L'invenzione dello zero
Lo zero è entrato relativamente tardi a far parte del linguaggio matematico – attraverso la civiltà indiana e poi la cultura araba – perché non serviva per contare. Non c’era bisogno di tener conto di zero animali o di fare l’appello di zero figli. Non serviva un numero per esprimere l’assenza di qualche cosa e quindi non si avvertiva la necessità di introdurre un simbolo che sarebbe stato poi collegato alla mancanza di oggetti. Lo zero fa una sua prima comparsa già tra i babilonesi, il popolo che occupava l’area situata tra i fiumi Tigri ed Eufrate, conosciuta come Mesopotamia e che oggi fa parte dell’Iraq. Il sistema di numerazione babilonese usava, con base 60, la notazione posizionale, per cui il valore di ogni cifra dipende dalla posizione relative delle altre cifre che concorrono a identificare il numero. Anche tra i babilonesi non c’era inizialmente alcun simbolo che indicasse l’assenza di un numero in una qualche posizione. Poi, nel periodo seleucide (periodo che va dal 300 a.C. alla nascita di Cristo, e che prende il nome dal generale greco che occupò per primo la regione dopo la morte di Alessandro Magno) al posto di uno spazio vuoto venne introdotto uno speciale simbolo che stava appunto a indicare l’assenza di una cifra in una certa posizione. Il simbolo dello zero non possedeva ancora un valore numerico, ma era solo un segnaposto che rappresentava lo spazio vuoto in modo che tutte le cifre cadessero al posto giusto.
La diffusione dell’astronomia babilonese portò i greci a adottare il sistema sessagesimale, dividendo le ore in 60 minuti e questi in 60 secondi. Si diffuse così anche l’uso dello zero come segnaposto, che compariva regolarmente nelle tavole greche delle posizioni celesti. Per indicarlo, i greci impiegavano il simbolo della lettera omicron (minuscolo) che in effetti molto assomiglia alla corrispondente cifra moderna.
La presenza dello zero divenne meno saltuaria nel periodo alessandrino. Secondo i manoscritti bizantini, che sono tutto quanto rimane della sua opera, anche Tolomeo impiegava lo zero con un suo specifico simbolo. Anche se esso compariva talvolta alla fine di un numero, svolgeva sempre il ruolo di segnaposto, ma nel iii e iv secolo cominciò a essere considerato anche come numero: Giamblico di Calcide (250 ca - 330 ca, filosofo di orientamento neoplatonico e neopitagorico, discepolo di Porfirio) intuì che in tale veste lo zero godeva di particolari caratteristiche e che la divisione di un numero per zero poneva seri problemi.
La vera svolta si ebbe con i matematici indiani, che assimilarono il sistema di numerazione babilonese, trasformato da sessagesimale in decimale, dopo l’invasione di Alessandro Magno. Lo zero divenne un numero in piena regola all’interno di un calcolo che, grazie alla notazione posizionale, i matematici indiani svilupparono con ingegnosi espedienti per addizionare, sottrarre ecc. anche grandi numeri. All’interno di questo calcolo, lo zero veniva trattato come un numero normale. Mahavira, un importante matematico del ix secolo, affermava che il prodotto di un numero per zero è uguale a zero e che, sottraendo lo zero da un numero, quest’ultimo rimaneva invariato; sosteneva anche che un numero diviso per zero rimaneva inalterato. Un altro matematico indiano, Bhāskara, nel xii secolo, parlando di una frazione con lo zero al denominatore, concludeva che questa frazione rimaneva invariata qualunque cosa le si aggiungesse (oppure le si sottraesse) così come nessun mutamento ha luogo nella divinità immutabile quando vengono creati (o distrutti) dei mondi. La famosa iscrizione di Gwalior (a 300 km da Nuova Delhi) attesta che, con la matematica indiana, l’umanità poteva finalmente disporre di una vera numerazione posizionale ed esibisce senza ombra di dubbio quello che è stato tramandato come il primo zero della storia della matematica.
Nel frattempo lo zero compariva come segnaposto anche al di là dell’Atlantico, nelle civiltà precolombiane. Ne facevano uso i maya nei calcoli astronomici o legati al calendario, rappresentandolo al più con una conchiglia oppure con un guscio vuoto o un occhio socchiuso. Ma ormai, con la matematica indiana, lo zero era diventato un vero e proprio numero.
Lo sviluppo della civiltà indiana era però destinato a essere eclissato dall’affermazione di un’altra civiltà, quella islamica. Nella prima metà dell’viii secolo, impadronendosi della penisola iberica e sconfiggendo a oriente i cinesi, i domini musulmani raggiunsero confini più ampi dello stesso impero di Alessandro Magno. È nella loro espansione verso la Cina che i musulmani conquistarono l’India ed è qui che appresero del sistema numerico posizionale. Da quel momento, la notazione indiana venne conosciuta con il termine di «numeri arabi» (o al più numeri indoarabi) e di questi faceva parte a pieno titolo lo zero che gli arabi scrivevano sia sotto forma di cerchietto (il nostro simbolo per indicare lo zero), sia sotto forma di punto, che per gli indiani – con la sua forma così discreta – rappresentava l’universo prima della sua trasformazione nel mondo delle apparenze e quindi il vuoto, la non esistenza, il nulla. Il termine sanscrito di Sunia (“vuoto”) diventerà nella lingua araba sifr (da cui il vocabolo “cifra”) e in Occidente zephirum, che i mercanti veneziani tradurranno con «zevero», da cui la dicitura italiana «zero».
In Occidente le cifre arabe arrivarono con Leonardo Fibonacci, nato a Pisa attorno al 1170. Giovinetto, seguì suo padre a Bougie (una città della Cabilia, non distante da Algeri), dove ricopriva il ruolo di una sorta di notaio in rappresentanza dei mercanti pisani, che assisteva e di cui curava gli interessi. Dopo l’anno Mille il commercio internazionale aveva registrato una notevole ripresa. Il Mediterraneo era uno dei punti nevralgici dei traffici commerciali con i paesi dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente che esportavano spezie, seta e gioielli. L’intensità dei rapporti commerciali tra le repubbliche marinare italiane e alcuni porti arabi aveva portato alla nascita in queste città di interi quartieri i cui abitanti erano tutti originari di una stessa località. A Bougie, Leonardo, per volere del padre, seguì la scuola d’abaco per completare la propria educazione ed è qui che apprese delle cifre indoarabe e del nuovo sistema posizionale. Queste prime nozioni matematiche lo interessarono moltissimo tanto che, tornato in patria nel 1202, scrisse il Liber abaci che rappresenta una vera antologia dell’aritmetica pratica dell’epoca. È un lavoro estremamente impegnativo; scritto in latino, ebbe due edizioni: la prima appunto nel 1202, la seconda nel 1228. Fibonacci non è un semplice traduttore, dall’arabo al latino. Il Liber abaci si distingue nettamente da altre opere simili dello stesso periodo perché è stato scritto dopo un lungo periodo di studio e di riflessione e presenta un’organizzazione originale e coerente di tutto il materiale accumulato. Il libro dimostrava la grande utilità dell’aritmetica araba cosicché i banchieri e i mercanti italiani ne fecero rapidamente tesoro nonostante qualche iniziale opposizione: per esempio, a Firenze, un decreto del 1299 ancora vietava ai commercianti di tenere i registri con il nuovo sistema di numerazione. Il Liber abaci è suddiviso in 15 capitoli. Il primo si intitola: «Le nove cifre indiane; come si calcoli per mezzo di esse. Quali numeri ed in qual modo si possono rappresentare con le mani. Introduzione all’abaco». Le nove “cifre indiane” sono quelle che vanno da 1 a 9; subito dopo, però, Fibonacci aggiunge: «pertanto con queste nove figure, e con questo segno 0, che gli arabi chiamano zephiro, sarà scritto qualunque numero, come sarà mostrato più sotto».