di Massimo Campanini
L’islam politico è un fenomeno che ha invaso la scena mondiale negli ultimi decenni del ventesimo secolo. La sua proposta è incentrata sulla realizzazione dello stato islamico. Sebbene sia diffusa l’errata convinzione che l’islam sposi automaticamente religione e politica, la rivendicazione dello stato islamico è tutt’affatto moderna e legata, storicamente, alla crisi dei processi di decolonizzazione nel mondo arabo; processi cui i gruppi, i partiti e le organizzazioni islamiste hanno reagito proponendo soluzioni religiose, in opposizione a quelle laiche e secolari dei regimi al potere (per esempio, in Egitto, quello nasseriano). Tra coloro che hanno portato avanti questa rivendicazione emerge la Fratellanza musulmana, fondata sempre in Egitto, nel 1928, da Hasan al-Banna.
La Fratellanza musulmana ha seguito un percorso molto accidentato. Per decenni, prima durante l’epoca cosiddetta liberale (1928-52), poi durante le presidenze di Nasser (1956-70), Anwar al-Sadat (1970-81) e Hosni Mubarak (1981-2011), ha subito violente persecuzioni, legate a una strategia di esclusione totale che la poneva ai margini della vita politica. Ciò nonostante, soprattutto sotto Sadat e Mubarak, ha cercato di legittimarsi attraverso la partecipazione ai processi elettorali, all’infiltrazione nei sindacati di categoria, alla gestione del welfare a favore delle classi più diseredate. L’islamizzazione dal basso è sempre stato un marchio distintivo della Fratellanza musulmana che, grazie proprio a questo radicamento sociale, è sopravvissuta alle purghe e alle incarcerazioni degli affiliati, mantenendo un certo consenso popolare.
La caduta del regime di Mubarak nel 2011 ha consentito alla Fratellanza musulmana di occupare da protagonista la scena politica egiziana. Nelle prime fasi della rivolta si era mantenuta in disparte, ma poi ha preteso di incidere direttamente nella transizione post-Mubarak, rivendicando la guida dei moti di piazza e della nazione intera. Questa pretesa poteva essere giustificata dalla franca vittoria conseguita alle urne, sia nelle elezioni parlamentari sia in quelle presidenziali (2012). Ha così avuto l’opportunità di mettere alla prova la sua ideologia e di dimostrare di saper trasformare il proprio carattere, fino ad allora controegemonico e contestatore, in egemonico e dirigente. Questo esperimento è stato però nel complesso fallimentare. Ciò può essere verificato a vari livelli, sia teorici sia pratici.
A livello teorico, le parole d’ordine della Fratellanza sono risultate eccessivamente semplificative. Lo slogan più sbandierato – ‘L’islam è la soluzione’ – non era in grado di catturare la complessità dei processi in corso, né di predisporre strumenti che governassero efficacemente le istituzioni. Un altro slogan super-esemplificativo è quello che identifica nel Corano la ‘Costituzione’ della comunità musulmana. Il Corano contiene scarse indicazioni normative e comunque insufficienti a rispondere a tutte le sfide della contemporaneità, senza un adeguato lavoro preliminare di esegesi e di rielaborazione delle fonti.
A livello pratico, la Fratellanza musulmana e il presidente eletto Mohammed Mursi hanno commesso diversi errori. Da una parte non hanno affrontato con la necessaria decisione i gravi problemi economici e sociali cui l’Egitto si trovava di fronte, lasciando inevase le pressanti richieste popolari di riforma e miglioramento economico. Dall’altra parte, hanno preteso di accelerare il processo di (sia pure parziale) islamizzazione dello stato e della società egiziana, facendo approvare una Costituzione non condivisa dalle forze di opposizione e le minoranze religiose (segnatamente i cristiani copti). Ciò ha sollevato una forte opposizione che ha mobilitato la piazza contro coloro che pur legittimamente avevano vinto le elezioni.
La mobilitazione di piazza contro la Fratellanza musulmana e Mursi ha rappresentato il pretesto per l’intervento repressivo e censorio dell’esercito che, defenestrando Mursi e mettendo fuori legge la Fratellanza musulmana, ha effettuato un colpo di stato inteso a riportare l’inquieto Egitto rivoluzionario sotto il controllo delle élites militari, ansiose di conservare i propri privilegi e il proprio ruolo di arbitri della vita nazionale.
In sintesi, si può affermare che, almeno in Egitto, l’islam politico non ha saputo incarnare quella direzione egemonica – per dirla con Antonio Gramsci – che avrebbe potuto compattare l’opinione pubblica e le varie tendenze presenti all’interno della società egiziana dietro un soggetto politico.
Ciò tuttavia non significa la fine e la crisi irreversibile dell’islam politico. Il pensiero politico islamico contemporaneo continua la revisione dei principi teorici classici, soprattutto nella direzione di attualizzare il concetto di ‘shura’ o consultazione, legato alla questione della rappresentatività, e di rendere operativo il concetto di stato civile (dawla madaniyya), secondo il quale lo stato islamico è uno stato di diritto fondato sul consenso della cittadinanza. Questi principi teorici possono costituire la base di un rinnovato ruolo dei partiti islamisti, che comunque continueranno a riscuotere l’adesione di parte cospicua della società civile.