di Francesco Montessoro
In Indonesia, il più grande paese islamico del mondo, i musulmani sono l’87% della popolazione. Forti del grande rilievo demografico di Giava e Sumatra, sono però minoranza nelle aree orientali dell’arcipelago: in Nuova Guinea, a Bali (dove la popolazione è indù al 90%), a Flores, Timor e nelle regioni settentrionali di Sulawesi. Nelle Molucche la maggioranza islamica fronteggia cospicue minoranze cristiane, cattoliche nelle isole di sudest e protestanti in quelle centrali e settentrionali.
In gran parte sunniti, i musulmani indonesiani presentano un profilo abbastanza eterogeneo e si dividono innanzi tutto tra ‘tradizionalisti’ e ‘modernisti’. Se nelle aree rurali di Giava si sono affermate comunità islamiche di tipo tradizionalista, in larga parte di Sumatra, nel Borneo e a Sulawesi sono presenti gruppi modernisti che guardano alle esperienze maturate nel mondo arabo-islamico nella seconda metà del 19° secolo, volte ad affermare un ritorno alle origini. Le differenze tra queste due correnti non riguardano propriamente l’ambito dottrinale ma pongono la questione dell’adesione a forme ritenute più autentiche di islam. I tradizionalisti giavanesi, in particolare, manifestano una certa tolleranza nei confronti dell’adat, il diritto indigeno consuetudinario, le cui valenze sociali e rituali sono connesse a credenze animiste estranee all’islam. I modernisti, invece, pongono l’accento sulla lettura dei testi coranici e professano un maggior rigore nell’adeguarsi ai precetti e alle norme canoniche. Inoltre, a Giava, i musulmani più osservanti – i cosiddetti santri – si distinguono dalla maggioranza dei giavanesi abangan, ritenuti islamizzati solo nominalmente.
Questa frammentazione spiega come nell’Indonesia indipendente i musulmani, pur essendo la schiacciante maggioranza della popolazione, siano stati incapaci di imporre la sharia e siano stati sostanzialmente subalterni ai partiti laici, come si evince anche dagli esiti delle elezioni che si sono tenute dopo il 1955. Nel primo confronto elettorale, infatti, le organizzazioni che variamente si richiamano all’islam conquistano il 43% dei suffragi; un risultato che, dopo la fase autoritaria del regime di Suharto (1966-1998), si ripete a distanza di mezzo secolo: nelle elezioni del 1999 i musulmani si attestano al 40% dei voti e nel 2009 scendono addirittura a meno del 30%.
Nella storia della Repubblica indonesiana l’eclisse politica delle formazioni islamiche si compie al tempo di Suharto, quando il nuovo regime nato dal sanguinoso colpo di stato del 1965 crea uno stato autoritario fondato sul potere dell’élite militare e si rende autonomo dalle compagini politiche, sociali e religiose che avevano avuto un ruolo di primo piano dopo l’indipendenza. Si manifesta in questo periodo la scelta di molti musulmani di impegnarsi in attività solo culturali o sociali, contribuendo con la moltiplicazione delle iniziative connesse direttamente o indirettamente alla sfera religiosa al risveglio confessionale degli anni Ottanta. Questo fervore missionario porta alla fondazione di scuole coraniche e di nuove moschee, alla creazione di giornali confessionali e alla nascita di istituti finanziari connessi alle associazioni religiose. Come in altre parti del mondo islamico, inoltre, anche tra le donne indonesiane si diffonde progressivamente l’uso di coprirsi il capo con il jilbab mentre cresce l’osservanza di consuetudini trascurate, come la preghiera quotidiana, il digiuno durante il Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca. Questo risveglio islamico, tuttavia, non comporta la perdita del carattere moderato che contrassegna l’islam indonesiano, anche se iniziano ad affermarsi tendenze di tipo ‘scritturalista’ ispirate a principi volti a costituire uno stato retto dalla sharia.
Con la fine del regime autoritario di Suharto, nel 1998, l’effervescenza religiosa porta da un lato a una crescente partecipazione alla vita politica dei musulmani, ma dall’altro anche alla nascita di gruppi radicali e di prospettive d’azione che sfociano talvolta nel terrorismo. In questo periodo si aggravano, soprattutto nelle isole orientali dell’arcipelago, le tensioni interetniche e la contrapposizione tra le comunità islamiche e quelle cristiane. Dal 2004, tuttavia, prende avvio una graduale pacificazione interna che porta alla soluzione delle crisi nell’Aceh e nelle Molucche, oltre al contenimento di un terrorismo islamico marginale in Indonesia ma connesso a reti internazionali che fanno capo ad al-Qaida. Il rafforzamento delle istituzioni democratiche, però, non frena l’ostilità nei confronti delle minoranze religiose e dei musulmani moderati e nel 2005 una fatwa condanna la tolleranza religiosa e il liberalismo, il pluralismo e il laicismo. Inoltre, nei distretti a maggioranza musulmana si cerca di introdurre la sharia, nell’intento di islamizzare la società aggirando le leggi nazionali con l’adozione di provvedimenti restrittivi in materia di abbigliamento femminile, consumo di alcolici, gioco d’azzardo e prostituzione. Nel 2008 il governo emana un decreto che colpisce la setta eterodossa islamica Ahmadiyah e in seguito il parlamento vota una controversa legge sulla pornografia voluta dai musulmani più retrivi.
A dispetto di esiti elettorali deludenti per le forze islamiche, nel 2009, in Indonesia si affermano nella prassi politica e nella cultura dei partiti nazionalisti e laici approcci che mostrano una nuova sensibilità ai temi religiosi e alle esigenze delle componenti musulmane più ortodosse. Questa attitudine si avverte anche in seno a movimenti politici che in passato avevano ostentato indifferenza o ostilità nei confronti dell’islam. Il caso più rappresentativo è quello del Partito democratico del presidente Susilo Bambang Yudhoyono, alla cui vittoria elettorale e ai successivi accordi di governo non è estranea l’attenzione degli ambienti islamici più ortodossi.