L'invasione dei mostri: l'arte orientalizzante
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel VII secolo a.C. nascono le grandi creazioni dell’arte greca (il tempio, la statua, la pittura) e si forma il repertorio iconografico che verrà consolidato e arricchito nei secoli successivi. L’impulso a questa fioritura viene dai contatti commerciali sempre più intensi che le città greche intrattengono con il Vicino Oriente. Dall’area siriana e anatolica provengono infatti temi e suggestioni stilistiche che danno vita al cosiddetto stile orientalizzante: esso si caratterizza per l’improvvisa comparsa di mostri e ibridi di ascendenza orientale, che gli artisti greci assimileranno all’interno del proprio universo simbolico e narrativo come incarnazione delle forze del caos contro cui si confrontano dèi ed eroi. Parallelamente nasce la grande statuaria, la cui invenzione viene attribuita al mitico Dedalo e che rivela un embrionale intento di conferire organicità al corpo umano.
Il VII secolo a.C. rappresenta una svolta cruciale nella storia della cultura e dell’arte greca. È proprio allora che vengono gettati i semi di alcune tra le più longeve creazioni di questa civiltà: la vita associata si ristruttura attorno al nascente organismo della polis, la città-stato fondata sulla partecipazione dei cittadini-soldati, mentre nei grandi santuari panellenici si intrecciano relazioni sovranazionali, soprattutto in occasione dei giochi che richiamano campioni da tutto il mondo greco. È in questa fase che si assiste alla nascita delle grandi creazioni dell’arte: il tempio, la statua, la pittura; è in questa fase, inoltre, che si gettano le basi del repertorio iconografico che la cultura artistica greca continuerà ad arricchire nei secoli successivi.
Nella tradizione degli studi è invalso l’uso di definire questo periodo orientalizzante, sia per sottolineare la particolare ricettività della Grecia alle sollecitazioni artistiche provenienti dal Vicino Oriente, sia per marcare una cesura con il precedente periodo geometrico, rispetto al quale si registra l’emergere di uno stile nuovo, che abbandona il gusto per il disegno lineare a favore di una crescente ricerca di naturalismo. I suoi limiti cronologici vengono definiti in maniera elastica a seconda delle diverse regioni della Grecia, che elaborano in maniera diversificata gli stimoli provenienti da Oriente: esso abbraccia per intero il VII secolo a.C., con anticipazioni, nelle aree più precoci, già intorno alla metà dell’VIII secolo a.C.
Secondo la visione tradizionale, l’improvvisa comparsa di temi di origine orientale nell’arte greca sarebbe legata alla mediazione dei mercanti fenici; oggi sappiamo invece che le modalità e i tempi di questi contatti furono molteplici. Gli scavi condotti a partire dagli anni Trenta ad Al-Mina in Siria, ad esempio, che hanno riportato alla luce una postazione commerciale greca presso la foce dell’Oronte, accreditano un diretto coinvolgimento di mercanti greci nel traffico di merci dall’area siro-palestinese. Un ruolo importante dovettero svolgerlo anche le città della Ionia (Mileto ed Efeso innanzitutto), punto di arrivo di vie carovaniere lungo le quali viaggiavano i prodotti dell’artigianato frigio, lidio, ittita e assiro, raggiungendo anche le raffinate civiltà degli altopiani iranici.
L’entità degli scambi tra Grecia e Oriente è difficilmente valutabile, poiché di essa ci rimangono solo alcune testimonianze di notevole pregio (vasellame in bronzo sbalzato, avori intarsiati, oreficerie) provenienti da tombe e santuari, mentre sono andati perduti quei manufatti deperibili, come il legno e i tessuti, che pure devono aver giocato un ruolo importante nella diffusione di stili e temi ornamentali.
L’apporto più importante dell’artigianato orientale sembra essere proprio il repertorio di immagini nuove che fanno irruzione nell’arte greca. L’arte orientale, soprattutto nell’età dei grandi sovrani assiri, è un’arte cerimoniale, caratterizzata da immagini simboliche che esaltano la potenza del sovrano e del dio di cui è considerato l’incarnazione: animali feroci (leoni, pantere) ed esseri fantastici in cui si combinano tratti di diverse specie o di uomini e animali (grifi, sfingi, sirene, centauri) sono espressione di una potenza sovrumana.
Questi temi vengono ripresi nel linguaggio figurativo greco non passivamente: se inizialmente i Greci dovettero guardare con curiosità a queste figure esotiche e apprezzarne le qualità estetiche pur senza intenderne il significato originario, in un secondo momento le assimilarono all’interno del proprio immaginario. I mostri provenienti dall’Oriente, con la loro carica – per dirla con Freud – perturbante, dopo un periodo di sperimentazioni vengono fissati in un’iconografia stabile, con caratteri morfologici definiti. La Sfinge greca acquista così il corpo di un leone alato e una testa umana dalle fattezze femminili che la distinguono dai suoi modelli orientali ed egiziani; tratti femminili riceve anche l’uccello dal volto umano che i Greci chiameranno Sirena. Il volto della Gorgone, lontana parente di demoni orientali come Pazuzu e egiziani come Bes, viene fissato dagli artigiani di Corinto nella minacciosa maschera detta gorgoneion, con testa leonina, bocca digrignata dalle zanne di cinghiale, occhi sbarrati e chioma serpentina.
Più o meno nello stesso torno di tempo si viene fissando anche il canone dei racconti mitici propagati dai canti epici: proprio nel repertorio di mostri importato dall’Oriente gli artisti greci trovano il materiale iconografico per rappresentare le forze del caos contro cui devono misurarsi dèi ed eroi.
L’osservatorio migliore da cui analizzare le produzioni artistiche della Grecia in età orientalizzante è la pittura vascolare. Il desiderio di imitare gli oggetti di lusso provenienti dall’Oriente, in particolare manufatti in avorio o in metallo inciso, spinge i ceramografi greci ad inventare un nuovo modo per rendere le figure: non più a silouhette piena come in età geometrica, ma con dettagli resi con la sola linea di contorno (in outline).
Nella fase matura, verso la metà del VII secolo a.C., si affermerà l’uso della linea incisa per rendere i dettagli interni della figura campita in nero, ovvero verranno poste le premesse della tecnica detta a figure nere. Questo progresso tecnico consente ai pittori di ottenere un maggiore naturalismo rispetto al passato, con la possibilità di caratterizzare le singole figure mediante l’aggiunta di dettagli (vesti e attributi) che consentano di distinguere i personaggi per sesso e per stato (divinità, eroi, comuni mortali). In questo modo la decorazione pittorica dei vasi acquista una funzione non solo ornamentale, ma propriamente narrativa.
Non tutte le regioni della Grecia raggiungono tuttavia gli stessi traguardi nello stesso momento. Ad Atene, ad esempio, per buona parte del VII secolo a.C. prosegue la tendenza alle forme colossali che aveva caratterizzato lo stile geometrico. Intorno al 680 a.C. si inaugura però il cambiamento che dà vita al cosiddetto stile protoattico, ovvero all’orientalizzante ateniese, caratterizzato da un intenso sperimentalismo. Questo periodo viene anche definito dello stile bianco e nero, poiché i pittori usano la linea di contorno nera e l’aggiunta di colore bianco per dare risalto ad alcune figure o per creare effetti decorativi. I soggetti prediletti sono quelli del mito, con una preferenza per le figure mostruose (Centauri, Gorgoni, Chimere), nella cui costruzione i pittori si abbandonano a sperimentazioni che spesso rasentano il grottesco.
Uno dei vasi più celebri è la grande anfora (alta 1,42 m) considerata il vaso eponimo di un artista noto come Pittore di Polifemo, usata ad Eleusi come sarcofago per un bambino: sul collo è raffigurato Odisseo (che spicca tra i compagni per il corpo dipinto in bianco) in procinto di accecare un gigantesco Polifemo. Sulla pancia del vaso, due Gorgoni inseguono Perseo che, con l’aiuto della dea Atena, ha appena decapitato Medusa, il cui corpo senza testa giace dietro le due sorelle. La resa del volto delle Gorgoni è curiosa: sembra quasi che il pittore abbia preso ispirazione da uno di quei calderoni di bronzo decorati con protomi di serpenti che proprio in questi anni vengono importati dall’Oriente.
Ben diverse sono invece le caratteristiche della ceramica dipinta prodotta negli stessi anni a Corinto, la città dell’Argolide che dalla fine dell’VIII secolo a.C. detiene il primato negli scambi commerciali: buona parte delle ceramiche prodotte nelle officine cittadine sono destinate all’esportazione, ad esempio verso le colonie della Magna Grecia e le città dell’Etruria costiera. A Corinto l’assimilazione di motivi orientali è molto più precoce che ad Atene e si traduce sin da subito in forme coerenti ed eleganti, convenzionalmente definite come stile protocorinzio. I vasi sono di dimensioni contenute: sono vasi da vino, come la kotyle, una coppa profonda dalle pareti verticali, oppure contenitori per unguenti e profumi come l’aryballos, dal corpo globulare, e l’alabastron, di forma allungata.
La decorazione predilige gli animali di ascendenza orientale, sia reali (cervi pascenti, uccelli acquatici, lepri, grossi felini) che fantastici (Grifi, Sfingi, Sirene, cavalli alati), che sembrano aver perduto ora ogni carica aggressiva e disporsi in ordinate sequenze intorno alla circonferenza del vaso o in coppie che si affrontano in schema araldico, spesso intervallati da riempitivi floreali.
Nel corso della prima metà del secolo i ceramografi corinzi mettono a punto la tecnica a figure nere: le singole figure, rese come silouhette nere contro l’argilla chiara del fondo, sono ravvivate da dettagli incisi o dipinti in colori aggiunti (soprattutto rosso porpora). La stessa tecnica viene applicata anche alla figura umana, che appare ora impegnata in scene narrative anche complesse, come quella raffigurata sul vaso considerato il capolavoro dello stile protocorinzio: l’olpe Chigi. L’olpe, nome con cui si designa un tipo di brocca panciuta, mostra nel fregio principale due opposte schiere di guerrieri che convergono l’una verso l’altra al suono del doppio flauto. Il pittore ha risolto con maestria il problema di disporre le figure nello spazio, facendole avanzare leggermente l’una rispetto all’altra in modo da suggerire diversi piani di profondità e costruendo con le linee oblique e convergenti delle lance una sorta di rudimentale prospettiva. La complessità della decorazione dell’olpe Chigi si apprezza solo in una lettura integrata delle sue varie partizioni e dimostra come anche un semplice vaso in terracotta possa essere un prezioso documento sulla società che l’ha prodotto e sulla sua ideologia. La formazione a ranghi serrati dei guerrieri e il tipo di armatura con lo scudo rotondo sono quelli della falange degli opliti, i cittadini adulti in armi: in questa fase (650 a.C. ca.) infatti si sta affermando un’organizzazione militare e politica a più ampia partecipazione rispetto al sistema gentilizio d’età geometrica. Il fregio sottostante è decorato con una cavalcata di giovani, con una caccia al leone e con una scena mitologica, il giudizio di Paride: nell’insieme una celebrazione della prodezza giovanile. La fascia più in basso ospita invece un genere di caccia meno nobile, la caccia alla lepre, di solito praticata dagli adolescenti: sembra cioè che l’olpe sia una celebrazione del valore maschile come si manifesta nelle varie fasi della vita.
Non c’è regione della Grecia, si può dire, che non abbia la propria ceramica orientalizzante. Dovendo limitare il discorso alle produzioni di maggiore originalità e di maggiore successo commerciale, si farà cenno alle officine greco-orientali, operanti nelle colonie greche sulle coste dell’Asia Minore e nelle isole antistanti, caratterizzate da un rapporto più diretto con le popolazioni dell’Anatolia interna (Frigi e Lidi, eredi dell’impero assiro). Intorno alla metà del VII secolo a.C. nella Ionia settentrionale, in particolare a Samo e Mileto, si afferma il cosiddetto stile della capra selvatica: i vasi, soprattutto oinochoai (cioè “brocche da vino”), sono decorati da fregi di animali tra cui domina appunto la capra, assieme ai volatili e agli animali fantastici importati dal Vicino Oriente. La tecnica consiste nel disegnare la figura mediante una linea di contorno, riempiendola poi con colore aggiunto o motivi grafici. Lo spazio libero tra le figure è fittamente riempito da motivi floreali (rosette, boccioli di loto), ad effetto tappezzeria.
I Greci di età storica attribuivano a Dedalo, il mitico artefice del labirinto, l’invenzione della statua antropomorfa, in cui egli avrebbe a tal punto infuso la parvenza della vita da dare l’illusione del movimento. Nel I secolo a.C. lo storico Diodoro Siculo interpreta il mito in chiave razionalizzante (Biblioteca, 4,76): “Egli infatti fu il primo a dare loro lo sguardo e a far loro muovere gli arti protendendoli in avanti: è perciò comprensibile che fu ammirato tra gli uomini. Infatti gli artisti prima di lui erano soliti fare statue con gli occhi chiusi e con le braccia a riposo, accostate ai fianchi”.
Diodoro dunque inserisce l’opera di Dedalo in un preciso momento dell’evoluzione della scultura greca; la critica ha da tempo collocato questo passaggio alla fine dell’VIII secolo a.C., quando dall’Oriente e dall’Egitto arrivano in Grecia i modelli della scultura monumentale. L’evoluzione del linguaggio plastico è probabilmente legata alla coeva definizione del tempio, che genera la richiesta sia di statue di culto sia di statue d’offerta (agàlmata) con le quali i fedeli vogliono essere rappresentati al cospetto del dio. In omaggio al leggendario scultore, le caratteristiche della plastica orientalizzante vengono denominate stile dedalico: la figura, rigorosamente frontale, si dispone in uno spazio cubico, compatto, a gambe unite; la testa, pesante e dai grandi occhi obliqui, è incorniciata da una pettinatura a più piani che ricorda le parrucche cerimoniali della statuaria regale egiziana. Nel contempo si definiscono i tipi scultorei destinati a maggior successo, quelli del kouros e della kore, la statua maschile nuda e stante e quella femminile vestita con il lungo chitone o la sopravveste detta peplo. Entrambi rappresentano il modello di perfezione, fisica e morale, che la società del tempo propone agli esponenti dei due sessi; privi come sono di tratti contingenti, gli stessi modelli risultano idonei a rappresentare tanto le divinità che i loro fedeli, cosicché è arduo distinguere tra gli uni e gli altri in assenza di attributi che qualifichino le singole personalità divine.
Le fonti attribuiscono a Creta le più precoci realizzazioni della scultura greca; l’archeologia conferma la tradizione sia per numero di rinvenimenti sia per la varietà delle tecniche che qui vengono sperimentate. Le opere più antiche appartengono alla bronzistica: esse sono realizzate nella tecnica dello sphyrelaton, ovvero mediante martellatura di una lamina di bronzo su un’anima di legno, come le tre statuette rinvenute a Dreros all’interno di un tempio dedicato ad Apollo. Le tre figure, due femminili e una maschile in cui si riconoscono le tre persone della triade apollinea (Apollo, Artemide e Latona), sono considerate le più antiche statue di culto greche; nella figura maschile, con le braccia staccate dal corpo forse per reggere degli attributi, si può ravvisare quella rottura della tradizionale immobilità della statua che le fonti attribuiscono a Dedalo.
Intorno alla metà del VII secolo a.C. anche la scultura in pietra raggiunge una qualità elevata, sia nel rilievo che nella statuaria a tutto tondo: basti citare la celebre Dama di Auxerre, una statuetta femminile in calcare di fabbrica cretese, probabilmente dedicata in un santuario come dono votivo. Essa presenta i tratti tipici dello stile dedalico: il volto affilato è incastonato nella fitta trama di boccoli dell’acconciatura; il corpo chiuso in uno spazio cubico rivela l’intento di conferire sostanza alle masse e di raccordare in modo armonico le varie partizioni attraverso la cintura che enfatizza la curva dei fianchi.
Una produzione scultorea dai caratteri originali si afferma, in parallelo con quella cretese, nelle Cicladi, anche grazie alla ricchezza delle cave di marmo insulari. Le officine di Naxos, in particolare, si specializzano in opere monumentali, destinate al santuario di Apollo a Delo. Di grande impatto doveva essere una statua colossale di Apollo, conservata solo in frammenti, grande cinque volte il vero. Ci è giunta invece pressoché integra la kore, un po’ maggiore del naturale (1,75 m di altezza), che una fanciulla di nome Nikandre dedicò ad Artemide come ex voto in occasione delle nozze. La statua, costruita su una visione rigorosamente frontale con le braccia accostate ai fianchi, presenta un corpo appiattito e inorganico (a cui in origine la policromia doveva conferire maggiore vitalità): questa caratteristica potrebbe essere un retaggio delle statue di culto primitive, gli xoana di legno appena sbozzato a cui veniva riconosciuta un’eccezionale sacralità.
Se osservata con il metro degli sviluppi successivi dell’arte greca, la cultura figurativa d’età orientalizzante può apparire rigida nella definizione frontale e immobile della figura umana o stucchevolmente ripetitiva nei fregi ad animali che dominano il repertorio decorativo. Entrambi gli aspetti vanno però considerati fenomeni di transizione, una sorta di fucina in cui, rielaborando gli stimoli provenienti da Oriente, gli artisti greci si sforzano di superare la stilizzazione e il calligrafismo di età geometrica verso nuovi canoni formali che passano attraverso la riscoperta delle forme organiche.