione culturale degli alunni. In questa prospettiva si tiene a chiarire che l’insegnamento della religione cattolica non è una forma di catechesi, bensì la proposizione di una «cultura religiosa» da elaborare nel «quadro della scuola [pubblica]» (legge 25 marzo 1985 n. 121). È una delle tante incongruenze dell’accordo, perché se così fosse, non si capirebbe allora perché siano ancora i vescovi a dover scegliere gli insegnanti di religione cattolica. Il magistrato Gian Paolo Meucci ha sostenuto che la soluzione tracciata dal nuovo Concordato costituisce un vero e proprio tradimento della funzione educativa nei confronti delle nuove generazioni, perché sia lo Stato che la Chiesa sono venuti meno, di fatto, ad una delle missioni fondamentali: essere delle «comunità educanti, e non esclusivamente i sostenitori e i rivendicatori di principi, ideologie e situazioni di potere interessanti le due istituzioni e, comunque, la sensibilità e le scelte politiche degli adulti»56.
Si è così pronunciata la parola ‘fine’ a tutto quel movimento di rinnovamento cattolico che aveva caratterizzato il dibattito pedagogico, culturale e politico concernente le modalità di insegnamento della religione nella scuola e che aveva saputo coinvolgere i luoghi istituzionali di formazione, gli insegnanti e le riviste specializzate. Lelio Basso, in un discorso pronunciato in Senato il 7 dicembre 1978 durante il dibattito sulla revisione del Concordato, dopo aver osservato che «l’utopia dell’abrogazione del Concordato era rimasta fuori dall’aula» dichiarò con voce ferma:
«io non ho timore di confessare questa utopia, come non ho timore di confessare l’altra utopia, la più grande e la più pericolosa, che tutti gli uomini, come è scritto nella nostra Costituzione, avranno un giorno su questa terra pari e piena dignità sociale, saranno da tutti considerati fini e non strumenti del potere altrui»57.
L’intesa stipulata successivamente fra il governo e l’episcopato (decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1985 n. 751) ha riconosciuto lo statuto di «dignità formativa e culturale pari a quella delle altre discipline» (art. 4 comma 1) all’insegnamento della religione cattolica. Se da un lato dunque, a 136 anni di distanza dallo Statuto albertino, si sollecitava con un apposito provvedimento normativo la fine della religione di Stato, dall’altro la revisione del Concordato del 1984 rappresentava il coronamento della politica della Chiesa cattolica.
L’art. 8 della Costituzione richiedeva, però, anche un’iniziativa dello Stato nei confronti delle minoranze religiose, se non altro in considerazione del fatto che lo Stato medesimo non aveva sino ad allora assunto alcuna iniziativa concreta in quella direzione. Così, all’indomani dell’approvazione del nuovo Concordato fra Stato e Chiesa cattolica, venne approvato il testo della prima ‘intesa’ con una confessione religiosa diversa da quella cattolica: la Chiesa valdese, ufficialmente rappresentata dal suo organo esecutivo: la Tavola valdese.
Secondo l’art. 8 della Costituzione anche le minoranze religiose sono «egualmente libere» davanti alla legge. Non solo. Esse ora sono anche invitate a regolare il loro rapporto con lo Stato attraverso la stipula di appositi accordi bilaterali. I valdesi in particolare – che da sempre avevano sostenuto la necessità di un regime separatista – avrebbero dovuto ridefinire la loro posizione: non più «tollerati», non più riconosciuti come «culti ammessi» ma come soggetti capaci di un’intesa con lo Stato58. Tuttavia, rispetto alla questione specifica dell’insegnamento religioso nelle scuole, che tipo di impostazione avrebbe adottato una comunità confessionale che nessun’altra opportunità aveva avuto, se non quella dell’esonero?
Per i valdesi, che furono i primi a stipulare l’intesa, era chiaro che per la loro storia e la loro cultura non avrebbero potuto accettare l’idea di un insegnamento confessionale della religione nella scuola pubblica, e lo stesso si può dire degli ebrei. Al tempo stesso, però, i valdesi riconoscevano l’importanza della scuola come luogo di formazione di una cultura religiosa per le nuove generazioni. Era anzi la loro stessa storia a richiedere un tale riconoscimento. Tuttavia, come sarebbe stato possibile per loro accedervi, se la Chiesa cattolica non avesse rinunciato – come sembrava non voler fare – alla caratterizzazione in senso confessionale dell’insegnamento religioso? L’iter di preparazione dell’intesa innescò un appassionato dibattito interno al mondo valdese. Già nel febbraio 1978 la Tavola aveva concluso, per parte sua, l’elaborazione della proposta che sarebbe stata poi presentata allo Stato in vista dell’accordo. Le autorità statali, tuttavia, ritennero opportuno archiviare temporaneamente la proposta dei valdesi. Questo perché esse temevano che un’approvazione dell’intesa con i valdesi avrebbe potuto rappresentare, data anche l’impostazione laica del loro operato, un precedente pericoloso per l’eventuale revisione del Concordato fra Santa Sede e Stato italiano.
Gli artt. 9 e 10 dell’intesa sono definiti sulla base degli artt. 3, 8 e 33 della Costituzione ovvero secondo un dichiarato approccio ‘anticoncordatario’, che i valdesi speravano potesse farsi strada anche nel Parlamento italiano. Così non fu. La proposta d’intesa avanzata dai valdesi – che nell’ottica del suo principale artefice, il professor Giorgio Peyrot, avrebbe potuto indicare all’Italia un concreto percorso di affrancamento da una visione confessionale dell’insegnamento religioso – venne discussa e approvata soltanto ‘dopo’ il raggiungimento dell’accordo fra Santa Sede e Stato italiano. In tal modo, l’intesa con la Tavola valdese (sancita dalla legge 11 agosto 1984 n. 449), e il suo portato di laicità, venne non solo preventivamente disinnescata, ma anche considerata su un piano di subalternità all’accordo concordatario.
La posizione dell’intesa dei valdesi sulla cultura religiosa e sull’insegnamento della religione nella scuola è contenuta negli artt. 9 e 10. L’art. 9, poi recepito dallo Stato, recita:
«La Repubblica italiana prende atto che la Tavola valdese, nella convinzione che l’educazione e la formazione religiosa dei fanciulli e della gioventù sono di specifica competenza delle famiglie e delle chiese, non richiede di svolgere nelle scuole gestite dallo Stato […] l’insegnamento di catechesi o di dottrina religiosa o pratiche di culto».
Siccome però la repubblica italiana «assicura l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, materne, elementari, medie e secondarie superiori», ecco che essa avrebbe dovuto riconoscere «agli alunni di dette scuole, al fine di garantire la libertà di coscienza di tutti, il diritto di non avvalersi delle pratiche e dell’insegnamento religioso per loro dichiarazione, se maggiorenni, o altrimenti per dichiarazione di uno dei loro genitori o tutori». Infine, si prevedeva anche che «l’insegnamento religioso ed ogni eventuale pratica religiosa, nelle classi in cui sono presenti alunni che hanno dichiarato di non avvalersene, non abbiano luogo in occasione dell’insegnamento di altre materie, né secondo orari che abbiano per i detti alunni effetti comunque discriminanti».
In questo passaggio del testo si voleva precisare in modo chiaro che non avrebbe dovuto verificarsi confusione alcuna tra le competenze della famiglia e della Chiesa e quelle della scuola – che è di tutti – e, di conseguenza, che non si voleva proporre un autentico insegnamento religioso confessionale. Da parte sua, lo Stato riconosceva agli studenti valdesi il diritto di «non avvalersi» dell’insegnamento religioso.
L’art. 10 dell’intesa è rivolto invece verso l’esterno, in un’ottica di disponibilità verso la scuola di Stato, ma in uno spirito di laicità:
«La Repubblica italiana, allo scopo di garantire che la scuola pubblica sia centro di promozione culturale, sociale e civile aperto all’apporto di tutte le componenti della società, assicura alle Chiese rappresentate dalla Tavola valdese il diritto di rispondere alle eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie o dagli organi scolastici, in ordine allo studio del fatto religioso e delle sue implicazioni. Le modalità sono concordate con gli organi previsti dall’ordinamento scolastico. Gli oneri finanziari sono a carico degli organi ecclesiastici competenti».
Queste indicazioni di disponibilità culturale – che qualcuno interpretò addirittura come una ‘larvata forma di miniconcordato’ (sic!) – furono messe fuorigioco nel momento stesso in cui s’introdussero le ‘attività alternative’ all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, di cui però nel testo dell’intesa non si faceva parola, e che furono escogitate solo in una fase successiva per «aggirare le prescrizioni» dell’accordo già stipulato59. Il giurista valdese Aldo Ribet ha ricordato in proposito che:
«lo studio del fatto religioso nei suoi vari aspetti e nelle sue implicazioni è talmente importante nella formazione dei giovani da dover trovare ingresso nella scuola pubblica. Esso non può, peraltro, avere carattere confessionale, né costituire monopolio di una confessione […]. La scuola pubblica deve aprirsi, sotto il profilo culturale, all’apporto del maggior numero possibile delle componenti della società, ai fini di una informazione ampia che consenta e favorisca il dialogo ed il confronto»60.
Bisogna riconoscere, in ogni caso, che neppure i valdesi – i primi a concludere l’intesa con lo Stato, in quella situazione – avevano idee ben chiare su ‘come’ affrontare il problema dell’insegnamento religioso nella scuola di Stato, essendo sempre stati costretti a organizzare la loro ‘difesa’ di fronte alla religione di Stato61. Quel che potevano manifestare apertamente era però la loro chiara posizione a favore di una scuola laica, in cui il discorso religioso non poteva essere concepito in termini confessionali62.
Più complesso fu l’iter dell’intesa dello Stato con le comunità ebraiche63, che erano separatiste da sempre e che avevano definito il proprio status giuridico per la prima volta con la legge del 30 ottobre 1930, dunque in piena epoca fascista. Esso andava ormai rivisto e aggiornato. L’intesa, iniziata nel 1977, si concluse solo dieci anni dopo, il 27 febbraio 1987. I rappresentanti dell’Unione israelitica cercarono di evitare gli equivoci sorti dopo l’intesa con i valdesi, soprattutto nei confronti del cosiddetto insegnamento diffuso e degli orari discriminanti. All’atto della firma dell’intesa venne inserita, nel relativo verbale, una sorta di ‘interpretazione autentica’ del punto di vista ebraico: segno di un’evidente ambiguità presente nel testo stesso dell’accordo64.
Il 14 dicembre 1985 fu apposta dunque la firma all’intesa sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali. Il ministero italiano della Pubblica Istruzione era rappresentato dalla democristiana Franca Falcucci, la Cei dal cardinal Ugo Poletti. L’accordo comporta quattro punti essenziali: a) programmi di insegnamento; b) modalità di organizzazione di tale insegnamento; c) criteri di scelta dei libri di testo; d) profili di qualificazione professionale degli insegnanti di religione. Il contenuto di questo accordo suscitò delle forti reazioni sia da parte laica che da parte del consiglio della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) e del consiglio dell’Unione delle comunità israelitiche. Le critiche riguardavano in modo particolare la collocazione delle ore di insegnamento riservate alla religione nell’orario scolastico complessivo, la presenza dell’insegnante di religione nel consiglio di classe e della voce ‘religione’ nella pagella scolastica, nonché il fatto che la scelta di avvalersi o di non avvalersi dell’insegnamento religioso dovesse essere espressa all’inizio di ogni ciclo scolastico e avere effetto automatico per tutti gli anni successivi al primo. Infine, si deplorava il fatto che il testo dell’intesa non fosse stato posto in discussione in Parlamento65. Tutte questioni che provocarono reazioni a catena sull’interpretazione corretta delle conseguenti norme applicative.
La battaglia in difesa della laicità della scuola resta dunque aperta, soprattutto dopo che la legge sulla libertà religiosa – che sembrava ormai pronta per l’approvazione, dopo aver superato lunghe discussioni parlamentari – è stata improvvisamente bloccata in seguito all’intervento del presidente della Cei monsignor Angelo Bagnasco, che ha rivendicato uno statuto particolare per la confessione cattolica.
Gli studenti e le famiglie che hanno scelto di ‘non avvalersi’ dell’insegnamento della religione cattolica si sono trovati, in molti casi, di fronte a un vuoto di assunzione di responsabilità da parte della scuola. L’intesa Falcucci-Poletti, di cui s’è appena detto, ha rimesso in discussione il principio della pari dignità religiosa e la laicità dello Stato nella prassi scolastica. Certo, nel testo dell’intesa erano state apportate alcune novità di rilievo: chi preferiva non avvalersi dell’insegnamento religioso non aveva ora più bisogno dell’esonero, essendo diventato l’insegnamento della religione cattolica facoltativo. Per contro, l’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare veniva incrementato di una seconda ora settimanale e anche introdotto nella scuola materna statale, in contrasto con la legge del 1969, che aveva escluso un insegnamento confessionale in tali istituti per ragioni sia pedagogiche che sociali.
La battaglia per la difesa della laicità66 e per la non discriminazione degli studenti che decidevano di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica venne a toccare alcuni punti nevralgici dell’applicazione delle norme messe in atto dall’accordo Falcucci-Poletti, e le successive normative hanno provocato forti reazioni nell’opinione pubblica, negli ambienti laici come in quelli evangelici, nella comunità ebraica e non da ultimo fra molti cattolici democratici. In particolare, l’obbligo della scelta dell’ora alternativa – a cui la scuola non ha mai dato un profilo dignitoso – ha provocato numerosi ricorsi, prese di posizione dei tribunali amministrativi regionali e alcune sentenze della stessa Corte costituzionale67.
Tutto ciò non ha però impedito ai vari ministri della Pubblica Istruzione via via succedutisi di proseguire sulla strada di una ‘ri-confessionalizzazione’ dello Stato: durante il governo di Romano Prodi come pure durante i governi guidati da Silvio Berlusconi. Nel primo caso, a fine legislatura, con la circolare 22 aprile 2008 n. 45, il ministro uscente della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni ha dettato precise disposizioni circa le «Indicazioni per il curricolo [per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione] relativamente all’insegnamento della religione cattolica». Il testo ministeriale ha accolto, senza obiettare, la richiesta della presidenza della Cei di ‘armonizzare’ la religione cattolica alle altre materie d’insegnamento – proposta che porta con sé l’idea che l’intera attività educativa della scuola pubblica debba essere permeata dalla dottrina cattolica. Ed è stato ancora il ministro Fioroni a istituire, a vantaggio degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, un apposito ‘credito scolastico’ ai fini della media dei voti di profitto da calcolare in vista degli esami di maturità: cosa che invece è solo teoricamente possibile per chi sceglie una materia alternativa, che la scuola non garantisce68. Il ministroMariastella Gelmini non si è discostata dalla politica del suo predecessore, e ormai si ha la netta impressione di non esser poi così lontani dallo spirito dell’art. 36 del Concordato del 1929, che considera la dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica quale «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica». Almeno, questo lascia intendere l’intervento tenuto dal cardinal Bagnasco durante l’assemblea degli insegnanti di religione a Roma (23-25 aprile 2009) in presenza del ministro Gelmini.
In quanto membro fondatore dell’Unione Europea, l’Italia è in relazione permanente con quanto avviene nella programmazione comunitaria in ambito politico, economico, culturale. Dal Consiglio d’Europa, come dagli altri organismi istituzionali, giungono delle direttive di orientamento che ogni paese è invitato a rispettare e a realizzare secondo lo spirito di libertà democratica e costituzionale orientato alla creazione d’una comune cittadinanza europea69. È per l’appunto in quest’orizzonte che si colloca la problematica religiosa in tutte le sue articolazioni. D’altra parte, l’Italia è anche il paese europeo che ospita nel suo territorio lo Stato del Vaticano e, in conseguenza di ciò, non appena si parla di religione, il discorso tende inevitabilmente a complicarsi per la presenza di ‘uno Stato nello Stato’. In Italia si ritiene ancora possibile salvare quel che resta – lo zoccolo duro – del cattolicesimo tradizionale e conservatore, capace di resistere alla secolarizzazione e al liberalismo, al pluralismo della modernità avanzata, al relativismo dei valori, più che in altri paesi. Una difesa a oltranza dei valori cattolici considerati ‘non negoziabili’ che si scontra con la realtà del pluralismo religioso e culturale del paese, e che viola, al tempo stesso, la pari dignità di un confronto culturale e religioso con le altre Chiese cristiane e con le altre religioni.
Il Consiglio d’Europa è intervenuto più volte per tutelare la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Ricordo soltanto alcune fra le molte raccomandazioni indirizzate ai paesi membri.
Nella raccomandazione n. 1178 del 1992, concernente le coordinate generali dell’educazione, si afferma fra l’altro che essa «dovrebbe comprende un’informazione concreta e obiettiva sulle religioni maggiori e le loro principali varianti, sui principi di studio comparativo delle religioni e sull’etica e i diritti personali e sociali». E una successiva raccomandazione – la n. 1202 del 1993 – invita gli Stati a promuovere «una presentazione differenziata e accurata delle religioni nei manuali (specie nei testi di storia) e nella didattica al fine di migliorare e approfondire la conoscenza delle diverse religioni». Così pure, nelle ultime battute di un seminario tenutosi a Lovanio nel 2002, sempre sotto l’egida del Consiglio d’Europa, si affermava (al punto n. 5 del comunicato conclusivo):
«la costruzione dell’Europa di domani esige lo sviluppo di una cultura politica che superi gli antagonismi. Di qui la necessità di identificare fondamenti etici dei principi che regolano la vita delle nostre società. Le religioni, matrici culturali e comuni di questi fondamenti e di questi principi, hanno un ruolo importante da svolgere in questo processo. Anche perché democrazia e religione hanno in comune l’idea del riconoscimento e del rispetto dell’altro».
Né può essere dimenticata l’importante raccomandazione n. 1720, approvata nel 2005 dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sul tema ‘scuola e educazione’ (v. in part. art. 4, commi 1-6). Sempre il Consiglio d’Europa ha pubblicato, il 7 maggio 2008, un ‘libro bianco’ sul tema del dialogo interculturale, che ha come titolo Vivere insieme nell’uguale dignità. In questo documento si afferma fra l’altro che: «[…] la sfida di una vita insieme in una società di diversi può essere affrontata soltanto se possiamo vivere insieme con pari dignità» (§ 1.3, 17). I curatori del lavoro dedicano un’attenzione particolare alla dimensione religiosa. Essi riconoscono che l’eredità culturale dell’Europa risulta articolata in una ricca gamma di concezioni della vita, religiose e secolari: il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam hanno segnato in modo profondo il continente europeo. Di conseguenza
«la pratica religiosa rappresenta una componente della vita umana contemporanea e perciò non può né deve essere esclusa dalla sfera d’interesse delle autorità pubbliche, anche se lo Stato deve preservare il proprio ruolo di garante neutro ed imparziale per l’esercizio delle diverse religioni, fedi e credenze».
E nella scia del libro bianco di Strasburgo, il comitato formato dai 46 ministri degli Affari esteri degli Stati membri aderenti al Consiglio d’Europa ha diramato, nel dicembre 2008, un’importante raccomandazione destinata ai corrispondenti ministri dell’Istruzione, perché provvedano «a far prendere nella debita considerazione» nei rispettivi sistemi educativi «la dimensione delle religioni e delle convinzioni non religiose nella educazione interculturale, al fine di rinforzare i diritti dell’uomo, la cittadinanza democratica e la partecipazione» (Annesso alla raccomandazione, punto n. 1).
Un altro importante documento – le Linee guida di Toledo70: quasi ignorate, purtroppo, nel contesto italiano – ha poi sottolineato un aspetto di grande attualità ovvero che esiste oggi un «crescente consenso» degli educatori sul fatto che la conoscenza delle religioni e delle credenze religiose costituisca di per se stesso un elemento positivo: un elemento di primaria importanza per la qualità dell’educazione, in grado oltre tutto di promuovere la formazione di una cittadinanza democratica e di sollecitare valori fondamentali quali anzitutto il rispetto reciproco e appunto la libertà religiosa. Sulla base di questa convinzione, nel documento si afferma:
«Mentre le decisioni concernenti le questioni di fede devono essere protette come scelte personali, nessun sistema educativo può permettersi di ignorare il ruolo delle religioni e delle credenze nella storia e nella cultura. L’ignoranza su questi problemi può alimentare l’intolleranza e la discriminazione e può portare alla formazione di stereotipi negativi»71.
Nell’ottica del documento di Toledo, la prospettiva e la finalità dell’insegnamento religioso, pur senza interferire in alcun modo nell’autonoma gestione dei modelli giuridici e didattici in atto nelle diverse nazioni, sono di
« […] capire che l’insegnamento delle religioni e delle credenze non ha un orientamento devozionale e ‘denominazionale’. [Esso] si sforza di trasmettere agli studenti la sensibilità per le religioni e le credenze, non di fare pressioni perché lo studente ne accetti una in particolare; sostiene lo studio ma non la pratica delle religioni e delle credenze; può esporre agli studenti la diversità dei punti di vista religiosi e non religiosi, ma non impone alcun punto di vista particolare; educa alla conoscenza delle religioni e delle credenze senza promuoverne o denigrarne alcuna; informa gli studenti sulla varietà delle religioni e delle credenze ma non cerca di conformare o di convertire gli studenti a una particolare religione o credenza»72.
Il documento di Toledo, inoltre, riprende – sottolineandone la centralità – il problema della discriminazione: mai scongiurata una volta e per tutte. In questo senso esso richiama le risoluzioni adottate da una serie di assemblee e organizzazioni internazionali, pronunciatesi a più riprese sul tema della difesa dei diritti umani in relazione alle religioni e al loro insegnamento nell’ambito della scuola. In particolare, esso richiama all’attenzione il Documento di Vienna (1989), in cui si invita ad assumere tutte le misure necessarie per «prevenire ed eliminare le discriminazioni nei confronti degli individui o delle comunità a motivo della religione o del credo […] e di assicurare un’effettiva uguaglianza tra credenti e non credenti»73. E con ciò si accosta un ulteriore problema, che raramente viene affrontato con la necessaria attenzione e sensibilità: normalmente, ci si preoccupa soltanto di chi dichiara un’appartenenza religiosa senza però considerare seriamente la situazione di chi, pur non professando un particolare credo religioso, avverte comunque l’esigenza di ricevere un’istruzione adeguata in merito alla cultura delle religioni: perché in mezzo ad esse vive. A questo riguardo può essere utile ricordare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che nel 1993 sentenziava:
«[…] la libertà di pensiero, di coscienza e di religione è uno degli elementi costitutivi di una società democratica […]. E nella sua dimensione religiosa costituisce uno degli elementi più vitali per la formazione dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita. Ma è anche una preziosa risorsa per i non credenti, per gli agnostici, per gli scettici e gli indifferenti. Il pluralismo, indissociabile da una società democratica, acquisito nei secoli a caro prezzo, dipende da esso»74.
Il sistema italiano dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, sordo a ogni rinnovamento, rischia insomma di creare, nella scuola di Stato, una sorta di ghetto religioso per coloro che scelgono di avvalersi di tale insegnamento. Questo accade in evidente contraddizione con le buone intenzioni della Charta Oecumenica, sottoscritta ufficialmente a Strasburgo nell’aprile 2001 anche dal Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa. Basta del resto dare un’occhiata a quanto è successo nei paesi europei in seguito alla caduta del muro di Berlino (1989) e alla fine dei regimi comunisti, per constatare il significativo cambiamento intervenuto in una pluralità di contesti nell’organizzazione dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche75. Cambiamenti e sperimentazioni hanno coinvolto direttamente anche la Chiesa cattolica, la quale, nei paesi privi di un concordato, difficilmente s’è opposta all’ipotesi di un insegnamento religioso non confessionale obbligatorio per tutti. Si pensi, per citare un esempio a noi vicino, alla prassi entrata in vigore da alcuni anni in tutte le scuole del cantone di Zurigo, e che è ora in via di sperimentazione nei cantoni del Ticino e dei Grigioni. In generale, in tutti i paesi di cultura protestante, dove un tempo il luteranesimo era religione di Stato, l’insegnamento religioso confessionale è stato definitivamente abbandonato.
In questi ultimi anni, in sostanza, ci si è resi conto che gli accordi Falcucci-Poletti, come anche le intese firmate dalle comunità religiose non cattoliche con lo Stato italiano, non rispondono assolutamente ai bisogni della scuola moderna, che nel frattempo si è venuta modificando, specie per effetto del processo di immigrazione e dei cambiamenti sociali e culturali che hanno interessato il nostro paese. La prospettiva in cui si situa il discorso religioso è oggi globale, guarda cioè al crescente pluralismo religioso e culturale. Di conseguenza, solo un insegnamento religioso comune a tutti, svolto sotto la diretta responsabilità della scuola76, potrà formare le future generazioni alla comune cittadinanza europea, arginando al tempo stesso la gramigna del razzismo, della xenofobia e dell’antisemitismo, che ancora trova qua e là, in Italia come nel resto dell’Europa, pericolosi ambienti d’incubazione.
Il fatto che le religioni, e in particolare la storia delle religioni, trovino un proprio spazio nella formazione scolastica non è più messo in discussione neppure in un paese laico come la Francia, che, in seguito al noto rapporto Débray (2002), ha avviato un processo di inculturazione religiosa trasversale agli insegnamenti scolastici. La religione è entrata nello spazio pubblico e rivendica pertanto diritto di conoscenza e di studio. Ciò che invece continua a rappresentare un problema piuttosto serio è la modalità di questa presenza nella scuola pubblica.
Ci si può domandare, oggi, se l’affermazione di Ferdinand Buisson – uno dei primi teorici del concetto di ‘laicità’ nonché braccio destro di Jules Ferry, celebre ministro dell’Istruzione negli anni della Terza Repubblica francese – secondo cui «la grande idea, la nozione fondamentale dello Stato laico, vale a dire la delimitazione profonda tra il temporale e lo spirituale, è entrata nei nostri costumi in modo da non uscirne più», sia ancora valida o se essa non sia invece da rimettere in discussione. È precisamente a questo livello che si colloca il problema di una distinzione dei compiti e dei ruoli delle Chiese e delle comunità religiose da un lato e della scuola di Stato dall’altro. Distinzione di compiti chiamata a evitare i due principali scogli che nel passato hanno alimentato la conflittualità: la tendenza a stabilire una sorta di ‘monopolizzazione’ del religioso manifestata dalla Chiesa (di maggioranza) e insieme l’idea che la religione non debba trovare spazio alcuno nell’insegnamento curricolare nella scuola di Stato. Nella situazione in cui oggi viviamo, l’insegnamento del fatto religioso nella scuola sembra essere ancora più necessario che in passato, quando il termine ‘religione’ significava essenzialmente ‘istruzione nella conoscenza della propria confessione religiosa’. Ciò che trovava concreta realizzazione nell’ambito della propria comunità di fede, e che le intese concluse dagli evangelici italiani con lo Stato prevedono (v. sopra: art. 9 dell’intesa valdese). In ambito cattolico è la catechesi a dover svolgere questo compito. Il compito della scuola è però un altro, come del resto conferma lo stesso magistero cattolico, quando sostiene che l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole non intende affatto proporsi nei termini di una ‘catechesi’. L’insegnamento di religione dispensato nelle scuole dovrebbe dunque occuparsi di cultura religiosa, non di altro. Ma qui sta anche il limite, anzi: la contraddizione intrinseca all’attuale sistema. Infatti, se l’insegnamento della religione non è catechesi, è possibile ridurre la cultura religiosa italiana alla cultura cattolica? Inoltre, non hanno una dignità propria le religioni e le confessioni che certo non hanno una matrice cattolico-romana ma che, pur essendo minoritarie, esistono in Italia e hanno radici storiche e culturali di lunga data? Infine, per quanto tempo potrà ancora essere sottovalutata – anche nell’ambito dell’insegnamento religioso nelle scuole – la crescita esponenziale dell’islam nel nostro paese? Ci si accorgerà che la soluzione trovata nel 1984, con la distinzione fra ‘coloro che intendono avvalersi’ e ‘coloro che intendono non avvalersi’ dell’insegnamento della religione è essa stessa testimonianza di una cultura religiosa sostanzialmente parziale, il cui esito ultimo è di mortificare docenti e discenti.
Per contro, un insegnamento di religione non confessionale rivolto a tutti i ragazzi, a cominciare dagli allievi della scuola elementare, con programmi ‘leggeri’, alla portata del loro vissuto, che sappia guardare alla realtà quotidiana (trattando per esempio il significato delle feste e dei riti che si vivono e che si praticano in famiglia e con i compagni), restituirebbe non soltanto un volto umano alla pratica religiosa ma introdurrebbe anche un forte elemento di pacificazione dei conflitti religiosi che permeano la nostra convivenza, e che hanno la tendenza a radicalizzarsi nel corso dell’adolescenza. Peraltro, ciò non ha proprio nulla a che fare con il timore di smarrire la propria identità religiosa. Affrontare in modo critico il fatto religioso nelle scuole superiori, in una prospettiva sia storica e filosofica che etica, permetterebbe poi quel confronto di idee e di valori capaci di contribuire alla formazione della propria identità (si noti, per inciso, che nelle scuole superiori di molte città del Centro-Nord il 50% e più degli studenti abbandona l’aula durante l’ora di religione!). Questa prospettiva è forse la sola capace di disciplinare e far maturare le convinzioni di ogni singolo individuo, formandolo al rispetto dei punti di vista altrui, delle idee altrui così come delle altrui visioni della vita in un comune percorso di cittadinanza, nella cornice del quale le religioni – che giustamente rivendicano un loro proprio spazio pubblico – sono messe nelle condizioni di rispettare lo spazio che è invece di tutti: il luogo privilegiato in cui la civiltà e la cultura si costruiscono, mattone dopo mattone, in cui si esercita la democrazia, in cui infine l’idea del predominio di una religione sull’altra è stabilmente abbandonata. Questo è lo spazio in cui, nel comune confronto – fondato a sua volta su una premessa imprescindibile: la conoscenza reciproca – si supera, di fatto, l’idea che il ‘diverso’ rappresenti una minaccia per ‘la mia identità’. È lo spazio che permette di evitare la confusione o meglio l’identificazione della mia appartenenza religiosa con la mia appartenenza nazionale e dunque con le svariate forme di ciò che può essere riassunto sotto la categoria di ‘fondamentalismo etnocentrico’. Non da ultimo, questa prospettiva è altresì rispettosa di quelle famiglie che non intendono impartire alcun credo religioso ai loro figli. La conoscenza del fatto religioso è altra cosa di un credo. Non essendo ‘catechesi’ ma ‘cultura religiosa’, essa è conoscenza di una realtà che anche coloro che non professano alcun credo incontrano nella società in cui vivono, e che giornalmente sollecita al confronto critico.
Tra scuola e comunità religiose deve dunque esistere una relazione costruttiva e non conflittuale. Pur nella diversità dei propri compiti specifici, esse devono infatti adempiere a una medesima missione: contribuire alla formazione del cittadino. Ogni essere umano è chiamato a crescere e a vivere in una comunità fondata sulla democrazia, sulla libertà, sul rispetto reciproco. È appunto in questi riferimenti fondamentali che la scuola ritrova il cuore della propria vocazione. Per realizzare pienamente questo progetto educativo si pone giustamente l’accento sul principio dell’‘autonomia scolastica’ – un’autonomia che deve potersi esprimere a più livelli. Certamente, dire autonomia scolastica significa richiamare l’autonomia istituzionale e organizzativa della scuola, libera da ogni vincolo clericale e ideologico: non può esserci spazio per l’idea che una confessione religiosa, per il solo fatto di essere maggioritaria, imponga a tutti indistintamente la propria legge. Significa però anche, e anzitutto, focalizzare l’attenzione sull’‘autonomia epistemologica, pedagogica e didattica’ della scuola in piena conformità al suo statuto. L’obiettivo dell’insegnamento di religione curricolare è di trasmettere ai ragazzi una comprensione scientifica e critica del fatto religioso nella complessità delle sue espressioni, formare i ragazzi a una «intelligenza della religione»77, perché anche questo insegnamento è parziale e non può proporsi – per riprendere l’espressione gentiliana – come «coronamento» del sapere scolastico. Rivendicare l’‘autonomia pedagogica’ dell’insegnamento del fatto religioso nella scuola di Stato significa dunque riconoscere il suo ‘profilo di laicità’ o, detto altrimenti, pensare a una scuola che non si pone più come ancilla ecclesiae, in quanto rivendica l’autonomia del proprio statuto epistemologico e la propria responsabilità, che è verso tutti, senza discriminazione alcuna.
Per questo motivo tale insegnamento non può che essere curricolare per tutti gli allievi, indipendentemente dalla loro appartenenza o non appartenenza a una comunità religiosa particolare. Soltanto in quest’orizzonte di laicità riconosciuta e praticata è possibile parlare, con la necessaria cautela, e soltanto per chi professa un dato credo religioso, di ‘complementarietà’ tra l’insegnamento della religione nella scuola e la catechesi delle Chiese o comunità religiose, perché la scuola è chiamata, in forza del suo specifico statuto, a offrire una visione del fatto religioso come fatto di cultura, e non altro.
La traccia di un curricolo didattico di educazione religiosa nella scuola, in questa nuova prospettiva, è stata più volte e da più parti ipotizzata. Ne riprendo un esempio a titolo esemplificativo: a) ‘iniziazione’ all’‘alfabeto simbolico’ e alla ‘grammatica’ del linguaggio religioso, partendo induttivamente dalle espressioni della religiosità locale per allargare successivamente l’orizzonte alla più ampia morfologia del comportamento religioso (scuola primaria); b) ‘decodificazione’ dei segni e dei valori esistenziali veicolati dall’universale esperienza religiosa della persona, partendo dal contesto italiano per allargarsi all’Europa e al mondo (scuola secondaria di primo grado); c) come terzo segmento in progressione: ‘approfondita capacità di analisi storico-critica’, comparativa e antropologico-etica in riferimento, privilegiato ma non esclusivo, alla dimensione culturale, politica e ai valori espressi dalle tradizioni cristiane e dalle fedi monoteistiche (scuola secondaria di secondo grado)78. In quest’orizzonte la scuola è chiamata a farsi promotrice di una nuova visione del problema religioso nella sua globalità. Il confessionalismo non sollecita all’integrazione, al contrario, esso è fonte di discriminazione, accentua ulteriormente le divisioni, non favorisce la conoscenza e l’incontro fra soggetti ‘diversi’ fra loro.
I limiti della legislazione italiana del 1984, più volte evocati in questa sede, sono davanti agli occhi di tutti. Il pedagogista Lino Prenna ricordava, già nel 1997, che l’art. 9.2 dell’accordo fra lo Stato e la Cei – là dove si afferma che la Repubblica italiana riconosce «il valore della cultura religiosa» in senso globale – non propone alcuna identificazione della cultura religiosa con la tradizione del cattolicesimo italiano (a cui si accenna nei successivi articoli dell’accordo). Dovrebbe dunque rientrare fra le normali responsabilità dello Stato «l’attivazione autonoma di un corso di cultura religiosa a carattere storico e critico. Un tale insegnamento, a eventuale profilo interreligioso, risponderebbe anche alla geografia multiculturale e multireligiosa della nostra società»79. L’art. 9.2 del nuovo Concordato porta in sé la premessa per ipotizzare un duplice insegnamento, come suggeriva anche la mozione sottoscritta da un gruppo di esperti in occasione della presentazione in Italia dei Principi guida di Toledo, avvenuta all’Università di Perugia il 12 dicembre 2008: «[…] istituire per [coloro che non si avvalgono] dei corsi [di religione], l’ora alternativa come vera materia scolastica, attinente all’area sociale-etico-religiosa […]»80. La prospettiva di un insegnamento religioso scolastico ‘per tutti gli studenti’ non può essere abbandonata. Essa deve essere anzi approfondita, nel dialogo e nel riconoscimento di una pari dignità fra le diverse religioni81.
1 Come testimonia per esempio lo scritto sul «dovere di mandare i bambini a scuola», inviato dal riformatore a Lazarus Spengler, all’epoca sindaco della città di Norimberga: D. Martin Luthers Werke, Weimarer Ausgabe (1883-1929), Band 30/II, Schriften, 1529-1530, pp. 517-588.
2 E. Genre, Cittadini e discepoli. Itinerari di catechesi, Torino 2000, pp. 36 segg.
3 E. Butturini, La religione a scuola. Dall’Unità ad oggi, Brescia 1987; N. Pagano, Religione e libertà nella scuola. L’insegnamento della religione cattolica dallo Statuto albertino ai giorni nostri, Torino 1990.
4 A. Armand Hugon, Storia dei valdesi, II, Dall’adesione alla Riforma all’Emancipazione (1532-1848), Torino 1974, p. 300.
5 F. Tagliacozzo, B. Migliau, Gli ebrei nella storia e nella società contemporanea, Firenze 1993, p. 59; più in particolare G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Bologna 1991, pp. 139 segg.
6 V. Vinay, Storia dei valdesi, III, Dal movimento evangelico italiano al movimento ecumenico (1848-1978), Torino 1980, p. 188.
7 Cit. in A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino 1965, p. 38.
8 E. Buttutrini, La religione a scuola, cit., p. 11. A questo proposito Jemolo ricorda queste significative parole di Bon Compagni: «Tutti i popoli cattolici che entrarono per le vie della libertà, si guastarono col pontefice, poi, a fatti compiuti, si riconciliarono: non potrà a meno di riconciliarsi un giorno anche l’Italia. Ma c’è un’osservazione da fare: queste conciliazioni non si fecero né dagli stessi uomini né dagli stessi partiti, con cui c’era stato contrasto. Per lo più tra la rottura e la conciliazione, ci fu una specie di reazione, per cui vennero allo Stato degli uomini meno teneri di libertà. Anch’io sono sicuro che la conciliazione dell’Italia con la Chiesa si farà: mi preme che si faccia da coloro che non sono disposti ad abbandonare alcuno de’ principi liberali», A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 39.
9 N. Pagano, Religione e libertà nella scuola, cit., p. 18.
10 Cfr. R. Fornaca, La politica scolastica della Chiesa, Roma 2000, p. 21.
11 Ibidem, p. 20. Il regolamento 15 settembre 1860 n. 4336 sull’istruzione elementare, applicativo della legge Casati, così prescrive all’art. 2: «Le parti del catechismo che dovranno studiarsi in ciascuna classe saranno determinate, secondo le varie diocesi del Regno, dal Consiglio provinciale sopra le scuole avutane la proposta del r[egio] ispettore, il quale consulterà a questo fine gli ispettori di circondario e i direttori spirituali dei ginnasi e delle scuole tecniche di provincia. Tale distribuzione dovrà essere fatta di guisa che in due o tre anni i fanciulli abbiano agio di studiare e imparare bene le parti più importanti della dottrina cristiana. Sono dispensati dallo studio delle materie religiose, accennati nei programmi delle scuole elementari, i fanciulli che non professano il culto cattolico». L’art. 140 dello stesso regolamento annovera poi, fra gli «oggetti» di cui la scuola è tenuta a fornirsi, anche il crocifisso.
12 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 12.
13 Ibidem, p. 17; N. Pagano, Religione e libertà nella scuola, cit., pp. 25-26. Jemolo fa notare che, pur in mezzo a una situazione assai caotica, caratterizzata dalla produzione di decreti e controdecreti sul tema dell’insegnamento della religione nella scuola, il periodo che va dal 1850 al 1875, soprattutto gli anni compresi fra l’unificazione del regno e la legge delle guarentigie, fu una vera «fucina d’idee intorno ai rapporti tra religione e politica, cattolicesimo e libertà, Chiesa e Stato, officina dove si foggiavano sistemi sulle relazioni tra i due poteri», A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, cit., pp. 32-33.
14 Ibidem.
15 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 16.
16 Mia la traduzione dall’originale francese.
17 B. Ferrari, La soppressione delle facoltà di teologia nelle università di stato in Italia, Brescia 1978, pp. 97 segg.
18 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 15.
19 Cfr. G. Spini, Risorgimento e protestanti, Napoli 1956, Torino 19983.
20 Cfr. Camera dei Deputati, Evangelici in Parlamento (1850-1982), Roma 1999. Sulla significativa figura di Bonaventura Mazzarella cfr. G. Spini, Risorgimento e protestanti, cit., pp. 338 segg.
21 N. Pagano, Religione e libertà nella scuola, cit., p. 23.
22 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 34.
23 Ibidem, p. 40.
24 N. pagano, Religione e libertà nella scuola, cit., p. 30.
25 Cfr. Camera dei Deputati, Evangelici in Parlamento, cit., pp. 306 segg.
26 Ibidem, p. 308.
27 Il settimanale evangelico «Conscientia», edito dalla Chiesa battista di Roma a partire dal 1922 (sarà soppresso dal fascismo nel 1927), seguì con grande attenzione le vicende politiche e religiose del paese con delle puntuali rubriche dedicate in particolare alla questione dell’insegnamento religioso nella scuola.
28 F. Momigliano, Gentile e l’istruzione religiosa, «Conscientia», 2, 1923, 7. Momigliano riconosce in Gentile «un pensatore di razza». Per questo afferma: «abbiamo fiducia nelle sue iniziative». Tuttavia si domanda anche: «Ai concorsi di maestro elementare saranno ammessi soltanto i candidati che dichiarino di impartire l’insegnamento religioso? Se sì, l’insegnamento della religione dominante? E se il concorrente è protestante o ebreo? L’essere cattolico è motivo sufficiente per l’esclusione dal concorso?». Giuseppe Prezzolini assunse una posizione più radicale: «L’insegnamento religioso sotto forma cattolica romana apostolica rappresenterebbe uno sguardo indietro […] un provincialismo […]. Insegnamento religioso sì; ma non insegnamento cattolico. Uno Stato che ammettesse l’insegnamento cattolico, non sarebbe più Stato moderno ma Chiesa», G. Prezzolini, «Conscientia», 2, 1923, 9.
29 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 72.
30 Ibidem, p. 73.
31 N. Pagano, Religione e libertà nella scuola, cit., p. 40.
32 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 77.
33 J.-P. Viallet, La chiesa valdese di fronte allo stato fascista, Torino 1985, p. 102. Curiosa, per molti versi, la ‘battaglia’ concernente il crocifisso, che la riforma Gentile reintrodusse nella scuola e negli ospedali. Il sottosegretario di Stato alla Pubblica Istruzione Dario Lupi emanò, a fine 1922, una circolare che imponeva ai Consigli comunali di ricollocare il crocifisso nelle scuole elementari da cui era stato rimosso. Che ciò dovesse avvenire anche nelle Valli Valdesi suonava come vera e propria provocazione, come il moderatore Bartolomeo Léger non mancò di ricordare nel suo memorandum al ministro. Ma i problemi sollevati da Léger non trovarono risposta, cosa che portò il moderatore a far visita al più stretto collaboratore di Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, che lo accolse cordialmente e che si dichiarò pronto a concedere l’autorizzazione a sostituire il crocifisso con un quadro religioso. Dopo diversi colloqui si trovò l’accordo: si sarebbe potuto appendere ai muri scolastici un ‘Gesù benedicente i bambini’ al posto del crocifisso. In verità, la cosa non fu così semplice, anche perché occorreva l’autorizzazione delle Belle Arti. Inoltre, quando si scoprì che l’autore dell’oleografia prescelta a tale scopo era di nazionalità tedesca si rischiò di mandare a monte l’accordo. Alla fine, ci si accontentò di far cancellare la firma, cfr. J.-P. Viallet, La chiesa valdese, cit., pp.103-104.
34 L’apertura alle voci libere del cattolicesimo e del modernismo traspaiono da ogni numero della rivista. In particolare va segnalato il contributo offerto da Romolo Murri, esponente di punta del movimento democratico-cristiano, poi scomunicato per essere stato eletto deputato (1909). Cfr. R. Murri, La rivoluzione religiosa e lo Stato moderno, «Conscientia», 1, 1922, 20; Id., Chiesa e Stato in Italia, ibidem, 1, 1922, 33; Id., Una delusione dei cattolici, ibidem, 1, 1922, 43.
35 Cfr. per esempio M. Rossi, La religione nel programma Gentile per le scuole medie, «Bylichnis», 18, 1924, 5.
36 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 100-101.
37 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 240.
38 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 101.
39 J.-P. Viallet, La chiesa valdese, cit., pp. 131 segg. Alla formulazione del testo partecipò Mario Piacentini, valdese, del Ministero di Grazia e Giustizia. Cfr. in proposito anche G. Spini, Italia di Mussolini e protestanti, Torino 2007.
40 Cfr. J.-P. Viallet, La chiesa valdese, cit., passim; G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, Torino 1990.
41 G. Peyrot, Il problema dell’insegnamento della religione nelle pubbliche scuole elementari in relazione ai maestri ed agli alunni evangelici, Firenze 1955, p. 12.
42 In un articolo del 1932, «L’Osservatore romano», organo ufficiale della Santa Sede, osò definire la Chiesa valdese come una sorta di «associazione a delinquere», cfr. «La Luce», 25, 1932, 47.
43 Cfr. G. Cimbalo, Programmi scolastici della scuola pubblica elementare e materna, insegnamento della religione e profili di costituzionalità, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 29, 1979, 4, pp. 1081-1128.
44 L. Borghi, G. Perrorro, L. Rodelli, La scuola del Concordato, «Quaderni dell’associazione per la libertà religiosa in Italia (ALRI)», 4, 1971.
45 G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, Bologna 1990, p. 294.
46 Cit. in A. Mannucci, I protestanti e la religione a scuola. Analisi della stampa protestante dalla revisione del Concordato ad oggi, Firenze 1994, p. 214.
47 G. Long, Le confessioni religiose, cit.; E. Butturini, La religione a scuola, cit., pp. 139 segg.
48 P. Calamandrei, Contro l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, in Camera dei Deputati, Segretariato generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma 1970, pp. 513-520. Va ricordato che lo stesso Benedetto Croce votò contro, considerando il Concordato «uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico».
49 S. Lariccia, Individuo, gruppi, confessioni religiose nella Repubblica italiana laica e democratica, in Bioetica e laicità. Nuove dimensioni della persona, a cura di S. Rodotà, F. Rimoli, Roma 2009. Lariccia osserva che le minoranze religiose restano sotto un regime di «vergognosa mancanza di libertà» in quanto le disposizioni legislative emanate durante il ventennio fascista restano in vigore. Una situazione paradossale in cui, pur con una Costituzione «composta da disposizioni capaci di assicurare un’adeguata garanzia delle libertà democratiche relative al fatto religioso, per circa un decennio dopo l’entrata in vigore della Costituzione, si assiste a una sistematica violazione delle norme poste a tutela delle libertà di religione», ibidem, p. 226.
50 Proposte diverse furono elaborate dai governi Moro, Andreotti, Forlani, Cossiga e Spadolini, cfr. R. Fornaca, La politica scolastica della Chiesa, cit.
51 Cfr. Quali valori nella scuola di Stato, a cura di N. Galli, Brescia 1989.
52 Cfr. P. Scoppola, Un’improbabile religione nelle strettoie del Concordato e delle riforme scolastiche, «Religione e scuola», 12, 1985, 10; Assicurata ma facoltativa. La religione incompiuta nella scuola italiana, a cura di L. Prenna, Roma 1997, pp. 77 segg.
53 Cfr. per esempio Comunità cristiane di base, Concordato: perché contro, Roma 1976.
54 Cfr. La religione nella scuola. Norme e programmi, Roma 1979.
55 E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 222.
56 G.P. Meucci, Una politica per i giovani, «Bambino incompiuto: per una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza», 1, 1984, pp. 6-7, cit. in E. Butturini, La religione a scuola, cit., p. 228.
57 L. Basso, Muore la chiesa dei potenti, nasce la chiesa dei poveri, in Id., Scritti sul cristianesimo, Casale Monferrato 1983, pp. 268-277.
58 Cfr. G. Peyrot, Scuola pubblica e istituzioni ecclesiastiche nell’Intesa tra la Repubblica italiana e le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese, in G.M. Mei, G. Peyrot, L. Rodelli, et al., Scuola statale e istituzione ecclesiastica: separiamole, «Quaderni dell’Associazione per la libertà religiosa in Italia (ALRI)», 8, 1982.
59 G. Long, Le confessioni religiose, cit., p. 184.
60 A. Ribet, Per un’alternativa al Concordato. Testo commentato dell’Intesa tra Stato italiano e chiese rappresentate dalla Tavola Valdese. Testo della legge di approvazione n. 449/1984, Torino 1984, p. 91. In seguito all’intesa Falcucci-Poletti del 1985, il sinodo valdese tenne a ribadire «la propria convinzione che la scuola nel suo progetto culturale complessivo debba affrontare anche il fatto religioso e lo debba fare con la necessaria autonomia da ogni dogmatismo confessionale o ideologico», Atti sinodali, 58/1985.
61 Questa posizione di difesa-protesta nei confronti dell’insegnamento della religione cattolica è ben descritta da F. Giampiccoli, La religione nella scuola oggi: necessità dell’esenzione, Torino 1980.
62 A. Mannucci, I protestanti e la religione a scuola. Analisi della stampa protestante dalla revisione del Concordato ad oggi, Firenze 1994. L’opera offre un ampio panorama del dibattito interno al mondo valdese e protestante italiano. Le intese delle altre Chiese evangeliche, successive, per quanto concerne l’insegnamento religioso, pur con dei piccoli distinguo, seguirono il modello della prima intesa.
63 Per un approfondimento rinvio a G. Long, Le confessioni religiose, cit. In data 13 maggio 2010 il Consiglio dei Ministri ha approvato le bozze d’intesa con lo Stato di altre sei comunità religiose: ortodossi, mormoni, apostolici, buddisti, induisti, testimoni di Geova. Per la prima volta lo Stato si appresta dunque a firmare un’intesa con comunità religiose che non sono di tradizione giudaico-cristiana.
64 G. Long, Le confessioni religiose, cit., p. 156.
65 R. Fornaca, La politica scolastica della Chiesa, cit., pp. 158-159.
66 Nel 1999 è sorta, su iniziativa di un gruppo di insegnanti evangelici, l’Associazione 31 Ottobre per una scuola laica e pluralista.
67 Oltre al testo di Andrea Mannucci già ricordato, cfr. Quale laicità nella scuola pubblica italiana? I risultati di una ricerca, a cura di L. Palmisano, Gruppo Scuola e Laicità, Torino 2009.
68 Istituire un credito per una disciplina ‘facoltativa’ è, secondo la legislazione attuale, di dubbia costituzionalità. Il Consiglio di Stato (7 maggio 2010) ha annullato la delibera del T.A.R. del Lazio (n. 7076 del luglio 2009) che si era espresso contro il decreto Fioroni. Il ‘credito’ è oggettivamente discriminatorio dal momento che la scuola statale non organizza né finanzia, come dovrebbe per legge, le attività alternative per gli studenti ‘non avvalentisi’ dell’insegnamento della religione cattolica.
69 Cfr. F. Pajer, L’istruzione religiosa nelle politiche scolastiche europee, in Pluralità delle culture e pluralismo religioso, San Giustino (Pg) 2006, pp. 187-204.
70 Office for Democratic Institutions and Human Rights (Odhir, Osce), Toledo guiding principles on teaching about religions and beliefs in public school, Warszawa 2007.
71 Ibidem, p. 18 (mia la traduzione dall’originale inglese).
72 Ibidem, p. 21 (idem per la traduzione).
73 Documento di Vienna, pagina 29, § 16.1 (capitolo II).
74 II/30.
75 Flavio Pajer ha illustrato in più pubblicazioni la situazione e continua a proporre aggiornamenti sull’argomento attraverso il suo bollettino informativo «ERE news (European Religious Education newsletter)».
76 Una precisa proposta ecumenica in tal senso è stata avanzata in E. Genre, F. Pajer, L’Unione Europea e la sfida delle religioni. Verso una nuova presenza della religione nella scuola, Torino 2005, pp. 103 segg.
77 Assicurata ma facoltativa, a cura di L. Prenna, cit., p. 59.
78 La cultura assente. L’istruzione religiosa nella scuola. Voci di una proposta, a cura di F. Pajer, L. Prenna, Roma 2005, p. 10.
79 Assicurata ma facoltativa, a cura di L. Prenna, cit., pp. 78-79.
80 «EREnews», 6, 2008, 4, p. 16.
81 Ulteriori indicazioni bibliografiche si possono trovare in L’insegnamento della religione e profili di costituzionalità, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 4, 1979, pp. 1081-1128; Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, in St.It.Annali, IX, 1997; C.A. Ciampi, La libertà delle minoranze religiose, a cura di F.P. Casavola, G. Long, F. Margiotta Broglio, Bologna 2009; Quale laicità nella scuola pubblica italiana? I risultati di una ricerca, a cura di L. Palmisano, Torino 2009.