L’integrazione economica fra Sud e Nord del mondo
Questo saggio si concentra su un importante mutamento delle relazioni economiche globali verificatosi verso la fine del 20° sec., e che nel 21° continuerà a caratterizzare il quadro internazionale, sia economico sia politico. Si tratta della transizione da una fase in cui le relazioni economiche globali erano sostanzialmente quelle ‘Nord-Nord’ (cioè tra Paesi economicamente sviluppati) a una nuova fase nella quale si assiste invece a un’integrazione ‘Sud-Nord’ (cioè fra Paesi con livelli di reddito bassi e Paesi con livelli di reddito elevati). Questo processo verrà definito e descritto nelle pagine che seguono.
Questo tipo d’integrazione ha già svolto un ruolo importante nel passato; per es., nel periodo in cui si formarono gli imperi coloniali, quando le relazioni economiche fra i Paesi dominanti e le colonie avevano un forte rilievo. Nell’attuale fase, le relazioni fra Paesi con differenti livelli di sviluppo economico hanno assunto di nuovo una grande importanza. La fig. 1 illustra questo fenomeno esaminando le quote relative di vari gruppi di Paesi nelle importazioni di tre differenti mercati del Nord, tutti a reddito assai elevato: gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione Europea a 15 (Francia, Italia, Regno Unito, Germania, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Grecia, Danimarca, Irlanda, Spagna, Portogallo, Svezia, Finlandia e Austria).
Tra i numerosi Paesi che esportano verso questi tre mercati vi sono sia economie ricche sia economie a reddito medio o basso.
Le prime (dette nella fig. 1 economie OECD avanzate) comprendono i Paesi OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) più ricchi: Unione Europea (UE) a 15, Stati Uniti, Giappone, Svizzera, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Norvegia e Islanda.
Le economie a reddito medio o basso sono suddivise tra quelle che hanno avuto successo nel processo di catching-up (cioè nel recupero del divario con i Paesi più ricchi), da una parte, e l’Africa subsahariana e i Paesi meno sviluppati (due gruppi che in parte si sovrappongono), dall’altra.
Le economie di successo (come saranno chiamate per brevità nel prosieguo di questo saggio) sono a loro volta divise in tre gruppi. Il primo (definito nella fig.1 UE-10) è costituito dai Paesi che sono diventati membri della Unione Europea nel 2004 (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria). Il secondo (economie OECD catching-up) è costituito dai Paesi OECD che stanno attuando il processo di catching-up: Grecia, Spagna, Portogallo, Turchia e Messico. Il terzo (Asia dinamica) comprende Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Singapore, Thailandia, Malaysia, Filippine, Indonesia, Cina e India.
Ciò che emerge dalla fig. 1 è che, nelle importazioni dei tre mercati del Nord, tra il 1990 e il 2006 ci sono state sostanziali variazioni nelle quote dei diversi gruppi di Paesi (va precisato che per il mercato UE a 15 sono stati esclusi dal calcolo gli scambi fra i 12 Paesi più ricchi dell’Unione). Le quote delle economie di successo sono fortemente cresciute, mentre sono significativamente diminuite quelle delle economie OECD avanzate. Vi sono tuttavia differenze interessanti fra i tre mercati del Nord. Per quanto riguarda la UE a 15, tutti e tre i gruppi delle economie di successo (UE-10, OECD catching-up e Asia dinamica) hanno visto aumentare le proprie quote, anche se in misura molto diversa, e nel 2006 sono arrivati a essere sostanzialmente uguali. Per quanto riguarda invece i mercati degli Stati Uniti e del Giappone, l’Asia dinamica è diventata di gran lunga il gruppo più importante. Per gli Stati Uniti, anche il gruppo delle economie OECD catching-up è aumentato in modo rilevante, e occupa ormai una quota significativa, soprattutto grazie al Messico che, dopo l’accordo NAFTA, costituisce un’importante destinazione di attività di outsourcing. Né nel mercato statunitense né in quello giapponese il gruppo UE-10 svolge un ruolo significativo.
Esistono quindi evidenze empiriche a favore sia della tesi di un processo d’integrazione economica ‘per regioni’ (parte dell’integrazione Sud-Nord avrebbe luogo in un contesto geograficamente delimitato) sia della tesi di un’integrazione ‘globale’.
Le principali tendenze che emergono da quanto indica la fig. 1 si possono così riassumere: a) l’aspetto attualmente più interessante delle relazioni commerciali internazionali è il forte aumento delle quote di mercato delle economie di successo; b) i processi d’integrazione internazionale presentano una consistente dimensione regionale; c) vi sono significativi gruppi di economie a basso reddito (definibili come ‘economie fallimentari’) che non sono protagoniste del processo d’integrazione Sud-Nord, in altre parole non riescono a svolgere alcun ruolo di rilievo nelle relazioni commerciali internazionali.
Nelle pagine che seguono verranno ulteriormente discusse alcune importanti questioni concernenti l’integrazione Sud-Nord.
Differenziazioni di reddito e integrazione Sud-Nord
In questo paragrafo sono considerati due aspetti salienti dell’attuale processo di cambiamento delle relazioni economiche globali: a) l’integrazione, a livello sia globale sia regionale, procede rapidamente; b) tale processo appare più dinamico per quanto riguarda i Paesi che si trovano a diversi livelli di reddito, produttività e dotazione tecnologica.
Le tendenze di fondo dell’attuale fase di globalizzazione sono note: i flussi commerciali internazionali crescono più velocemente del PIL globale; la crescita degli investimenti esteri diretti è anche maggiore di quella degli scambi; aree di attività economica che precedentemente venivano considerate come escluse dal commercio internazionale (non-tradeable), in particolare i servizi, ora vi partecipano in vari modi (attraverso gli scambi, gli investimenti esteri diretti, la fornitura cross-border di servizi); i mercati finanziari si sono internazionalizzati in misura maggiore dei mercati dei beni e fanno registrare ogni giorno volumi elevatissimi di transazioni.
Prendendo in considerazione diversi gruppi di economie e i loro rispettivi tassi di crescita, la fig. 2 mostra come la dinamica economica globale sia attualmente caratterizzata da un efficace processo di recupero del divario con i Paesi più ricchi da parte di un determinato numero di economie a reddito medio o basso, che ormai hanno guadagnato un peso significativo a livello sia globale sia regionale. L’accresciuta presenza delle economie di successo nell’ambito degli scambi globali e nei flussi d’investimento ha un importante impatto sull’andamento delle specializzazioni a livello globale e sull’integrazione, così come sulle dinamiche dei mercati del lavoro.
Come detto all’inizio del saggio, l’attuale fase d’integrazione fra Nord e Sud fa seguito a una fase precedente, successiva alla Seconda guerra mondiale, in cui la relazione Nord-Nord ha rappresentato la principale caratteristica del processo d’integrazione economica internazionale. Quest’ultimo tipo d’integrazione, basato su scambi e investimenti diretti tra economie economicamente e tecnologicamente avanzate, è stato un fenomeno abbastanza inatteso, in quanto, in base alla teoria classica del commercio internazionale (d’ispirazione ricardiana o basata sul teorema di Heckscher-Ohlin-Samuelson, di solito abbreviato in HOS), ci si dovrebbe attendere che i maggiori benefici dell’integrazione commerciale siano quelli che derivano da rapporti fra Paesi a differenti livelli di sviluppo economico. Osservando il rapido processo d’integrazione commerciale tra economie avanzate (soprattutto nella forma degli scambi cosiddetti intraindustriali), a partire dagli anni Settanta vari economisti hanno tentato di sviluppare strumenti analitici con cui fosse possibile comprendere i benefici degli scambi fra Paesi a livelli simili di sviluppo economico; un ruolo pionieristico è stato svolto in particolare da Paul R. Krugman (Scale economies, product differentiation, and the pattern of trade, «American economic review», 1980, 5, pp. 950-59), Elhanan Helpman (In;ter;na;tion;al trade in the presence of product differentiation, econ;omies of scale, and monopolistic competition: a Chamberlin-Heckscher-Ohlin approach, «Journal of international economics», 1981, 3, pp. 305-40) e Wilfred J. Ethier (National and international returns to scale in the modern theory of international trade, «American economic review», 1982, 3, pp. 389-405). La dimostrazione di tali benefici si basa su modelli che incorporano molteplici elementi di concorrenza imperfetta, specifiche economie di scala e la differenziazione di alcuni prodotti. Il corpo teorico emerso da questi sviluppi è stato chiamato nuova teoria del commercio internazionale, ed è stato impiegato, in particolare, per analizzare l’impatto dell’ambizioso programma della Commissione europea di creazione di un ‘mercato unico’, realizzatosi nel 1992.
L’avvio dell’integrazione Sud-Nord ha reso necessaria una nuova riflessione sui processi d’integrazione economica fra Paesi a diversi livelli di sviluppo economico. Qui di seguito si passeranno brevemente in rassegna gli approcci emersi nella letteratura recente sull’argomento. La teoria classica del commercio internazionale, prima citata, si basava sull’idea che esiste una certa complementarità fra Paesi con differenti livelli (relativi) di produttività o di know-how e diverse dotazioni relative di fattori, e che tale complementarità possa essere sfruttata grazie al commercio internazionale. L’idea principale era che la specializzazione relativa di diverse economie in diversi tipi di industrie conduce all’impiego più efficiente delle risorse disponibili sia nelle economie avanzate sia in quelle meno avanzate, assicurando benefici per entrambe. Nell’attuale contesto d’integrazione globale e regionale, quest’idea di complementarità conserva ancora una sua validità, anche se il concetto di specializzazione si è notevolmente ampliato.
Dalla semplice specializzazione industriale si è passati alla specializzazione in determinate fasi, o ‘compiti’, del processo produttivo (approccio basato sul concetto di frammentazione) o in particolari segmenti dello spettro di prodotti (teorie della differenziazione e specializzazione verticale dei prodotti). Inoltre, si è ampliata la nozione di complementarietà concernente le dotazioni di fattori, consentendo un’analisi più approfondita sia degli input eterogenei di lavoro (distinti soprattutto in base alle specializzazioni e ai livelli d’istruzione) sia della tipologia delle mansioni (job executions), usando informazioni dettagliate sulle strutture occupazionali. Il quadro emergente dell’integrazione Sud-Nord mostra uno spettro assai più ampio di specializzazioni produttive e d’integrazione fra economie con diversi know-how tecnologici, differenti produttività e molteplici livelli salariali. Allo stesso tempo, si differenziano anche i possibili effetti che tale integrazione potrebbe avere sulle strutture occupazionali e sulla domanda di lavoro nelle diverse economie.
Lo scambio di beni e servizi
Uno degli interessanti nuovi sviluppi del commercio internazionale è la rapida espansione del commercio di servizi. Questi, con poche eccezioni (turismo, trasporti), erano considerati non commerciabili internazionalmente, il che significava che per la maggior parte erano erogati nello stesso Paese in cui erano acquistati. Si riteneva che ciò fosse dovuto soprattutto alla necessità di un contatto personale diretto fra l’erogatore di un certo servizio e il cliente (per es., il rapporto fra medico e paziente, o quello fra docente e studente). In tempi recenti il quadro si è notevolmente modificato, a causa di cambiamenti sia tecnologici (in particolare nel settore delle comunicazioni) sia nelle caratteristiche dei differenti servizi offerti.
Attualmente si assiste a un fenomeno d’internazionalizzazione di un insieme assai più ampio di servizi (nel campo dell’istruzione, della sanità e di servizi alle imprese come, per es., contabilità, assistenza finanziaria, pubblicità, ricerca e sviluppo ecc.). L’internazionalizzazione assume varie forme, tra cui: il tradizionale acquisto di servizi importati dall’estero; la costituzione temporanea nel Paese di destinazione di imprese che offrono servizi interagendo direttamente con gli acquirenti; la fornitura di servizi attraverso la mobilità transfrontaliera del lavoro (una modalità tipicamente associata a flussi migratori che possono essere di breve durata). Le negoziazioni sugli scambi internazionali, come quelle che hanno avuto inizio nel 2001 nell’ambito del Doha Round, riconoscono l’estrema importanza di queste differenti forme di internazionalizzazione.
Va tuttavia sottolineata una significativa differenza fra i processi d’internazionalizzazione nel settore dei servizi e quelli relativi ai beni. Il fatto interessante è che, malgrado il forte aumento della commerciabilità dei servizi, la quota di questi ultimi sul totale dei flussi commerciali (cioè beni più servizi) non è aumentata. D’altra parte, se si confrontano i flussi internazionali di investimenti o lo stock di investimenti esteri diretti, si vede che gli investimenti esteri diretti nel settore dei servizi sono cresciuti negli ultimi 15-20 anni in modo sensibilmente più rapido di quelli nel settore dei beni. Da ciò sembra emergere una speciale caratteristica dei servizi nel contesto dell’integrazione economica internazionale: sebbene i servizi, per es. quelli alle imprese, possano essere scambiati a livello internazionale, l’interazione personale con il cliente resta assai più importante nella fornitura dei servizi che nello scambio di beni. Conseguentemente si constata come la fornitura di servizi cross-border attraverso il movimento di unità produttive e di persone sia una componente rilevante dello scambio internazionale di servizi. L’interazione personale nella fornitura di servizi è importante per due ragioni. Innanzi tutto, può essere necessaria una personalizzazione maggiore rispetto a quella di beni: i beni, infatti, non possono essere diversificati al momento della consegna, mentre i servizi possono essere modificati nello stesso momento della loro erogazione. La seconda ragione è che tale erogazione comporta un flusso diretto di informazioni e conoscenze nell’interazione fra chi eroga i servizi e chi li utilizza. Pertanto, la natura del trasferimento di conoscenze nel caso dei servizi è qualitativamente diversa da quella relativa ai beni.
Vi è una particolare caratteristica del commercio internazionale di servizi fra Nord e Sud che lo distingue da quello di beni. L’analisi dei flussi commerciali fra i Paesi o regioni offerenti e quelli acquirenti mostra che il commercio internazionale di servizi è ancora fortemente concentrato nei flussi tra regioni settentrionali ad alto reddito (cioè fra UE e Stati Uniti, fra Stati Uniti e Giappone, e all’interno della UE), mentre i flussi tra economie del Nord ed economie del Sud sono assai ridotti in termini assoluti.
D’altra parte, per quanto concerne gli scambi di beni, si osservano una minore concentrazione e la presenza di significativi flussi fra Sud e Nord. Ciò sembra indicare che le caratteristiche della specializzazione a livello globale si stanno modificando, nel senso che le economie avanzate a reddito elevato si dedicano essenzialmente alla fornitura di servizi (nella quale i vantaggi della specializzazione si sviluppano nel corso di lunghi periodi storici, e il know-how si trasferisce meno facilmente rispetto alle tecnologie per la produzione di beni), mentre la produzione di beni dà vita a un quadro in cui l’acquisizione di competenze a livello commerciale appare molto più diversificata.
Investimenti esteri diretti, outsourcing e off-shoring
In un sistema economico globale in cui i Paesi – pur con diversi livelli di reddito – hanno intense relazioni economiche, i saggi salariali e la produttività si caratterizzano per un fenomeno di differenziazione verticale che assume diverse forme.
La nozione di differenziazione verticale è stata ampiamente usata, nell’analisi del commercio internazionale, a proposito dei prodotti. In questo caso, significa che i beni offerti da diversi produttori possono essere classificati in termini qualitativi, anche se la qualità resta un concetto difficile da definire, poiché può essere misurata in base a diverse dimensioni e usando diversi metodi. Nel contesto internazionale, la differenziazione verticale dei prodotti può essere collegata all’andamento dei processi di specializzazione, per cui, in seno a un’industria (cioè nel commercio intraindustriale), diversi Paesi si specializzano in differenti segmenti qualitativi (cfr. Hummels, Ishii, Yi 2001; Schott 2004).
La nozione di differenziazione verticale si può impiegare per descrivere numerose caratteristiche dell’integrazione economica tra Sud e Nord. La differenziazione verticale di prodotto si riferisce alla differenziazione qualitativa dei diversi beni, ma può anche essere riferita a processi produttivi che seguono un percorso lineare via via che un prodotto si muove lungo le sue varie fasi di fabbricazione. La dissezione della catena di valore, com’è chiamata la segmentazione (o frammentazione) dei processi produttivi nelle loro varie fasi, ha spinto l’analisi dei processi globali d’integrazione verso una nuova direzione (Feenstra 1998; Fragmentation, 2001). La frammentazione dei processi crea margini molto più ampi per la specializzazione e per il commercio a livello internazionale. Per ciascun frammento (o segmento) del processo produttivo, i produttori internazionali sono in grado di prendere decisioni riguardo la sua localizzazione, e ciò può, in linea di principio, aumentare di molto l’ampiezza dell’integrazione internazionale (Yi 2003). Le decisioni di localizzazione, a loro volta, sono determinate dai tradizionali vantaggi comparati (vantaggi relativi di costo, dotazioni relative di fattori), ma anche dalla facilità con cui i trasporti, le comunicazioni e altri fattori logistici consentono ai processi produttivi di essere efficacemente coordinati in termini temporali e spaziali. Un approccio basato sul concetto di costi di transazione è vantaggiosamente impiegato per analizzare come il bisogno di strumenti di coordinamento e di integrazione dia vita a diverse forme di organizzazione delle attività produttive internazionali (per una rassegna della letteratura su questo argomento, cfr. Helpman 2006).
Il fenomeno della frammentazione ha portato allo sviluppo di un nuovo filone di analisi teoriche ed empiriche dell’andamento della produzione internazionale. La nuova linea di ricerca integra l’analisi delle imprese multinazionali, quella degli investimenti diretti esteri e quella dei flussi commerciali (in particolare i flussi relativi a input e parti intermedie). Queste analisi prendono in considerazione anche la scomposizione di differenti fasi della produzione, sia di beni sia di input di servizi. I concetti di outsourcing e off-shoring possono essere impiegati in diversi modi: uno di questi fa riferimento al trasferimento di fasi di produzione dei beni (o parti) in altri luoghi (outsourcing), e allo svolgimento al di fuori dei confini nazionali di alcuni servizi (come le telecomunicazioni, la contabilità ecc.) che sono parte della catena complessiva del valore aggiunto (off-shoring). L’outsourcing e l’off-shoring sono ormai importanti caratteristiche dell’integrazione economica internazionale e, nelle relazioni fra Sud e Nord, denotano i fenomeni definiti in precedenza come ‘differenziazione verticale’.
Le figure 3 (importazioni della UE a 27 nel 1995 e nel 2005) e 4 (importazioni dal Giappone negli stessi anni) illustrano uno dei modi in cui il fenomeno dell’outsourcing può essere rappresentato impiegando i dati sul commercio internazionale. Tali dati consentono la diversificazione dei prodotti in classi merceologiche che distinguono fra beni che svolgono il ruolo di input nei processi produttivi e beni finali. Pertanto, nelle due figure si distingue tra input processati, parti componenti e beni finali. Le figure, inoltre, differenziano i Paesi da cui provengono le importazioni in due ampi gruppi: quelli a reddito elevato e quelli a reddito medio o basso. Infine suddividono le merci di ciascuna classe merceologica (input processati, parti componenti, beni finali) a seconda che siano prodotte da industrie che richiedono un contenuto di lavoro specializzato basso, medio, medio-alto o alto.
Le figure 3 e 4 mettono in luce i seguenti aspetti. In primo luogo gli input processati e le parti componenti rappresentano, sommati insieme, una quota delle importazioni totali più elevata di quella dei beni finali, sia nella UE a 27 sia in Giappone; ciò dà sostegno all’idea che nel commercio internazionale l’integrazione produttiva attraverso l’offerta transfrontaliera di beni intermedi sia una componente estremamente significativa del processo d’integrazione.
Si sottolinea inoltre che nel periodo che va dal 1995 al 2005 vi è stato uno spostamento dai Paesi a reddito elevato a quelli a reddito medio o basso come fornitori di tutti i tipi di merci e, in particolare, di parti componenti; quindi il Sud svolge un ruolo d’importanza crescente (e in Giappone ormai dominante) in quanto fornitore di beni intermedi.
Guardando, infine, al contenuto di lavoro specializzato, emerge anche un significativo processo di miglioramento qualitativo delle economie a reddito medio o basso: una quota crescente della loro produzione avviene in industrie che richiedono contenuti di lavoro specializzato medi, medio-alti e alti.
Mercati del lavoro e demografia
A livello non specialistico, il fenomeno della globalizzazione è usualmente associato agli effetti prodotti sui mercati del lavoro da processi sempre più intensi d’integrazione economica internazionale in tutte le sue forme (il ruolo centrale delle multinazionali, le tendenze a una crescente liberalizzazione degli scambi commerciali, l’outsourcing e l’off-shoring, l’integrazione dei mercati finanziari ecc.). Sin dalla prima metà degli anni Novanta, le implicazioni sui mercati del lavoro di una più intensa integrazione economica internazionale sono state oggetto di molte analisi, a partire dal pionieristico libro di Adrian Wood (North-South trade, employment, and inequal;ity: changing fortunes in a skill-driven world, 1994), cui hanno fatto seguito altri contributi (per una rassegna, v. Slaughter 1998).
Che l’integrazione economica internazionale possa avere un forte impatto sulla distribuzione del reddito, è un considerevole risultato già raggiunto dalla teoria tradizionale del commercio internazionale. Essa ha mostrato come il processo di specializzazione degli scambi internazionali possa condurre a un punto in cui i fattori produttivi più abbondantemente impiegati in industrie che diventano importatrici nette subiscono effetti negativi per quanto riguarda i loro livelli di reddito, non solo in termini relativi ma anche in termini assoluti (reddito reale). Anche se questo è un risultato statico, che potrebbe non essere più vero in un contesto dinamico in cui si hanno effetti sulla produttività, tale contesto analitico è stato ampiamente usato per spiegare, in un’era di globalizzazione, gli effetti negativi subiti dai lavoratori scarsamente qualificati nei Paesi a reddito elevato (che, nel quadro della liberalizzazione del commercio internazionale, si specializzano in attività ad alta qualificazione). La teoria ha dimostrato una certa capacità esplicativa dei crescenti differenziali salariali fra lavoratori qualificati e non qualificati nelle economie a reddito elevato, ma tale capacità è stata inferiore a quanto originariamente ci si attendeva rispetto, per es., ai cambiamenti tecnologici indotti da variazioni della distribuzione del reddito. Inoltre, la teoria non è in grado di dar conto di un fattore empirico che va in senso contrario rispetto a quanto essa predice. La teoria prevede che i differenziali salariali tra lavoratori qualificati e non qualificati aumentino nelle economie a reddito elevato (ovvero con abbondanza di lavoro qualificato) e diminuiscano in quelle a basso reddito (ovvero con abbondanza di lavoro non qualificato). Ma questo non è ciò che si osserva: anche nelle economie a reddito medio o basso e, in particolare, in quelle di successo si osservano crescenti differenziali salariali fra lavoratori qualificati e non qualificati. Questo fenomeno può essere illustrato in diversi modi, che comunque rendono necessario l’abbandono del quadro analitico proprio della teoria HOS. Per esempio, Robert C. Feenstra e Gordon H. Hanson (1997) adottano un modello di outsourcing al fine di spiegare il fenomeno, mentre Michael A. Landesmann e Robert Stehrer (2001 e 2007) utilizzano un modello di catching-up con differenziali di produttività.
L’implicazione di tutto ciò è che la comprensione dell’impatto dell’integrazione economica internazionale sui mercati del lavoro e sulla distribuzione del reddito richiede un’analisi dettagliata delle molteplici forme in cui tale integrazione procede (commercio, investimenti esteri diretti, outsourcing, movimenti di capitali ecc.) nonché un’esplorazione delle caratteristiche dinamiche e dei meccanismi di reazione, tra cui l’acquisizione di capacità lavorative, il trasferimento di tecnologie e il funzionamento di diverse istituzioni e organizzazioni (per es., nei mercati del lavoro). La letteratura ha compiuto alcuni progressi in tutte queste direzioni, ma molto resta da fare.
Un’altra significativa dimensione attraverso cui la distribuzione del reddito (ma anche la crescita della produttività) può essere influenzata dall’andamento dell’integrazione economica internazionale è quella rappresentata dai flussi migratori fra diversi Paesi. Vi sono in particolare due aspetti che sono stati evidenziati dalle ricerche in quest’area: a) per comprendere l’impatto economico delle migrazioni è importante esaminare, più che la dimensione dei flussi, le diverse caratteristiche degli emigranti (in particolare rispetto alle capacità lavorative) e la loro distribuzione fra attività e regioni (su quest’ultimo aspetto, v. Borjas 2001); b) ciò che rende le migrazioni diverse da altri canali d’integrazione internazionale, come il commercio, è che esse possono avere un effetto rilevante sui settori che producono beni e servizi non scambiabili internazionalmente, i quali altrimenti sarebbero toccati dai processi di integrazione solo indirettamente.
L’analisi delle cause e degli effetti dei flussi migratori internazionali è inevitabilmente destinata a una crescente attenzione da parte di ricercatori e decisori politici, poiché questa forma d’integrazione internazionale si è sviluppata con ritardo rispetto all’integrazione produttiva e finanziaria, e poiché le complementarietà demografiche (e quelle relative alle capacità lavorative) la renderanno di importanza preminente. Attraverso questo canale si potranno trarre dall’integrazione internazionale ulteriori benefici, anche se ciò avverrà attraverso processi particolarmente difficili di aggiustamento, a livello sia economico sia sociale. La ricerca in quest’area ha privilegiato in modo particolare l’analisi dell’impatto (endogeno) dell’acquisizione di capacità lavorative a seguito dei flussi migratori sia nei Paesi di destinazione sia in quelli di origine, e lo studio di nuove e crescenti forme di migrazione (come, per es., quelle di ritorno, quelle multiple e così via), che sono esse stesse funzione delle possibilità, logistiche e non logistiche, create dalla globalizzazione.
Integrazione regionale e multilaterale
L’attuale fase di globalizzazione, con le sue possibilità di fine-tuning (regolazione fine) logistico e la proliferazione di strumenti di coordinamento dei rapporti transnazionali (per quanto riguarda produzione di beni, fornitura di servizi, transazioni finanziarie), rende il processo più vulnerabile ai rischi d’instabilità e ai problemi di affidabilità e fiducia negli strumenti di coordinamento. È probabile, come in precedenti periodi di globalizzazione (Globalization in historical perspective, 2003), che l’integrazione economica internazionale sia messa a dura prova da fenomeni d’instabilità economica (come l’attuale crisi dei mercati finanziari) o da tensioni politiche (a livello sia nazionale sia internazionale), o da una combinazione di entrambi gli elementi.
Passiamo brevemente in rassegna le principali aree di potenziale conflitto nelle relazioni commerciali, resesi evidenti nel procedere del Doha Round. Da una parte, vi è il perenne conflitto a proposito delle esportazioni agricole verso le economie a reddito elevato che vogliono proteggere questo settore, considerato strategico soprattutto per ragioni sociali (gli interessi degli agricoltori) e, in misura minore, per motivi di autosufficienza. Vi sono poi i problemi relativi al settore dei beni industriali, che non costituisce più una prerogativa delle economie a reddito elevato. Le economie di successo possono ormai definirsi a ragione come industriali, in quanto hanno una quota dell’industria sul PIL e sulle esportazioni pari o addirittura più grande di quella delle economie a reddito elevato. Per es., nel 2004 in Cina e in India la produzione industriale rappresentava rispettivamente il 39,9% e il 15,6% del PIL (contro il 15,7% nelle economie OECD avanzate), e i beni industriali costituivano l’80,1% e il 51,1% delle esportazioni (il 40,7% nelle economie OECD avanzate). In questo campo, le posizioni che si confrontano nelle negoziazioni sono guidate dalle dinamiche di cui si è parlato nel secondo e nel quarto paragrafo, vale a dire le caratteristiche degli scambi, gli investimenti esteri diretti e l’outsourcing in un mondo differenziato verticalmente. In questo contesto, le economie ricche tendono a proteggere le loro nicchie nei segmenti ad alto valore aggiunto della produzione di beni, così come nelle innovazioni di prodotto e di processo: per es., la protezione dei diritti di proprietà intellettuale (IPR, Intellectual Property Rights) e la possibilità di accesso alle localizzazioni produttive più adeguate alle loro attività multinazionali sotto forma di investimenti diretti o di outsourcing (assicurazione dei diritti di proprietà, possibilità di rimpatrio dei profitti, misure volte ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro ecc.). Le economie a reddito medio o basso, e in particolare quelle di successo, sono interessate a loro volta alla massima ampiezza dei trasferimenti di tecnologia, al miglioramento della propria posizione a livello di commercio internazionale e di produzione industriale, e all’acquisizione di capacità tecnologiche proprie. Inoltre, è emerso abbastanza chiaramente che posizioni conflittuali sorgono non solo fra le economie a reddito elevato e quelle a reddito medio o basso, ma anche all’interno di queste ultime. I conflitti del secondo tipo sembrano derivare dal timore di successi industriali eclatanti di alcuni Paesi, come la Cina, che danno vita a enormi capacità produttive, spesso proprio negli stessi settori in cui altre economie a reddito medio o basso potrebbero istradarsi con successo nel loro processo d’integrazione globale. Infine vi è l’ovvio conflitto di interessi tra produttori (netti) e consumatori (netti) di energia e beni: il primo gruppo è interessato alla creazione di situazioni meno competitive in questi mercati, il secondo, invece, punta alla realizzazione di mercati più competitivi, ma entrambi i gruppi sono potenzialmente attratti da una minore volatilità dei prezzi dei beni e dell’energia.
Nel terzo paragrafo è stato sottolineato come si stia assistendo a un cambiamento di lungo periodo delle posizioni di vantaggio comparato: le economie a reddito elevato lasciano gradualmente liberi importanti segmenti della produzione industriale di massa a favore di segmenti di qualità più elevata, e si concentrano sempre più sul settore in forte espansione della fornitura di servizi a livello internazionale, che ha il vantaggio di un aumento della domanda più che proporzionale rispetto al reddito (elevata elasticità) in seguito alla crescita globale, e trae beneficio dalle nuove potenzialità logistiche offerte (per es., dall’off-shoring). Si tratta perciò, con ogni evidenza, di un settore nel quale le economie a reddito elevato mostrano un forte interesse nei confronti delle politiche commerciali, la qual cosa si riflette sulle posizioni che esse hanno assunto nel Doha Round.
Infine è bene sottolineare l’esistenza di significative tendenze verso il regionalismo, cioè relazioni e politiche commerciali differenziate che si sviluppano tra gruppi di economie in particolari regioni (per es., il NAFTA, la UE, l’ASEAN ecc.). L’emergere di queste aggregazioni riflette il fatto reale che gli scambi, gli investimenti internazionali, l’outsourcing e l’off-shoring costituiscono relazioni che sono più forti fra le economie vicine fra loro. In altre parole, la geografia è ancora importante, malgrado i progressi fatti nei trasporti, nelle comunicazioni e in altri campi. Il fenomeno della regionalizzazione è favorito anche da processi diseguali di crescita (per es., la crescita generalmente elevata delle economie asiatiche crea forti incentivi per queste economie a intensificare gli scambi e gli investimenti esteri diretti a livello continentale) e dalla maggiore facilità con cui si possono stilare accordi istituzionali fra economie più prossime spazialmente, culturalmente e storicamente. Tra gli economisti vi è in merito un ampio dibattito, che verte sulla domanda se accordi a livello regionale siano antagonistici rispetto al multilateralismo o se si tratti invece di processi complementari che si rafforzano a vicenda. La nostra opinione è che la risposta dipende in larghissima misura da come evolverà il clima (economico e politico) a livello globale, anche in conseguenza dell’attuale crisi economica e finanziaria. Questo è l’ultimo argomento di cui ci occuperemo.
L’impatto della crisi finanziaria
Molti economisti sono stati sorpresi dall’estensione dell’attuale crisi finanziaria. Caratteristiche particolari della crisi attuale sono il fatto che essa ha investito il cuore del sistema bancario occidentale e di altre istituzioni finanziarie, l’ampiezza degli effetti domino e di contagio, l’impossibilità di qualsiasi tipo di isolamento. Si tratta di caratteristiche assolutamente non previste, persino dagli osservatori più informati. Le implicazioni per la crescita economica (per es., la profondità e la lunghezza del rallentamento, l’impatto differenziato sulle diverse regioni del mondo e così via) e per il quadro istituzionale e politico rimangono anch’esse ampiamente incerte.
Entrando nel campo delle speculazioni, si possono considerare diversi elementi. È probabile che emerga un nuovo tipo di rapporto fra Stato ed economia, a causa del maggiore scetticismo sulla natura autoregolativa del settore privato, in particolare nella sfera finanziaria. Ciò, a nostro parere, porterà anche ad accentuare l’importanza di una maggiore regolamentazione delle transazioni finanziarie internazionali. Si può invece restare più scettici per quanto riguarda la possibilità che emergano progetti per la creazione di una nuova ‘architettura finanziaria internazionale’, poiché gli interessi delle varie parti sono troppo diversi, per es., tra le economie dei Paesi anglosassoni e le altre. È tuttavia probabile che in quest’ambito si porrà più enfasi su misure a livello nazionale e regionale. Dal punto di vista della politica economica, il pericolo probabilmente più serio per le relazioni economiche globali è rappresentato da un forte aumento delle iniziative protezionistiche che potrebbero scatenare forme di disintegrazione analoghe a quelle degli anni Trenta. Finora sono emerse solo forme di moderato protezionismo (come gli aiuti a particolari industrie, il cui collasso avrebbe effetti rilevanti sul mercato del lavoro nelle rispettive economie nazionali e a livello regionale), e si è molto lontani dalle misure protezionistiche generalizzate e di ritorsione prese negli anni Trenta. Per ora, si può avere fiducia nel fatto che i decisori politici abbiano appreso le lezioni storiche. È abbastanza verosimile che l’attuale crisi dia vita a un processo di accelerazione nella formazione di nuovi accordi regionali, sotto forma di unioni monetarie o di altri accordi di tipo finanziario (come la formazione di fondi regionali di stabilizzazione), che daranno alle regioni interessate un più elevato grado di immunità dagli shock internazionali. Questo è probabile che avvenga in particolare in Asia. D’altra parte, è anche possibile che la crisi esponga i Paesi che fanno parte di un’area monetaria già esistente come la UEM (Unione Economica e Monetaria) a ‘shock asimmetrici’ di tale intensità che la loro partecipazione a tale unione venga messa in dubbio. La liberalizzazione finanziaria, da un lato, ha probabilmente favorito un maggiore accesso al credito e ha fatto aumentare ulteriormente i flussi di investimenti esteri diretti, svolgendo così un ruolo nel processo di catching-up di quel gruppo di economie di successo che, come abbiamo visto, nel corso degli ultimi due-tre decenni ha rappresentato un elemento significativo del quadro economico globale. Ma, dall’altro lato, la liberalizzazione ha esposto queste economie all’instabilità finanziaria. Poiché i mercati del credito saranno più limitati e regolamentati, è possibile che nella prossima fase i processi di catch;ing-up seguiranno un modello diverso, e che la loro diffusione sarà minore e meno veloce di quella a cui abbiamo assistito nella fase appena conclusasi.
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