L’invenzione del Medio Oriente
La situazione geopolitica mediorientale è in parte conseguenza dell’accordo Sykes-Picot, firmato cento anni fa da Francia e Regno Unito, e i conflitti di oggi sono anche il frutto di quella spartizione fatta a tavolino, che ha disegnato Stati senza alcuna considerazione per etnie, religioni, differenze culturali.
«L’era del trattato Sykes-Picot è finita!». È l’estate del 2014 e nel video Breaking of the borders i miliziani del sedicente califfato esultano: «Ora un musulmano può entrare in Iraq senza passaporto, Allah ha distrutto questi confini, i confini dell’accordo Sykes-Picot».
In Medio Oriente ‘l’invenzione degli Stati’ si concretizzò all’indomani della Conferenza di pace di Versailles grazie al sistema dei mandati concesso dalla Società delle Nazioni a Regno Unito e Francia. Arabia Saudita, Giordania, Libano, Iraq, Israele, Kuwait e Siria nacquero a tavolino in base ad accordi che toccavano pericolosamente le vibranti corde del credo religioso e dell’etnia delle varie popolazioni coinvolte.
L’impero ottomano, il «grande malato d’Europa», seppure con i suoi limiti, le opinabili scelte politiche e gli innumerevoli momenti di tensione, aveva tuttavia garantito una certa stabilità che, dopo la ridefinizione territoriale postbellica, sarebbe drasticamente venuta meno arroventando, nei decenni a venire e ancora oggi, quelle esili e rigide corde.
Cento anni dopo, la questione è più attuale che mai. Nell’occhio del ciclone il celeberrimo accordo siglato il 16 maggio 1916 dal britannico sir Tatton Benvenuto Mark Sykes e dal suo omologo francese François Georges-Picot.
Nell’autunno del 1915, i 2 diplomatici furono incaricati dai rispettivi governi di condurre le trattative e trovare un accordo sul riassetto dello scacchiere mediorientale nell’eventualità del crollo dell’istituzione imperiale ottomana.
Era indispensabile giocare d’anticipo ed evitare che, a fatto compiuto, le diplomazie internazionali scivolassero in un imbarazzante impaccio che avrebbe potuto avere pericolose e impreviste ripercussioni sugli interessi anglo-francesi. Bisognava dunque ‘prevedere’, fare i calcoli anzitempo. I negoziati, di cui era informato il governo zarista, si svolsero nel più stretto riserbo e, dopo 4 mesi di complicate negoziazioni, giunsero al termine.
Due anni prima della fine della guerra, la cartina del nuovo Medio Oriente era già delineata, marcata, sancita senza alcuna possibilità di intromissione di una terza potenza. Uno dei punti più rilevanti dell’accordo era l’istituzione di uno Stato arabo indipendente o, in alternativa, una confederazione di Stati arabi sotto la sovranità di un capo arabo. Facendo leva su questo aspetto, nella primavera dell’anno successivo – mentre l’avanzata britannica giungeva con difficoltà alle porte della Palestina – il War Office pensò bene di indebolire ulteriormente la compagine ottomana attraverso la destabilizzazione della regione.
Bisognava cavalcare il malcontento arabo e aizzare le popolazioni contro i turchi. L’anello più debole era costituito dalle tribù nomadi dell’area transgiordana e soprattutto dell’Hegiaz, dove il controllo ottomano era limitato a qualche zona costiera e alle città sante di La Mecca e Medina. Dietro la promessa della guida di un nuovo stato panarabo, il capitano Lawrence (meglio conosciuto come Lawrence d’Arabia) convinse l’emiro al-Ḥusayn e i suoi 3 figli Ali, Abdallah e Faysal a guidare l’insurrezione. Alla fine della guerra, quanto promesso ai rivoltosi arabi non fu mantenuto e lo stesso Lawrence, che aveva sinceramente abbracciato la causa dell’emiro, si dimise dalla carica di consigliere politico degli affari arabi rifiutando ulteriori e prestigiosi incarichi.
L’ufficiale era deluso dalla politica del ‘doppio binario’, del doppio gioco anglo-francese che aveva promesso la vacua indipendenza agli arabi garantendo a Londra e Parigi la spartizione del territorio in base ai propri interessi.
Lawrence, con le sue accuse, finì i suoi giorni in una strada di campagna, sbandando dalla sua Brough superior in un incidente motociclistico dalla dinamica non chiara. Il Medio Oriente fu diviso in 2 zone d’influenza, la zona blu (area A) alla Francia e la zona rossa (area B) al Regno Unito, allo scopo di istituire un controllo o un’amministrazione diretta o indiretta in armonia con lo Stato arabo o con la confederazione di Stati arabi. Le 2 potenze avevano preminenza sui diritti d’impresa e sui prestiti locali. Il Regno Unito otteneva il controllo dei porti di Haifa e San Giovanni d’Acri e lo sfruttamento del Tigri e dell’Eufrate. Alessandretta sarebbe divenuta porto aperto al commercio britannico, Haifa ai traffici francesi.
Agli accordi di carattere geopolitico si aggiungevano intese commerciali, come l’estensione delle linee ferroviarie e la definizione delle tasse sulle merci. I britannici ottennero il controllo su un’area approssimativamente comprendente la Giordania, l’Iraq e una ristretta area intorno Haifa, i transalpini la zona sud-est dell’Anatolia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria e il Libano. Nell’area della Palestina veniva istituita la zona marrone da affidare a un’amministrazione
internazionale, che nel 1920 fu assegnata a Londra, impegnatasi nel novembre del 1917 a costituire un non ben definito, e forse volutamente ambiguo, National Home ebraico. Il Kuwait nasceva per contenere l’estensione irachena a sud-ovest e limitare a un lembo di terra lo sbocco sul Golfo Persico; il Libano, per indebolire la Siria; la Transgiordania, per evitare l’eventuale espansione a est del futuro Stato d’Israele.
Gli stravolgimenti apportati dalla Grande guerra in quest’area sono stati molto più profondi e duraturi di quelli del secondo conflitto mondiale. Guardando anche distrattamente la cartina della regione, si può notare come molte linee di demarcazione tra gli Stati siano rette, i paesi squadrati, precisi, affettati. Tutto tracciato con un righello, senza tenere conto delle differenze tribali, etniche e religiose.
Il disfacimento di questi confini è uno dei capisaldi della propaganda del califfo Abu Bakr al-Baghdadi che, anche dal punto di vista simbolico, è intenzionato a spezzare le linee tracciate arbitrariamente dalle potenze europee e con esse il giogo occidentale. Nel gennaio del 2016 anche il presidente del governo del Kurdistan iracheno ha sentenziato la fine dell’Iraq e con esso quella dell’accordo Sykes-Picot. Il paese esiste oramai soltanto sulla mappa, uno Stato in cui sciiti e sunniti continuano l’aspra faida senza quartiere.
Oltre al disordine interno, il reale motivo di denuncia dell’accordo del 1916 risiede nel non aver contemplato il Kurdistan indipendente. Tra le rivendicazioni curde e quelle assurde di Daesh, la realtà di Siria e Iraq si allontana sempre più dalla cartina di cento anni fa. Molte aree della regione sono fuori controllo e travalicano i confini nazionali: basta aggiungere al calderone lo Yemen e spostarsi più a ovest e guardare alla Libia.
I problemi non sono sorti negli ultimi anni ma attanagliano la polveriera mediorientale da molti decenni. Secondo alcuni analisti, l’IS sarebbe il prodotto imprevisto e degenerato dell’accordo Sykes-Picot, per altri la propaganda del califfato usa strumentalmente questo pretesto per giustificare dal punto di vista storico e politico l’avversione all’asfissiante intromissione occidentale. È dunque responsabilità del Sykes-Picot di cento anni fa se ancora oggi il Medio Oriente è in fiamme? La domanda è scontata, la risposta un po’ meno. Senza dubbio l’accordo ha avuto effetti negativi ma sarebbe un’esagerazione addossare esclusivamente a quel negoziato tutte le successive L’emiro Faysal alla Conferenza di pace di Versailles nel 1919; in secondo piano, secondo da destra, il capitano Lawrence (noto come Lawrence d’Arabia) ripercussioni, compresa la nascita di Daesh, che arroventano la regione.
Bisogna anche prendere atto dei cambiamenti e prendere coscienza della non immutabilità dei confini. È ormai insostenibile la rassicurante convinzione positivistica che il periodo storico in cui si vive sia l’apice e il culmine finale e fisso di un lungo processo di sedimentazione. I confini possono variare, il limes può cambiare. Dai punti di vista diplomatico e geopolitico non è certamente facile alterare un equilibrio alla ricerca di una nuova stabilità. Le conseguenze sono difficilmente prevedibili e sarebbero evidenti soltanto nel lungo periodo.
Lo storico Mark Mazower, nel suo Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, addossa molte delle responsabilità dei drammi della storia alla Conferenza di pace di Parigi (1919-20) e agli accordi degli anni Venti e definisce l’Europa centro-orientale del primo dopoguerra il «mostro di Versailles».
Probabilmente, con quegli accordi diplomatici le ombre si sono estese lentamente anche nell’assolato Medio Oriente, ed è lì che è apparso oggi un altro mostro che, come tutti gli altri, miete le sue vittime.
Curdi: una nazione senza Stato di Vincenzo Piglionica
Un popolo senza Stato, milioni di individui concentrati nella storica regione del Kurdistan e divisi – sulla base dell’attuale geografia statuale – tra Turchia, Iraq, Iran, Siria e Armenia; altri sparsi per il mondo a causa di una poco conosciuta diaspora. Forti in passato di un certo grado di autonomia, ma pur sempre dominati da arabi, persiani e ottomani.
Negli anni del primo conflitto mondiale e dei successivi accordi di pace, la questione curda si affermò nel dibattito internazionale. Nella cornice della Conferenza di pace di Parigi fu il Trattato di Sèvres (agosto 1920) a delineare il futuro assetto della regione mediorientale, prevedendo all’art. 62 della terza sezione – dal titolo Kurdistan – la predisposizione di uno ‘schema di autonomia locale’ per le aree a maggioranza curda a est dell’Eufrate, a sud della frontiera meridionale dell’Armenia e a nord del confine della ‘nuova’ Turchia con la Siria e la Mesopotamia.
Più oltre, l’art. 64 stabiliva che qualora i curdi avessero espresso il loro desiderio di indipendenza dalla Turchia e la Società delle nazioni l’avesse raccomandata, i turchi s’impegnavano ad accordarla. Quel Trattato non entrò mai in vigore, ‘cancellato’ dalla guerra d’indipendenza di Mustafa Kemal e dal successivo Trattato di Losanna (1923): in esso, una ridefinizione dei confini della Turchia e l’eliminazione di qualsiasi riferimento all’autonomia dei curdi, le cui terre finirono nel nuovo Stato anatolico e nelle regioni dei mandati francese e britannico, poi inglobate negli Stati indipendenti di Siria e Iraq. Da allora, le rivendicazioni del maggiore popolo senza Stato sono rimaste inascoltate, tra proteste e repressioni talvolta brutali. Il fronte più noto dello scontro è quello turco-curdo, anche per l’elevata concentrazione di popolazione curda nel paese: fu nel 1978 che si accesero le tensioni tra Ankara e il neonato Partito dei lavoratori del Kurdistan fondato da Abdullah Öcalan, tensioni poi definitivamente esplose nel 1984. Sono seguiti circa 30 anni di conflitto a intensità variabile, con picchi di tensione, dichiarazioni di cessate il fuoco e colloqui segreti di pace, fino alla riapertura della ferita nel corso del 2015.
Meno conosciute ma non meno drammatiche sono le vicissitudini che il popolo curdo ha vissuto fuori dai confini dello Stato turco: migliaia di vittime fece il conflitto curdo-iracheno tra il 1961 e il 1970, fino all’accordo sull’autonomia e allo scoppio di nuove ostilità nel 1974, cui pose fine l’intesa di Algeri dell’anno successivo. Ostili in Iran all’integralismo sciita della rivoluzione khomeinista (1979), i curdi portarono avanti le loro istanze autonomiste anche nello Stato iraniano, intensificando la loro lotta durante gli anni del conflitto iraniano-iracheno (1980-88).
Contro di loro, l’ayatollah Khomeini non esitò a emettere una fatwa sdoganando di fatto la repressione, mentre sul fronte iracheno la brutale rappresaglia di Saddam Hussein contemplò persino l’uso di armi chimiche, e la sola campagna al-Anfal (1988-89) provocò tra le 50.000 e le 100.000 vittime.
I riflettori sui curdi di Siria si sono accesi dopo lo scoppio del conflitto civile a Damasco e l’avanzata dell’IS nel paese, cui i combattenti peshmerga hanno opposto un’eroica resistenza. La lotta per liberare Kobane dalla morsa jihadista e la bandiera delle Unità di protezione popolare (YPG) issata sulle colline della città resteranno tra i simboli più forti della lotta contro la barbarie dell’autoproclamato califfo al-Baghdadi e la testimonianza più autentica di un grande orgoglio di appartenenza. E mentre i curdo-siriani nel marzo 2016 proclamavano la nascita di una regione federale nel nord della Siria denominata Rojava, la Turchia preoccupata da un rafforzamento ‘transfrontaliero’ del popolo senza Stato continuava la sua lotta contro fazioni curde che considera terroriste, formidabili nemiche di quell’IS che Ankara stessa sostiene di voler sradicare dal ‘Siraq’. Intanto, la regione autonoma del Kurdistan in Iraq opera come uno Stato nello Stato, forte delle sue ricchezze di petrolio: a riprova che degli equilibri regionali dell’accordo Sykes-Picot restano solo i confini tracciati sulle carte geografiche.