Il conflitto siriano non è solo un enorme bagno di sangue e la più grande catastrofe umanitaria del nuovo millennio. È anche un evento epocale, di quelli che segnano il passaggio da un’era a un’altra. Dopo la caduta del Muro di Berlino, fu la guerra del Golfo del 1991 a segnare l’inizio dell’era unipolare. Gli Stati Uniti si presentavano al mondo come unico guardiano e garante degli equilibri internazionali. E lo facevano in quella che era allora la regione pivot del mondo, quel Medio Oriente che nei decenni a venire avrebbe dovuto fornire l’energia necessaria per il radioso futuro a guida americana. Fu il primo conflitto a ‘reti unificate’, trasmesso in diretta dalle nuove tv satellitari che fornivano all’unisono la narrativa desiderata dall’unica superpotenza. Un quarto di secolo più tardi è di nuovo un paese mediorientale, la Siria, il teatro del nuovo cambiamento epocale: l’entrata nell’era del regionalismo e del mondo multipolare. I siriani probabilmente avrebbero preferito evitare un tale onore. Avrebbero preferito non vedere in meno di cinque anni eserciti, bombardieri, battaglioni, avventurieri ed estremisti religiosi passare in massa i loro confini per combattere in un conflitto che ha assunto significati radicali e contrastanti per persone di ogni parte del mondo. Significati che hanno lentamente fatto dimenticare i motivi che avevano portato i siriani stessi ad affrontarsi in una sanguinosa guerra civile: le manifestazioni pacifiche sull’onda della Primavera araba, la repressione sanguinosa, le vendette dei gruppi paramilitari, e i cittadini che via via prendevano le armi per difendersi. Ma tutto questo appartiene ormai a un’altra era. In cinque anni molte cose sono cambiate, tra cui soprattutto le sembianze delle parti in campo: da una parte, un regime diventato ormai la facciata di altri stati e altri interessi e, dall’altra, una opposizione dal volto deformato e settario grazie anche ai denari e alla propaganda dei suoi sponsor principali. In Siria oggi si affrontano infatti prima di tutto le potenze regionali, l’Arabia Saudita e l’Iran, in una competizione mascherata da guerra di religione sciita-sunnita ma che ha tutti i tratti del più classico dei conflitti di potere. I due leader regionali si sono trascinati dietro i loro rispettivi supporter: le monarchie del Golfo da una parte, Hezbollah e Iraq sciita dall’altra. Con la Turchia che in qualche modo cerca di imporsi anch’essa in un’arena con molti aspiranti leader e ben pochi gregari. Il destino del conflitto oggi è in mano ai protagonisti della regione ben più di qualunque altro conflitto mediorientale del passato, dove una sola parola da Washington (o Mosca) sarebbe bastata per rimettere in riga le riottose potenze regionali. Ma agli Stati Uniti, segnati dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e sempre più interessanti all’Asia Orientale, di comandare in Medio Oriente importa sempre meno. E la misura della perdita di influenza americana è data proprio da una Russia col pil dell’Italia e in profonda crisi economica che, parafrasando Lenin, nonostante tutto riesce a imporsi come una sorta di ‘superpotenza stracciona’: interlocutore imprescindibile nella partita siriana e nell’intera regione. Ma non un decisore. Perché il primo difetto che emerge da questo primo, sfortunato, esempio di conflitto dell’epoca multipolare è la presenza di tanti ‘interlocutori’ e nessun ‘game changer’. Ovvero di nessun attore che abbia la capacità – e la volontà – di dire una parola definitiva. La ritirata volontaria dall’arena del ‘game changer’ americano non sta infatti comportando l’entrata in scena di un nuovo attore decisivo in grado, almeno al livello regionale, di poter imporre la propria volontà. Il vuoto lasciato è stato invece riempito da nuovi attori che negli ultimi vent’anni non avevano avuto alcuna parte rilevante negli equilibri regionali – in primis Turchia, Qatar e Russia – ma ai quali la latitanza statunitense ha permesso di ritagliarsi un nuovo ruolo. Un nuovo ruolo certamente utile ai loro interessi, ma la cui utilità nella risoluzioni delle molte e complesse dispute regionali rimane assai opinabile. Ma se sul campo il nuovo multipolarismo che contraddistingue il conflitto siriano si sta traducendo in una paralisi decisionale, nel resto del mondo si traduce in evidenti e inedite difficoltà dei media internazionali a raccontare questo conflitto e suscitare l’interesse delle opinioni pubbliche. I punti di riferimento dell’era unipolare sono caduti: dittatori sanguinari ed estremisti religiosi, le due categorie diventate i bersagli principali nell’universo mediatico occidentale negli ultimi vent’anni, appaiono oggi contrapposti fra loro rendendo difficile per il pubblico – e anche per i decisori politici – prendere una posizione definitiva. C’è chi è addirittura andato a scomodare i filtri ideologici mai veramente scomparsi della guerra fredda, in cui il laico regime di Assad era alleato del blocco orientale contro gli Stati Uniti e per questo va oggi sostenuto come ‘pilastro anti-imperialista’. Ma il passare del tempo e il crescere del numero dei morti e degli sfollati hanno reso sempre più evidente l’inadeguatezza sia della visione unipolare del mondo sia di quella bipolare. Al contrario, l’assenza di una potenza egemone anche sul piano culturale si è resa evidente con l’emergere di numerose narrazioni in competizione fra loro nell’arena offerta dal nuovo sistema dell’informazione basato su internet e i social media. In questo conflitto fra narrative deboli sembra contare sempre meno chi commette cosa, ma chi sa comunicarlo meglio. Un’esecuzione macabra di un singolo individuo da parte di Is può oscurare il destino di centinaia di persone morte lo stesso giorno sotto i bombardamenti di Assad. Allo stesso modo una sola foto di un bimbo morto su una spiaggia turca è stata in grado di smuovere le coscienze degli europei assai più di decine di stragi in mare nei mesi precedenti, in un approccio emotivo alla realtà che sconfigge ogni proporzione. Se la guerra del Golfo del ’91 fu il primo conflitto dell’era unipolare e delle tv satellitari, la guerra di Siria è il primo esempio di conflitto nel nuovo ordine multipolare raccontato quasi interamente attraverso i social media. Un primo esempio che per il futuro non lascia presagire nulla di buono.