L’invenzione del teatro
Il laboratorio dello spettacolo, nell’età moderna, trae i propri modelli rappresentativi da una miriade di fonti: dalla buffoneria di strada, dalla cultura erudita e accademica, dall’evoluzione della liturgia, dalla festa cortigiana e dal cerimoniale politico, civile e religioso. L’invenzione del teatro si realizza, invece, sulla scia del ripristino architettonico, iconografico e letterario dell’idea di classicità, seguendo l’evoluzione della storia delle corti e delle città. Dalla fine del Quattrocento in poi le vicende della scena si distinguono lungo assi di sviluppo sempre più autonomi che, comunque, continuano a interferire tra di loro. Al di là delle suddivisioni colte, infatti, si realizzano in ambito europeo, e ancor più in quello italiano, processi di scambio fra i generi canonici, da cui derivano forme fluide d’intrattenimento e di sublimazione. In verità, uno degli elementi costanti, utili per delineare un’interpretazione dei fenomeni dello spettacolo è connesso all’ambiguità del rapporto con il potere e con i vari destinatari; si tratta, quindi, di cogliere i nessi possibili che s’instaurano fra «il teatro e la città», secondo la formula sperimentata a livello storiografico dagli studi più attenti (1).
Nel caso della Repubblica di Venezia s’avverte, inoltre, la difficoltà a fare chiarezza su una storia dei teatri che si collega profondamente alla vita civile e culturale della città lagunare. L’interesse è dato, prima di tutto, dal diversificarsi e dal moltiplicarsi delle attività di rappresentazione e d’intrattenimento, seppure sempre in consonanza con la volontà della committenza. Le manifestazioni che attengono alla ciclicità, le cerimonie e le feste, le ricorrenze e le occasioni politiche, le visite di principi e di ambasciatori, gli ingressi trionfali, i matrimoni e gli uffizi funebri del patriziato, gli eventi musicali e le recite di ogni tipo, sono appannaggio di un nucleo composito di protagonisti. Lo stesso accade quando, fin dalla metà del Quattrocento, i promotori sono compagini nobiliari giovanili, riunite nelle Compagnie della Calza, la cui attività ben presto si affianca alle manifestazioni ufficiali, e impone un edonismo da iniziati, che si basa su statuti ferrei e regole segrete, d’esclusiva conoscenza degli associati (2). È esemplare la notizia di una festa in Ca’ Ariani, nella zona dell’Angelo Raffaele, alla quale partecipa Angelo Beolco, detto Ruzante, che l’11 febbraio 1525 presenta una sua commedia; dalle annotazioni, riportate nei Diarii di Marino Sanudo, si apprende la decisione di alcuni «savii» del maggior consiglio di recarsi «a veder provar una comedia», che si rappresenta per l’adunanza dei «compagni Triumphanti», un gruppo della Calza che agisce in questi anni. Per tale motivo, quel giorno non si tengono le sessioni dei pregadi e del consiglio dei dieci, perché un alto numero di patrizi e di magistrati si sono recati nel palazzo, situato in un luogo periferico della città, nell’area fra il campo dei Carmini e San Nicolò dei Mendicoli. Al di là del mandato istituzionale, è facile comprendere come la maggior parte dei consiglieri sia associata alla vita delle Compagnie. «Poleno menar do done per compagno parente, et una in numero di belle, da esser conossuta per tre di loro compagni», scrive Sanudo, aggiungendo come la folla dei partecipanti arrivi al numero di trecento.
La descrizione diaristica mette in luce una complessa macchina organizzativa che motiva l’articolazione di un episodio festivo, contraddistinto da una particolare fisionomia celebrativa, in grado di comprendere al suo interno più modalità del repertorio rappresentativo ed edonistico cinquecentesco. La fase delle esibizioni
fo principiada a hore 24; duroe fino alle 6 (3). Fo 9 intermedii, et tre comedie, per una fata in prosa per Zuan Manenti, ditta Philargio et Trebia et Fidel. Poi Ruzante et Menato padoani da Vilan feno una comedia vilanesca et tutta lasciva, et parole molto sporche, adeo da tutti fo biasemata, et se li dava stridor. Quasi erano da done 60 con capa sul soler, et scufie le zovene, che se agrizavano a quello ditto per so’ nome. Tutta la conclusion era da ficarie, et far beco i so’ mariti. Ma Zuan Polo si portò benissimo, et li intermedii fonno molto belli, de tutte le virtù de soni e canti ch’è possibil haver, vestiti in vari habiti da mori, da todeschi, da griegi, da hongari, da pelegrini, et altri assa’ habiti senza però volti, e Zuan Polo con l’habito prima di tutti si messe nome Nicoletto Cantinella. E infine venino 8 da mate con roche, qual fe’ un bel ballo in piva. Et fo compita la prova di la ditta comedia con biasmo de tutti, non a li compagni che spendono ducati [...], ma di chi è stà l’autor, e fo danari vadagnati mo’ un anno al loto (4).
Il fatto che i compagni della Calza siano i figli delle famiglie più autorevoli della Repubblica influisce sulla scelta di assumere le loro iniziative sotto l’egida dello Stato, pur tenendo ben distinta la questione dei finanziamenti, sempre di spettanza privata. In tal modo, come testimoniano per un arco di tempo ampio, dal 1498 al 1533, i Diarii di Sanudo, lungo il tracciato cittadino e dentro i palazzi si sviluppano forme innovative di festa e d’intrattenimento, che coniugano una parte ufficiale, diffusa lungo l’itinerario cittadino, nei campi e nei luoghi deputati, organizzata secondo schemi decorativi e rappresentativi prefissati ed effimeri, con una zona privata, accolta nei palazzi dei compagni e destinata agli ospiti più esclusivi, nel corso della quale si realizza un interessante connubio fra esibizione dilettantesca e prestazione professionistica. In tali luoghi vengono segnalate le prestazioni di personalità eclettiche quali Angelo Beolco, detto Ruzante, e Francesco de’ Nobili, detto Cherea, oppure dei migliori fra gli istrioni di mestiere, quali Domenico Tajacalze, Zuan Polo e Cimador. Costoro sviluppavano, con la complicità dei loro ascoltatori, generi insoliti, per lo più frutto di mescolanze e trasgressioni dei modelli canonici, codificate dalle accademie erudite: dall’egloga alla farsa, dalla «momaria» alla commedia regolare, dalle parodie letterarie alle allegorie, dai dialoghi giocosi alle scene tragiche (5).
L’evolversi delle abitudini rappresentative produce una maggiore attenzione verso la qualità delle esecuzioni, sebbene rimanga forte la motivazione cerimoniale; nel momento stesso in cui s’impone un impegno finanziario, spesso non indifferente, per l’allestimento dell’apparato scenografico, viene richiesto agli artefici e ai promotori un risultato apprezzabile. Può accadere, così, che l’esibizione degli istrioni e degli interpreti ingaggiati non sia considerata soddisfacente: lo si legge in una lettera di Francesco Franchino, futuro vescovo di Massa, indirizzata al duca Ottavio Farnese il 20 febbraio 1555.
Hiersera [scrive Franchino] nella Giudeca fu fatta una comedia a spesa di certi gentiluomeni di questa città gentilissimi, ove concorsero tutte le belle gentildonne de Venetia [...]. La comedia haveva a durare otto hore, ma finì alle cinque; fino al primo atto l’histrioni se portarono assai bene; doppo cominciorno a dar nelle scartate, come se dice, et andarono a precipicio, non altrimenti che quando un essercito è messo in fuga; e la cosa riuscì tanto infelicemente, che essi medesimi domandarono perdono alli spettatori. L’apparato, la scena e la spesa fu honorata, ma, come ho detto, li comedianti s’intricarono e se dettero per perduti, né anco la comedia in sé era di buon autore: tanto è che la cosa è risoluta, che la persona per rider et haver solazzo, non può far meglio, che andare ad ascoltare quelle che se fanno ogni dì in diversi luoghi ad imitazion di Catinella (6).
Il commento dell’osservatore, dunque, corrisponde ad una logica celebrativa che è già divenuta abitudine, costume; cosicché la grettezza della rappresentazione nell’isola della Giudecca fa rimpiangere i giochi degli Zanni di Benetto Cantinella, un comico veneziano rinomato, noto intorno alla metà del XVI secolo (7).
Negli stessi anni, sulla scia del recupero della classicità si evolve, anche a partire da Venezia e in sintonia con le corti padane, l’articolazione dello spazio ideale per la rappresentazione mentre, anche attraverso le mappe, nella città acquea si configura un itinerario coerente e, insieme, composito, dal carattere «anticlassico» (8). Mentre ogni parrocchia stabilisce il suo centro di aggregazione, in grado di essere attrezzato per circostanze d’intrattenimento, si accentua l’abitudine a congegnare le iniziative in modo comunque complementare alle esigenze del potere. Si circoscrivono i campi, si chiudono con parapetti e transenne, si erigono palchi (soleri) e si chiede agli spettatori il pagamento di un biglietto (9). Con il trascorrere degli anni i meccanismi della festa e dello spettacolo tendono a fissare i tempi e gli spazi più opportuni, come se si trattasse di sviluppare un reticolo in grado di incidere sulla strutturazione urbana e sulla scansione della tipologia architettonica e della decorazione pittorica. Le cronache cinquecentesche enumerano molti casi di «teatri provvisori», dei quali si ha testimonianza e, talvolta, è pervenuta una descrizione dettagliata. Allora, accanto alla duttilità del rapporto fra i percorsi acquei e le vie di terra, si può osservare l’innestarsi di progetti arditi, seppure effimeri, che coinvolgono artisti e artefici rinomati.
Accade così che, per accogliere la commedia Talanta di Pietro Aretino, scritta su incarico della Compagnia dei Sempiterni per il carnevale del 1542, Giorgio Vasari progetta e fa costruire, con il contributo pittorico di Battista Cungi, Bastiano Flori e Cristoforo Gherardi, un teatro dentro una stanza «grandissima», con una scena ampia e un apparato da tutti apprezzato, nel palazzo dei Gonella sulla fondamenta di San Giobbe. I quadri allegorici che arredano la sala, secondo le descrizioni lasciate dallo stesso artista, celebrano la magnificenza di Venezia. «Nel primo de’ quadri a man ritta a canto alla scena, che tutti erano di chiaroscuro, era figurata Vinezia, Adria finta bellissima, in mezzo al mare e sedente sopra uno scoglio con un ramo di corallo in mano; ed intorno a essa stavano Nettuno, Teti, Proteo, Nereo, Glauco, Palemone, e d’altri Dii e Ninfe marine, che le presentavano gioie, perle ed oro, ed altre ricchezze del mare; ed oltre ciò vi erano alcuni Amori che tiravano saette, ed altri che in aria volando spargevano fiori; ed il resto del quadro era tutto di bellissime palme» (10). La scansione del raffronto fra l’immagine ideale della città e quelle dei suoi territori, all’interno di una definizione mitica delle «Virtù» e del tempo quotidiano, attraverso i ritratti delle ventiquattro Ore diurne e notturne, si commisura con l’ambientazione della commedia di Aretino, cioè con la «veduta di Roma».
Nella terza scena del primo atto, all’inizio di una vicenda che ha al centro la figura della meretrice Talanta e che sviluppa un consueto gioco di travestimenti e di agnizioni, Ponzio romano, Vergolo veneziano, «su una mula», e Scrocca villano paragonano in maniera ridicola i monumenti di Roma e quelli di Venezia; mentre il servo accosta la città antica al bosco del Montello, Vergolo fa riferimento alla bella giovanile «compagnia galante» che sfila insieme alla magnificenza degli antichi patrizi. Tutto questo contribuisce a comporre «un vedere visivo», attraverso il quale la spensieratezza dei compagni si amalgami con l’austerità della «vecchiezza serenissima»: senza frattura alcuna la rappresentazione ingloba il suo stesso contenitore, la commedia esalta la festa dei Sempiterni, loda con franchezza gli artefici dell’evento. Dice Vergolo: «Certo mi s’avvisa, mi si scrive e mi si notifica che un messer Giorgio d’Arezzo di etade d’un XXXV anni ha fatto una scena et uno apparato, che il Sansovino e Tiziano, spiriti mirabili, ne ammirano. Or torniamo all’amica, che sono sazio di vagheggiar marmi e statue» (11).
Sul versante politico, insomma, lo schema risulta davvero funzionale, perché il governo della Repubblica esercita un controllo statutario sulle Compagnie, una vigilanza che complica i regolamenti e disciplina gli incarichi, al punto da prospettare un’organizzazione che riproduce in scala minore quella dello Stato, uno Stato in grado di equilibrare i rapporti di forza fra patriziato e doge. Nello stesso tempo, in tal modo, si garantisce che le brigate sostengano il peso finanziario e i rischi delle loro feste, soprattutto quando occorra tutelare le relazioni diplomatiche e i rapporti con le personalità degli altri Stati. Inoltre, l’impegno che i cadetti riversano per primeggiare nelle gare celebrative risulta un utile apprendistato politico (12). Per tornare al caso dei Sempiterni, nel biennio 1541-1542 si viene a sapere, nonostante l’impegno alla segretezza, che promuovono tra l’altro, nel marzo 1541, una messa solenne in campo Santo Stefano, entro un recinto attrezzato con tribune e decorato da un ricco apparato iconografico, affidato all’estro di Tiziano; la cerimonia si protrae fino a sera con una «festa di Dame e Cavalieri». Il 18 maggio, per la Sensa, un ricco corteo di barche segue da presso il Bucintoro, sventolando i vessilli della Compagnia. La sera prima della rappresentazione della Talanta viene costruita una sfarzosa «Machina del Mondo», rilucente di oro e di sete, che scivola lungo il Canal Grande mostrando una folta schiera di «elettissime nobildonne», danzanti «al suono di ben cento stromenti musici», mentre dai palazzi e dalle rive si osserva con ammirazione e con letizia tale fastoso spettacolo (13).
Un altro grande progetto di scena effimera si collega all’attività di una prestigiosa Compagnia della Calza, quella degli Accesi. Per il carnevale del 1565 viene richiesta ad Andrea Palladio la costruzione di un teatro, utile per rappresentarvi la tragedia Antigono, scritta da Conte di Monte, pseudonimo del vicentino Antonio Pigatti; lo stesso architetto rammenta in una lettera le infinite difficoltà dell’impresa. La sera del 28 febbraio ha luogo la recita, che si avvale dell’apparato scenico e delle decorazioni di Federico Zuccari; sebbene non si abbiano riscontri sull’esito dell’esecuzione, quasi certamente affidata alla recitazione degli stessi compagni, si registra un giudizio esaltante sulla qualità della costruzione e del corredo iconografico; scrive, infatti, Sansovino: «S’appresentò una Tragedia così fattamente, che in questa parte non si hebbe ad haver punto d’invidia a gli antichi. Percioché il teatro fu capacissimo di molte migliaia di persone. All’incontro del quale era posta la ricchissima scena, rassomigliante una città, con tanto bell’ordine di colonne et di altre prospettive, che fu mirabil cosa a vedere» (14).
Una città magnifica, che esalta anno dopo anno la sua vocazione per lo spettacolo e per le forme della celebrazione attraverso un sistema di interscambio fra la dimensione pubblica e quella privata, annovera anche, sotto varie forme, un’attività di progettazione, che talvolta assume il sapore dell’utopia, specialmente quando esalta la sintonia con l’elemento acqueo. Se l’attività mercantile e di conquista della Repubblica si proietta fin dalle origini oltre i confini del mare e, nello stesso tempo, la sua vita quotidiana si sviluppa in un continuo passaggio dall’una all’altra delle insulae che ne costituiscono l’ossatura portante, perché non prefigurare un’isola destinata a concentrare l’attività festiva, un luogo aperto alla partecipazione dell’intera sua popolazione? Se lo chiede Alvise Cornaro, il patrizio scomodo, morto nel 1566, che ha riversato sul territorio di Padova e su altre contrade contigue la sua tenacia operativa; è in tal modo che prefigura, in età matura, il recupero di un’inutile «velma (15) che è tra la Zueca e la Doana», posta di fronte a San Marco, perché accolga «un Theatro di pietra grande, ma non di pietra da scarpello: ma di cotta». Cornaro ragiona da amministratore savio, in grado di comprendere quanto sia necessario contrastare un costume edonistico volto allo sperpero di risorse; si tratta, perciò, di mostrare come sia possibile «fabricare con poca spesa, ma fabriche che habbiano a durare lungo tempo e commode». Protagonisti di tale proposta restano i giovani congregati; «le compagnie di calza si potranno accommodare perché vi sarà la scena che starà sempre fatta, e lo luogo da recitare, da danzare, e nella piazza che sarà nel mezo circondata da gradi per sedere, che saranno tanti in numero che ognuno lascerà luogo; et in tale piazza si potrà fare combattere orsi con cani: tori selvaggi con huomini, e simili spettacoli: ma oltra quelli si vederà fare la guerra come hora si fa, e si usa in questa città: [...] ma oltra in quella medesima piazza si potrà facilissimamente far intrare l’acqua e uscire, per poter farvi un bello navale» (16). A completare il panorama di questa isola delle meraviglie vi sarà «una fontana di acqua dolce viva e pura» e, su un’altra «velma, che è tra il monasterio di S. Giorgi e S. Marco», s’innalzerà «un monte», con le sue strade per passeggiare.
La visione ideale, dunque, resta impigliata nella contraddizione fra il «Teatro del mondo», come sogno di un vascello dell’illusione che Nettuno sospinge sulle onde di un mare alfine dominato e governato, e quel «teatro della memoria» (17) che coniuga la solennità rituale della politica e la necessità dell’ordine con le pulsioni giovanili e con l’ebbrezza del proibito.
Il governo della Serenissima s’affretta a legiferare in materia teatrale già negli anni felici della sua storia. Nel 1508, infatti, il consiglio dei dieci emana una parte, che condanna senza remore l’abitudine a rappresentare lavori scenici sia in forma privata, sia in luogo pubblico, indicando in modo indiretto come la diffusione degli spettacoli sia connessa alle feste e ai banchetti nuziali, occasioni nelle quali si ha l’abitudine di utilizzare commedianti e buffoni in maschera, abituati ad esagerare sul piano mimico e verbale.
M.D.VIII, die XXIX decembris. In Consilio X, intervenientes Sapientes Collegii utriusque manus. Studuit semper Dominatio nostra cum hoc Consilio levare de medio ea omnia quae cognita fuerunt posse quoquomodo corrumpere et depravare bonos mores iuventutis, et consequenter introductiva illarum malarum rerum effectuum, quae, ut inhonesta, honeste dici er nominari non possunt. Cum igitur a paucissimo tempore citra appareat introductum in hac civitate quod ex causa festorum et nuptiarum, pastuum et aliter, et in domibus, quam etiam in propatulo ad hoc praeparato recitantur et fiunt comediae et rapraesentationes comediarum, in quibus per personatos sive mascheratos dicuntur et utuntur multa verba et actus turpia, lasciva et inhonestissima. Et ista, quae ultra dispendium civium nostrorum piena et praevia sunt tot malorum, non sint permittenda procedere ulterius. Ea propter.
Vadit pars: Quod auctoritate huius Consili deliberatum, captum et provisum sit, quod comediae, recitationes et rapraesentationes comediales, seu tragediales, eglogae omnino banniantur, sic quod decetero fieri seu exercitari non possint in hac nostra civitate, tam privattim quam publice, et tam pro festis nuptialibus et pastibus, quam aliter ullo modo, sub pena magistris standi per annum in carcere clausos, et banni per annos quinque de Venetiis et districtu, sub pena in casu contrafactionis banni standi per annum in carcere et solvendi libras centum capientibus: et hoc totiens quotiens et deinde remittatur ad bannum. Illi vero qui illas fieri facerent, vel permitterent in domo vel extra domum sua, si fierit nobilis, privationis per annos duos de nostro Maiori Consilio, et solvendi ducatos centum, applicandorum pro medietate Camerae huius Consilii, et alia medietas accusatori; si vero fuerit popularis, incursus ipso facto sit in pena banni de Venetiis per annos duos, et solvendi ducatos centum, ut supra dividendos. De praedictis vero poaenis non possit fieri gratia, donum vel remissio: et tamen gratia vel pars quae poneretur non intelligatur capta, nisi, habuerit omnes ballotas huius Consilii congregati ad praefatum numerum X-VII. Et publicetur haec pars in primo Maiori Consilio, et postea in Scalis Rivoalti.
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Die ultimo suprascripti publicata in Maiori Consilio.
Die III Ianuarii publicata in Scalis Rivoalti (18).
Paradossalmente il divieto non sarà mai abrogato, anzi verrà reiterato nei secoli successivi: la straordinaria vicenda dei teatri veneziani procede da una censura e si sviluppa attraverso un complicato intreccio di interventi; è una vicenda che i vertici politici non approvano, ma neppure condannano, soprattutto quando il mondo dello spettacolo nel suo insieme diverrà un vero e proprio mercato delle meraviglie. Ciò che agli occhi dei tantissimi visitatori, ospiti di Venezia, sembra un inspiegabile prodigio è l’intrecciarsi della sfera reale e di quella dell’illusione; tanto più la dimensione festiva di Venezia affascina i pubblici, quanto è difficile distinguere fin dove s’imponga l’aura di una città-palcoscenico e dove, invece, s’affermi una sapiente metamorfosi dei generi teatrali, assoggettati ad una modalità produttiva del tutto insolita nel panorama culturale dell’età moderna. Tra le pieghe delle disposizioni legislative, dunque, si articolano uno dopo l’altro cicli di esperienze artistiche rappresentative che accolgono le sollecitazioni di ricerche e di codificazioni compiute altrove, ma nello stesso tempo sviluppano formule espressive ed organizzative inedite. La vivacità di rapporti fra le componenti dello spettacolo, fra scena e sala, e l’abitudine a vendere gli eventi sono testimoniate anche attraverso la corrispondenza dei comici ospitati durante la stagione carnevalesca nelle «stanze» della città lagunare.
In una lettera del 1610, Giovan Battista Andreini informa il suo protettore Vincenzo I Gonzaga che è preferibile «non fare carnevale in Venezia»; l’attore, che si trova qui con la sua compagnia, scrive che è meglio partirsene «per le grandi controversie che sono in campo, colpa ognuno di voler palchetti, che già per questo molti nobili si sono nemicati». Ma c’è, poi, una ulteriore preoccupazione: «perché non vogliono di giorno pagare, pensisi poi quella gentilezza che dovranno usar la notte» (19). Mentre si sottolinea come nella città lagunare tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento l’attività teatrale, che è sostenuta dalle migliori formazioni dell’Arte, risulti già tanto diffusa al punto da generare problemi di ordine pubblico, si attesta, già all’inizio del XVII secolo, che essa avviene a pagamento.
Al di là del tipo di legame che si è stabilito con il proprio mecenate, che — per lo più — aspira a governare l’attività complessiva dei propri protetti, le compagini teatrali tendono a prediligere le «stanze» veneziane, sia per ragioni economiche, sia ancor più perché sono frequentate da un pubblico composito e cosmopolita, costituito spesso da principi e titolati fra i più potenti d’Europa. Lo stesso Giovan Battista Andreini spenderà tutto il suo genio teatrale e la sua abilità politica per affermarsi sia a Parigi, nella corte reale più prestigiosa d’Europa, sia a Venezia, la città del teatro.
A dispetto dell’indecisione di Andreini, un’attenta lettura delle lettere dei comici fa intravedere la preferenza delle formazioni dell’Arte ad essere parte attiva del carnevale e degli innumerevoli intrattenimenti che si realizzano in molti palazzi patrizi. Basta seguire il complicato disegno de Le due commedie in commedia, in cui si intersecano tanti piani d’azione comica, in cui si misurano il professionismo teatrale, la supremazia accademica e la vocazione dilettantesca, per cogliere ripetuti riferimenti alle abitudini teatrali veneziane. Rovenio, il mecenate «furlano» con la passione della commedia, che nella sua dimora lagunare finanzia generosamente spettacoli di ogni sorta, sollecita gli accademici perché indossino i costumi di scena.
E qui, [dice] fra queste case appunto che son tutte mie, ho fatto accomodar un teatro, come quello dov’in facendo cader queste tappezzarie che qui si veggono, saremo in casa nostra e in teatro; poiché questa corte, come in Venezia molt’altre ve ne ha, si può tutta con porte serrare, sì che lo spasso sarà tutto nostro e di questi nostri pigionanti che staranno alle finestre (20).
La pratica del mascheramento riguarda anche la zona architettonica; ogni cortile può essere disposto in modo da costituire uno spazio deputato e autonomo, un ambiente che sia casa e teatro, nello stesso tempo. Di tale frammentazione teatrale si avvantaggiano anzitutto i comici di mestiere; la compagnia di attori presente nel testo di Andreini rende esplicito il rapporto fluido che la città ha con la sfera del teatro. Così Fulgenzio, che recita da Tartaglia, si rivolge a Fabio, il capocomico, e ne riassume alcuni motivi: «In questa città adunque, nido delle virtù, si dovrà dar saggio, e non volgare, di noi; pertanto n’impegni, che ci adopreremo. Poiché ben sa ch’al presente è così piacciuta e apprezzata la commedia in Venezia, che gli stessi cittadini, gli stessi nobili in luoghi ritirati ne rappresentano» (21). E, subito dopo, nella scena quinta, quasi a sottolineare l’ambiguità della professione comica e la prevenzione di ordine morale che si ha nell’opinione comune, si offre un episodio di natura opposta. Scambiati per sbirri, gli attori vengono respinti da Fisolera, l’oste della locanda del «Cappello». «Signori commedianti, i zafi, se i’ no sa che far, o che i’ me zafa in preson, o che i’ me vien a cercar per tute le camere, per tuti i leti, infin, per tuto, per tuto. [...] Ma perché me son chiario che se’ galantuomini, entrè, che ve farò star in Apoline» (22).
La contraddizione insanabile fra fautori e oppositori delle rappresentazioni e degli intrattenimenti accompagna, nel corso dei secoli, l’evolversi del gusto e della passione per il teatro. Soprattutto in seno al patriziato di governo si continua a riproporre il dissidio fra una zona di denigratori influenti, per lo più condizionati dalle prese di posizioni ecclesiastiche e, in particolare, da quelle gesuitiche (23), e un nucleo di giovani appassionati sostenitori del nuovo.
Una conferma giunge dal diario di Girolamo Priuli, figlio di Francesco qm. Costantin, componente autorevole della fazione dei «giovani» patrizi, schierati per l’autonomia dal papato e che si era battuto per l’espulsione dei Gesuiti; si tratta di un’annotazione breve e controversa, scritta nel 1607.
23 maggio, vigilia dell’Assensione. Una Compagnia di Comici principiò a recitar comedie nella Città publicamente a sei, otto soldi per persona (già circa 30 anni per causa de’ gesuiti bandite) et recitorno prima a S. Alvise in Ca’ Lipamano, poi in Rio Marin, a S. Basegio in Corte, da loro pigliate ad affito, poi crescendo il gusto di questo trattenimento nella città, furno fatti li Teatri da ca’ Tron a S. Cassano, da ca’ Zustiniano a san Moysè et ca’ Vendramin a S. Salvador, in modo che alcune volte si sono ritrovate in un tempo medesimo tre Compagnie che recitavano et tutte havevano concorso et audientia, et sogliono recitare da S. Martin a quaresima, et dalla Sensa fino mezo Luglio (24).
Sotto l’essenzialità delle notizie si scorge nel passo diaristico un atteggiamento da osservatore attento e compiaciuto, dinanzi al definirsi di un «gusto» teatrale, connesso alla esibizione di una compagine di attori. In un arco di tempo, che va dalla fine degli anni Settanta del Cinquecento fino al 1626, anno in cui Priuli riorganizza le sue memorie, si assiste alla codificazione di un sistema teatrale basato su un rapporto di scambio commerciale e sul confronto fra più presenze artistiche. Nello stesso tempo affiorano indicazioni relative alla costruzione di tre edifici teatrali, destinati alla commedia, e alle due principali fasi stagionali, lungo le quali si organizza la vita del teatro veneziano.
A conferma dell’abitudine a circoscrivere le «corti», onde adibire lo spazio ricavato a zona d’intrattenimento (25), si può leggere un passo di Thomas Coryat, figura eclettica di cortigiano inglese che compie un bizzarro viaggio a Venezia nel 1608. Essendo un appassionato cultore di eventi teatrali, si reca in un teatro che giudica «miserabile e sordido» in confronto a quelli inglesi; «né [aggiunge] gli attori reggono al paragone coi nostri per l’abbigliamento, la scena e la musica». Lo colpisce, invece, il fatto che vi recitino le donne: «ed esse lo facevano con una tal grazia, vita, movimento e quant’altro mai s’acconcia ad attore, com’io vidi ognora fare ad attore maschio». Fra gli spettatori intervenuti Coryat nota la presenza delle cortigiane, «ma così travestite che nessuno poteva riconoscerle», con una doppia maschera, «una andava dalla fronte al mento e sotto il collo; l’altra con boccoli di roba lanuginosa o villosa che copriva il naso». Esse, preziosamente agghindate, siedono in alto «nella migliore stanza di tutto il teatro», protette da una severa legge non scritta che impedisce a chiunque di smascherarle. Allo stesso modo, gli uomini si celano dietro un doppio volto. «Qui [conclude il viaggiatore inglese] essi non siedono nelle balconate come succede a Londra, infatti qui non ci sono che una o due logge in tutto il teatro ed ivi stanno solo le cortigiane. Tutti gli uomini siedono giù, nella platea o corte, ognuno sulla propria sedia per cui ha pagato una gazzetta» (26).
Mentre s’innalzano i primi luoghi per il teatro, in modo da renderlo meno provvisorio, il gioco di scambio fra artefici e partecipanti trasforma l’evento in un sistema complesso; alla sua realizzazione concorrono sensibilità artistiche e tecniche sempre più sofisticate, al suo rito accorrono spettatori consapevoli.
Una liaison sofisticata e, insieme, convenzionale accomuna le proposte ambiziose dei comici avvezzi a recitare all’improvviso e il giudizio esigente dei nobili uditori: entrambi recano sul viso una maschera in grado di nascondere e di alludere, di deformare e di significare la visione del mondo.
A San Cassiano, secondo l’annotazione di Francesco Sansovino in Venetia città nobilissima, «sono [...] due Teatri bellissimi edificati, con spesa grande, l’uno in forma ovata et l’altro rotonda, capaci di gran numero di persone; per recitarvi ne’ tempi del Carnevale, Comedie, secondo l’uso della città» (27). Il primo, che appartiene alla famiglia Michiel, ha una vita incerta; se ne ha testimonianza in una lettera di Francesco Andreini, Capitan Spavento, che fa riferimento ad un possibile legame contrattuale della sua «Compagnia de’ comici Gelosi» con il «clar.mo Alvise Michiele, padrone della stantia di Venezia» (28). La preferenza espressa da una delle formazioni all’improvviso fra le più prestigiose del tempo a permanere nella città lagunare si collega alle annotazioni sulla corsa da parte dei patrizi a prendere in affitto i palchi, contribuendo a determinare il successo delle esibizioni dei comici di professione.
L’abitudine ad impegnarsi per l’intera stagione del carnevale è confermata, con maggiore precisione, dalle notizie che fanno riferimento al secondo teatro, quello voluto da Ettore Tron del ramo di San Benedetto, dove nel 1581 viene accolta la Compagnia dei Confidenti di Vittoria Piissimi e del Pedrolino (29). Una dopo l’altra le formazioni comiche del primo Seicento transitano per le stanze veneziane, a cominciare da quella dei Tron. L’inquieto Pier Maria Cecchini, in arte Frittellino, che nel 1607, mentre si conclude la questione dell’Interdetto, è già stato a Venezia per reclutare buoni interpreti da condurre nella trasferta francese su incarico di Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, stipula con il nobiluomo Ettore un contratto per utilizzare il teatro con la Compagnia degli Accesi da san Martino del 1612 al carnevale del 1614: vi recitano lo Scapino Francesco Gabrielli e il Mezzettino Ottavio Onorati. Attraverso la «corrispondenza» degli attori si scopre come, proprio qui, si combatta un’aspra contesa per il primato almeno fra i tre gruppi in auge in questi anni: a contrastare gli Accesi, infatti, vi sono i Fedeli di Giovan Battista Andreini e i Confidenti, protetti da don Giovanni de’ Medici e diretti da Flaminio Scala (30).
Mentre l’arte rappresentativa sospinge il confronto con la sfera del potere e con il mondo degli accademici e dei letterati oltre le secche della moralità e le condanne della chiesa, segnando parecchi punti a proprio favore, si accentua una tendenza alla supremazia non solo in relazione alla protezione dei principi, ma soprattutto per raggiungere il consenso in un ambito dal profilo misto, come appare quello della Serenissima, dove si compensano il patrocinio nobiliare e l’impegno commerciale. Occorre attraversare l’ampia pubblicistica prodotta dai protagonisti della commedia italiana all’improvviso per cogliere il significato di una sfida che, mentre trasfigura la natura istrionica dei comici fino a renderla degna di competere con l’esercizio della poesia e di affermare un fine didascalico e persino edificante, modifica internamente la fisionomia di una professione basata sulla definizione delle parti e su una ferma gerarchia scenica. A Venezia, ad esempio, occorre fare i conti con le disposizioni di uno Stato pronto, come si è detto, a dare ascolto alle critiche contro gli abusi delle rappresentazioni e, insieme, a tutelare gli investimenti del suo patriziato.
Così il procuratore Zaccaria Contarini tenta, nel 1615, di convincere il senato ad interrompere le abitudini teatrali con un ripristino delle censure (31); ma con il trascorrere del tempo anche i fattori politici e militari non bastano ad inibire del tutto la vita dello spettacolo. Una lettera di Cecchini, scritta da Bologna il 15 novembre 1616, allude, forse, al disagio provocato nella città dalla guerra di Gradisca, che contrappone la Repubblica all’arciducato d’Austria negli anni 1615-1617: «Quando non succedesse che a Ven[eci]a levassero le comedie per le cause accenate [...], et afine che la stanza di essi signori Troni non rimanghi vacua, che è bene che Sua Signoria clarissima (32) assicuri il suo utile [...]». Ancor più Flaminio Scala, dopo aver stampato in laguna la preziosa raccolta di scenari de Il teatro delle favole rappresentative (33), si destreggia fra la direzione dei Confidenti e un servizio privato di compiacenza per conto di don Giovanni de’ Medici, fino alla sua morte nel 1621. «La compagnia [scrive Scala nel 1619] fa riverenzia a Vostra Eccellenza illustrissima e sta con gran desiderio di vedere la resoluzione delli signori Troni, li quali me promisero de far riposare la stanza il mese de decembre. Ora qui vien scritto che la Florinda starà sino a Natale: questo non ne puole apportare se non danno, perché se bene la nostra compagnia è meglio di quella, quel tanto stancare il popolo è de nostro pregiudizio. Queste sono le ragioni ch’allegano i miei compagni; io non ne vo scrivere ai Troni sinché non si vegano sue lettere» (34).
La presenza a Venezia di don Giovanni, figlio naturale riconosciuto di Cosimo I de’ Medici, nominato nel novembre 1616 governatore generale delle armi venete in Friuli, è collegata ad un attivismo teatrale che investe le vicende dei primi teatri. In una missiva spedita dalla città lagunare il 18 gennaio 1614 da Orazio del Monte, intermediario di Lorenzo Giustinian, alla volta di Firenze a Cosimo Baroncelli, maggiordomo di don Giovanni, si attesta l’avvenuta apertura della sala di San Moisè nel 1613. Questo terzo luogo, approntato per la rappresentazione di commedie, nasce su un fondo di proprietà della famiglia Giustinian di San Moisè; in particolare sono Alvise e Lorenzo, figli di Andrea, che decidono di erigere la piccola stanza in prossimità della Piazza. Poiché Alvise, provveditore di galera e d’armata, è impegnato sulle rotte navali di Candia (1612) e nella guerra contro gli Uscocchi (1617), la cura della nuova impresa spetta a Lorenzo, che invece continua ad assumere incarichi pubblici cittadini, prima come savio agli ordini, savio di Terraferma, provveditore alle biade (1613), poi come membro del consiglio dei dieci, nel 1614.
«E stato fatto un teatro in questa città per recitar comedie migliori, più commodo et ornato di quello che Vostra Signoria sa che è a San Cassano, et è stato raccomandato alla protezione di Sua Signoria Illustrissima» (35). Le parole di del Monte confermano come, fin dall’inizio, la dimensione della reciproca concorrenza sia insita nella gestione dei teatri. E la sfida si traduce, anzitutto, nella ricerca dei più apprezzati interpreti disponibili, da ingaggiare ad ogni costo: fidando nei reciproci «oblighi», il mediatore chiede a Baroncelli la disponibilità della compagnia protetta da don Giovanni, composta da «Battista Austoni, sua moglie, Ortensio, Marc’Antonio Romagnesc, Fulvietto e tutto il resto» (36). In un intreccio di relazioni politiche e di favori commerciali, l’intento dei Giustinian si concretizza in una proposta vantaggiosa. «Di utile offerisce vantaggiar quella academia a l’utile che hanno dal teatro di San Cassano, che ciascuno di loro sa che in questa città si avanza più che altrove. Et se essi vorranno questo luogo per tre o quattro anni et più Sua Signoria Illustrissima glene concederà». La trattativa si sviluppa per qualche tempo, senza del Monte, che intanto è partito alla volta di Cipro; è lo stesso Lorenzo Giustinian a scrivere, 1’8 e il 15 febbraio, al segretario del Medici:
Nel resto poi, acciò possino li comici venir allegramente, potrà Vostra Signoria molto Illustre dir loro che io li avantaggierò assai da quello che hanno quelli che qui recitano in San Cassano, poiché darò loro il loco libero, li darò l’utile delle sedie et scagni, et delli palchi farò loro quella porzione che sarà giudicata ragguardevole, assicurando Vostra Signoria che vorrò che in ogni modo restino sodisfatti, sendo in questo negozio il mio oggetto non tanto il guadagno, quanto il gusto (37).
Mentre il nobile Lorenzo tratta per avere a qualsiasi prezzo nel suo teatro la formazione dei Confidenti, nello stesso tempo insiste ripetutamente perché sia integrata con due attori preziosi, protetti dal duca di Mantova. Sia del Monte, sia ancor più Giustinian, propongono che la compagine venga rafforzata con l’immissione di «Farina et Corteilazzo», che si trovano in quel momento a disposizione del San Moisè e che «sono hoggidì stimate le maggiori et le migliori mascare che venghino in scena» (38). In verità la faccenda dell’ingaggio di Giovanni Zenone, detto Zan Farina, e di Ippolito Montini, in arte Cortellaccio, non è così semplice come appare; essa rivela, infatti, un complesso gioco di relazioni politiche e di interferenze fra il patriziato della Serenissima e le varie corti. Da un secondo gruppo di lettere, che chiamano in causa Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova e di Monferrato, risulta che prima di costruire la stanza del San Moisè sia intercorso un accordo preliminare fra Lorenzo Giustinian e almeno una parte della compagnia di Ottavio e Vittoria Bernardini e di Silvio Fiorillo, il famoso Capitano Matamoros. Poiché la passione per la commedia si prospetta come un investimento vantaggioso, i proprietari pensano di tutelare l’impresa nella fase d’avvio, assicurandosi i migliori protagonisti disponibili. Ma la possibilità di collegare la costruzione di un teatro ad un’esclusiva sulle prestazioni di una compagine apprezzata deve fare i conti con la logica signorile del duca-mecenate.
Sua Altezza mi comise che dovessi far officio che la compagnia di Vittoria venisse a servirlo in questo carnevale, et col corriero li dissi che la Vittoria e Fabritio che deve essere suo marito, in compagnia del Capitano Mattamores si dimostravano pronti di servirlo, ma che li altri compagni restavano ancora perplessi per haver come datto parolla all’Illustrissimo signor Lorenzo Giustiniani, et dicono hora liberamente questo, di non poter venire, sì come quelli tre restano fermi di venire ogni volta che Sua Altezza habbi bisogno del opera loro, et Farina è quello che impedisce questo servitio, et reduce anco li altri a esser renitenti. Il signor Giustiniani con tutto ciò vedendo che questo scisma fra questi comici l’impedisse il suo dissegno, mi ha questa mattina pregato a voler far officio con Sua Altezza in suo nome, et supplica che li vogli far gratia di lasciarli questa compagnia, a parolle e promesse della quale è caduto in grossa spesa nel fabricarli una stanza con li suoi palchi, che riconoscerà questo sollavamento dalla mano di Sua Altezza dal quale se ben non è conosciuto, professa di haver come esso diche qualche merito, accenando di haver fatto la sua parte in Senato nelli suoi interessi (39).
Quella che può sembrare una semplice transazione di natura teatrale, rivela, invece, come nel corso della sua storia il fenomeno dei teatri veneziani risulti fortemente condizionato dalle relazioni politiche, oltre che da fattori artistici; mostra, nello stesso tempo, come, per realizzare un obiettivo economico, il patriziato veneziano non esiti a far valere contropartite di schieramento nelle deliberazioni di natura istituzionale. Dalla missiva di Camillo Sordi si comprende quali siano i fattori in gioco: dinanzi ad una richiesta improvvisa della corte mantovana, che richiama nella capitale la sua compagnia per il carnevale, Lorenzo Giustinian tenta di guadagnare tempo per salvaguardare il suo progetto. Da parte sua Ferdinando Gonzaga non può ignorare che la circostanza investe alcune personalità in vista della Repubblica. Lo sottolinea con cautela, e insieme con chiarezza, il mediatore: «questo gentilhomo è di gran qualità e di casa, e di valore, e di parentado, poiché oltre che è scenatore di Pregadi, et che camina a ogni ascendenza, è ristretto in parentado con la casa Cornara e Contarina, e Grimani, che tutte insieme asorbono dua terzi del Pregadi, in modo che stimarci bene che Sua Altezza lo consolasse in questa dimanda, e tanto più volentieri quanto che non può havere di questa compagnia se non li tre personaggi detti di sopra, li quali restano inutili senza li altri compagni».
Dunque, conviene piuttosto che si realizzi una soluzione in grado di tutelare, oltre all’integrità della formazione teatrale, le buone relazioni con influenti membri del governo veneto, ancor più vantaggiose in un momento d’incertezza per il ducato di Mantova, condizionato dalla crisi del Monferrato. Il consiglio, però, non viene accettato, visto che il duca impegna direttamente nella questione il veneziano Alvise Donato, un uomo d’armi che l’anno seguente per conto dei Gonzaga guiderà l’armata d’artiglieria proprio nel Monferrato. Senza esitazione alcuna costui sfodera l’autorità necessaria per ridurre Farina all’obbedienza; sebbene, dapprima, si dimostri restio ad entrare nel merito della diatriba, accetta un incontro, richiestogli dallo stesso Lorenzo Giustinian, accompagnato da Giulio Contarini; il proprietario del San Moisè spera ancora di poter salvare il proprio piano d’investimento. Spiega Alvise Donato direttamente al duca come stanno i fatti: «pregandomi uno e l’altro con grande instanza a volere retardar ogni pensiero contra Farina et suoi compagni fin tanto che havessero fatto rappresentar a Vostra Altezza l’obligo de questi verso di lui, et il dispendio che lui resta quando questi partissero havendo sopra la sua parola fabricato certo luogo. Essendo questi due gentilhuomeni miei amicissimi et congionti non ho potuto far di meno de non darli questa poca satisfazione di ritardar quanto haveva disegnato contro Farina, fin tanto che haveranno con sue lettere rapresentato all’Altezza Vostra Serenissima quanto l’ho detto di sopra [...]» (40). Anche l’esecutore si fa mediatore, per ragioni di opportunità sociale.
Pochi giorni appresso Donato comunica a Ferdinando Gonzaga che, mentre i tre attori ligi agli ordini del loro nobile protettore sono già in viaggio verso Mantova, ha continuato l’azione di pressione su «quel forfante di Farina», mettendo in atto quanto occorra a ridurlo al rispetto dell’autorità signorile. Le minacce sono così ferme che, temendo il peggio, lo Zanni si rifugia in casa dei Giustinian e si muove sotto scorta. «L’ho però posto cani dietro all’orechie [informa Alvise Donato] che al sicuro non anderà fuori carnevale, che costui sarà colto, et con castigo meritato alla sua rebaldaria» (41). Sullo sfondo della controversia s’intravedono, quasi in secondo piano, le figure incerte dei comici. Nelle sale teatrali veneziane risuona la voce esaltata del napoletano Silvio Fiorillo, apprezzato Capitan Matamoros, sempre pronto a entusiasmare gli spettatori con gli sproloqui da eroe visionario: «Ansi come el suberano y muy resplandeciente febo lunbre, del universo, entro la blanca luna y plateadas estrellas» (42). Nel gioco della parodia si riflette una linea rappresentativa che tende a creare un sistema di coppie sceniche: l’anno prima, nel 1612, ad esempio, Fiorillo si è ricongiunto all’Arlecchino Tristano Martinelli, seppure per il breve spazio di un’estate, prima che il famoso Zanni parta alla volta della Francia. Probabilmente, la coabitazione fra il Matamoros e la coppia Zan Farina - Cortellaccio non funziona, visto che il comico napoletano decide di recarsi alla corte mantovana.
Archiviata l’ingarbugliata questione, si prospetta un accordo fra i Giustinian e il capitano-impresario don Giovanni de’ Medici. Nel carattere di questa personalità si fondono insieme ruoli differenti, collegati alla vocazione per la vita errante, alla passione per il teatro vissuta come impresario dei Confidenti, alle tentazioni per la cabala e l’alchimia, oltre che alla passione d’amore per la signora Livia: una relazione che si sviluppa nell’accogliente Venezia, lontano dall’imbarazzo della corte medicea (43). Intorno al condottiero con la mania della scena si attua un’intensa azione di rinnovamento nella gestione di una compagnia, soprattutto dopo il 1615, quando a reggerne le sorti sarà Flaminio Scala: è, comunque, un’avventura che ha come passaggio obbligato i luoghi teatrali di Venezia e come protagonisti, oltre i comici, le varie generazioni di un patriziato che s’impegna, persino attraverso i legati testamentari, a continuare un’esperienza di gestione dei teatri, nonostante accadano — come s’è visto — incidenti e controversie d’ogni genere. Semmai, nel confronto fra i mecenati stranieri e i proprietari veneziani è facile cogliere una divergenza di mentalità impresariale; ancor più nel primo trentennio del Seicento, durante il quale si consuma rapidamente un modello rappresentativo giunto a maturazione troppo in fretta, al punto da generare fenomeni continui di disgregazione, a vantaggio di una metamorfosi complessa del sistema produttivo e degli stessi codici d’intrattenimento; d’altra parte si assiste alla frammentazione delle formazioni comiche e alla corsa ad accaparrarsi a qualunque costo una qualche protezione, necessaria per tutelare il proprio inesorabile declino.
Superate le remore dell’avvio, nella stagione comica 1625-1626 al San Moisè agiscono i comici di Marc’Antonio Carpiani; il contratto d’ingaggio viene stipulato il 3 aprile 1625 ed è sottoscritto da Alvise Giustinian, subentrato a Lorenzo, dopo la morte avvenuta nel 1620.
Concede l’illustrissimo sig. Alvise Giustiniano il suo teatro posto a San Moisè al sig. Marc’Antonio Carpiani detto il sig. Oratio Comico affetionato et a suoi compagni con le più annotate condizioni per tutto il corrente anno.
Primo s’obbligano a dar principio a recitar le loro commedie il giorno di San Martino o poco dopo nella sopradetta stanza o teatro, continuando fino il primo giorno di quadragesima del presente anno, mantenendo i lumini ai luoghi soliti, acciò si possi vedere ad andare per le scale et palchetti.
D’incontro s’obbliga l’illustrissimo sig. Alvise sopradetto proteggere et deffender la compagnia et dargli stanza franca et accomodargli la scena et case, siché siino ferme et bone di adoprarsi, e le sedie et caseta giusta l’ordinario.
Item gli dà un palchetto franco di quelli che non pagano alla porta et doi palchetti sotto il palco, acciò si vaglino d’essi a suo beneplacito.
Et il giorno del giovedì grasso promette dar alla detta compagnia in tanti contanti ducati duecento e sessanta da £ 6.4 per ducato, che son 260, et che le chiave de tutte le porte staranno sempre appreso detti signori comici (44).
Sotto i termini del formulario notarile s’avverte, in questo e nei successivi documenti, l’emergere di una curiosa linea di demarcazione fra l’ambito della rappresentazione, solitamente affidata agli interpreti e ad eventuali mediatori di qualunque natura, e l’interesse del casato. Se è vero che l’impresa teatrale nasce spesso in relazione alla crescente richiesta di forme di spettacolo ben riconoscibili, presentate con regolarità, che si sono evolute nel rispetto delle convenzioni sceniche, anche sul versante veneziano la fisionomia della committenza si presenta distinta e attenta al rispetto delle regole. Altrimenti non si comprende l’atteggiamento degli artisti, che rivelano una disponibilità ad assoggettarsi alle norme, oppure a trasgredirle con disagio, mentre esplodono contrasti insanabili all’interno della loro categoria. Ogni volta che appare credibile la funzionalità dell’apparato, ogni volta che si profila la reale efficacia della macchina organizzativa, si riafferma comunque il diritto di «proteggere et deffender la compagnia»; sebbene la natura di tale attenzione sia di stampo commerciale, ancora per parecchi anni resta la convinzione che si voglia estendere un controllo effettivo sull’operato degli esecutori.
I sottoscrittori del contratto del 1625 sono comici (45) non consacrati dalla fama, eppure conosciuti e legati all’ambito veneziano. Anche stavolta, dalle testimonianze raccolte, la formazione di Orazio entra nel meccanismo di scambio fra teatri e, nello stesso tempo, guarda al sistema del mecenatismo cortigiano. Il nome di Carpiani ricorre, infatti, in varie lettere di comici destinate alla corte di Mantova (46). L’eco che giunge oltre le parole scritte è quello di un’atavica paura, che coglie i buffoni e girovaghi del mondo, di patire la fame, di rischiare di perdere i privilegi acquisiti. Una lettera, scritta da Giovan Battista Andreini, capo della Compagnia dei Fedeli, spedita da Cremona il 2 ottobre 1626, informa un segretario del duca di Mantova di alcuni sviluppi relativi alla stagione lagunare.
Passò (non ha 4 giorni) l’ambasciador di Vinezia che veniva d’Inghilterra, e fu alla nostra commedia; e doppo quella fece intendere che la sera voleva trattar con noi per condur la compagnia a Vinezia per questo carnevale, assicurandoci d’un ottimo guadagno, oltre 300 ducati che prometteva di donativo, gli scagni, casa, e mill’altri regali. Sì che udendo questo così cortese e profittevole invito, [...] e perché odo vociferar che Frittellino [Cecchini] habbia promesso per Vinezia, io non vorrei dalla sua compagnia essere escluso, per tempestar poi in tutto per tutto alla campagna et al theatro, ché, se ho languito in questa compagnia questa estate, il feci (provida formica) per l’inverno goder di messe sicura. Supplico pertanto Vostra Signoria illustrissima a far sì ch’io possa con esso loro inviarmi a questo utile, sapendo com’io sto; e trovandosi il Carpiano a Piacenza, non sapendo dove andar per questo carnevale, subbito faccia scriver a Piacenza, che di somma grazia verranno, tanto più che quella è quasi miglior della nostra compagnia. E se c’è difetto di donne, Sua Altezza serenissima è padron di me come di Florinda: servasene con essi loro questo carnevale. E se può disporre Arlecchino [Tristano Martinelli] a venir questo carnevale a Vinezia, non tema, benché non ci siano Capitani che ’l faccino tombolare, che per servirlo farò da innamorato spiritato anch’io, ond’egli spaventato si possa romper il collo (47).
Sono documenti che confermano anche per la vita del teatro da un lato l’intrecciarsi di fattori interni al mestiere, che vanno dalle difficoltà di convivenza fra nuclei di commedianti alla continua ricerca di una sicurezza economica, alla concorrenza fra i vari protagonisti, al desiderio di conquistare credibilità in un palcoscenico privilegiato come appare fin dall’inizio quello veneziano; dall’altro l’emergere di complessi elementi di compatibilità con le tante anime del potere, l’affermarsi dei privilegi dei principi-mecenati, insieme con l’indefinibile prestigio del committente, con il lento profilarsi di una mentalità imprenditoriale, con l’incerto gusto degli spettatori. Peraltro, la Serenissima non esita a intrecciare le ragioni di Stato con il libero esercizio della mercatura teatrale; s’è visto come, talvolta, stridano le disposizioni normative in relazione persino alle esigenze di governo. La presenza continua sul territorio veneto di ospiti illustri, regnanti e titolati stranieri, emissari e ambasciatori esteri, si lega indissolubilmente con la vita dello spettacolo, sia sul piano artistico, sia su quello cerimoniale.
Come rivela l’annotazione di Girolamo Priuli, datata 1607, ma relativa al 1626, un terzo teatro agisce fin dai primi decenni del Seicento, quello di proprietà di «ca’ Vendramin a S. Salvador». Priuli evidenzia, con sicurezza, come accada di vedere ben tre formazioni sceniche in concorrenza l’una con l’altra: «et tutte havevano concorso et audientia, et sogliono recitare da S. Martin a quaresima, et dalla Sensa fino mezo Luglio» (48). Anche la vicenda di questo edificio è connessa al progetto di amministrare la disponibilità di un nucleo fisso di commedianti, scelto contestualmente con il proposito di aprire una nuova sala. Dal punto di vista documentario il Teatro di San Salvatore, o di San Luca, come verrà anche chiamato nei decenni successivi, si presenta in una situazione migliore, perché è disponibile un consistente archivio di carte relative alla sua gestione, tanto da costituire un importante sussidio per lo studio della vita teatrale veneziana, sia dal punto di vista gestionale, sia da quello sociologico; comprende, infatti, lettere, contratti, prospetti delle affittanze dei palchi, le pratiche di molti contenziosi che ne accompagnano l’attività nel corso dei secoli.
La preferenza cade sugli Accesi di Pier Maria Cecchini, come risulta da un contratto sottoscritto dalle parti, in data 2 aprile 1622.
Per la presente scrittura si sono convenuti l’Ill.mi Sig.ri Vendramini sottoscritti di dare et consignare alla Compagnia delli Comici Accesi che qui sotto si sottoscriveranno il lor Teatro posto in contrà S. Salvadore di questa città per recitare le loro honeste Comedie, i quali Comici sottoscritti saranno obligati di venire per il S. Martino prossimo futturo o poco più tardi secondo che l’occasione porterà a rapresentare. Continuando per tutto Carnevale prossimo il quale sarà l’ultimo di febraro 1626 More Imperii essendo essi Comici padroni di tutti li utili della porta carieghe et scagni et poi per Natale dare alli Comici per donativo ducati trecento venetiani in moneta corente havertendo che essi Comici debano sempre che recitaranno mantener li lumi non solo nella scena ma anco in tutto il theatro.
Siano in obligo li sottoscritti quando non par a lor bene di dar principio a la Pasqua futtura di venir almeno il S. Martino standovi il rimanente di Carnevale come di sopra et quando accidente portasse che non potessero venire per intaresse de Prencipi diano in cambio loro un’altra Compagnia buona et di sodisfatione di sue sig.rie Ill.me la quale ocupi et servi nel Teatro il quale per questi due anni intendono li sig.ri Vendramini che sempre stia a riquisitione di essi Comici sottoscritti con le medesemi conditioni come di sopra durante la presente condotta.
Et non potendosi per comodo della stanza far di meno di non fabricar quattro Palchi i quali non habbino l’ingresso per la porta ordinaria ove si paga, si obligano essi sig.ri di dare alla Compagnia palco uno per loro uso et a fine che ogn’uno sia sicuro di quanto hora da le parti vien promesso si obligano li Comici cadaun di loro d’esser sottoposto nel spatio di questi due anni alla penna di scudi ducento in avento che mancasse di servire et osservare la presente scrittura d’aplicarsi detto denaro la mità alli sudetti sig.ri et l’altra alla Compagnia et per l’incontro delli Ill.mi Vendramini si obligano tutti alla conservatione di questa scrittura sotto obligation de scudi mille d’aplicarsi alla Compagnia che perciò obligano tutti i loro beni per detta summa de detti scudi mille come all’incontro essi sig.ri Comici sopradetti si obligano mantener quanto di sopra obligando robbe et vite loro et questo vaglia in ogni loco ove si tien raggione et in fede di ciò tutti saranno sottoscritti (49).
Da parte dei Vendramin la scrittura è siglata dai rappresentanti dei due rami della famiglia, vale a dire da Andrea, figlio di Ferigo della contrada di San Lunardo, anche a nome dei fratelli Alvise, Giacomo e Zuanne, e da Zuanne, figlio di Andrea della contrada di Santa Fosca, anche per il fratello Lunardo. Sono gli stessi familiari che, nel gennaio 1622, di comune accordo hanno deciso di costruire il teatro sul fondo di San Luca con un impegno finanziario di 3.000 ducati, a giudicare dalla terminazione di decima che lo stima 400 ducati (50). Lo schema del contratto definisce con chiarezza gli ambiti di responsabilità e vincola pesantemente gli Accesi al rispetto di un impegno liberamente sottoscritto. Da notare come sia prevista la clausola d’inadempienza connessa alle assenze per «intaresse de Prencipi», clausola che impone la ricerca di una compagnia di rimpiazzo, come dimostrano le febbrili trattative dei comici rilevate attraverso la loro corrispondenza.
La determinazione posta nel tutelare i patti si può verificare nella controversia che, in questo periodo, oppone la famiglia dei Vendramin e il comico Giovanni Serio Cioffo, in arte Pasquariello e Citrullo, causa svolta dinanzi ai giudici del forestier che si protrarrà oltre il 1624. Il nodo della questione riguarda la decisione di trasferirsi al San Cassiano; l’attore tenta, infatti, di ricorrere contro la «essecuzione» fatta dai proprietari nell’agosto 1624, sostenendo di aver provveduto a trovare un sostituto, «il quale faceva la parte mia» e che «fu da detti Ill.mi veduto et accettato, et ha servito per tutto il tempo della condutta come ho fatto anco io nella Compagnia che ha recitato nel Teatro de Illustrissimi Troni senza che da detti Ill.mi sia stato fatto alcun moto». Da parte loro i Vendramin si oppongono all’annullamento della sanzione pecuniaria, applicata per l’inadempienza della maschera del Capitano, sostenendo di essere stati costretti per la sua defezione a «multiplicar in maestranze et spese superflue», un danno aggravato «tanto più, per haversi hauto difficoltà d’affittar palchetti e di manco concorso per il mancamento della parte principalissima che lui faceva» (51). Nonostante il caso Cioffo, l’accordo Vendramin-Cecchini sembra funzionare, visto che viene ripetuto e accettato fino alla stagione 1624-1625, anno in cui compaiono le firme di Silvio Fiorillo e del Trappolino Giovan Battista, suo figlio.
In questo scorcio degli anni Venti del Seicento le stanze di Venezia sembrano avvertire il deteriorarsi delle abitudini festive, dentro e fuori gli edifici teatrali; tanto che il 31 dicembre 1628 il maggior consiglio emette un decreto di questa natura:
Vi sono degli huomini di così cattivi pensieri banditi, e di altra mala qualità, che prendeno l’occasione di mascherarsi per potere non conosciuti venire a dettestande risolutioni, commettendo homicidii et altri gravissimi delitti, come pur tuttavia se n’è veduto succedere l’effetto, con grave scandalo de’ buoni, a che dovendosi provedere: l’anderà parte, che la materia di maschere, le contrafacioni, et li delitti gravi, che da queste fossero commessi siano soggetti all’autorità del Consiglio di X. Il medesimo se intenda per le Comedie, quando si dubitasse che la riducione potesse riuscire scandalosa et pericolosa(52).
L’intervento è deciso, considerando il fatto che i dieci rappresentavano un’istanza suprema; il fatto che la vigilanza si estenda anche nei luoghi della commedia, con riferimento alla moralità del repertorio, potrebbe alludere ad un’involuzione delle modalità rappresentative, segno di un mutamento del clima e dei protagonisti.
Una linea di demarcazione tristemente visibile segna un cambiamento di umore anche sul versante della storia teatrale veneziana ed è legata all’esplosione della peste nel 1630. Poco prima che scoppi il contagio, mentre per lo stato di guerra la Repubblica vive l’incertezza di una stagione nefasta, basta il desiderio espresso dai componenti di una missione diplomatica perché s’infrangano le consuetudini. Accade con i Francesi al seguito dell’ambasciatore di Richelieu François-Annibal d’Estrées, marchese di Coeuvres, spedito per fare pressione sul governo veneto perché «intervenisse più attivamente nella guerra, prendendo iniziative militari nel Mantovano» (53); ligi all’idea di essere in una città famosa nel mondo per i suoi divertimenti e i suoi trattenimenti scenici, gli ospiti manifestano ciò che è di loro gradimento. La testimonianza giunge dalla penna di Gian Piero Codebò, residente del duca di Modena, che informa della situazione il suo signore.
E perché i francesi doppo il negocio vogliono il passatempo, hanno fatto istanza delle commedie, le quali, non senza qualche contraddizione dei Pregadi e del Conseglio de X, sono state concedute per quindici giorni, nonostante la qualità del tempo. Onde domani sera, nel Teatro dei Vendramin da San Salvator, Scapino con una compagnia rappezzata, dà principo e vi si andè à anche in maschera di notte solo (54).
Lo Scapino in questione è, secondo l’indicazione di Cozzi, Francesco Gabrielli, uno Zanni proteiforme, abile nel mutare sembianze e carattere, un attore apprezzato e, insieme, discusso, che aveva fatto parte della Compagnia dei Confidenti. Tale contrastante giudizio affiora nelle annotazioni post mortem; lo sminuisce Francesco Loredan, laddove lo definisce «buffon tra i commedianti», vanaglorioso al punto di vantarsi anche da morto facendo «ridere i vermi in sepoltura»; lo esalta Niccolò Barbieri, suo compagno, in arte Beltrame, che afferma come sia stato «sempre accettato tra’ grandi come virtuoso, e non come buffone» (55). In un manoscritto senza data, inserito in una raccolta miscellanea, dal titolo Nella famosa rappresentazione de suoni e strumenti di Francesco Gabrielli, detto tra i comici Scappino, si può leggere il seguente sonetto:
Ode, è rapita in estasi, vaneggia,
L’anima al suon di mille e più strumenti,
Né distingue né musici concenti
Se ’l Ciel in terra, o in ciel la terra veggia
Forman lassù nella stellata reggia
L’intelligenze armoniosi accenti
E quelli in questo Angel human tu senti
Che, quanto lece ad uom, con lor gareggia.
Quello ognor rivolgendo i globi eterni
Mostrano le virtudi unite, e ’n questi
Le virtudi e le grazie unite seerni.
Qual maggior di quest’angeli diresti?
Od il mio Gabrielli, o li superni?
Taccio: noi siam mortali essi celesti (56).
Un’eccezione, dunque, qual è l’apertura fuori stagione di un teatro, conferma il peso e l’influenza che la sfera festiva esercita sulle pratiche della politica. In tal modo, oltre le secche della catastrofe epidemica, l’esercizio teatrale s’avvia ben presto verso un destino esaltante e, insieme, controverso, legato sempre più alla peculiarità della città lagunare, alla sua inconfondibile struttura, ad una dimensione labirintica e mutevole, come la natura stessa.
«Per troppo variar Natura è bella», scrive il canonico Cristoforo Ivanovich nella prefazione «dell’autore a chi legge» di Minerva al tavolino. Affidandosi al favore della dea uscita dal capo di Giove, colei che è in grado di destreggiarsi egualmente con le armi e con la penna, il letterato raccoglie in un volume «ingegnose Descrizioni», lettere, liriche latine, sonetti di circostanza e le Memorie teatrali di Venezia, che «contengono diversi trattenimenti piacevoli della città, l’introduzione de’ Teatri, il Titolo di tutti i Drami rappresentati, col nome degli Autori di Poesia, e di Musica fino questo anno 1687», un catalogo sotto forma di «trascorso storico» (57). Il racconto di Ivanovich segue le tracce dei trionfi civili che pongono Venezia al centro della modernità e la fanno «delle Gloria Latine unica Erede». Al pari dell’antica Roma, anche la Serenissima ha elaborato il rito degli spettacoli e dei «giuochi teatrali» a beneficio delle genti del mondo: i «trattenimenti carnovaleschi», che con precisa scansione si ripropongono nella città lagunare, affascinano l’«universo» dei forestieri che vi accorrono e «rende in continuo moto i Cittadini avvezzi a goderlo ogni anno, doppo l’annua occupazione, o negli affari politici, o domestici» (58).
A distanza di oltre un quarantennio dalle devastazioni mortali del terribile morbo, nel disegno del canonico la mappa delle piacevolezze veneziane ha una precisa scansione stagionale, senza pregiudizio alcuno per la varietà. Nel periodo primaverile la bella gioventù si esercita nei maneggi per cavallerizzi; all’inizio della Quaresima inizia, poi, il gioco del calcio, «praticato da’ soli Gentiluomini nel luogo del Bersaglio a San Bonaventura con molto concorso di [...] Nobili, che svestiti di Toga ordinaria, et in abiti succinti fanno prova delle proprie forze con somma applicazione». Due giorni dopo Pasqua comincia il periodo dei «freschi»: in un’ansa del Canal Grande, «dal Palazzo Pesaro fino al Ponte della Croce» si svolge «il corso di Gondole piene di Dame, e Cavalieri, di Ministri de’ Principi, e d’altri Forestieri». Seguono i festeggiamenti della Sensa, con la cerimonia dello sposalizio del mare con il Bucintoro imbandierato e con la fiera in piazza San Marco; la fiera è descritta come un’impareggiabile meraviglia: «dura giorni 15, frequentata mattina, e sera dal numero infinito di Dame, e Cavalieri, e di Maschere, allettato dalla pompa preziosa di merci [...], che sembrano un Perù pendente, e per gli ori, et argenti e per le pietre di valore. In Piazza s’aprono più Casotti di figurine, che ballano per continuo trattenimento della Plebe, e de’ Forestieri».
In estate si susseguono le passeggiate notturne in barca verso gli «sboccamenti della Laguna»; sul canale si possono ascoltare gli echi di «bellissime serenate, che alletano»; si fanno «ricreazioni di Casini a Murano, alla Zuecca, et all’Isolette circonvicine», si fanno inoltre, «guerre de’ pugni da’ Castellani, e Nicolotti». Il tempo autunnale è caratterizzato dal trasferimento in villa per le villeggiature, ma nonostante le partenze a Venezia s’aprono i battenti di qualche «Teatro di Comedia, trattenimento di sera assai curioso, e piacevole». Poi, «a’ ogni Santi», la nobiltà rientra dalla campagna, riversandosi nei «publici Ridotti, che pure in ogni stagione anno i loro Accademici, che non gli abbandonano». La passione per il gioco spinge gentiluomini e cavalieri, alcuni con il volto celato dalla maschera, a rischiare interi patrimoni in silenzio, dignitosamente, «senza strepito». Le prove delle nuove opere, occasioni utili per soddisfare la «curiosità» di scoprire le «voci novelle», hanno inizio, avanti di raggiungere le scene, nei palazzi.
«Primi sono i Teatri di Musica a dar principio con una pompa, e splendore incredibile» alla stagione invernale; quindi, le rappresentazioni di drammi, commedie e altre opere, ben presto, si susseguono ininterrottamente fino all’ultimo giorno di Carnevale, spesso «due per Teatro». In gennaio si tiene il «Listone famoso a San Marco, dove le Maschere fanno pompa di se stesse, particolarmente la festa»: lo spettacolo dei mascherati, che col passare degli anni risulta sempre più affollato, coinvolge sia chi si esibisce, sia chi osserva, «per la bellezza delle Dame, per il valor delle gioie, e per la bizzarria d’abiti veramente sfoggiati». Il giovedì grasso si svolge la festa dei tori a Rialto, e nel pomeriggio in Piazza si taglia la testa ad uno di questi animali alla presenza delle autorità, s’accendono i fuochi d’artificio, mentre funamboli, saltatori, equilibristi si esibiscono nella Piazzetta con le loro gradevoli invenzioni (59).
Esaminando a ritroso l’intrecciarsi delle vicende teatrali veneziane, attraverso le annotazioni dei suoi storiografi, diviene esemplare la soluzione di affidare «l’origine de’ Drami in Venezia» ad un racconto, raccolto dal canonico Ivanovich nel 1664 direttamente dalle labbra del primo protagonista, il marchese Pio Enea degli Obizzi, nella cornice delle stanze del suo palazzo fra i disegni di macchine teatrali per tornei cavallereschi.
L’anno 1636 nacque generoso desiderio in alcuni miei amici, e compagni in Padova, di ordinar un Torneo; onde io per nobilitarlo maggiormente, presi per mano la Favola di Cadmo, e ne composi l’Introduzione, che fu poi posta in Musica nella forma, che comparve stampata in publica vista. Si fece a questo oggetto serrar un luogo spazioso contiguo a Pra della Valle, e con machine a Cavallo; come si vede in questi disegni, si perfezzionò un pomposo spettacolo. Fu il numeroso concorso di Nobiltà Veneta, di Cavalieri di Terraferma, e di Scolari dello Studio; mentre seguì la comparsa il mese d’Ottobre, destinato per ordinario al villeggiare. Sia stata la fortuna de’ cavalieri, che lo composero, o pure la bontà di chi intervenne riuscì d’universal’applauso. [...] Di qui venne, che l’anno addietro con la protezione di più Nobili, s’unirono diversi Virtuosi professori della Musica, mediante i quali comparve l’anno 1637, nel Teatro di S. Cassiano l’Andromeda di Benedetto Ferrari Poeta, Musico, e Suonatore eccellente della Tiorba (60).
Intorno a tale episodio si sono sviluppati, ormai, studi sempre più puntuali, in base ai quali è stato possibile comprendere meglio il procedimento di innesto della rappresentazione per musica sul sistema dei teatri veneziani, intorno all’episodio dell’Andromeda, realizzata nella sala dei Tron, probabilmente intorno al 5 aprile 1637 (61), un anno dopo la ricostruzione del teatro, «ridotto in cenere» una prima volta nel 1629 (62) e una seconda volta alla fine del 1633. Lo testimoniano, anzitutto, le carte relative alla richiesta di un palco da parte del residente cesareo; è utile considerare il documento, non solo ai fini della notizia dell’incendio.
Il Residente ha supplicato V. Serenità, che per haver comodità di dar qualche ricreazione [...], si degnasse di interpor la sua autorità per fargli haver un Palco nel Teatro delle Commedie di S. Cassano, e non è stato possibile di ricever questa sodisfattione, mediante danaro, di che resta molto mortificato, e tanto più per haver mandato più volte a darne memoria, e per essergli infine stato risposto, che non si vuole incomodare i Nobili, che già tengono dei Palchi, il che non è stata intenzione del Residente, ma bene di farlo cedere a qualche Mercante, che ne hanno la maggior parte, et i migliori, per darne poi anche a qualsiasi altro e oltre che lo presupponeva per favore e prerogativa solita farsi indifferentemente a Ministri de’ Principi e insomma confessa di haver poca fortuna in tutte le cose con la Repubblica, e non sa a che attribuirne la colpa. Di questa part.ne ne fa motto al Principe d’Echembergh, acciò comprenda come sono trattati qua i Ministri di S. Maestà Cesarea soggiungendo, che anche dal neg.o della Posta ha mandato a sollecitar per haver qualche risposta, e che sempre per le quali è tornato il suo commesso con queste parole, si farà, si dirà (63).
Il documento conferma la discrezionalità del governo nel poter occupare i palchi da cedere agli ospiti degli Stati stranieri, ma esplicita un deciso malumore per la leggerezza con cui si affrontano le faccende ordinarie, che riguardano i rapporti fra residenti e Stato veneto: il giudizio del diplomatico, infatti, non risparmia neppure il funzionamento delle comunicazioni postali. D’altra parte le parole di critica aprono uno spiraglio sul sistema distributivo dei palchi teatrali, che privilegiano un pubblico mercantile, in grado di combinare maneggi nella compravendita e di stabilire preferenze nella cessione: s’intravede, dunque, una fisionomia dei destinatari variegata, non necessariamente limitata alla presenza di spettatori patrizi. L’imbarazzo della Serenissima si avverte in una nota del 22 dicembre, nella quale si trova la conferma della distruzione del teatro. «Già che è seguito l’accidente dell’incendio nel teatro delle Comedie a S. Cassano, quando vi sia già disposizione di haverne uno a S. Luca, si rinoverà il tentativo» (64).
Un’altra missiva, inviata da Venezia il 20 dicembre e destinata al duca di Modena, è utile per confermare l’inagibilità della sala, insieme alla certezza che a poca distanza di tempo dalla terribile pestilenza i teatri risultano operanti ed ancora orientati ad accogliere compagnie di comici dell’arte. «Questa notte [si legge] è bruziato il loco della Comedia di San Cassano, sì che facilmente Vostra Altezza potrà aver se vuole, la compagnia del Carpiani, overo questa di Cinzio ch’è bonissima. Il detto Carpiani credo che habia promesso di venire a recitare a San Luca» (65). L’avvenuta ricostruzione del teatro nel 1636 è provata, invece, da una delibera del consiglio dei dieci, che risponde ad una richiesta dei proprietari perché si rappresentino opere per musica.
Per l’indizio sopravenuto a’ questi Magnifici Magistrati da li NN. HH. Tron de S. Benetto circa l’intention de aprir Theatro de musica qual se prattica in più parte per diletto de l’insigni pubblici [...] se da parte che pro cognitis et incognitis [?] causis se possa aprirsene uno doppo che li fiscali averanno reconosciuti con li patroni et proprietarii tutte le obligattioni afinché procedono ad agravarsene secondo che prescrive giustitia nelle presenti circostantie (66).
Oltre la circostanza della riapertura del San Cassiano, però, l’episodio dell’Andromeda testimonia come la scena musicale tenda ad articolarsi, a differenza da quella della commedia, secondo modalità organizzative non uniformi, visto che si preferisce distinguere la gestione dei locali dall’attività produttiva e artistica (67). Resta da considerare, in relazione a tale evento, il peso che hanno le iniziative delle accademie, alla luce di un episodio esaltante, cioè la realizzazione de Il Solimano, tragedia del conte Prospero Bonarelli, avvenuta nel 1634 in un teatro provvisorio, costruito nelle vicinanze del convento dei Domenicani, accanto alla chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (68). A partire da qui si snoda un intreccio di eventi a cui sono connessi innumerevoli questioni, quali l’evolversi dell’idea di sala teatrale, la ricerca di proposte concorrenziali di allestimento che agiscono sulla qualità degli apparati, la nascita e il consolidarsi di generazioni d’interpreti, di musicisti e di esecutori spesso soggetti a trattamenti economici difformi, l’ambiguità delle relazioni dei compositori e dei poeti con i committenti e con i proprietari di teatri, l’intensificazione delle offerte, le vie di sollecitazione degli spettatori alla luce di un progressivo modificarsi del gusto e delle procedure di ascolto (69).
Poiché l’inclinazione per i drammi in musica si coniuga con il «genio di Venezia», come sottolinea Ivanovich nelle sue Memorie teatrali, il rito stagionale del carnevale diviene «assai più curioso di quello che era per il passato», in virtù dell’innalzamento qualitativo delle proposte; il canonico sintetizza felicemente il trapasso da un’età all’altra, sforzandosi di gettare uno sguardo circolare sulla nuova condizione. La considerazione dimostrata da un pubblico cosmopolita conferma la bontà di tale formula, ma nello stesso tempo sospinge la macchina dello spettacolo a raffinare l’apporto dei musicisti, dei poeti, dei virtuosi, scegliendo «voci isquisite d’Uomini, e Donne», dei creatori d’apparati, realizzando «ritrovate Invenzioni più bizzarre d’abiti, di Scene, di machine, di voli, e di balli». L’impulso alla vita felice accentua anche la «curiosità» a cogliere l’ebbrezza che unisce «Maschere, Festini, Ridotti, Comedie, e Drami in Musica», visto che la grande vitalità creativa si traduce in una maggiore accessibilità al costo dei divertimenti. «E quello, ch’è più considerabile [aggiunge], la diversità de’ prezzi alla Porta facilita maggiormente i concorsi. Poiché i Nobili, e Mercanti col comodo dell’entrate, e de’ negozij, hanno il modo di soddisfarli continuamente, e il Popolo ancora col prezzo assai minorato di prima» (70); e rimanda ad un dettagliato esame sulla spesa dei bollettini d’ingresso. Resta da osservare, ricorrendo alle riflessioni celebrative di Ivanovich, quale sia il destino del teatro di commedia, nel momento in cui s’afferma un genere più complesso sulla scia di un procedimento creativo dinamico.
Prima, che s’introducessero i Drami in Musica in Venezia, era molto gradita la Comedia. Le compagnie de’ Comici erano famosissime; e il fine de’ medemi era d’allettare con la Virtù un concorso nobile, che fuori di questi non avea altri trattenimenti Teatrali. Le fatiche riportavano e l’utile, e l’onore; perché il Volgo occupava il meno, e le parti dell’applauso erano il rispetto, e l’attenzione. Vive per anco il grido delle Beatrici, Ippolite, Angiole, ed Isabelle, de’ Valerii, Orazii, Cintii, Marii, e Flaminii, degli Scapini, Trappole, Brighelle, Fichetti, e Buffetti, de’ Zaccagnini, Trivelini, e Trapolini, de’ Sagnifuochi, Capitan Spavento, e Giangurgoli, i quali hanno immortalata la Memoria, con l’isquisitezza de’ proprii talenti. Non mancano pure oggidì all’applauso delle Corti più cospicue, le Aurelie, Eularie, Lavinie, Lucinde, e l’Ortensie, i Cintii, gli Ottavii, i Florindi, e gli Aurelii, i Brighelle, i Finocchi, gli Arlicchini, i Truffaldini, i Bertolini, gli Scaramuccie, Spezzaferri, i Covielli, e di molti altri: ma questi vedendo diminuirsi qui il concetto a’ loro virtuosi impieghi, da che ha principiato la poesia vestita di Musica, di caminare col fasto su i Teatri, schivano al più non posso l’esercizio in Venezia; dove in mancanza del primiero nobile concorso, non risulta loro quel decoro, e quell’utile che li valeva d’allettamento allo studio, e all’applicazione così dilettevole, e proficua (71).
A causa del cambiamento di gusto, in ragione del minore interesse economico, per un effettivo deteriorarsi della qualità rappresentativa, le compagini teatrali all’italiana negli anni Trenta del Seicento — ma anche quelle attive nei decenni successivi — paiono davvero ritrarsi dalle stanze lagunari. Se già al tempo del progetto di Giovan Battista Andreini è possibile cogliere lo sviluppo di un’ideale vicenda del teatro comico nell’oscillazione fra i favori da ottenere da una corte eccelsa, come appare quella di Parigi, dinanzi ad un sovrano potentissimo, e la scommessa commerciale che si gioca grado a grado nei luoghi deputati di Venezia, ora pare mancare alla scena recitata l’energia per competere con l’evoluzione delle altre forme di spettacolo. Nello stesso tempo, la vitalità del nuovo genere riesce ad assumere, o per virtù o per convenienza — poco importa —, soluzioni espressive riconducibili allo spirito della commedia dell’arte.
Le variegate vicende dei «Febiarmonici» dimostrano come uno sperimentalismo sospinto si sia insinuato, oramai, nel lavoro teatrale, sfruttando l’eclettismo interpretativo di attori e cantanti, tenendo conto del logorarsi repentino delle risorse artistiche, investendo in un processo di rilancio professionale e raccogliendo frutti dal buon dilettantismo e dalla migliore accademia (72). Per inaugurare nel gennaio 1641 la stagione del Teatro Novissimo, edificato nei pressi del convento dei padri Domenicani dei Santi Giovanni e Paolo da una società di cavalieri allo scopo di accogliere l’opera in musica, si rappresenta La Finta pazza, libretto di Giulio Strozzi, musiche di Francesco Sacrati; l’ideatore del progetto architettonico e delle macchine sceniche è Jacopo Torelli. Inoltre, l’attesa per l’avvenimento, che si protrae per dodici repliche e che registra due riedizioni del testo poetico, è dovuta alla bravura dei protagonisti e, ancor più, alle doti di Anna Renzi, cantante romana, «giovane così valorosa nell’azione come eccellente nella Musica; così allegra nel finger la pazzia come savia nel saperla imitare, e modesta in tutti i suoi modi» (73).
La breve attività di questo teatro, che si chiuderà nel 1645, rivela un impegno che coinvolge più committenti e più competenze artistiche; la sua storia edilizia, invece, testimonia la pratica dell’investimento mascherato, che tutela al massimo l’anonimato dei proprietari, affidando il funzionamento ai mallevadori — i «piezi» — e agli impresari. Nel 1640 i frati danno in affitto un capannone adiacente al convento a un guantaio, un certo Giacomo Somariva, probabilmente un incaricato della società di finanziatori, di cui fanno parte Gerolamo Lando, Giacomo Marcello e Giacomo da Mosto. A lavori iniziati, sotto la guida di Torelli che è presente a Venezia come ingegnere navale all’Arsenale, i Domenicani invocano l’intervento dell’avogarìa perché sono stati oltrepassati i confini dell’area data in concessione. Un secondo accordo, sottoscritto oltre che da Somariva da Tommaso Fontana e Giovanni Pesacchieri, stabilisce, fra l’altro, la scadenza dopo due anni e l’impegno a demolire la fabbrica; il contratto contempla ben tredici punti, uno dei quali dice : «che non si possa in detto luogo, et teatro recitar altre opere che in musica ma non intendendo, che per niun modo si rapresentino comedie buffonesche, o di altra natura ma solo delle sopradette eroiche opere in canto» (74). All’inizio di novembre del 1640 si giunge ad una revisione dei patti, che viene firmata da un nuovo impresario, Gerolamo Lapoli, quando a poca distanza, il 27 gennaio, va in scena con un successo al di sopra di ogni previsione La Finta pazza. L’anno seguente trionfa il Bellerofonte, musicato da Sacrati su libretto di Vincenzo Nolfi e con le scene di Torelli; i frati rinnovano il permesso all’impresa del Novissimo e concedono, inoltre, la possibilità di ampliare l’edificio. A distanza di due anni, mentre i debiti crescono, la situazione sembra sfuggire ad ogni controllo; nel 1646 il teatro viene chiuso, mentre Lapoli si allontana da Venezia sopraffatto da un deficit di 8.000 ducati: ha inizio, così, un lungo contenzioso giudiziario, mentre la costruzione viene demolita.
Nei primi mesi del 1645 le tensioni causate dalla guerra contro i Turchi, per il controllo dell’isola di Candia, si riflettono sull’andamento delle stagioni dei teatri, che vengono sospese almeno fino a tutto il 1647 (75). Tale stato d’emergenza incide sui progetti dei teatri, contribuendo ad una rapida involuzione del Novissimo, la cui fama si basa proprio sullo sfarzo allestitivo e sulla qualità dei protagonisti. Al di là dei fatti, resta l’interesse di tanti soggetti, variamente sensibili, a dare incremento ad un’impresa musicale veneziana instabile nei presupposti, ma ferma nel segno del buon gusto. Il rilancio sembra avviarsi sotto l’egida di una onnipresente Accademia, quella degli Incogniti, un consesso di libertini e di «belli spiriti» che esprime una distinzione intellettuale non omologa, bensì volta alla divulgazione e al buon intrattenimento. Sembrano arretrare, dietro una facciata di raffinato edonismo, le volgarità della buffoneria, che il controllo poetico ripulisce e configura sullo sfondo di drammi eroici e di opere regie. Le maschere rientrano nei ranghi dei caratteri secondari, di servi sciocchi o astuti, di pedanteschi dottori, di capitani vanagloriosi, di vecchi ridicoli e lascivi, figure gradite sulle scene di Venezia (76); oppure si trasformano in balli, in danze sfrenate di figure esotiche e, ancor più, di pazzi d’ogni specie. La chiusura dei teatri lagunari, in cui si è cercato di stabilizzare l’avventura delle compagnie di canto, fa esplodere nelle altre aree della penisola la circolazione di cantanti e Febiarmonici, alla stregua di un fenomeno di esportazione connesso ad una fase critica (77).
Intanto, la mappa dei teatri tende a completarsi all’insegna di una magnificenza esemplare, colta in ogni modo dagli ospiti stranieri. Scrive il suo stupore in un celebre passo della sua relazione sui fatti veneziani, nel periodo 1647-1652, il coadiutore del nunzio pontificio, monsignore Francesco de’ Pannocchieschi, «attonito» nella visione di una città incline alle feste e ai divertimenti più fastosi, mentre altrove subisce le rovine della guerra.
Et quanto alli teatri, overo come essi dicono le Opere in musica, si rappresentano in Venetia in ogni più ampia et esquisita forma, concorrendo a renderli più raguardevoli, oltre l’industria della gente, l’opulenza del proprio Paese, d’onde pare che habbino tratto l’origine et ove parimente basterà di dire, che si fanno quasi più per negotio che per trattenimento. Quindi la composizione della favola esser suole di qualche più eccellente Poeta, et nella musica si procura ogni possibile esquisitezza, procacciandosi ad ogni costo d’altrove li Cantori. Le macchine poi, le prospettive, li voli et altri scherzi della scena non si fanno punto desiderare. La spesa, che si ricerca a chi li vuoi vedere, non passa in tutto che la metà di uno scudo, et quasi ogn’uno in Venetia, senza suo grande incommodo, lo può spendere, perché il denaro vi abonda (78).
I potenti Grimani di Santa Maria Formosa entrano in lizza con il Teatro dei Santi Giovanni e Paolo, inaugurato nel 1639 con La Delia o sia La Sera sposa del Sole, vero modello dell’opera veneziana del Seicento, musicata da Francesco Manelli su poesia di Giulio Strozzi, applicando una tecnica impresariale, nella quale Zuane Grimani, detto Spago, proprietario insieme al fratello Antonio, si dimostra un maestro; quella di togliere con serrate trattative i migliori artisti ai teatri concorrenti. Resta esemplare la rappresentazione nel 1642 de La coronazione di Poppea, opera regia di Giovan Francesco Busenello, musicata da Claudio Monteverdi, con le scene attribuite a Giovanni Burnacini. Con la venuta di Marco Faustini, strappato al San Cassiano, coadiuvato dal librettista Aurelio Aureli, dai musicisti Pietro Andrea Ziani e Marc’Antonio Cesti e dagli scenografi Ippolito Mazzarini e Gasparo Mauro, si assiste ad un incremento delle produzioni stagionali negli anni 1660-1667 (79). In un decennio di attività, dal 1651 al 1661, il Teatro di Sant’Aponal, un piccolo edificio da musica reso mirabile da un sapiente uso di artifici prospettici, che nasce dall’impegno del librettista Giovanni Faustini, avvia la sua attività sotto la tutela dei nobili Alvise Duodo e Marc’Antonio Correr, con la collaborazione artistica di Francesco Cavalli (80). Nel 1655 si apre il San Samuele, una struttura all’italiana con platea e cinque ordini di palchi, di proprietà dei Grimani, con l’ambizione di ripetere sul fronte del teatro di commedia il primato acquisito nell’ambito di quello musicale. Ma la storia di questo teatro si svilupperà principalmente nel secolo successivo (81). Il Teatro di Sant’Angelo è legato all’intraprendenza di Francesco Santurini, che ha alle spalle un’intensa attività al San Moisè; nel 1677 inaugura la nuova sala con cinque ordini di palchi, edificata su un terreno preso in concessione dalle famiglie dei Marcello e dei Capello. La vitalità del teatro si manifesta soprattutto nel Settecento, legandosi alle esperienze di Antonio Vivaldi (1713-1739) e, successivamente, di Carlo Goldoni e del conte Carlo Gozzi (82).
La lista dei Teatri di Venezia si chiude con la costruzione più prestigiosa, quella del San Giovanni Grisostomo.
L’undicesimo [teatro] a San Gio. Grisostomo [annota il canonico Ivanovich nelle sue Memorie teatrali] eretto con mirabil prestezza l’anno 1678 da Gio. Carlo, e Abate Vincenzo fratelli Grimani d’Antonio, Nipoti, et eredi di Giovanni sudetto, mostrando in questo modo d’aver ereditata non meno la magnificenza, che il genio virtuoso, per cui rendono maggiormente cospicua la Nobiltà, e di stirpe, e d’animo. Il fondo era un Casamento antico ruinato fino a’ fondamenti. Era prima abitazione di Marco Polo Nobile Veneziano, famoso per i suoi viaggi, distrutta da un grandissimo incendio [...] (83).
Il melodramma ha guadagnato oramai una centralità che lo rende lo spettacolo per eccellenza; i palcoscenici che ospitano l’opera per musica sono diventati luoghi magici della visione e dell’esaltazione eroica, ambito del sublime e della poesia, templi dell’ascolto. Il San Giovanni Grisostomo manterrà a lungo un indiscusso primato per il fasto e la magnificenza degli allestimenti. Le notizie e i commenti, relativi alle meraviglie sceniche che vi si realizzano, rendono evidente un’ingegnosità insuperabile nelle scenografie e nelle macchine sceniche, tale da risultare un fatto «assolutamente sorprendente ed inconcepibile» (84).
L’attore e teorico della scena Luigi Riccoboni, ragionando sull’evolversi dell’opera italiana, porta ad esempio la rappresentazione de Il Pastor d’Anfriso nel 1695 (85) e l’effetto stupefacente del mappamondo sospeso in aria nel Catone Uticense, messo in scena nel 1701 (86). Riccoboni, pur apprezzando la qualità tecnica dell’illusionismo, annota come nell’animo dello spettatore rimanga la consapevolezza di trovarsi dinanzi ad un artificio; spetta, allora, al poeta e al musicista il compito di farglielo dimenticare, sta agli attori e ai cantanti convincerlo che l’arte scenica è in grado d’imitare alla perfezione la «natura» e che tutto ciò che si vede in scena è verosimile. Ma, come insegna il caso del Novissimo, spesso le imprese teatrali veneziane del Seicento presentano delle pericolose crepe di matrice economica e artistica. Con il trascorrere degli anni tali incongruenze tendono ad aggravarsi; e sono quelle che Benedetto Marcello catalogherà in modo graffiante ne Il teatro alla moda, generando, talvolta, danni irreversibili, provocati dagli ammiccamenti per le intemperanze della sala, dalle condiscendenze rispetto a quanto succede nei palchi, dagli eccessi di finzione che tradiscono la «visione fedele» (87).
Intanto le cerimonie politiche e gli omaggi che la Repubblica riserva agli illustri ospiti degli altri Stati prevedono una rappresentazione in musica, istituzionalizzando l’interesse già predeterminato fra potere e spettacolo. In tali occasioni i teatri possono dispiegare un raffinato gioco di sconfinamenti, che oltrepassa le pareti della scena deputata. Tra le maggiori feste d’accoglienza riservate a visitatori di rango restano memorabili quelle indirizzate dal patriziato veneziano al monarca danese Federico IV; «alfine di poter più liberamente godere de’ divertimenti del Carnevale, e approfittare così senza riserva della Società de’ nobili Veneziani», giunge in qualità di «semplice» conte di Oldenburg (88). Sebbene la sua visita, che dura dal 29 dicembre 1708 al 6 marzo 1709, cada durante un inverno talmente rigido da far gelare la laguna e parecchi canali, viene compiuto ogni sforzo perché l’illustre visitatore resti soddisfatto; naturalmente, la prima uscita, domenica 30 dicembre, ha come destinazione il Teatro di San Giovanni Grisostomo.
Erasi aperte due loggie sulla scena, di modo che quando S. M. vi mise il piede, non credette già di essere in un palchetto, ma bensì in una sala accomodata col miglior gusto. Il teatro era tutto illuminato e ripieno di gente. Allorché S. M. si affacciò al palchetto una numerosissima e scelta orchestra diede la sua generale arcata, ed eseguì una superba sinfonia. Alzossi poscia il sipario. Si fu a quel momento che Federico poté ancor meglio conoscere quell’unione sorprendente di tutte le Belle Arti che concorrono a gara per eccitare nella nostr’anima, mediante gli organi della vista e dell’udito, il piacere il più seducente. Di assai superiori in ciò ai Greci ed ai Romani, abbiamo saputo dare ai nostri teatri tutta l’illusione, tutti i comodi, tutte le attrattive possibili [...]. Chiaccherare e vagheggiare, ecco i piaceri più ricercati al teatro. Il re ne mostrò la più piena persuasione. Il Dramma avea per titolo Il Vincitor Generoso: il poeta era Francesco Bruni, che l’avea dedicato a S. M.: la musica era stata composta da Antonio Lotti. Il re l’ascoltò nel suo palchetto sino alla fine; poscia si trasferì al Ridotto (89).
I divertimenti che i nobili dedicano al sovrano si susseguono senza sosta come una girandola di prodigi, in grado di annullare con le provvide invenzioni persino il clima glaciale che attanaglia la città lagunare (90). L’ultimo giorno di carnevale, su invito di Carlo Grimani, Federico IV lo trascorre ancora nel Teatro di San Giovanni Grisostomo.
Allorché S. M. vi si recò, trovò tutto il teatro superbamente illuminato, e pieno straordinariamente di persone. Compiuta l’opera, il Grimani pregò il Re di passare in una sala, che a bella posta si aperse di fianco al teatro. Ivi sontuosa mensa stava rizzata con numerosa corona di dame e gentiluomini. Ma Federico fu ancor più sorpreso quando dopo cena, ricondotto nella sua loggia, vide in pochi momenti il teatro trasformato in una sala da ballo elegantissimamente addobbata. Non dubitò quasi più che i Veneziani non avessero un’arte magica per le loro decorazioni (91).
Al di là della supremazia acquistata dal genere musicale, resta il fatto che la scena continua ad evitare il confronto con una improrogabile riforma; il sistema delle preminenze fra una modalità teatrale e l’altra gioca a vantaggio della cura gestionale, perché agevola gli investimenti e, quando è possibile, gli utili. Lo stesso Ivanovich, legato alla famiglia Grimani, passando in rassegna la positiva situazione dei dodici teatri veneziani, non manca di evidenziare i rischi che corrono le imprese interessate. Lo fa proprio a chiusura della sua Minerva, affermando «come dalla lettura de’ Drami citati delle presenti Memorie nel Catalogo, risulterà appresso i Posteri la lode degli Autori, meglio, che non è risultata nel tempo delle Recite per più cause». Finisce, così, per aprire un varco sulle incongruenze che neppure la preziosità degli apparati può annullare: cantanti ordinari, musica debole, macchine sceniche imperfette, costumi poveri sono «circostanze tutte fuori della colpa dell’Autore, e nulladimeno ogn’una pregiudiziale alla riuscita»; all’opposto, si collocano i drammi «ripieni di difetti mostruosissimi» che registrano un positivo «concorso» di pubblico «ò per una voce di nuovo sentita, ò per una Musica di metro bizzarra, ò per una macchina di stravagante invenzione». Il sistema poggia, quindi, sulla combinazione fortuita di vari ingredienti e non sulla coesione artistica delle diverse componenti (92).
Sul finire del XVII secolo il dibattito spinge i letterati e gli intellettuali a definire i «motivi» della riforma teatrale, a partire dalle zone dell’imitazione, della verosimiglianza e degli spunti poetici. In una situazione fortemente condizionata dall’equilibrio delle strutture, è inevitabile che la tendenza a innovare non s’arresti dinanzi allo steccato dei sistemi rappresentativi. Si apre, allora, quel processo che conduce, passo dopo passo, al ritorno dei comici sulla scia d’una visione scenica in continua evoluzione (93).
In uno dei primi fogli periodici veneziani, «Pallade Veneta», uscito a partire dal gennaio 1687, accanto alle notizie politico-militari abbonda, inevitabilmente, la materia musicale (94). Già nel primo numero il giornale si dilunga a descrivere in ogni particolare un’opera che si recita al San Giovanni Grisostomo. Si tratta de L’Elmiro, re di Corinto, musicato da Carlo Pallavicino su libretto di Vincenzo Grimani e Girolamo Frisari, un testo che racconta una storia di tirannide.
Erano di già scomparse le stelle di queste eccellentissime dame a’ balconi del cielo di questo famosissimo teatro, chiascheduna col suo lume alla mano, e con lo splendore al volto che dal sole della propria bellezza li vien participato; stava con attenzione l’audienza tutta quando principiò l’orchestra una sinfonia così galante e bizzarra che con le fughe hor dolci, hor crude tormentava con un diletto non ordinario l’orecchio. Terminò questa improviso et improvisa sen volò la tela che cuopriva il proscenio, e comparve all’occhio de’ riguardanti un atrio con numeroso ordine di ben situate colonne, in positura così vaga di prospettiva che, non contenta d’ingannar l’occhio, richiamava il tatto per farsi creder reale. A questa bella architettura corrispondeva un sotterraneo che portava veri terrori benché si riconoscesse finto, e nell’istesso tempo furono sul palco Arconte, Fidaura, Isauro et Alinda (95).
La pratica della meraviglia segue uno schema collaudato, che si preoccupa di collegare la sala all’apparato delle scene. La cronaca testimonia, tra l’altro, come, dopo l’ouverture sinfonica, si levi il sipario, che risulta perciò in uso; lo svelamento del décor all’inizio dello spettacolo mira a produrre un effetto in grado di valorizzare il quadro scenografico. Le indicazioni fornite dall’estensore sembrano dar valore ad una visione prospettica ad angolo, tale, cioè, da garantire la verosimiglianza in ogni zona della sala: «in positura così vaga di prospettiva che, non contenta d’ingannar l’occhio, richiamava il tatto per farsi creder reale». La scenotecnica di fine Seicento si evolve a partire dalla sostituzione della prospettiva a fuoco centrale con il «vedere per angolo», introdotto da Ferdinando Bibiena. Moltiplicando i punti d’osservazione, si finisce per collegare sempre più saldamente la zona degli spettatori con quella della ribalta, instaurando una linea di continuità illusoria all’interno dell’ambiente. In questo senso si comprende meglio la metamorfosi a cui si sottopone l’intero spazio teatrale, testimoniata dai resoconti delle feste cerimoniali (96).
Il quadro riassuntivo de L’Elmiro prosegue, passo dopo passo, legando insieme esecuzione e rappresentazione. Anche il secondo atto ripropone, dopo la sinfonia, l’invito a prestare attenzione alla scenografia: «s’asperse all’occhio degl’astanti un ricco apparato di pompe reali con machina luminosa rappresentante una stella» (97). Nella scena seconda la struttura si spalanca per rivelare dentro di sé un «maestoso trono», portato da ventidue soldati che si esibiscono in una coreografia di sbandieramento. Uno dei momenti più esaltanti giunge con la scena tredicesima.
Si muta la scena in boschetto di delitia con damaschi tirati sopra i rami degli alberi, con bellissimi scherzi pittoreschi, statue, scale e portici nobilmente arricchiti, fonti e viali magnifici e spatiosi e di somma letitia all’occhio, dove seguir deve il reale sposalitio, che a tal effetto vi è collocato pomposo trono, dove a suono di sinfonie si pongono Climene e Leonida, con numeroso seguito e nobilissime comparse. Arrivano in palco Fidaura et Alinda acompagnate dai fratelli, e si pongono sopra altro trono dirimpetto ai regnanti. In questa nobilissima scena si vede comparire un mostro di smisurata grandezza e terribile all’aspetto, rappresentante un rospo volante sopra del quale cavalcando lo Sdegno canta un’arietta tutta furore. Dietro alla macchina del mostro spaventoso si vede in aria fra dense candide nuvole la Pace seguita da un coro numeroso di suoi ministri ben disposti per quel cielo nuvoloso, vista in effetti di somma letitia, e doppo haver la Pace e lo Sdegno altercato e contrastato assieme col canto. Il mostro rappresentante lo Sdegno vomita per la smisurata et ardente sua bocca quantità d’huomini furiosi e terribili, et ristrettosi in picciolo volume si profonda, quando impetuosi scendono i seguaci della Pace in pari numero a quelli che vomitò lo Sdegno che, con diversi intrecci e ben misurati rigiri, fanno una lotta sparsa di belle e galanti forze, e mostrando cedere i seguaci dello Sdegno resta la Pace vittoriosa(98).
La gamma delle invenzioni mette in evidenza la frenesia per le novità a tutti i costi, che travalica facilmente i suggerimenti didascalici; la scena musicale elabora e brucia, senza sosta, materiali eterogenei. L’intersecarsi fra gli effetti della decorazione-quadro, delle macchine dell’illusione, dei costumi, da una parte, e gli esiti di coreografie, danze, intrecci canori, astuzie recitative, dall’altra, recupera e saccheggia il grande repertorio classico-mitologico, ma espelle le intelligenze fragili, magari più attente ad evitare le incongruenze di stile e, talvolta, gli eccessi di sfarzo. Il «cimento dell’invenzione» contribuisce a consacrare la genialità degli scenografi italiani, la cui bravura sta alla pari di quella attribuita, ancora alla fine del XVII secolo, agli attori del teatro comico (99).
Fra le tematiche delle opere regie e serie abbondano gli spunti storico-mitologici, che spesso fanno riferimento alla dimensione politica, quasi per mantenere in allarme i destinatari sulla precarietà del potere, specie di quello economico. La «storia», dunque, non distingue fra eventi passati, concezione presente, utopie future; la storia dei drammi musicali è fatta di continui «aggiustamenti» e di false «valorizzazioni» in chiave modernista: un’operazione che l’intellettuale al servizio del «produttore» compie e, puntualmente, disattiva dal suo potenziale eversivo (100). Il teatro dell’ufficialità non cela la sua natura effimera, pur spacciandola continuamente per realtà. Per garantire la tenuta del meccanismo avviene che il committente si trasformi in autore: il caso emblematico è quello di Vincenzo Grimani, disinvolto avventuriero che percorre in più direzioni, e sempre con estrema spregiudicatezza, la scala della politica e dell’arte (101). Il teatro di rappresentanza non esaurisce certo la vivace attività spettacolare della città lagunare. È, ancora, «Pallade Veneta» a fornire notizie sul primo numero del 1687.
Li dirò solo che oltre li nobilissimi e famosissimi teatri di San Giovanni Grisostomo e San Salvatore, vi sono il teatro di SS. Giovanni e Paolo, di Sant’Angelo, e San Moisè, in qualsiasi de’ quali si recitano opere musicali con grand’applauso, et in particolare nel nominato e famoso di SS. Giovanni e Paolo, del quale mi riserbo le lodi nel mese prossimo futuro. Vi sono in oltre dui teatri di commedie, uno detto di San Samuele e l’altro di San Casciano, ne’ quali recitano con applauso e concorso dui compagnie di comici del Serenissimo Signor Prencipe Alessandro Farnese di Parma (102).
L’amministrazione del Teatro di San Luca, dopo la morte del padre Andrea, avvenuta nel 1684, e dopo la breve gestione della madre Zanetta, passa ai fratelli Francesco, Alvise e Andrea Vendramin. L’inizio della loro direzione è contrassegnato dal verificarsi di qualche incidente, di quelli provocati dalla prepotenza e dal privilegio di cui gode il frequentatore aristocratico. Al San Luca, nel 1691, il pubblico è particolarmente attratto dalla rappresentazione del dramma musicale L’inganno scoperto per vendetta, musicato da Giacomo Antonio Perti su libretto di Francesco Silvani, allestito con le scene di Paolo dalle Grotte. All’ingresso del teatro scoppia un alterco con un cavaliere mascherato, che si rivelerà essere il conte Torrismondo della Torre; nonostante le scuse e i tentativi di riparazione, intervengono gli inquisitori di Stato, che condannano a qualche giorno di prigionia Andrea Vendramin, reo di essersi scagliato contro il nobiluomo, con un pugnale in mano (103).
L’obiettivo che i Vendramin si propongono fin dai primi anni del Settecento è quello di ridare al loro teatro preminenza nel teatro di commedia. Mentre continuano le rappresentazioni di drammi per musica in modo fastoso (104) e con successo (105), già nel 1702 si compie un primo passo con l’ingaggio di una formazione di comici, della quale fa parte Luigi Riccoboni. L’oculatezza amministrativa dei Vendramin si comprende dall’aver essi stabilito, a partire dallo stesso anno, un patto di collaborazione con la famiglia Grimani. Inizia, così, una nuova stagione dei teatri, all’insegna di interessanti novità e rivolta sempre più alla ricerca di un equilibrio plausibile nei rapporti fra la coscienza degli artisti e quella dei committenti.
Fin dal 1655, quando nella parrocchia di San Samuele viene aperto un secondo teatro, si comprende come Zuanne Grimani, prima, e i nipoti Giovanni Carlo e Vincenzo, poi, intendano esercitare una egemonia sulla vita teatrale veneziana, sia nell’ambito musicale, con i Teatri dei Santi Giovanni e Paolo e di San Giovanni Grisostomo, sia in quello della commedia. La magnificenza del San Giovanni Grisostomo si traduce, ben presto, in un indiscusso primato sugli spettacoli per musica e impone uno stile colto e aristocratico, fattori che resteranno inalterati almeno fino al 1714, anno della morte di Giovanni Carlo, il vero amministratore del teatro; a Vincenzo, tutto preso dalla sua turbinosa esistenza, spettano la cura delle relazioni esterne, i rapporti con gli altri Stati, la responsabilità di una politica che renderà noto il nome della nobile famiglia fuori dai territori della Repubblica (106). Mentre tale teatro risplende senza sosta, declina lentamente l’altro palcoscenico musicale della famiglia Grimani, quello dei Santi Giovanni e Paolo, che verrà chiuso definitivamente nel 1715. Il San Samuele, invece, accoglie spesso le migliori compagnie di comici dell’arte. Intorno al 1680 vi recitano i bravi Francesco e Agata Calderoni, in arte Silvio e Flaminia, commedianti dei principi Farnese di Parma (107). Per garantire un buon livello qualitativo delle produzioni teatrali e per salvaguardare il proprio prestigio familiare, nei primi anni del XVIII secolo, i Grimani sono costretti a correre continuamente ai ripari dinanzi ad una gestione sempre più impegnativa dal punto di vista economico. Il capitolo che grava maggiormente sui bilanci del San Giovanni Grisostomo e del San Samuele, dove a partire dal 1710 la commedia s’alterna con i drammi per musica d’autore, è il costo degli allestimenti e l’ingaggio dei cantanti. La grandezza dei Grimani finisce, però, per scontare in qualche modo l’ambiguità dei loro interessi; nel 1687 tentano di accaparrarsi il Teatro di San Salvatore, retto in quel tempo da Zanetta Vendramin a nome dei figli ancora minorenni, rilevandolo dall’impresario Gasparo Torelli, il quale aveva rinnovato il teatro e, dopo la riapertura del 1685, ne aveva favorito il rilancio. Ma Torelli, appena riconfermato nel suo incarico dalla proprietà, viene richiamato dal duca di Parma; i Grimani ottengono la cessione dell’affitto per un decennio, ma vi rimangono solo due anni, perché i Vendramin intentano causa e la vincono (108).
Anche gli altri teatri risentono di una crisi d’attivismo: il San Cassiano sopravvive a stento sotto la direzione dei fratelli Francesco e Zuanne Tron; l’attività del teatro si orienta verso l’opera seria, con protagonisti del peso di Apostolo Zeno, Pietro Pariati, Tommaso Albinoni, Antonio Lotti, Arcangelo Corelli e di altri ancora (109); eppure gli esiti non appaiono soddisfacenti se i Tron accettano di affidare l’amministrazione agli impresari. Invece, il Teatro di San Moisè, di proprietà di Vettor Zane, riaperto all’inizio del Settecento, limita, dopo il 1705, l’attività a brevi periodi, accogliendo sempre più compagini comiche (110). Nel 1715 ne acquista il possesso Almorò Giustinian, che si avvale della collaborazione di vari impresari e presenta un repertorio melodrammatico secondario. Il Teatro di Sant’Angelo, infine, è in mano agli impresari; dal 1714 vi agisce Antonio Vivaldi (111).
All’alba del nuovo secolo il primato dei Grimani, dunque, deve tenere conto della politica teatrale attuata dai Vendramin; il proposito di destinare lo spazio del San Luca alla commedia s’accompagna alla scelta dei suoi proprietari di occuparsi direttamente della gestione, evitando, finché è possibile, altre mediazioni e curando di persona i rapporti con gli attori. È inevitabile, ad un certo punto, che tra le due famiglie di proprietari si giunga ad un’intesa; la prima stesura è del 1703, ma l’accordo sarà rinnovato, poi, nel corso degli anni, e sancirà in primo luogo la convenienza di una tregua, utile ad entrambi i fronti, per meglio definire i rispettivi ambiti d’interesse. Tra gli schemi d’intesa sottoscritti dai Vendramin e dai Grimani, il più minuzioso e preciso appare quello firmato il primo marzo del 1705 (112), vi si stabilisce, prima di tutto, che i comici siano ingaggiati in base a parametri fissi — «a’ quali non possa essere contribuito più delli soliti d[ucati] 850» per stagione — e che le compagnie possano essere utilizzate «vicendevolmente» dai Teatri di San Luca e di San Samuele. Il contratto ha una cura particolare nel definire le singole clausole e nel prefigurare ogni eventualità; dalle varie versioni sottoscritte risulta evidente il disegno di potere estendere un predominio sull’intero mercato comico, anche lungo le tappe del grande circuito teatrale di Lombardia, un controllo che presuppone, intanto, un’attenta sorveglianza sull’attività dei teatri veneziani.
La conduzione del progetto resta in mano ai Vendramin, soprattutto per merito di Alvise, pronto ad agire in modo eclettico, a dispetto dei vincoli politici, dei cerimoniali, delle leggi, dei privilegi e dei divieti che gravano sulla società teatrale del primo Settecento. La volontà di puntare esclusivamente sulla rappresentazione di commedie presenta il vantaggio di non sottostare alle tante necessità degli allestimenti melodrammatici (113). Mentre il teatro comico rientra nel sistema commerciale, si riscontrano in esso forti segnali di mutamento; contro l’impoverimento dell’Arte gli attori delle nuove generazioni prestano maggiore attenzione alla tutela materiale del loro mestiere, tendono a farsi impresari di se stessi ed a stabilizzarsi, come dimostrano i nuclei forti settecenteschi, da Imer a Medebach e a Sacco. Al pari del proprietario o dell’amministratore, il commediante ha interesse a migliorare il proprio repertorio; si profila nella zona del teatro recitato la figura del poeta di compagnia, mutuata dalla scena musicale, con mansioni che non si limitano alla semplice stesura dei testi. Deve garantire un’assistenza continuativa, essere pronto a modificare il copione secondo le esigenze del momento e le condizioni della compagnia; ha cioè, il compito di provvedere agli aggiustamenti testuali in rapporto alla dinamica delle parti. Il patto Vendramin-Grimani non prefigura ancora l’autore teatrale, mentre si possono leggere in tal senso alcuni interventi nelle scritture che chiamano in causa gli stessi interpreti; anzi, sono proprio gli attori a proporsi quali scrittori di lavori regolari, magari nel rispetto dei canoni letterari. Avviene con Pietro Cotta, in arte Celio, il quale, investito del titolo di Accademico Costante, si propone di moralizzare il repertorio dei comici dell’arte. Nel 1679 dedica all’abate Vincenzo Grimani Il Romolo, un dramma che prende a modello l’artificiosa tragedia scolastica, stretta fra interminabili tirate e dialoghi serrati, solo qualche volta efficaci (114). Nel 1697 Cotta pubblica una tragicommedia eroica, d’ambiente principesco e boschereccio, altrettanto macchinosa, in uno stile che si manterrà quasi inalterato nel corso del secolo, fino alle composizioni spagnolesche di Carlo Gozzi, scritte dopo il successo delle favole teatrali; si tratta delle Peripezie di Alerame e Adelasia, testo dedicato, stavolta, al suo protettore il duca di Mantova (115).
Gli accordi fra i Grimani e i Vendramin di fatto rendono esplicite le difficoltà dell’impresa accentratrice dei primi; in cambio della non ingerenza nei fatti del teatro musicale, i Vendramin hanno l’« arbitrio di decidere» anche quando i comici si trovino al San Samuele e la libertà di stabilire l’andamento delle stagioni teatrali. Il testo del contratto del 1706, che riprende sostanzialmente quello sottoscritto il primo marzo 1705, ribadisce in modo chiaro la sfera delle reciproche responsabilità, introducendo qualche altra restrizione. I fratelli Vendramin preferiscono, comunque, assicurarsi il pieno arbitrio nella distribuzione delle compagnie e la cura degli ingaggi; su questo terreno i vari contratti risultano chiari. Un esempio dell’efficacia dell’accordo si può vedere nel caso di Luigi Riccoboni, che tra il 1703 e il 1715 recita in entrambi i teatri. Nel rinnovo del contratto del 28 settembre 1708 si legge: «P[rim]o. - Che per l’Autunno e Carnevale iminente detti NN.HH. Vendramini lasciano al suddetto N.H. Grimani la Compagnia del S. Lelio per il di lui Teatro di S. Samuele non pretendendo alcun risarcimento, come loro hanno praticato per la detenzione delle stesse Compagnie de’ Comici l’anno passato» (116). Riccoboni può recitare sul palcoscenico del San Samuele, sapendo che l’anno successivo saranno ancora i Vendramin a definire le tappe della sua tournée; ai Grimani resta il vantaggio di assicurarsi una compagnia senza «esborso» d’ingaggio. Nel 1710, l’anno in cui muore il cardinale Vincenzo, il San Samuele rilancia un programma misto di commedia e dramma per musica (117); intanto al San Luca si gareggia per accaparrarsi i palchi migliori, a giudicare dalla lite registrata nel dicembre 1708 ed esplosa tra i componenti della famiglia Marcello (118).
Nelle carte sottoscritte dalle due famiglie si continua a precisare dettagliatamente il comportamento da tenersi qualora si voglia utilizzare una o più «truppe comiche». Tra le clausole generali si indicano, talvolta, i nomi dei comici che s’intendono ingaggiare, anzitutto al San Luca; con la convenzione registrata nel 1707, ad esempio, si annuncia l’arrivo della compagnia dei coniugi Coppa. Tale versione sancisce una specie d’intangibilità della formazione: «s’obliga d.to N.H. Grimani di non procurar o permetter che sia levato verun dei inf[rascrit]ti personagi Aurelia Ottavio e sua moglie Gareli e Carlo Rusca per farlo passare in S. Samuele», vi si dice in modo perentorio, fissando in caso contrario una spesa supplementare a beneficio dei Vendramin. Essendo gli attori in questione al servizio del duca di Mantova e, quindi, soggetti al rischio d’essere richiamati, oppure destinati ad altra sede, un altro punto del documento insiste perché si tuteli, comunque, lo svolgimento della stagione al San Luca (119). Il legame fra normativa-modello e situazione contingente permette di capire quali siano le prospettive di un rientro preordinato dei comici all’interno del mercato teatrale veneziano; seppure si continui a ricorrere alle compagnie protette dai principi-mecenati, nello stesso tempo si cerca di regolarizzare l’ingaggio degli attori, allettandoli magari con una maggiorazione dei premi, in una prospettiva stagionale, oppure in modo continuativo (120).
Aurelia e Giuseppe Coppa, dunque, recitano al San Luca già nella stagione 1703-1704; la scrittura, che riguarda la formazione nel suo complesso, ripete le condizioni-tipo per i comici. È loro concesso un compenso complessivo di 850 ducati, da corrispondere in due rate, la prima il 13 dicembre 1703, festa di santa Lucia, e la seconda il giorno del giovedì grasso nel carnevale seguente; riscuotono, poi, l’affitto delle sedie («careghe») in platea, fissato in tre soldi l’una; ai proprietari spetta il compito di garantire la sorveglianza dell’ingresso e l’illuminazione degli «Anditi del Teatro per tutto il Corso delle recite». Gli attori, invece, s’impegnano a «ritrovarsi in Venezia l’ultimo giorno di Settembre prossimo venturo per intraprendere le recite quando s’habbia la permissione, senza minimo ritardo, concorrendo in tutto ciò sarà possibile all’interesse del Teatro e contento di SS.EE.» (121). Le firme d’accettazione sono quelle dei coniugi Aurelia Colomba Coppa, amorosa, e Giuseppe Coppa; c’è, anche, un Antonio Coppa, forse figlio dei capocomici, che è detto Fulvio. Sottoscrive il documento anche l’attore romano Pietro Cotta, detto Celio, che recita nella parte da Innamorato; è colui che Riccoboni, non si sa se per effettivi meriti o per scopi agiografici, considera un riformatore del repertorio teatrale di fine Seicento. Probabilmente, con l’ingresso di Cotta, Giuseppe Coppa cambia ruolo comico, visto che nel documento si dice «Trivella», uno Zanni (122). Un’altra celebrità del tempo è il veneziano Giovan Battista Garelli, Pantalone, che reciterà al San Luca per tanti anni, fino all’età goldoniana. Si legge, poi, il nome di Giovanna Benozzi Sassi, conosciuta come Fravoletta, e del marito, Giovan Battista Sassi, detto Pasquino; infine, c’è la firma di Guido Rubiara, detto Ottavio (123).
Al di là delle singole scelte, s’impone l’orientamento definito attraverso le varie convenzioni, stipulate tra i Vendramin e i Grimani; specialmente i proprietari del San Luca continuano a praticare fermamente la via del teatro comico, sollecitando il ritorno dei migliori protagonisti e rinnovando il confronto fra i generi. Peraltro, i tempi paiono favorevoli a tale progetto, giacché la discussione sulla necessità di un rilancio del teatro italiano rispetto alle altre drammaturgie europee è ormai uscita dalle accademie e tende ad annullare il distacco tra l’ambito letterario e la sfera rappresentativa. Proprio a Venezia Lelio e Flaminia, segnando con la loro impresa l’apice e il declino della centralità dell’attore, aprono un nuovo capitolo di collaborazione tra poeti e commedianti. Sono esperienze che si consumano all’ombra di quel patto fra proprietari, che prelude alla stagione delle riforme e delle polemiche teatrali.
Habbiamo ricevuto noi sottoscritti dalli NN.HH. Andrea e fr.elli Vendramini ducati doicento correnti da 6.4 a’ conto del nostro regalo delle recite da farsi nel loro Teatro di S. Salvatore l’Autunno, e Carnevale iminente, chiamandoci in ogni caso debitori simul et insolidum, e obligando le nostre persone, e beni di qualunque ragione per la restituzione della detta summa val £. 1240 (124).
Il documento, conservato nell’Archivio Vendramin tra le «Scritture attinenti alli accordi con li Sig. Comici per dover recitare nel Teatro di S. Salvador», datato 16 aprile 1702, prova l’avvenuto versamento di 200 ducati d’acconto ai componenti di una compagnia per le rappresentazioni della stagione successiva; seguono le firme dei comici: «Io Teresa Costantini affermo quanto sopra»; «Io Luigi Riccoboni detto Lelio affermo quanto sopra»; e poi, ancora, quelle di Francesco Matterassi, Ferdinando Pani detto Leandro, Antonio Costantini e Giovan Battista Guizardi. Nella stagione 1702-1703, Riccoboni, dopo essere già stato alla guida di una sua compagine, recita da primo innamorato a Venezia accanto a Teresa Costantini, la celebre «Diana» (125). L’esperienza veneziana di Lelio, che si compie soprattutto sul palcoscenico del San Luca, continua stabilmente dal 1703 al 1715, anni nei quali si precisano le idee riformistiche dell’attore, come egli stesso ribadisce nel Discorso della commedia all’improvviso.
Per dodici anni continui fui stabilito in Venezia, onde mi trovai ne l’arduo cimento di dovere accostumare alla maestosa severità del Cotturno il più dificile uditorio che per una tale intrapresa potesse trovarsi ne l’Italia tutta. In que’ primi anni la rapresentazione di una Tragedia in Venezia mi costava mille batticuori, poiché temevo ad ogni momento una generale rivolta de’ miei spettatori, non avvezzi che ad una Comedia scomposta, e bene spesso dissoluta. A la fine con non poca fatica, e molta costanza, doppo qualche tempo, arivai a segno di poter rapresentare a quel publico una Tragedia per settimana delle francesi traddotte, non trovandone di migliori. Uno de’ primi letterati nostri mi consigliò di far saggio delle Tragedie del Signor Dottor Martelli nuovamente a l’ora uscite a le stampe. Il feci con buonissimo successo, ne l’Ifigenia in Tauride, e nella Rachele, ma qui non fermandosi l’impatienza et il buon gusto di quel letterato Signore, egli m’incoraggi per sino a dare un saggio delle nostre antiche Tragedie, sì che in diversi tempi, e la Sofonisba del Trissino, e l’Oreste ancora inedito del Ruccelai, e la Semiramide de l’antico Manfredi, ed il Torismondo del Tasso, e l’Edipo di Sofocle del Giustiniano, e qualch’altra feci gustare alle nostre città della Lombardia. Portai l’ardimento a tal segno che in Venezia stessa rapresentai la di sopra cittata Semiramide, della quale doppo il primo atto, che fu ascoltato con grande inquietudine, tutti li spettatori ne partirono al sommo satisfatti (126).
L’azione scenica di Lelio si scontra con le contraddizioni del teatro lagunare; si avverte la difficoltà a interessare alla sua «impresa» gli spettatori, non solo per il loro comportamento indocile, ma anche per la tendenza alla cristallizzazione delle mode; il linguaggio musicale continua ad essere il termine di riferimento per ogni altro genere rappresentativo. Ma, l’intento di riproporre un repertorio alto, in grado di intaccare l’abitudine per «una Comedia scomposta, e bene spesso dissoluta», deve misurarsi con i rischi di una «rivolta» irreversibile; non resta che attenuare i propositi, recuperando la compiacenza degli spettatori, come dei lettori, verso la cultura francese e insistendo, gradualmente, nell’azione di coinvolgimento diretto dei letterati e degli accademici. Il ritorno dei comici, dunque, deve procedere anzitutto dal ripristino del testo drammatico; Riccoboni insiste nel ricordarlo, indicando dall’ambito della professione comica i modelli possibili, a cominciare da Pietro Cotta, nemico instancabile della licenziosità scenica e sperimentatore della messinscena tragica (127). Poiché la permanenza di Lelio a Venezia è stabile, non è affatto improbabile che nel corso del 1703 i due attori si siano incontrati qui; il fatto che non ne abbia fatto alcun cenno nei suoi scritti, può significare, forse, che lo slancio innovativo del vecchio attore romano si sia spento.
Il nucleo di scrittori che negli anni del San Luca collaborano con Riccoboni e con la moglie Elena Balletti, la grande Flaminia, attrice ammirata e celebrata, è quanto di meglio si possa desiderare; la riforma che Luigi sollecita a partire dalla scena ambisce a stabilire uno scambio di apporti con le poetiche dei letterati suoi referenti. La definizione dei modelli segue l’itinerario del circuito teatrale di Lombardia, da Vicenza a Verona, da Bologna a Modena, e si spinge fino al territorio toscano; Venezia, invece, resta il palcoscenico sul quale è possibile avere una verifica immediata e un’attenzione più vasta. Già il suo primo protettore, il marchese Gioseffo Orsi, fautore di una ripresa scenica italiana da attuare sulla centralità della tragedia, si schiera, in polemica con le tesi dell’imitazione del modello francese, a favore di una poesia teatrale al servizio dell’attore, perciò più consona alla forma naturale (128). Ma per Riccoboni è necessario, piuttosto, opporsi al «disuso di rappresentar cose in verso», un rifiuto che favorisce una recitazione ridicola e artefatta (129). È Martello a comprendere, tra gli altri, la novità della proposta di Riccoboni, «vero Riformatore de’ recitamenti Italiani», che mentre agevola un «mescolamento» fra drammaturgie diverse, ancor più, mira ad «ingentilire il costume pur troppo villano de’ vostri Istrioni, col rendere l’antico decoro alla comica professione» (130).
Nella città lagunare, dunque, l’azione di Lelio e di Flaminia si sviluppa in molte direzioni; tante sono, a questo proposito, le testimonianze e i resoconti che enfatizzano il loro ruolo ben al di là della ribalta (131).
Per il loro inesauribile attivismo vengono pubblicate oppure ristampate opere drammatiche, destinate alla messinscena e lasciate, in qualche caso, alla stregua di partiture letterariamente non rifinite, più vicine, perciò, alla dimensione scenica e pertanto simili a «scherzi della penna» (132). L’incontro fondamentale è quello con Scipione Maffei, avvenuto forse per interessamento di Alvise Vendramin (133); il fervore tragico di Lelio attraversa fino in fondo il tracciato maffeiano. Nel 1711 recita al San Luca Ifigenia in Tauris di Pier Jacopo Martello (134). Nel 1715 l’attore stesso adatta ad uso comico il melodramma di Zeno-Pariati Sesostri, senza la musica; è un omaggio a due poeti ammirati, ma è anche un segno dell’importanza che riveste il laboratorio veneziano, un ambito che, talora, sa accogliere e valorizzare il ruolo di alcuni intellettuali fra quelli che hanno eletto la città lagunare a rifugio politico e culturale, come accade a Pietro Pariati, esule dal ducato di Modena, divenuto uno dei collaboratori più stretti di Apostolo Zeno. Nell’avviso al «Generoso Lettore» Lelio afferma di avere rappresentato il dramma nel Teatro di San Samuele; il buon risultato ottenuto esalta la particolare matrice del lavoro, che è servito per un confronto ravvicinato con la tanto contestata produzione drammatico-musicale (135).
Ma al culmine del periodo veneziano di Luigi Riccoboni resta il trionfo della Merope di Maffei; dopo la prima recita modenese, avvenuta il 12 giugno 1713, la tragedia s’afferma indiscutibilmente sul palcoscenico del San Luca.
Ieri sera si è recitata la 5a volta, gli scanni il pe’ pian e la soffitta sono stati pieni di gente nobile. Più di 20 volte è stata interrotta la recita dall’applauso, dalle esclamazioni, e da semitoni stranissimi. Vi giuro, che ne sono così confuso, che non ve lo posso spiegare [...]. I Teatri per musica sono sbancati interamente. Questa sera si recita la VI volta (136).
Il successo è davvero inaspettato, un successo valutato non solo attraverso gli applausi e gli elogi, ma soprattutto per il vittorioso confronto con la scena musicale. Al letterato veronese non par vero di avere offuscato la grandiosità della macchina melodrammatica, laddove essa dispiega tutta la sua potenza economica e artistica. Il vasto schieramento di forze culturali, scese in campo per stabilire la supremazia della poesia tragica anche in seno alle forme spettacolari, rispecchia una problematica che durante il Settecento interesserà l’intero ambito europeo (137).
Il trionfo della Merope si colloca nel punto più elevato della sperimentazione di Luigi Riccoboni, che ha saputo sviluppare il suo intervento oltre gli steccati della professione comica, senza per questo interrompere l’azione per un rilancio del lavoro d’attore (138).
L’ultimo periodo del soggiorno veneziano di Lelio e Flaminia vede, però, svanire rapidamente la buona disponibilità che i due comici erano riusciti a strappare ad un pubblico poco disponibile. Dopo aver raggiunto una coesione interpretativa ammirevole con una compagine dell’Arte, sospinta ad interpretare tragedie regolari, Luigi Riccoboni pensa di verificare le possibilità di fare altrettanto con la commedia, bloccata dallo schematismo de «li quatro attori mascherati» e dalla ripetitività tediosa dei soggetti. A differenza della poesia tragica l’antico repertorio teatrale italiano offre veramente poche possibilità ai propositi del riformatore.
Scielsi fra le Comedie in verso de l’Ariosto la Scolastica, come la meno libertina, e con qualche alterazione, cioè levandoci un frate, e sostituendo altro decente personaggio in sua vece, moderando lo scioglimento col sfugire uno stupro, e cambiandone in circa cento e cinquanta versi, la posi su la Scena nella città di Venezia dove mi trovavo; ma fu con tale sfortunato sucesso, che doppo una smoderata inquietudine de’ miei spettatori fu necessario di finirne la rapresentatione al principio de l’atto quinto.
I più sciochi del mio numeroso uditorio si credevano che la Scolastica fosse l’Orlando furioso travestito in Comedia, e la gioventù ancora più studiosa e colta non sapeva che l’Ariosto avesse mai fatto Comedie. A l’ora fu che giudicai disperato il rimedio (139).
Dopo la disavventura della Scolastica Lelio e Flaminia decidono di proseguire la loro sperimentazione scenica a Parigi, dove si trasferiscono su sollecitazioni del duca Antonio Farnese di Parma, per dare vita alla Compagnia comica del Reggente. Alcuni degli attori che hanno lavorato in questi anni con Lelio al Teatro San Luca continueranno a recitarvi, altri lo seguiranno.
Anche a Venezia, nella seconda parte del XVII secolo, s’afferma la pratica di una commedia d’ambientazione locale, che fa riferimento a modelli teatrali spesso distanti fra loro; si tratta della produzione «ridicolosa», a metà strada fra professione comica e dilettantismo, un fenomeno che, come in altre aree della penisola, ha un legame con la diffusione editoriale (140). I modelli tematici sono univoci; derivano dalla commistione tra il repertorio della commedia dell’arte e l’immissione di dati realistici, facilmente riconoscibili, soprattutto sul piano linguistico. L’intreccio è, infatti, semplice, immediato, e riprende lo schema degli scenari; si ripropongono dialoghi canonici a due e tre personaggi, valorizzando il contrasto tra i ruoli e tra i linguaggi. Lo sviluppo scenico s’affida interamente alla formazione comica tipo, con la preminenza delle maschere e della gerarchia interna. La vicenda s’organizza, spesso, intorno alla figura di Pantalone, che viene contrapposto per modo di ragionare al Dottore; i due Vecchi assumono, di fatto, il compito di motivare lo sviluppo dell’azione. La produzione, che sembra accostarsi al fenomeno della commedia «cittadina», già al tramonto per il progressivo svilupparsi delle composizioni regolari, prima, e delle rappresentazioni all’improvviso, dopo, recupera nel corso del XVII secolo la suggestione di un plurilinguismo, filtrato attraverso le invenzioni dei migliori comici dell’arte.
Giovanni Briccio, dilettante romano, è l’autore e l’animatore di un prototipo ridicolo ben riconoscibile oltre l’area di provenienza; Briccio non si limita alla stesura della commedia, ma cura anche le articolazioni interne, dalle canzonette alle tirate poetiche, e suggerisce già l’allestimento, dipingendo, spesso, le scene e producendo le incisioni illustrative. L’ampiezza della sua fortuna è confermata dopo la morte, avvenuta nel 1645, attraverso le edizioni a stampa diffuse in altre aree geografiche (141). Per questo scrittore, come per molti altri di tale repertorio farsesco, vale il rispetto della convenzione scenica, necessario per tutelare le gerarchie dei ruoli e rendere pertinente la trasgressione caricaturale, che si basa sull’inversione della morale comune. Il meccanismo derisorio ruota intorno alle figure dei vecchi, enfatizzando le loro manie, sfruttando la loro vanità e schernendo il valore dell’autorità paterna. La figura del Magnifico tende così a rientrare del tutto nella tipizzazione pantalonesca, esprimendosi in una lingua veneziana che mescola il «parlar colloquiale», i modi familiari, le convenienze civili, l’onorabilità sociale, il gergo mercantile, e che ingloba una particolare gestualità e un’espressione gnomica; il vocabolario si arricchisce, poi, di infrazioni verbali, invettive e litigi volgari, recuperando motti popolareschi e allusioni metaforiche (142).
Ne Il Pantalone imbertonao, ad esempio, una «ridicolosa» ambientata a Venezia che si sviluppa nell’arco di una giornata («comincia di giorno, e finisce la notte»), Briccio utilizza uno schema collaudato; gli «interlocutori» sono radunati nei due interni che accolgono lo sviluppo della vicenda. Nella «prima casa» si trovano Pantalone, suo figlio Tiburzio e il servo Zanni, nella seconda il «Coviello, Dottore Napolitano» e la figlia Olimpia. «Fora di scena», invece, posti nel territorio neutro della commedia, nello spazio della quotidianità, dove passa «un cestaruolo carico di robbe da mangiare», s’incontra Gratiano, il Dottore bolognese, un buffo mediatore che per contrasto pone in risalto le sventure del primo vecchio. Un altro personaggio esterno è Guglielmo Francese, fratello della Zenobia che il mercante veneziano pensava di sposare, prima di rimbecillire innamorandosi della giovane Olimpia; Guglielmo parla il raguetto, un italiano distorto sui timbri fonetici del francese. Fin dall’inizio, dunque, la maschera di Pantalone dispiega un esteso retroterra idiomatico, mentre s’avvale di un pensiero sentenzioso, che diviene una vera concezione del mondo.
Dise ben la veritae el proverbio, che tutti i pensieri no riesce, in somma no bisogna dir così farò, così farà, così la voio; perché madonna Fortuna, come quella che xe femena, e la tien el pe fora una balla. Hora chi averave mai credesto, che mi havesse da perder per moier Zenobia sorella del Francese, che mi la tenevo co se suoi dir in pugno? Zenobia che se mi giera tanto imbertonao in ella, ella de vantazo me voleva tanto ben à mi, Zenobia che ghe havea in fin toccao la man; dao la fede, appresentao l’Anello, che no ghe mancava nome quell’ultima cerimonia, che se sà, super cubiculum. Che te par Zuane de questa desgratia (143).
Quando tale letteratura teatrale si diffonde in area veneziana, ritrova sul piano tipologico alcune peculiarità proprie di quella commedia «cittadina» che si era sviluppata nella città lagunare a partire dal Cinquecento (144). Uno degli autori più significativi fra quanti s’incontrano nella seconda metà del XVII secolo è Domenico Balbi, che nella commedia Il Lippa overo el Pantalon burlao, scritta nel 1673, presenta la maschera del mercante veneziano in forma «honestissima» e «ridicolosa», ben congegnata sia per essere rappresentata, sia per essere letta (145). Il tema centrale, anche stavolta, è l’opposizione padre-figlio, il contrasto Vecchio-Innamorato, con l’aggiunta di un pregiudizio sociale, che da motivo di proibizione si tramuta in congegno farsesco: Pantalone, infatti, s’oppone decisamente all’amore tra Giacinto e Hippolita, figlia del calzolaio Bagattino. Fin dalla prima scena Balbi mette in moto un meccanismo di rappresentazione in medias res, che svela l’antefatto non attraverso il racconto, ma mediante l’azione scenica.
Al pari delle commedie rinascimentali, in cui la macchina della beffa è attuata dal famiglio, ruffiano e astuto consigliere, anche qui spetta a Bagolino il compito di manipolare la lettera con cui si stabiliscono le nozze di Giacinto con la figlia del romano «Macatrufolobordano Conzaossi e Braghierista Ducale». Per il furbo servitore, oltretutto, è in gioco la mano di Pandora, domestica di casa: perciò imposta un disegno registico che si basa sullo scambio, sul travestimento e sulla finzione, che poggia, dunque, su un procedimento di natura teatrale. La provocazione di Bagolino nei confronti di Pantalone, per il quale a tratti le trame del servitore divengono un pericolo occulto, un vero incubo, travalica il limite del contrasto fra maschera alta e maschera bassa. Il tracciato della commedia, più o meno consapevolmente, riunisce lezioni letterarie di derivazione cinquecentesca, soluzioni sceniche da opera premeditata e schemi rappresentativi all’improvviso (146).
Mentre la commedia degli Italiani tende a trasferirsi, ormai, sui palcoscenici d’Europa, nelle città della penisola i lazzi delle maschere scontentano i riformatori della scena e i censori dei costumi. A Venezia, poi, il mercato sembra lasciare uno spazio controllato alle compagnie di comici, sebbene non manchino le grandi attrattive stagionali; sulle pagine di «Pallade Veneta», inseriti fra le puntuali notizie sul mondo dell’opera, filtrano gli avvisi e le presentazioni del teatro recitato. In genere i riferimenti riguardano le compagini protette dai principi, quelle che godono già di un’ottima fama e di un consolidato prestigio (147). Intanto prosegue la pubblicazione di commedie «mimiche» di produzione veneta, soprattutto attraverso una collana editoriale, stampata dal libraio Domenico Lovisa, che tiene bottega «a Rialto in Ruga d’Oresi»; negli anni tra i due secoli il suo catalogo presenta una discreta varietà di titoli, legati immediatamente a pubblicazioni divulgative e d’utilità, a compendi di trattati scientifici e a manuali sulle arti meccaniche (148). Molte sono le varianti di genere, a partire dal modello tragicomico, che tanta fortuna ha sulle scene dell’Arte. Un anonimo lavoro del 1688, L’invidia in corte, propone uno schema da opera regia di soggetto spagnolesco, sulla scia della produzione di Giacinto Andrea Cicognini. Vi agiscono, infatti, regnanti e cortigiani, personaggi alti e maschere: fra queste s’incontrano il Dottor Scatolone, «Primo Consigliero di Salandro» re di Siviglia, Pantalone, «Maggiordomo», e Trufaldino, «Famiglio».
Fra gli scrittori di testi teatrali compresi nel catalogo Lovisa spicca Tommaso Mondini, che talvolta si firma con lo pseudonimo-anagramma di Simon Tomadoni; la sua fama è legata alla volgarizzazione in dialetto veneziano della Gerusalemme Liberata, stampata nel 1691 e riproposta parecchie altre volte dal libraio di Rialto e da altri editori (149). Accanto a Mondini agisce un altro commediografo di rilievo, Giovanni Bonicelli, anch’egli celato sotto il nome di Bonvicin Gioanelli, che insieme ad altri autori del repertorio veneziano fornisce una materia piuttosto ampia per comprendere il fissarsi di alcuni mutamenti nell’evoluzione di alcuni ruoli dell’Arte, individuabili soprattutto fra le maschere (150) Pantalone è la maschera intorno alla quale ruota la sperimentazione dei caratteri, senza peraltro uscire dai confini dello stereotipo linguistico. A giudicare dall’influenza che alcune di queste commedie esercitarono sulla drammaturgia successiva, a cominciare da quella di Goldoni, è probabile che tale repertorio sia approdato, proprio sul finire del XVI secolo, sui palcoscenici dei teatri veneziani e italiani (151).
Esaminando le formazioni che agiscono in questo scorcio di secolo a Venezia, si coglie una possibile corrispondenza fra i «recitanti» indicati nelle opere a stampa e la tipologia delle compagnie. Ciò non basta a provare il rapporto diretto, eppure non si può escludere che la permanenza stagionale di quegli attori abbia agevolato contatti e richieste di collaborazione con la cerchia dei dilettanti e dei poeti veneziani. Uno spunto interessante proviene, ad esempio, dall’ambito degli avvocati e dei procuratori, fra i quali era entrato in uso lo svolgere arringhe difensive in dialetto, caratterizzate dall’improvvisazione, dalla vivacità del contraddittorio e dal gesticolare marcato (152). Agisce nei teatri di Venezia, durante gli ultimi anni del Seicento, e segnatamente in un teatro dei Grimani, quasi certamente al San Samuele, la compagnia del duca di Modena di Giuseppe Antonio e Marta Fiala, che nel 1687 comprende oltre ai capocomici, nelle parti del Capitano Sbranaleoni e di Flaminia, il veronese Costantino Costantini, interprete dello Zanni Gradelino, Domenica Costantini, sua moglie, come Corallina, il Pantalone Girolamo Gabrielli, Giuseppe Milanta celebre sotto il nome di Dottore Lanternone, Bernardo Narisi nelle vesti dell’Innamorato Orazio e Domenico Parrino, napoletano, come Florindo. Tale quadro di parti si ripropone abbondantemente ne Le scioccherie di Gradellino di Tommaso Mondini, pubblicata da Lovisa nel 1689; la correlazione, però, pone qualche problema per l’identificazione di Finocchio, che è impersonato nel gruppo dei Fiala dal notissimo Giovanni Andrea Cimadori, ferrarese, fino al 1684, anno della sua morte, mentre non è possibile verificare da chi sia stato sostituito. La compagnia, però, si dimostra ben attenta a non lasciare vuoti nel suo organico, visto che proprio nel 1687 si sostituiscono il Pantalone e il Dottore, parti che dal 1675 erano sostenute da Antonio Riccoboni, padre di Luigi, e da Giuseppe Orlandi (153).
Nel Pantalone mercante fallito, invece, l’attenzione si sposta sul ruolo della maschera; l’intreccio coincide con un percorso dell’immoralità, perché vengono minate le caratteristiche civili della condizione mercantile. Pantalone sperpera il suo patrimonio con le donne. Il mercante innamorato, quand’è eccitato, canta; esprime un inattuabile desiderio che esula dalla consueta traccia scenica. Nel corso della commedia Pantalone, che finisce in prigione fra i malandrini, continua a manifestare sentimento e delusioni mediante le canzoni, impostate sull’aria del flon, un motivo diffuso in quel tempo; il lungo canto del Vecchio, rinchiuso dietro le sbarre, diventa una riflessione efficace e diretta su «quel Baron d’Amor, / Che xò per ogni lai I spande ’1 so suor / De sangue, e bezzi, e robba / Per qualche bon boccon» (III, 10). Il lamento si chiude con una richiesta d’assoluzione da una colpa che, forse, occorre comunque sperimentare. La soluzione finale positiva, resa possibile da una provvidenziale eredità proveniente dal fratello Tirondello, con la quale saranno risanati i debiti, accomuna Pantalone e Celio nella ritrovata saggezza di due mercanti traviati. Un aspetto rilevante è costituito dall’immissione nella commedia di elementi realistici e d’ambientazione veneziana: nel secondo atto l’autore definisce un itinerario cittadino (la Piazza, la Ruga), popolato dalle maschere e dai cortesani. Pantalone conduce Beatrice in gondola, con i musicanti, intonando ottave del «Goffrieddo del Tasso cantà alla Barcariola», proprio quello composto da Mondini, quando s’accende una zuffa con gli occupanti di un altro battello, una lite dai toni crudi, con insulti, minacce ed esibizione di pugnali, alla fine della quale il Vecchio precipita in acqua.
Il nesso fra scrittori veneziani e attori professionisti è, dunque, stabilito e continua, certamente, oltre la soglia del Settecento. Una commedia dal titolo Chi più sa manco sa, d’autore sconosciuto, viene rappresentata a Venezia il 6 agosto 1707; il lavoro poggia sulle maschere di Coviello e Fichetto. Tutto fa pensare che nei panni del servo napoletano recitasse Tommaso Ristori, impresario dell’Elettore di Sassonia; il comico risulta scritturato, con la sua compagnia, per un periodo di cinque anni a partire dal 1708, da Vettor Zane per il Teatro di San Moisè, ma di certo si esibisce sul palcoscenico del San Samuele
fra il 1711 e 1174 (154).
Oltre tali linee di tendenza, la scena del Settecento, attraverso un ininterrotto procedimento di recuperi e di trasformazioni, tende a modificare non solamente la sfera della creatività, il repertorio e la lingua artistica, ma ancor più la relazione fra palcoscenico e spettatori, fra committenti ed esecutori, fra la dimensione politica e quella rappresentativa.
1. Cf. Ludovico Zorzi, ll teatro e la città, "l’orino 1977; Mario Baratto, La commedia del Cinquecento, Vicenza 1975.
2. Lo statuto della Compagnia dei Sempiterni, stilato nel 1541, uno dei tre che ci sono giunti, insieme a quello dei Modesti (1487) e degli Accesi (1562), dichiara espressamente nel cap. XXXVII, che «ciascun compagno deve tenere secrete le cose della Compagnia». Per le vicende di tali congreghe cf. Lionello Venturi, Le Compagnie della Calza (sec. XV-XVI), «Nuovo Archivio Veneto», n. ser., 16, 1908, pp. 161-221, e 17, 1909, pp. 140-233. Inoltre, per l’intreccio fra spettacolo e dimensione iconografica a Venezia nel Quattrocento, cf. Ludovico Zorzi, Caspaccio e la rappresentazione di Sant’Orsola, Torino 1988, nel quale si comprende quale sia la funzione celebrativa delle Compagnie, a cui spesso la Repubblica demanda il compito di stabilire legami diretti con principi e titolati stranieri (pp. 102-104).
3. Pressappoco dalle sei di pomeriggio a mezzanotte.
4. Marino Sanuto, I diarii, XXXVII, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1893, coll. 559-560, riportato in L. Zorzi, Il teatro e la città, p. 301.
5. Cf. Giorgio Padoan, La commedia rinascimentale veneta (1433-1565), Vicenza 1982.
6. La lettera è citata da Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, II, Lo splendore, Bergamo 1928, pp. 406-407.
7. Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, ricorda questa figura nel suo canto carnascialesco Di Zanni e di Magnifichi, dove scrive: «Alfin voglianvi una benfatta e bella / prospettiva di nuovo far vedere, / là dove il Cantinella / e Zanni vi daran spasso a piacere» (in La commedia dell’arte. Storia e testo, a cura di Vito Pandolfi, I-VI, Firenze 1988: I, p. 168). È utile leggere la Lettera di M. Benetto Cantinella venetiano (ibid., pp. 134-135), perché sviluppa, come avviene con Ruzante nella Lettera all’Alvarotto, un discorso fra il realistico e il trasognato; il testo è compreso ne La ridiculosa gineologia de Zani e del Zanul.
8. Sulla «forma anticlassica» dello spazio veneziano, cf. Ludovico Zorzi, Intorno allo spazio scenico veneziano, in Venezia e lo spazio scenico, a cura di Manlio Brusatin, Venezia 1980, p. 90 (pp. 81-109).
9. Cf. Giuseppe Tassini, Feste, spettacolo, divertimenti, piaceri degli antichi veneziani, Venezia 1961 [1890], pp. 64-69.
10. Il brano, riportato in molti studi sui teatri veneziani, è tratto da Giorgio Vasari, Vita di Cristofano Gherardi, in Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, a cura di Gaetano Milanesi, VI, Firenze 1881, pp. 213-244. È utile confrontare la descrizione dettagliata contenuta nella lettera, inviata da Vasari a Ottaviano de’ Medici, nel 1542, riportata in Franco Mancini - Maria Teresa Muraro-Elena Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, Teatri effimeri e nobili imprenditori, Venezia 1995, pp. 59-62.
11. F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, p. 65.
12. Cf. Matteo Casini, I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia 1996, in partic. pp. 298-310.
13. Cf. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1581, p. 152.
14. Ibid. In merito all’episodio cf. Elena Bassi, Il convento della Carità, Vicenza 1971, pp. 129-131; Nicola Mancini, I teatri di Venezia, Milano 1974, pp. 15-19; F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, pp. 67-85.
15. Velma o barena, terreno paludoso semisommerso dall’acqua, spesso ricoperto da erbe e soggetto ai flussi della marea.
16. Il progetto di Alvise Cornaro è compreso fra le sue scritture di idraulica (A.S.V., Savi alle Acque, b. 989, nr. 4, cc. 23-25), trascritto in N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 26-29.
17. A Venezia viene stampato e ristampato innumerevoli volte L’idea del theatro, libro pubblicato postumo a Firenze nel 1550 del filosofo umanista, mago e cabalista, Giulio Camillo (1480-1544); nella città lagunare Camillo aveva realizzato, seppure in modo precario, la sua macchina della memoria. Cf., a tal proposito, Frances A. Yates, L’arte della memoria, Torino 1972, in partic. Il Teatro di Camillo e il Rinascimento veneziano, pp. 148-159; Manlio Brusatin, Arte della meraviglia, Torino 1986, in partic. Le macchine del mondo, pp. 67-79.
18. Il documento, conservato in A.S.V., Consiglio dei X, Misti, reg. 32, c. 55v, è pubblicato in Giovanni Sforza, F. M. Fiorentini ed i suoi contemporanei lucchesi. Saggio di storia letteraria del secolo XVII, Firenze 1879, pp. 793-794.
19. La lettera, datata 18 settembre 1610, è riportata nel volume Comici dell’Arte. Corrispondenze, a cura di Claudia Burattelli - Domenica Landolfi - Anna Zinanni, I, Firenze 1993, p. 98.
20. Giovan Battista Andreini, Le due commedie in commedia, in Commedia dell’arte, II, a cura di Siro Ferrone, Milano 1986, p. 43 (II, 3).
21. Ibid., p. 44 (II, 4). Più oltre, nella scena prima dell’atto quarto, tutti fanno l’elogio della nobiltà veneziana, pronta ad accoglierli e ad ospitarli; Fortunio, ad esempio, dichiara: «chi ne proferse aiuto di favori, chi palazzo per recitare, chi proprie stanze per alloggiare»; Leandro, l’attore giovane che interpreta il Prologo, dice rivolto ai compagni: «Di già vedete qui la lista di que’ nomi scritti di que’ signori nobili che vogliono commedia, che già sono al numero di cinque. Il signor Tribulo Menoli, in Calle delle Tette; il signor Momolo Grizzoli, a Ca’ Conciani; il signor Crocolo Fisoli, a Ca’ Marignani; il signor Tremolo Frigidi, in Corte Nevignana, e il signor Torbido Gattoli in Corte de le Scoazze. Sin ad ora questo principio è buono» (p. 64). Sia pure in modo parodistico la lista rinvia ad una passione teatrale diffusa e sentita.
22. Ibid., pp. 46-47 (II, 6); zafi sono detti gli sbirri, zafar vale per «arraffare, prendere, trascinare»; star in Apoline, «star in Apollo, banchettare lautamente».
23. Nel 1577, ad esempio, l’autorevole Zaccaria Contarini s’impegna perché il senato non abroghi il decreto che espelle gli «istrioni». Nel 1581 Agostino Barbarigo convince il consiglio dei dieci a revocare la «licentia di recitar comedie», colme di «parole lascive et inoneste», a beneficio della salvezza spirituale, «vedendosi che in questa città non solamente vien dato ordinario ricetto alli comedianti, ma che li sia stato fabricato più d’un loco per recitar le loro inonestissime comedie»; si ammette soltanto la possibilità al doge e allo stesso consiglio di concedere una deroga per quelle «che sono recitate da persone mercenarie» (cf. A dì detto. In Consiglio di X, 25 settembre 1581, in A.S.V., Comune, reg. 36, c. 9, in G. Sforza, F. M. Fiorentini, pp. 798-799). Cf. Gaetano Cozzi, Appunti sul teatro e i teatri a Venezia agli inizi del Seicento, «Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano», 1, 1959, p. 188 (pp. 187-192); Cozzi sottolinea la grande influenza che ha la Compagnia di Gesù sulle «coscienze dei maggiori senatori della Repubblica».
24. Il diario di Girolamo Priuli, ms. del fondo ex-Foscarini (Wien, Österreichische Nationalbibliothek, cod. 6229, c. 307v), è citato in G. Cozzi, Appunti sul teatro, p. 189. La nota è riportata da N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 34.
25. Una testimonianza iconografica di tale pratica è data da una incisione di Alessandro Caravia, Il Naspo bizzarro (1565): cf. F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, p. 152.
26. Thomas Coryat, Coryat’s Crudities Hastily Gobled Up in Five Moneths Travells in France, Savoy, Italy [...], London 1611, trad. it. in Augusto Guidi, La civiltà elisabettiana, Milano 1962, pp. 102-103.
27. F. Sansovino, Venetia città nobilissima, p. 175.
28. Lettera di Francesco Andreini al duca Vincenzo Gonzaga, Ferrara, 13 aprile 1583, in Alessandro D’Ancona, Origini del teatro italiano, II, Torino 1891 (riprod. anast. Roma 1971), p. 484. Per ulteriori notizie sul teatro cf. F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, pp. 90-95.
29. Cf. La commedia dell’arte. Storia e testo, II, pp. 252-253.
30. Cf. Cesare Molinari, La commedia dell’arte, Milano 1985, pp. 133-150; Siro Ferrone, Attori mercanti corsari. La commedia dell’arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino 1993.
31. Cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 35.
32. Si riferisce al destinatario della lettera, Enzo Bentivoglio di Ferrara. La lettera è pubblicata in Comici dell’Arte. Corrispondenze, p. 272.
33. Viene pubblicata presso Giovan Battista Pulciani nel 1611, con dedica al marchese Riario Flavio. A proposito dei canovacci dell’Arte, diffusi a Venezia, cf. Gli scenari Correr. La commedia dell’arte a Venezia, a cura di Carmelo Alberti, Roma 1996.
34. La lettera è spedita a don Giovanni, che si trova a Venezia, da Bologna il 29 ottobre 1619 (Comici dell’Arte. Corrispondenze, pp. 557-558). La «Florinda» qui citata è Virginia Ramponi, che guida insieme al marito Giovan Battista Andreini i Fedeli. Cf. nel carteggio di Scala le numerose missive inviate al suo signore, o ad altri intestatari, e relative a Venezia (ibid., pp. 451-587).
35. La lettera (Firenze, Archivio di Stato, Carte Alessandri, filza 7, c. 105r-v) è pubblicata integralmente in S. Ferrone, Attori mercanti corsari, pp. 331-332.
36. La Compagnia dei Confidenti, nel 1614, comprende, seppure in maniera fluttuante, i seguenti comici: Giovan Battista Austoni, Battistino; Salomè Antonazzoni, Valeria; Francesco Antonazzoni, Ortensio; sua moglie Marina Dorotea, Lavinia; Domenico Bruni, Fulvio; Marc’Antonio Romagnesi, Pantalone; Ottavio Onorati, Mezzettino; Francesco Gabrielli, Scapino. Cf. ibid., pp. 124-125 n. 4.
37. La lettera (Firenze, Archivio di Stato, Carte Alessandri, filza 7, c. 109r-v) è pubblicata integralmente in S. Ferrone, Attori mercanti corsari, pp. 332-333.
38. La lettera di Lorenzo Giustinian a Cosimo Baroncelli del 15 febbraio 1613 m.v. (Firenze, Archivio di Stato, Carte Alessandri, filza 7, c. 109r-v) è pubblicata in S. Ferrone, Attori mercanti corsari, p. 334.
39. Lettera di Camillo Sordi ad Annibale Iberti, da Venezia, 16 dicembre 1613 (Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1545), in S. Ferrone, Attori mercanti corsari, p. 328.
40. Lettera di Alvise Donato al duca di Mantova, da Venezia, 28 dicembre 1613, ibid., p. 330.
41. Lettera di Alvise Donato al duca di Mantova, da Venezia, 13 gennaio 1613 m.v., ibid., p. 331. La precedente lettera è invece del 4 gennaio (ibid., pp. 330-331).
42. Silvio Fiorillo, Li tre capitani vanagloriosi, Napoli 1621 (in La commedia dell’arte. Storia e testo, III, p. 177).
43. Cf. S. Ferrone, Attori mercanti corsari, in partic. il cap. IV, Don Giovanni impresario, pp. 137-190.
44. Si tratta di una copia del contratto, conservato a Venezia, Archivio Giustinian Recanati, misc. IV, nr. 1, trascritto in F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, p. 185.
45. Il documento, infatti, è firmato dalla compagnia con la seguente formula: «In fede di ciò tutti si sottoscriveranno di proprio pugno. Io Marcantonio Carpiani detto Orazio affermo et prometto quanto si contiene nel presente scritto. Io Giovanni Serio Cioffo detto Citrulo affermo quanto sopra. Io Bartolone Marzano [?] detto el Capitan Terremoto affermo et prometto quanto si contiene nel presente scritto. Io Antonio Cortese detto Bagoglino affermo ut sopra. Io Alvise Zane detto Pantalone affermo ut sopra. Io Domenico Quaian detto Stoppino affermo. Io Franc’Antonio Demasi [de Mase] detto Fabrizio affermo ut sopra» (ibid.). A proposito di Capitan Terremoto, Bartoli, biografo dei comici, cita un Francesco Manzani, specializzato in tale parte, che agisce intorno al 1655 (cf. Francesco Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani, I-II, Padova 1781-1782 [riprod. anast. Bologna 1978]: II, pp. 19-20).
46. Lo cita, fra gli altri, Silvio Fiorillo in una lettera da Venezia del 3 aprile 1626, in cui dichiara: «per non rimaner io senza compagnia, perché era di già tutta formata, et non essendo io obligato a nessuno, come per le mie mandate a Mantova si può vedere, per ultimo reffrigerio serrai compagnia col signor Oratio Carpiano, sapendo egli ch’io non havevo ad altri promesso. E più per la necessità ch’io havevo per soccorer la mia povera famiglia in Napoli, mi fece prestare da lui ducatoni quaranta per me e per mio figlio, e subito li mandai alli miei poveri figl[iuo]li in Napoli. Sì che, signor illustrissimo, io mi trovo gravemente agravato per la lettera mandatami, poiché oltre li minacci mi ha confusa la mente con dirmi ch’io habbi promesso al serenissimo patrone. E vero ch’io altre volte con li favori dell’Altezza Sua senza promissione sono stato più d’una volta pronto al venire, e più che prontissimo al servire, perché non vi era all’hora l’obligo promesso ad alteri, né delli denari ricevuti ad imprestanza (delli quali di ogni cosa si tratta eccetto che di quelli), né delli quarti che si vogliono tirrare il signor Fertilino [si riferisce al Frittellino Pier Maria Cecchini] et la signora Flaminia [...]; et lasciando noi il detto Carpiano, gli sarebbe infinito danno, poiché essendo di già formate tutte le compagnie non haverebbe dove dar di piglio, et si ritrova ad haver speso persino al n[umer]o in circa di ducatoni cento, parte prestati et parte spesi per negotio di compagnia, et lui tienne una grossa famiglia [...]» (Comici dell’Arte. Corrispondenze, pp. 342-343). Lo stesso tono di comprensione si riscontra nella supplica che Carpiani invia pochi giorni dopo a Ercole Marliani, segretario di Vincenzo Gonzaga, il probabile interlocutore della lettera di Fiorillo; il comico invita «ad haver occhio alla mia innocenza, e con pietà considerare ch’io non saprei campare i miei poveri figlioli et la mia povera famiglia se questi compagni mi fossero levati, ai quali anche ho prestato molti denari sino alla somma di cento ducatoni [...]» (Lettera da Venezia, 11 aprile 1626, in Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1557, c. 1, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, pp. 344-345).
47. Ibid., pp. 140-141. L’ambasciatore della Repubblica qui ricordato potrebbe essere Marc’Antonio Correr, oppure Angelo Contarini, inviati a Londra per porgere il cordoglio del governo veneziano per la morte di Giacomo I e per rendere omaggio al nuovo re Carlo I Stuart (cf. Le relazioni degli stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, I-VII, a cura di Nicolò Barozzi - Guglielmo Berchet, Venezia 1856-1877: IV, Inghilterra, pp. 291-292). Giovan Battista Andreini recita sul palcoscenico del San Moisè nel 1623, come informa una nota manoscritta (Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2991 /II, c. 26), che lo dice autore di un Prologo per recitare nel teatro di Luigi Giustiniano.
48. G. Cozzi, Appunti sul teatro, p. 189.
49. Contratto fra la famiglia Vendramin e i comici Accesi, in Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 16/4, cc. 10-11 (ora anche in N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 49-50, e in F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, p. 261). Gli attori firmatari sono: Pier Maria Cecchini Frittellino, la moglie Orsola Posmoni Flaminia, Giacomo Antonio Fidenzi detto Cinthio, Geronimo Chiesa detto il dottor Violon, Domenico Negri detto Curzio, Francesco Cecchi [?], il Pantalone Andrea Maldotti, Giovanni Serio Cioffo detto Citrullo, Francesco Antonio De Masi detto Fabritio, Giovan Battista Zecca Cassandro, la moglie Livia in arte Franceschina.
50. Cf. Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 1/4, cc. 1-2, 1° maggio 1635; il valore del San Moisè era stato fissato in 500 ducati.
51. Cf. ibid., cc. 8 ss., 28 e 29 novembre 1624.
52. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 32, c. 111, pubblicato in G. Sforza, F. M. Fiorentini, pp. 803-804.
53. Gaetano Cozzi, Venezia barocca. Conflitti di uomini e di idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, p. 237; ma cf. anche tutto il cap. dedicato a Il dogado e la morte di Nicolò Contarini, pp. 229-245.
54. La lettera di Codebò è conservata a Modena, Archivio di Stato, Carteggio estero - Venezia, b. 95, pubblicata in G. Cozzi, Appunti sul teatro, pp. 190-191; ora anche in F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, p. 262.
55. Cf. C. Molinari, La commedia dell’arte, pp. 138-139; cf, inoltre, nonostante le imprecisioni, Luigi Rasi, I comici italiani. Biografia, bibliografia, iconografia, I, Firenze 1905, pp. 957-966.
56. La commedia dell’arte. Storia e testo, IV, pp. 117-118. Vito Pandolfi pubblica, poche pagine prima (ibid., pp. 111-117), Infermità, testamento e morte di Francesco Gabrielli detto Scappino. Composto e dato in luce à requisitione de gli spiritosi ingegni. Con l’intavolatura della Chitarriglia Spagnola, sue Lettere e Chiaccona, in Verona, Padoa et in Parma 1638, una preziosa «aria» che esalta le abilità artistiche dell’attore.
57. Cf. Cristoforo Ivanovich, Minerva al tavolino, lettere diverse di Proposta, e Risposta à vari Personaggi, sparse d’alcuni componimenti in Prosa, e in Verso; con Memorie teatrali di Venezia, Venezia 16882 [1681]. La seconda edizione della Minerva è stata ristampata a cura di Norbert Dubowy (Lucca 1993); nonostante le rilevate contraddizioni e gli sbagli di cronologia, quella di Ivanovich resta una testimonianza di una mentalità che coniuga l’affermarsi del gusto teatrale con l’esaltazione del buon governo di una Repubblica nota per l’oculatezza della propria protezione. Occorre, comunque, tenere in considerazione che Ivanovich giunge a Venezia nel 1657.
58. Ibid., p. 377.
59. Cf. ibid., pp. 371-382.
60. Ibid., pp. 390-391.
61. Cf., a proposito della datazione, F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, pp. 100-102.
62. Una notizia breve in tal senso è compresa nel Sommario degli avvenimenti accaduti nella parrocchia di S. Cassiano, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3234, nr. 6, «Teatro Tron ridotto in cenere».
63. Fascicolo di «referte» di Agostino Rossi, in A.S.V., Inquisitori di Stato, b. 628, cc. n.n., in data 16 dicembre 1633, in F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, p. 130.
64. Ibid., p. 131.
65. Lettera di Enzo Trenti al Duca di Modena, Venezia, 20 dicembre 1633, in L. Rasi, I comici italiani, I, p. 593.
66. A.S.V., Consiglio dei X, reg. 150, c. 198, 1636, 2 maggio; pubblicata in Remo Giazotto, La guerra dei palchi, «Nuova Rivista Musicale Italiana», luglio-agosto 1967, nr. 2, p. 253 (pp. 245-286).
67. Cf. Giovanni Morelli - Thomas R. Walker, Tre controversie intorno al S. Cassiano, in Venezia e il melo-dramma nel Seicento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze 1976, pp. 97-120.
68. Cf. Elena Povoledo, Una rappresentazione accademica a Venezia nel 1634, in Studi sul teatro veneto fra Rinascimento ed età barocca, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze 1971, pp. 119-169. Sull’importante stagione delle accademie, cf. Gino Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Milano 1978; Id., Le Accademie, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 142-153 (pp. 131-162). Dalle accademie e dalla passione per l’esercizio culturale passano le sperimentazioni del poema narrativo, del romanzo, della tragedia e del melodramma veneto, i cui sviluppi non possono essere disgiunti da una più generale modificazione dello stile e delle mode; né si dimentichino episodi d’influenza di intellettuali e di movimenti letterari, a cominciare da Gian Battista Marino, nel corso del suo soggiorno veneziano, fino a Gian Francesco Loredano e all’Accademia degli Incogniti: cf. Guido Baldassarri, «Acutezza» e «Ingegno»: teoria e pratica del gusto barocco, ibid., pp. 223-247; Ginetta Auzzas, Le nuove esperienze della narrativa: il romanzo, ibid., pp. 249-295. Forse non si riferisce espressamente alla messinscena del Solimano, ma ad altri eventi privati, avvenuti in precedenza, il gesuita Gian Domenico Ottonelli. Esprimendo un atteggiamento non univoco nei riguardi del teatro, nel voluminoso trattato Della Christiana Moderatione del Theatro, e condannando con fermezza le «comedie mercenarie», il padre sottolinea ad un tempo come le rappresentazioni accademiche vengano «fatte con grande spesa», perciò non si può giustificare — come fa Nicolò Barbieri, in arte Beltrame, ne La Supplica. Discorso (Venezia 1634) — alcuna commistione fra mestieranti e nobili dilettanti; l’eccesso di «prodigalità» non corrisponde mai all’oscenità dei commedianti. «È ben vero che alle volte si fanno in alcune città da’ signori accademici certe rappresentazioni, molto stimate per le musiche dolcissime, per le machine artificiosissime e per le bellissime apparenze di grande ammirazione, nelle quali se bene la spesa non è piccola, nondimeno si restringe tra’ confini della necessità; e però non sono stimate oggetto degno della teologica censura, né della predicatoria ammonizione. E di questa sorte intendo che alle volte si fanno bellissime rappresentazioni nella serenissima città di Venezia, alle quali chi va, paga per l’ingresso non poche gazzette come alle mercenarie, ma prezzo assai maggiore, e corrispondente alla nobiltà e magnificenza dell’azzione e del pomposissimo apparato» (Libro II, detto la Soluzione de’ Dubbi, punto duodecimo, in Ferdinando Taviani, La commedia dell’arte e la società barocca, I, La fascinazione del teatro, Roma 1969, p. 415).
69. Cf. a tal proposito, il saggio di Giovanni Morelli nel presente volume.
70. C. Ivanovich, Minerva al tavolino, p. 392.
71. Ibid., pp. 393-394.
72. Cf. Lorenzo Bianconi - Thomas R. Walker, Dalla Finta pazza alla Veremonda: storie di Febiarmonici, «Rivista Italiana di Musicologia», 10, 1975, pp. 379-454.
73. Majolino Bisaccioni, Il Cannocchiale per la Finta Pazza. Drama dello Strozzi, Venezia 1641, riportato in F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, p. 351.
74. Ibid., p. 343. Dai capitolati d’intesa risultano condizioni disagevoli per il teatro, quindi è comprensibile se poi le trasgressioni abbiano provocato una lunga disputa.
75. Tra gli Avvisi e notizie dall’estero dell’Archivio Segreto Estense di Modena, Venezia, 28 dicembre 1647, si legge: «Benché l’uso di questa città sia di cominciarsi l’allegrie carnevalesche il giorno doppo il S. Natale, tuttavia quest’anno conforme gl’altri anni da che è cominciata la guerra col Turco, sono state prohibite, e particolarmente le maschere, non parendo che ci sia materia di far simili dimostrazioni, né tali spese inutili» (b. 5194; riportato in L. Bianconi - T.R. Walker, Dalla Finta pazza alla Veremonda, p. 416 n.).
76. Cf. Paolo Fabbri, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera nel Seicento, Bologna 1990, in partic. cap. II, L’approdo a Venezia (pp. 69-146; segnatamente, L’elemento comico, pp. 84-104, Gli Incogniti, pp. 104-113) e cap. III, Il teatro veneziano del pieno Seicento, pp. 147-244.
77. Cf. L. Bianconi - T.R. Walker, Dalla Finta pazza alla Veremonda, pp. 425 ss.
78. N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 30.
79. Cf. ibid., pp. 56-61; inoltre, F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, pp. 294-321.
80. Cf. F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, I, pp. 362-378.
81. Cf. ibid., pp. 379-435.
82. Cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 73-76; inoltre, Franco Mancini - Maria Teresa Muraro - Elena Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia e il suo territorio, II, Imprese private e teatri sociali, Venezia 1996, pp. 3 ss.
83. C. Ivanovich, Minerva al tavolino, p. 401. In occasione dell’apertura del teatro il canonico rivolge un sonetto laudatorio, pubblicato all’inizio delle Memorie, dedicate «All’Eccell. de’ Gio. Carlo, e Vincenzo Abbate Fratelli Grimani». Per le vicende di questo teatro cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 77-83; inoltre, F. Mancini - M. T. Muraro - E. Povoledo, I Teatri del Veneto, Venezia, II, pp. 63 ss.
84. L’espressione si riferisce ad un passo del diario di viaggio di Nicodemus Tessin junior, in cui viene descritta la rappresentazione di Carlo il Grande, libretto di Adriano Morselli, musica di Domenico Gabrieli, eseguita al San Giovanni Grisostomo nel 1688: «La mutazione più bella che ho visto in questo teatro fu quella per cui la splendida camera illuminata fu trasformata in una grotta spaventosa; una cosa molto meravigliosa a causa della grande diversità dei due scenari; la scena era illuminata sia dall’alto che da dietro le quinte e rischiarata in maniera eccellente con colore verde, giallo e bianco [...]. La cosa più sorprendente e più difficile che sia stata mostrata quanto a mutazioni di scene in questo teatro fu quando venne calato dall’alto l’intero scenario (contenuto entro il primo interscenio) insieme con un palco tutto nuovo con gente e cavalli vivi, che era una cosa assolutamente sorprendente ed inconcepibile» (in N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 83, dove si cita il passo nella traduzione di H. Zielske).
85. Luigi Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe, Paris 1738 (riprod. anast. Bologna 1969), p. 35. Il libretto dell’opera è di Girolamo Frigimelica Roberti, la musica di Carlo Francesco Pollarolo.
86. Ibid., p. 30. Si tratta del dramma musicale Catone Uticense di Matteo Noris.
87. Cf. Benedetto Marcello, Il teatro alla moda, a cura di Andrea d’Angeli, Milano 1956. Il quadro catastrofico conseguente alla carenza di «verisimiglianza» ha come esempio estremo il comportamento dei virtuosi, che l’ironica amarezza censoria di Marcello evidenzia in molti punti del suo libello: «Sino che qualche personaggio recita seco o canta l’arietta, saluterà la Virtuosa moderna (come si è detto di sopra al Musico) le maschere ne’ palchetti, sorridendo col maestro di cappella, co’ suonatori, comparse, suggeritori, etc., ponendosi dopo il ventaglio al viso, perché si sappia dal popolo esser ella la Sig. Giandussapelatutti, non già l’imperatrice Filastrocca che rappresenta, il cui carattere maestoso potrà poi conservarlo fuori del teatro» (p. 39).
88. Cf. Relazione delle Feste offerte in Venezia a S. M. Federico IV re di Danimarca e di Norvegia, in Giustina Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, II, Venezia 1852, pp. 92-120. Come sottolinea la nobile Renier il desiderio della Repubblica di palesare al meglio l’«alta considerazione» nel riceverlo, forse per onorare la sua azione riformista culminata nell’«abolizione della schiavitù della gleba», contrasta con il disagio di decretare nuove imposte per reperire i fondi necessari; giungendo in incognito il sacrificio è sopportato soltanto dalla nobiltà lagunare. Cf. Carmelo Alberti, La scena veneziana nell’età di Goldoni, Roma 1990.
89. G. Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, pp. 99-101. La cronaca di Giustina Renier Michiel registra una seconda visita teatrale la sera successiva al San Cassiano «ad udire il dramma l’Engelberta, lavoro dell’immortale Apostolo Zeno, che avealo mandato a stampa con una Dedica allo stesso Federico IV degna di entrambi. La musica fu di Francesco Gasparini. È inutile il dirsi che il teatro fu superbamente illuminato e pieno di gente. Lo stesso avvenne quando fu anche all’Opera di Sant’Angelo, dove gli fu egualmente dedicato il Dramma» (p. 101). Le annotazioni redatte da Giustina Renier Michiel datano più di un secolo appresso, ma le abitudini teatrali veneziane non sembrano essere mutate rispetto a quelle descritte nelle cronache e nei resoconti coevi. Rimane quel senso di «meraviglia senza pari» che tanto attrae i viaggiatori stranieri. I resoconti degli informatori testimoniano di continuo il prolungarsi del privato dentro e oltre l’edificio teatrale; un attivo confidente degli Inquisitori, Bernardino Garbinati, assiduo frequentatore dei teatri, non allenta neppure durante la permanenza del re di Danimarca la sua vigilanza, rivolta in questo caso alle galanterie e alle gelosie dell’ambasciatore principe Ercolani e di sua moglie (cf. A.S.V., Inquisitori di Stato, b. 634, trascritta in Taddeo Wiel, I teatri musicali veneziani del Settecento, Venezia 1897, pp. LIII-LIV). Cf., inoltre, Alberto Tenenti, Venezia e il Veneto nelle pagine dei viaggiatori stranieri (1650-1790), in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, pp. 557-578. Tenenti sottolinea come nella «visione» di Venezia coesistano il desiderio di una scoperta e il sogno dell’incontro.
90. Scrive Giustina Renier: «Le lagune si coprirono di un ghiaccio sì solido, che si andava e veniva a piedi da Mestre impunemente», dando la possibilità d’introdurre «furtivamente», senza gabella, merci d’ogni genere (cf. G. Renier Michiel, Origini delle feste veneziane, pp. 106-107). «Non cessavano gli altri piaceri ad onta del freddo. I balli, i teatri, le cene, il ridotto si succedevano alternativamente [...]. Il giorno 31 gennaio fu quello assegnato al cav. Francesco Morosini di san Canzian per dare la prima festa. Sventuratamente il vento e la neve impedirono di potervi godere di que’ magnifici apparecchi, che la struttura e la vastità di quel palazzo avea fatto immaginare. La graziosa illuminazione del giardino, che divideva gli appartamenti, non poté ottenere il suo effetto [...]» (pp. 107-108). «Il 5 febbraio il cav. Nani preparò la sua festa alla Giudecca [...]. La notte fu una delle più burrascose, nondimeno vi ebbe un concorso immenso di persone [...]; ma le osservazioni del Re specialmente caddero sullo sforzo delle cere, e sullo sfoggio immenso di argenteria. Ogni camera aveva un numero proporzionato di lampadari d’argento pendenti dal soffitto; alle pareti erano attaccati quantità di braccialetti pur d’argento e molti lumi. Sopra ogni tavoljere v’erano grandissimi vasi d’argento ripieni di freschi fiori olezzanti. Ad ogni angolo di ciascuna camera eravi una grande stufa d’argento, che là dentro cambiava in primavera il rigidissimo inverno» (p. 108). «Giunto il giovedì grasso, il Re bramò di assistere alle feste popolari che in quel dì celebravansi. A tale oggetto in una delle sale del palazzo ducale gli si apprestò un gabinetto chiuso da invetriate [...] e la sera al teatro, girando per i palchetti, non cessava di parlare del piacere che vi avea trovato» (pp. 108-109). «L’ultima domenica di carnevale era il giorno solitamente destinato per la caccia de’ tori; ma perché S. M. era solita nella sera di domenica di dare in casa sua un trattenimento, fu data la caccia nel precedente sabbato [...]. Sua Maestà fu pregata dal procurator Morosini di voler assistere allo spettacolo nella sua procuratia; e per render questa più vasta e più comoda, aperse una comunicazione colla contigua del procurator Pietro Contarini. L’invito fu generale, e la sera si aperse un festino che riuscì brillantissimo e magnifico. Il deputato cav. Dolfin aveva fatto il suo invito a S. M. per il giorno 11 febbraio. Ma il suo palazzo non era fornito di troppa spaziosa sala. Che fa egli? Ricopre tutta la corte interna del palazzo; costruisce una sala di legno ben solida, e la mobiglia colla massima magnificenza ed il miglior gusto. Questa univa dieci camere tutte illuminate a giorno, e nelle quali trovavansi differenti concerti di musica, di maniera che passavasi da uno all’altro luogo trovandosi sempre un piacere variato e interessantissimo. I Veneziani non riconobbero più quella casa, e credettero di trovarsi in un palazzo di Fate» (pp. 109-110). «Il cav. Francesco Morosini [...] fece il suo invito a Sua Maestà per la sera del 19 febbraio. E perché in questi giorni cadeva molta neve, e faceva gran vento, così fece egli costruire una strada tutta coperta, che dal canale grande arrivava sino alla porta del suo palazzo [...]. Come poi descrivere quella che abbagliava in tutto quello spazioso palazzo? Come dipingere la bellezza, la ricchezza de’ fornimenti di ogni camera? I drappi tessuti in oro, i velluti vergati pur d’oro, la quantità di argenteria sparsa per ogni dove, infine tutto faceva conoscere che trovavansi in una delle più ricche case di Venezia» (p. 112).
91. Ibid., p. 110.
92. Cf. C. Ivanovich, Minerva al tavolino, pp. 425-427.
93. Cf. i saggi compresi nel volume AA.VV., Antonio Vivaldi. Teatro musicale, cultura e società, Firenze 1982; in partic., Lorenzo Bianconi, Condizione sociale e intellettuale del musicista di teatro ai tempi di Vivaldi, pp. 371-388; Giovanni Morelli, Morire di prestazioni. Sulla condizione intellettuale del musicista (teatrale, al tempo di Vivaldi), pp. 389-414; Piero Weiss, Teorie drammatiche e «infranciosamento»: motivi della riforma melodrammatica nel primo Settecento, pp. 273-296.
94. Ancora una volta ci s’affida al patrocinio di Atena, per la doppia natura di dea saggia e bellicosa, ma stavolta il modello è il coevo «Mercure Galant» (Paris 1672). Per la ricostruzione delle vicende editoriali e per un’ampia scelta antologica di questa rivista cf. Eleanor Selfridge-Field, Pallade Veneta. Writings on Music in Venetian Society, 1650-1750, Venezia 1985.
95. Ibid., p. 135.
96. Cf. Mercedes Viale Ferrero, La scenografia del ’700 e i fratelli Galliari, Torino 1963; Franco Mancini, Alcune note sul rapporto sala-scena nel teatro all’italiana, in Venezia e il melodramma nel Settecento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze 1978, pp. 9-21. Sui rapporti di scambio che in occasione di questa rappresentazione s’instaurano fra i Grimani e il duca Vittorio Amedeo II di Savoia, in visita nella città lagunare, cf. Mercedes Viale Ferrero, La scenografia dalle origini al 1936, in AA.VV., Storia del Teatro Regio di Torino, III, Torino 1980, pp. 44 ss.
97. E. Selfridge - Field, Pallade Veneta, p. 138.
98. Ibid., p. 140.
99. Cf. Ludovico Zorzi, La crisi del melodramma alla fine dell’età barocca, in L’attore, la commedia, il drammaturgo, Torino 1990, pp. 295-305.
100. Cf. G. Morelli, Morire di prestazioni, p. 410.
101. Cf. ibid., pp. 392-395: «Vincenzo Grimani, prima abate e poi bandito, e poi cardinale e quindi viceré, librettista di Händel, durante un trentennio di attività miste di impresa teatrale e di approcci storici a una specie di Risorgimento nazionale sotto il segno dell’aquila bicipite d’Asburgo [...]» (p. 393).
102. E. Selfridge-Field, Pallade Veneta, pp. 146- 147.
103. Cf. Gino Damerini, Cronache del Teatro Vendramin. Storie di attori, «Il Dramma», 298, 1961, pp. 41-43; R. Giazotto, La guerra dei palchi, pp. 926-929; N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 54.
104. Nel numero di gennaio 1688 di «Pallade Veneta» si può leggere: «Nel nobilissimo teatro Vendramino, detto di San Luca, festeggia su le scene Il Giordano fra ricche e vaghe mutanze di prospettive, di stanze terrene, disegnate et ornate con maestria. Villaggi, e piazze, cortili, saloni, gallerie, mura di città irrigate da fiumi, e finalmente con vaghezza e comparse tali che fanno conoscere la generosità di chi lo possiede» (E. Selfridge-Field, Pallade Veneta, p. 204).
105. Francesco Silvani, librettista attivo al San Salvatore nelle due stagioni del 1699 e del 1700, di cui vengono rappresentati tra l’altro L’innocenza giustificata, La fortezza al cimento, Il duello d’amore e di vendetta, nelle prefazioni di alcuni drammi sembra confermare, oltre la formula di rito, il consenso del pubblico verso il repertorio di questo teatro. Scrive Silvani nell’avviso al lettore de La pace generosa. Dramma per musica da recitarsi nel famoso Teatro di S. Salvatore l’anno 1700: «Dopo una prova così grande della tua bontà, che m’hai data nell’aggradimento, con cui hai ricevuto il mio Drama comparso al principio di Carnovale sovra le Scene, io hò concepito una grande Speranza per questa mia nuova fatica [...]. I grandi Attori, che sosterranno le parti di questo Dramma sono in possesso delle tue partialità, onde m’è lecito sperare continuate la frequenza del Teatro».
106. Cf. Matteo Noris, Lettore mio, introduzione a L’odio e l’amor. Drama per musica da rappresentarsi nel Famosissimo Teatro Grimani in S. Gio. Grisostomo l’anno 1703, Venezia 1703. Noris lo definisce il «grande e famosissimo, e glorioso Teatro Grimano in S. Gio. Grisostomo, Scena delle meraviglie, Teatro degli stupori, e Campidoglio musicale». Il poeta conclude il suo invito con questa frase: «Vieni, e compatisci di nuovo, ch’io ti lascio, chiamato in Parnaso da Apollo a comporre una tal comedia di maschere. Stà sano». Sulla famiglia Grimani e sulle vicende del San Giovanni Grisostomo cf. l’importante studio di Sylvie Mamy, Il teatro alla moda dei rosignoli. I cantanti napoletani al San Giovanni Grisostomo («Merope», 1734), in Apostolo Zeno - Domenico Lalli - Geminiano Giacomelli, La Merope, Milano 1984, pp. VIII-XI.
107. Di sicuro tornano a recitare al San Samuele nel gennaio del 1687, quando li vede all’opera Massimiliano Emanuele, Principe Elettore di Baviera, che li scrittura a partire dal primo ottobre dello stesso anno fino all’ottobre 1691. Fanno parte della compagnia altri attori di valore; vi sono Bernardo e Angela Bonifaci, Francesco e Giovanna Balletti, Vittorino d’Orsi e la moglie Giovanna, detta Spinetta, Domenico Orsatti, il Brighella Domenico Bononcini, e Ambrogio Brollio (cf. L. Rasi, I comici italiani, I, pp. 542-547). Luigi Riccoboni ritiene che più tardi entri a far parte di questa compagnia l’attore romano Pietro Cotta, detto Celio, che recitava «très-souvent» il Pastor fido di Guarini, l’Aminta di Tasso e l’Aristodemo di Carlo de’ Dottori; quest’ultima tragedia in versi venne rappresentata per la prima volta da Cotta a Venezia, con ogni probabilità al San Luca, intorno al 1690. Riccoboni, che pensa a Celio sempre con gratitudine per essere stato il suo vero maestro, ricorda come l’attore avvertisse il pubblico «qu’il n’y avoit point d’Arlequin dans la Pièce, que le sujet de cette Tragedie étoit très-touchant, que la représentation leur arracheroient les larmes»; insomma, preparava gli spettatori alla visione di una tragedia, un genere al quale non erano più avvezzi (cf. Luigi Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien, Paris 1728 [riprod. anast. Bologna 1969], p. 77).
108. Cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 54; i documenti sono conservati a Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 16/1, c. 11; 42 F 1/1, cc. 1-2.
109. Zeno e Pariati curano, tra l’altro, Griselda (1701), musicata da Antonio Pollarolo, Astarto (1707) di Tommaso Albinoni, Merope (1711) di Francesco Gasparini. Su queste scene viene presentata per la prima volta, nel 1725, Didone abbandonata di Metastasio-Albinoni; vi agiscono, inoltre, i migliori scenografi e ingegneri.
110. Nel 1708, con il San Moisè firma un contratto per cinque anni il Coviello Tommaso Ristori, prima di partire per Varsavia e Dresda, al servizio dell’Elettore, insieme con la moglie Caterina e i figli Maria e Giovanni.
111. Cf. Nicola Mangini, Sui rapporti del Vivaldi col teatro di Sant’Angelo, in Venezia e il melodramma nel Settecento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze 1978, pp. 263-270. Le cronache della «Pallade Veneta» segnalano una rappresentazione avvenuta alla fine del 1702: «Venerdì sera nel teatro di Sant’Angiolo, apertosi quelle scene amene, vi comparve da un curioso trattenimento degli amanti, essendo il titolo del drama Gl’amanti generosi, che, se passassero il costume le femine, diventerebbero più superbe e men belle, perchè sarebbero difformate dalla loro avidità» (ibid., p. 250); il dramma è firmato da Benedetto Vinaccesi per la musica e da Giovanni Pietro Candi per la poesia.
112. Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 9/10, cc. 4-6.
113. Cf. Giulio Ferroni, L’opera in commedia: una immagine del melodramma nella cultura veneziana del Settecento, in Venezia e il melodramma nel Settecento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze 1978, pp. 63-78.
114. Cf. Il Romolo opera scenica di Pietro Cotta detto Celio Accademico Costante, Bologna 1679.
115. Cf. Peripezie di Alerame e Adelasia onero la discendenza de gli Eroi del 114onferrato tragicomedia di Pietro Cotta detto Celio Comico del serenissimo Ferdinando Carlo, duca di Mantova, Monterrato, [...], Bologna-Venezia 1697.
116. Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 9/10, c. 10. Il documento in sei punti, che riprendono, per lo più, il testo del 1705, è sottoscritto da Gio. Carlo Grimani e da Alvise Vendramin.
117. Il lavoro che viene posto in scena è L’ingannator ingannato di Antonio Marchi, musicato da Giovanni Maria Ruggeri.
118. Cf. R. Giazotto, La guerra dei palchi, pp. 472-476. La lite per l’assegnazione dei tre palchi, due al San Luca e uno al Sant’Angelo, vede Alessandro Marcello contro Gerolamo e Benedetto (il musicista); fra i testimoni citati c’è anche Alvise Vendramin.
119. Cf. Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 9/10, c. 9.
120. Cf. Alessandro Gandini, Cronistoria dei Teatri di Modena dal 1539 al 1871, Modena 1873 (riprod. anast. Bologna 1969), p. 66. Sull’attività impresariale del duca di Modena e delle altre corti italiane cf. C. Molinari, La commedia dell’arte, pp. 179-182.
121. Il contratto è conservato in due differenti esemplari, a Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 9/2; la data indicata nei due documenti è Venezia, 10 marzo 1703. La stessa compagnia viene nominata in un documento dell’8 ottobre 1704, siglato da Gio. Carlo Grimani e da Alvise Vendramin, che impone ai Coppa di recitare al San Luca (ibid., 42 F 9/10, c. 1).
122. Infatti, da una lettera indirizzata al duca di Mantova, datata Brescia, 10 agosto 1690, si apprende che la compagnia in quella data riunisce Anna Arcagiati, Rosaura; Gaetano Caggia, Leandro; Giuseppe Coppa «amoroso», Virginio; la moglie Aurelia «amorosa»; Gennaro Sacchi; Coviello Cardocchia; la moglie Maddalena servetta, Armellina; Galeazzo Savorini, Dottore; Marco Antonio Zanetti, Truffaldino; Carlo Zagnoli, Finochio; Antonio Riccoboni, Pantalone; cf L. Rasi, I comici italiani, I, pp. 693-694.
123. Nella scritta del 1° marzo 1705, tra le clausule procedurali si nomina Isabella Servilli, detta Eularia, che fa parte della compagnia del duca di Mantova negli anni compresi fra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Su questa attrice eclettica, capace di cantare, ballare, tirar di scherma, parlare più lingue, si veda una lirica, scritta da un ammiratore bolognese memore delle sue bravure da virtuosa, che si richiama «Al merito e virtù / della Sig.ra Isabella Servilli detta Eularia Comica / Eruditissima del Ser.mo di Mantova / mentre recita in Venezia l’anno 1697» (cf. Luigi Rasi, I comici italiani. Biografia, bibliografia, iconografia, III, Firenze 1905, pp. 533-534).
124. Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 1/7, c. 1.
125. Cf. Xavier De Courville, Un apôtre de l’art du théâtre au XVIIIe siècle. Luigi Riccoboni dit Lélio, I, 1676-1715, L’expérience italienne, Paris 1943, p. 42.
126. Luigi Riccoboni, Discorso della commedia all’improvviso, a cura di Irene Mamczarz, Milano 1973, pp. 6-7 n. 12. Il 25 aprile 1709 Luigi Riccoboni e la sua compagnia riconfermano gli obblighi che li legano ai Vendramin e al San Luca: «Con la presente scrittura s’obligano il Signor Alvise Ricoboni detto Lelio et la Signora Elena Baletti Ricoboni detta Flaminia Comichi, sua consorte per li sei anni prossimi cioè 1710 sino 1715, inclusive, cioè Auttunno e Carnevale recitar in quelle Compagnie che il N. H. Alvise Vendramin e Fratelli sceglierano per il loro Teatro di S. Luca con li soliti riconoscimenti di onorario, careghe, et altro giusta il solito senza veruna contraditione riportandosi qualche insueto regalo di più alla nota buona disposizione di detti NN.HH. Vendramini. In fede di che la presente sarà sottoscrita da ambe le parti, obligandosi ogni una in ogni più ampia forma alla manutenzione delle sudette cose, alla presenza di Testimoni infrascriti» (Venezia, Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42 F 1/7, c. 4). Similmente, in una «scritura» del 4 ottobre 1714, all’approssimarsi della scadenza, si ha la conferma dell’ingaggio, che proroga di altri sei anni il rapporto con i coniugi Riccoboni, vale a dire fino al 1721: «Con la presente scritura s’obligano il Sig.r Alvise Ricoboni detto Lelio et la Sig.ra Elena Baletti Riccoboni detta Flaminia Comichi sua consorte per li sei anni in avvenire che principierano 1716 sino 1721 [...]» (ibid., c. 12). Quest’ultimo accordo rimane soltanto un auspicio perché nel 1716 Lelio e Flaminia lasceranno Venezia e, subito dopo, l’Italia per trasferirsi a Parigi.
127. La sfida di Cotta, ma — in verità — quella di Riccoboni, punta a realizzare un’autentica inversione di gusto, un tentativo che procede dall’ambito comico, anche se fa ricorso ad un repertorio letterario-accademico e da questo appare influenzato, specialmente dove dà spazio ad uno stile «gonfio e reboante». Cf. L. Rasi, I comici italiani, II, pp. 727-730. Riccoboni sottolinea ancora, nell’Histoire, la forza dell’esempio e delle «idées» di Pietro Cotta, che lo spingono «dans le goût de la Tragedie»; e aggiunge: «mais peu de tem[p]s après Pietro Cotta,dont l’exemple pouvoit m’encourager et autoriser mon entreprise quitta le Théâtre: me voïant presque seul j’hesitai quelque tem[p]s si je devois poursuivre» (ibid., pp. 81-82). Anche nel Discorso, rivolto non a caso a Lodovico Antonio Muratori, Riccoboni insiste sulla continuità della sua azione di «rifforma di quella mostruosa Comedia, che [...] regna nella nostra Italia», rispetto ai tentativi già saggiati da «qualche conduttore di Comici professori» (ibid., pp. 3-4). L’attore ha potuto seguire il lavoro di Cotta a Bologna tra il 1691 e il 1700. Sempre nell’Histoire, riferendosi alla difficoltà di affermare un repertorio tragico, Riccoboni rileva come il comico non voglia insistere a lungo sulla via intrapresa; anzi, vedendo che nessun’altra troupe seguita il suo «exemple» e, ancor più, che «le Théâtre étoit en confusion», allora «sur ces entrefaites Pietro Cotta quitta le Théàtre et se retira» (ibid., p. 79). Francesco Bartoli, sulla scia di Riccoboni, richiama la stanchezza di Celio e la volontà di ritirarsi dalla professione; cf. F. Bartoli, Notizie istoriche, I, pp. 190-191.
128. Sulla polemica Orsi-Francesi cf. Alfredo Galletti, Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel secolo XVIII, Cremona 1901, pp. 16-18.
129. Cf. Luigi Riccoboni, Prefazione, in Giulio Agosti, Artaserse, Venezia 1714. Lelio la dedica al duca Francesco Maria Pico della Mirandola.
130. Pier Jacopo Martello, Della tragedia antica e moderna, Roma 1715, p. 233.
131. Xavier De Courville ricorda, ad esempio, come Elena Balletti superi abilmente una prova d’improvvisazione a difesa dell’Arte comica, richiestale a Venezia da due avvocati (Un apôtre de l’art du théâtre, I, p. 87); riferisce, inoltre, la testimonianza di Gradenigo sulla «Petitfars» approntata dopo la tragedia dai nobiluomini dell’Accademia Filarmonica ai Teatini con l’aiuto di «Flaminia comica» (ibid., p. 111).
132. Cf. Luigi Riccoboni, Argomento, in Pietro Parlati, Il Caio Marzio Coriolano, Bologna 1707: «Il Coriolano fu scritto per gioco, potendosi curare, che non vi stanco punto la mente, ed io ne tengo mezo nascosto l’Autore, dandolo alle stampe di furto, perché, se bene mio parziale Amico, la sua delicatezza me l’avrebbe impedito». Cf. inoltre, Il tito Manlio tragedia, Bologna 1707; nella Prefazione al Cortese Lettore è detto: «Il Tito Manlio va alle stampe con qualche diversità dal suo primo Originale, perché così è capitato alle mani di chi si è presa la cura di darlo alla luce, e ciò per discolpa verso chi lo scrisse, che non può da lui ignorarsi. Le Voci, che vi troverai di Fato, Adorare, e simili, sono scherzi della penna, che affetta la gentile credulità, non sentimenti del cuore, che è veramente Cattolico. Abbi pace». Se questo avviso è di Riccoboni, si conferma l’abitudine dell’attore a depurare o, comunque, a distinguere le eventuali trasgressioni verbali. Si legga, poi, nella dedica al marchese Ludovico Mangoni, che è firmata da Lelio, l’annotazione relativa alla nostalgia per «il sospirato Cielo della Patria», vale a dire la sua Modena, e ad un ritorno «doppo molto tempo».
133. Lo sostiene il letterato veronese Becelli, che indirizza una pubblica Lettera ammonitoria all’ingrato Lelio Commediante, oramai dimentico dei benefici poetici a lui elargiti dall’erudito marchese di Verona: «Voi dite ch’egli cercò di conoscervi. O bel Soggetto da cercar di conoscere! Lasciatemi tacer quì in grazia. Non vi ricordate dunque, che andaste da lui con la raccomandazione del N.H. Sig. Alvise Vendramin vostro padrone? non vi ricordate, che delle Tragedie in versi ch’ei vi diede, voi non avevate mai sentito il nome?» (Giulio Cesare Becelli, Lettera ammonitoria del signor Giulio Cesare Becelli gentiluomo veronese a Lelio Commediante che sta a Parigi, Venezia s.d., in Giuseppe Ortolani, Settecento. Per una lettura dell’abate Chiari, Venezia 1905, pp. 393-394 n. 1; Ortolani indica come data della lettera il 1737 o il 1738). Maffei, da parte sua, suggerisce un’interpretazione del suo incontro con Riccoboni, che meglio giustifica le rispettive motivazioni culturali; lo fa in una lettera rivolta a Muratori nel 1710: «Avendo io gran voglia di scemare gli scherni, che i Francesi ci fanno per cagione del nostro Teatro, ho dato alla insigne compagnia di Lelio e Flaminia diverse Tragedie antiche e moderne, che sono riuscite ottimamente. Ora mi è anche venuto in capo, di fare sotto il nome dello stesso comico una raccolta di Tragedie Italiane a uso del Teatro ridotte alla moderna rappresentazione» («A Ludovico Antonio Muratori», Roma, 23 agosto 1710, in Scipione Maffei, Epistolario (1700-1755), a cura di Celestino Garibotto, I, Milano 1955, p. 53 n. 41).
134. La tragedia è dedicata, nell’edizione a stampa pubblicata in occasione delle recite veneziane, ad Apostolo Zeno.
135. Cf. Sesostri, Bologna 1722. Per quanto riguarda il rapporto con Pariati e l’elaborazione del Sesostri stesso, cf. X. De Courville, Un apôtre de l’art du théâtre, I, pp. 235-238.
136. «A Bartolo Pellegrini», Venezia, 24 gennaio 1714, in S. Maffei, Epistolario, I, p. 157. Cf., inoltre, X. De Courville, Un apôtre de l’art du théâtre, I, pp. 197-234; Teresa Copelli, Il teatro di Scipione Maffei, Parma 1907, pp. 123 ss. Per quanto riguarda la sfida della Merope, anche Becelli, fido ammiratore di Maffei, testimonia il plauso e l’attenzione del pubblico veneziano, un esito positivo confermato dalle richieste di repliche e, soprattutto, dall’aver vinto la competizione con i vicini palcoscenici musicali. «Ma perché il vero paragone delle Tragedie è il recitarle in un Pubblico frequente, e numeroso, ricorderò, come rappresentata questa [la Merope] in Venezia l’anno 1714 quando il nome di Tragedia sulla publica Scena era da grandissimo tempo andato in disuso, e in total dimenticanza; e quando si disperava che in stagione d’allegria giugnesse pure il popolo a soffrire una favola ignuda d’amori, e tanto grave, e patetica, così smisurato favore incontrò, che convenne seguitare a farla quasi tutto il carnevale con folla sempre maggiore di sceltissima Udienza, onde i Teatri di Musica quasi abbandonati restarono, e conveniva che nel recitare più e più volte gli Attori si soffermassero, interrotti dal commovimento, e dagli applausi, e massime ad alquanti passi del Vecchio, e nell’ultima narrativa» (Giulio Cesare Becelli, Al Lettore, prefazione a Teatro del Sig. Marchese Scipione Maffei cioè la tragedia la commedia e il drama non più stampato, Verona 1730, p. X). Impressioni differenti sulle recite veneziane della Merope si ricavano dalla Lettera ammonitoria di Becelli, rivolta a Lelio e influenzata dalla foga polemica: «Voi avete anche faccia di dire, che non trovaste il vostro conto né pur con la Merope, perché avreste guadagnato più con le buffonerie solite recitarsi a Venezia [...]. Lasciamo l’onore insolito, che aveste nella prima recita, che unicamente per l’autore fu onorata dalla presenza del Serenissimo Duca di Modona. Ma son vive qui in Venezia molte migliaia di persone, che si ricordano come il gran Teatro era sempre pieno, che non vi era memoria di cosa simile. Bisognava incappare i luoghi un dì per l’altro: per molte sere non si vide gente ne Teatri di musica, perché il fior della città era tutto nel Teatro di S. Luca. Non pagaste voi con la Merope quasi tutti i vostri debiti? Non dissero tutti i vostri compagni, che avevano fatto un sacco di bezzi? Dopo averla fatta in due riprese non undici, come voi dite, ma ventidue volte, non foste sforzato rimetterla in scena l’ultima settimana del carnasciale in vece delle vostre chiassate in que’ giorni solite? Vedete per quanto è falso, che Venezia non sappia godere se non di buffonerie» (p. 394). Il numero delle repliche, che rimane comunque alto, non è precisabile; Maffei, scrivendo ad Antonio Conti l’8 marzo 1714, ribadisce il successo: «Una mia tragedia recitata il passato carnevale in Venezia ha incontrato tanta fortuna che non s’è veduta mai più tal cosa. I teatri di musica sono rimasti abbandonati, si è fatto replicare 12 volte, e il Teatro risuonava più di 20 volte d’acclamazioni, di che ho una somma confusione, e tutto attribuisco alla buona sorte».
137. La questione è antica e ritorna puntualmente ad ogni occasione; ad esempio, basta analizzare il caso di Apostolo Zeno per comprendere l’incongruenza fra la posizione preminente che gli è stata attribuita dalla critica come librettista e il suo effettivo interesse per la tragedia in musica. Cf. Fabrizio Della Seta, Il librettista, in Storia dell’opera italiana, a cura di Lorenzo Bianconi - Giorgio Pestelli, IV, Torino 1987, pp. 244-291; Paolo Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, Torino 1984; Lorenzo Bianconi, La drammaturgia musicale, Bologna 1986.
138. Le direttive teoriche si leggeranno nei trattati Dell’arte rappresentativa (1728), nei Pensées sur la déclamation (1738) e altrove; si tratta di cambiare pelle e abitudini, per arrivare ad esprimere sulla scena «la force de la pensée»; solamente così acquista un senso l’aver fatto «prendere a più d’uno de’ nostri attori mascherati l’abito Tragico» (L. Riccoboni, Discorso, p. 27). Nel conseguimento del successo una parte non indifferente di merito spetta a Elena Balletti, amica dei letterati, emula dei poeti nelle accademie; è lei la prima donna della Sofonisba, della Semiramide, dell’Ifigenia in Tauris, è lei Aspasia nell’Artaserse di Agosti, è lei, soprattutto, Merope. Anche Flaminia ha modo d’affermare l’importanza della tradizione tragica nella rinascita del teatro italiano e la necessità di offrire al pubblico una recitazione vera e naturale. Lo scrive, tra l’altro, nella Lettre de M.lle B... à M. l’abbé C... au sujet de la nouvelle traduction du poème de la Jerusalem délivrée du Tasse (Paris 1725) e, soprattutto, nella Lettera della signora Elena Belletti Riccoboni al signor Abate Antonio Conti gentiluomo veneziano sopra la maniera di M. Baron nel rappresentare le tragedie francesi (in Angelo Calogera, Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, XIII, Venezia 1736, pp. 495-510). Cf., anche, Alessandro Ademollo, Una famiglia di comici italiani nel secolo decimottavo, Firenze 1885; qui si riportano in appendice le due lettere.
139. «Vedevo che più d’uno de’ nostri Letterati moderni aveva bene data a l’Italia qualche Tragedia, ma che non si era ancora trovato chi dasse una sola Comedia, onde non potevo riccorrere agli antichi, e molto meno a’ moderni. È egli vero che la mia Compagnia per più di dodici anni continui si è esercitata a rapresentare Tragedie? Questi tali Comici adunque, sebbene non virtuosi, avrebbero potuto così bene studiare una Comedia scritta, come facevano una Tragedia. Conviene però confessare che se non si è data rifforma sino ad ora al Teatro nostro, la colpa è tutta de l’antica Comedia, bellissima in un genere, ma defforme a l’estremo ne l’altro, che non ha lasciato il modo a’ Comici di darsi ad una fatica, alla quale li avrei assoggetiti» (L. Riccoboni, Discorso, pp. 8-9). L’analisi di Lelio si diversifica nell’Histoire du Théâtre Italien, dove scrive: «Pour faire réussir cette grande entreprise de remettre sur le Théâtre la bonne Comedie du seizième Siécle où l’Arlequin est proscrit: pour faire réussir, dis-je, cette entreprise je voulus m’appuier d’un grand nom pour en imposer aux Spectateurs par la réputation de l’Auteur. Je decidai pour la Scolastica de Lodovico Ariosto [...]» (p. 86). Più oltre il resoconto s’allinea a quello del Discorso. Dell’episodio restano alcune testimonianze illustri, a cominciare da quella indiretta di Pier Jacopo Martello, che apprende la notizia dell’insuccesso da Giovanbattista Recanati; il letterato si mostra toccato personalmente, visto che sta scrivendo la commedia Che bei pazzi. «E per vero dire, poco meno che non la soppressi, quando mi giunse una vostra lettera che mi avvisava come la Scolastica dell’Ariosto in cotesta vostra città di Vinegia per Lelio e Flaminia, egregi comici, rappresentata, anzi che essere stata accetta, fra gli sbadigli, i susurri ed i motteggi del popolo, di scena in scena passando, così svergognata venisse meno che fu mestieri calare pria della fine la tenda» (Pier Jacopo Martello, All’eccellenza di Giovanbattista Recanati nobile veneto fra gli Arcadi Teleste Ciparissiano l’Autore, dedica premessa a Che bei pazzi [1716], in Teatro, a cura di Hannibal S. Noce, I, Bari 198o, p. 228). Martello ritorna sull’episodio in La rima vendicata: «Non ben da te si mastica/ ch’A-dria, quant’è, sdegnasse soffrir la tua Scolastica,/ pur lei sui teatri spiegar Lelio e Flaminia,/ di quai sì ben gli affetti l’un pinge e l’altra minia./ [...]/ e pur sull’infelice metà della commedia,/ chi sbadiglia, chi s’alza, chi parte, e chi s’attedia:/ si sussurra, e si grida (cosa a narrarsi orrenda)/ che si cali, e si cala devuta alfin la tenda» (II, 2, ibid., pp. 567-568). Altrettanto significativo, se filtrato dal tono di rimprovero, quanto dice a tale proposito la Lettera ammonitoria di Giulio Cesare Becelli, il quale non per-dona a Lelio di aver accusato il nobile pubblico veneziano d’ignorare «que l’Arioste eflt fait des Comédies» (Histoire, p. 87). «Voi voleste far il dottore, e andato a Venezia di vostro capriccio, voleste recitarne una, sciegliendo quella ch’era meno al caso, distribuendo le parti pessimamente, recitando male, e inserendovi quantità di versi nuovi, che appresso quei dell’Ariosto erano insoffribili. Però vi furon fatte le fischiate con tutta ragione, e non furon fatte all’Ariosto, ma a voi. Quanto sia falso che non la volessero soffrire, perché non vi era truffaldino, si vede chiaro, perché pochi anni dopo fu recitata in quell’istesso Teatro quella delle Cerimonie, ch’è parimenti in versi, e senza truffaldino, né altre maschere, e pur fu voluta dieci sere di seguito con infinito concorso, e con sommo piacere ed applauso. E falsissimo dunque, che non piacciano a Venezia se non buffonerie. A Venezia fino i barcaruoli intendono il Teatro assai più di voi» (G.C. Becelli, Lettera ammonitoria, p. 395). Lo scrittore veronese, fanatico estimatore di Maffei, racconta già nella prefazione a Le cerimonie, come la commedia — destinata ad essere rappresentata per diletto in «una Conversazione di Dame, e di Cavalieri di singolarissimo talento nel recitare» risultasse gradita agli spettatori della città lagunare, quando fu allestita da una compagnia di comici durante la stagione del carnevale 1728, probabilmente in gennaio; e ciò avvenne nonostante si trattasse di una «Co-media regolata senza maschere, e in versi». Becelli vi sostiene, con argomentazioni retoriche, quanto sia più «malagevole» comporre una commedia piuttosto che una tragedia, per quella contraddizione che esiste fra la costruzione di un racconto «finto », fatto ad arte, con «ingegno, e poetica facoltà», e la necessità d’imitare nello stile, quanto più possibile, la sentenziosità popolare, il «parlar famigliare, e ordinario». Ad ogni modo la commedia deve salvaguardare la sua funzione morale e didascalica, come sostiene Gian Vincenzo Gravina nel trattato Della tragedia (i 7 15), perché «dal Teatro apprende il popolo i sentimenti, la favella, e il costume», secondo un disegno erudito e classicista, che antepone l’imitazione degli antichi. Un altro aspetto, che s’intreccia con la difesa dello scrivere commedie, riguarda la misura del riso, la scelta dell’«ironia» al posto della «buffoneria»; il principio si lega direttamente al giudizio negativo sulle compagnie dei comici «vuote d’ogni cognizione, e piene di vana presunzione», al punto da far preferire al poeta per le sue opere le «scelte Compagnie di nobili giovani, che le animavano con l’arte del recitare, perché le intendevano». Riaffiora, insomma, il pensiero di Maffei sull’importanza di assumere il testo poetico come una partitura da comprendere e da rispettare (cf. G.C. Becelli, Al Lettore, prefazione a Le cerimonie, in Teatro del Sig. Marchese Scipione Maffei, pp. 87-95).
140. Cf. Luciano Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione dilettanti editoria teatrale nel Seicento. Storia e testi, Roma 1978.
141. La Tartarea, uno dei lavori più noti di Briccio, è stampato a Viterbo nel 1614, nel 162o e nel 1627; le successive edizioni conosciute sono quelle di Venezia 1637, Milano 1639, Bologna 1674, Roma 1677; cf. ibid., pp. CLXIV-CLXX.
142. Cf. Pietro Spezzani, Il linguaggio del Pantalone pregoldoniano, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze morali, 121, 1962-1963, pp. 643-710. Il saggio prende in esame La dispettosa moglie e Il Pantalone imbertonao di Giovanni Briccio e El Pantalon spetier di Giovanni Bonicelli. Cf., inoltre, Id., Il primo repertorio linguistico di Pantalone, ibid., 120, 1961-1962, pp. 549-577.
143. Giovanni Briccio, Il Pantalone imbertonao. Comedia nuova di G.B. romano; dove con ridicole Scene si mostra spesso esser vero quel proverbio qual dice, che un disordine accomoda un ordine, Bologna 1668, pp. 9-10 (I, 1).
144. Cf. Giorgio Padoan, La commedia rinascimentale veneta, Vicenza 1982; Piermario Vescovo, Per la sto-ria della commedia cittadina veneziana pregoldoniana, «Quaderni Veneti», 5, 1987, pp. 37-80.
145. Cf. Domenico Balbi, Il Lippa onero el Pantalon burlao. Comedia honestissima piena di sottili inventioni, e tanto per rappresentarla, quanto anco per semplicemente legerla: tutta ridicolosa. Con alcune composizioni accademiche in Prosa, et in Rima ad essa concernenti intrecciate con Ariette Musicali da cantarsi, Venezia 1673. Sulla vita di Balbi si han-no poche notizie; è, quasi certamente, un ecclesiastico, che ha prodotto Lo sfortunato patiente (1667), un’«operetta morale con ariette musicali da recitarsi [...] sopra piazza S. Marco», un nucleo di commedie «ridicolose» in prosa: oltre Il Lippa, ha scritto Il primo Zanne disgraziato mezzano di matrimoni (1677), Il secondo Zanne detto Bagattino favorito da Amore (1678); inoltre, sono di sua penna due operette morali dia-lettali in rima: Il castigamatti (Venezia 1668) e Il ligamatti (1675), alle quali, pare, s’ispirò Goldoni per il dramma giocoso Arcifanfano re de’ matti. Cf. Nicola De Blasi, Balbi, Domenico, in Dizionario Biografico degli Italiani, V, Roma 1963, p. 361; Nicola Mangini, Il teatro italiano tra seicento e settecento: primi tentativi di dorma, «Italianistica», gennaio-agosto 1984, nrr. I-2, pp. 11-20.
146. La trama, che Bagolino mette in pratica all’interno della commedia, per affibbiare l’epiteto di minchione a Pantalone, procede da un falso e altisonante pentimento di Giacinto, che ironizza sull’enfasi del parlare tragico, e si conclude con una seduta accademica, tenuta in casa di Pantalone alla presenza del Principe d’Ungheria — che in realtà è la «zavatera» travestita. Il conclave di bei letterati s’avvia sulle note di una sinfonia sotto un «apparato di lumi», mentre 1’«introduttione» di ciascun personaggio viene sviluppata sul canto di un’«arietta». Attraverso la burla, dopo aver manipolato lo schema della rappresentazione teatrale, s’ironizza sulle ridondanze delle tenzoni retoriche e sulle esagerazioni del dramma musicale. A Giacinto spetta il compito di porre il quesito da sciogliere. «Introduttione al Problema fatta da Giacinto costituito Prencipe dell’Accademia. [...] Tutta via, perché si suol dire povera, e nuda vai Filosofia, non mi pare fuori proposito (Sapientissimi Concademici) proponere al vostro sottile ingegno la discussione del presente Quesito: Se un Ricco Sapiente cadesse in povertade tale, che ne meno col proprio sapere li dasse core di potersi sostentare, ma fosse necessitato ad ellegersi una delle arti mecaniche, si ricerca à quale?» (III, 10). Il susseguirsi d’interventi, quelli del Dottore («Chel fas el Barbier»), di Pantalone («E mi diria, che sto Ricco Sapiente fasse el Favro»), di Bagattino (che ovviamente propone il mestiere del «Ciavattino»), sfocia nella fantasmagoria finale delle poesie d’occasione e nello svelamento conclusivo dell’inganno che decreta la sconfitta di Pantalone. Ma al padre, ormai domato, si offre una via d’uscita dalle conseguenze derisorie che la «gran cabala» di Bagolino ha provocato: se il servo vorrà sposare la sua Pandora, dovrà desistere dal perseguitarlo con l’ingiuria di «Lippa». Conta, a questo punto, l’ultima battuta del mercante, riabilitato agli occhi del pubblico e riscattato nell’onorabilità del suo stato sociale. «Dottore. Havì fat un’attion da par vostr’ ades. Pantalone. Haveria fatto altro che questo per no me sentir à chiamar Lippa. E ti Giacinto licentia sti Signori, e ringratieli della benigna udientia, e compatimento tanto de nu altri rapresentanti, quanto del rozo zuggetto, che havemo recitao» (III, 10).
147. Due passi del periodico risultano significativi; il primo è datato ottobre 1687: «S’aprirono i teatri di San Casciano e San Samuele per le solite comedie d’istrioni; nel primo recita con grido e fiorita udienza una compagnia del Serenissimo Signor Prencipe Alesandro Farnese e nel secondo con non minor applauso una dell’Altezza Serenissima del Signor Duca di Mantova, divertimenti di consolatione a questi popoli che giubilano in sono ai contenti con la facoltà di portarsi in maschera la sera a causa delle comedie che riescono come dissi di somma sotisfatione». Dalla seconda citazione, che riguarda la cronaca del novembre 1687, si comprende che la compagnia di Parma è quella della Diana: «Nel teatro di San Casciano, dove recita di presente una compagnia del Serenissimo Principe Alessandro Farnese, che glorioso viaggia per Madrid, comparisce fra l’altre in scena una tal Signora Diana. Gode questa signora un comportamento così nobile et un gesto così proprio della scena che potria in questo genere dar le regole del vero rappresentare in palco alla Grecia che ne trovò l’inventione. Si porta con tale disinvoltura, si veste così bene degl’affetti, che esprime che fa sospirar se si duole, semina riso se si rallegra. Una sera fra l’altre un suo amante (come suppongo) pregò un poeta lucchese a farli un sonetto, che fu poi fatto volare in centuplicate copie in honore di questa galante e virtuosa comica [segue il sonetto]. Nel teatro pure di San Samuele vi recita la virtuosissima compagnia dell’Altezza Sua del Signor Duca di Mantova, favorita di continuo da numeroso concorso; talché non mancano in alcuna stagione a questa gran dominante i suoi decorosi divertimenti. In tanto si preparano sontuosi i teatri per l’opere in musica, che s’attendono di tutta sodisfattione, e si crede che si passerà un carnevale tutto delitioso» (E. Selfridge-Field, Pallade Veneta, pp. 194-196). Negli anni seguenti i cenni si fanno via via frettolosi e generici.
148. L’elenco delle opere edite da Lovisa appare spesso nelle ultime pagine dei volumi. Si rammentano, fra l’altro, il Trattato della Ciocola, L’Historia di Maria Stuarda, Il Cembalo d’Erato, cioè cento Sonetti in Lingua Veneziana, Segreti di Medicina di Missier Agresto de Bruschi, Il Gioco Romano. Il Gioco del Cuco. Dell’Occa. Del Baron. Del Gambaro. Del Giardin d’amore. Del Pelachiù. Del scarica l’Asino. Del Pitoco. Del Matto. Scachiero overo Dama, Compendio d’Avertimenti per conservarsi sani con un Trattato di Fisonomia dell’Huomo, e della Donna, Trattato del bever in giaccio, Arte del pescare, ecc. cf. Bartolomeo Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, Venezia-Roma 19592.
149. Cf. El Tasso stravestìo da Barcariol venezian, ovvero el Tasso tradoto in lengua veneziana dal Signor Simon Tomadoni, Venezia 1691. Cf. B. Gamba, Serie degli scritti, pp. 151-152.
150. Si ricordano nella libreria Lovisa, fra l’altro, le commedie di Tommaso Mondini (Simon Tomadoni): Pantalone mercante fallito. Comedia esemplare nuovamente data in luce, Venezia 1680; Le scioccherie di Gradellino accresciute dall’astutie di Fenocchio sturbatore de’ Matrimoni, Venezia 1689; Gli amori sfortunati di Pantalone. Comedia, Venezia s.d. Di Giovanni Bonicelli (Bonvicin Gioanelli): Lugretia Romana violata da Sesto Tarquinio con la saggia pazzia di Bruto, liberator della patria. Opera tragica, Venezia 1693; Pantalon spetier con le metamorfosi d’Arlechino per Amore. Scenica rappresentanza, Venezia s.d., ma 1703; La prodigalità d’Arlechino mercante opulentissimo perseguitato dal Basilisco dal Bernagasso d’Etiopia, Venezia s.d.; Vita amori e morte di Sansone con il famoso traddimento di Dalida, e la precipitosa caduta del Tempio de’ Filistei. Opera Tragica, Venezia s.d. Di Domenico Balbi: Il caciatore invidiato nel valore, ed insidiato nella vita, e nell’honore, honestissima tragicomedia con continuo da ridere accompagnata, e di molte Canzoni anco adornata, Venezia 1693. Di Gio. Paulo Zanovello: Pantalone sturbato ne’ suoi amori dall’incessanti tirate del Dottore; Tracagnino poeta spropositato, con l’aeree astutie di Bagolino; ed il figlio correttore del Padre. Comedia non men faticosa, che novissima, Venezia s.d. Di Dorigista: Le fortune non conosciute di Pantalone. Comedia piacevole, e bellissima, Venezia s.d.; nella edizione Le fortune non conosciute del Dottore è datato 1706. Di anonimo: Le disgratie di Pantalon amante non amato incarcerato per debiti. Angiola amata da Hortensio non amante. Con curiosissime scioccherie di Trufaldino. Comedia non men ridicola, che novissima, Venezia s.d.
151. Scrive Goldoni, nella prefazione a La bancarotta o sia il mercante fallito: «Correva da molto tempo sulle scene d’Italia, fra le cattive Commedie a soggetto, una Commedia pessima intitolata: Pantalone Mercante Fallito. Questa era un ammasso di stolidezze di un Vecchio, che dopo aver dissipato i suoi capitali, riducevasi in prigione a cantare in musica la sua disgrazia, accompagnato da un coro di malviventi». A Goldoni l’argomento pare degno di essere riscattato, avendo come protagonista il «ceto rispettabile de’ Mercadanti, che sono il profitto ed il decoro delle nazioni».
152. Cf. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, III, Il decadimento, Bergamo 1929, pp. 88-89.
153. Cf. L. Rasi, I comici italiani, s.v., in particolare Fiala, Costantino Costantini; c£, inoltre, A. Gandini, Cronistoria dei Teatri di Modena, p. 66.
154. Chi più sa manco sa, commedia con Coviello Finto Diana, Mezzettino finto Giove, Fichetto finto Mercurio, rappresentata a Venezia li 12 agosto 1707, «Il Dramma», 218-219, 1954, pp. 71-86. Oltre al Ristori, Bruno Brunelli identifica Carlo Malucelli nel Dottore, Giovanni Battista Garelli nel Pantalone, Carlo Schiavi in Cintio e Angiola Paffi nella figlia del Dottore.