L'islam
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’islam è un insieme di credenze e ritualità ma, non secondariamente, anche un’ortoprassi: un modo cioè vincolante di comportarsi nel vivere quotidiano. Le strutture fondamentali del suo credo, estrapolate innanzi tutto dal Corano e poi dalla Tradizione (Sunna) riferita al Profeta, sono riassumibili in cinque (elevati a sei da una parte minoritaria islamica) “pilastri” fondamentali, la cui piena osservanza è condizione indispensabile per potersi dire a pieno titolo musulmani.
L’islam crede nell’esistenza di un unico Dio (Allàh), senza ipostasi o persone. Egli, per il tramite dell’angelo Gibrìl (Gabriele), avrebbe rivelato verso il 610 il Corano – articolato in 114 sure, o capitoli – a Muhàmmad (Maometto), prescelto come ultimo profeta di una lunga catena iniziata con Adamo e proseguita con altri profeti, per lo più compresi nella tradizione antico-testamentaria, con l’aggiunta, subito prima di Muhammad, di Gesù (’Ìsa), figlio della vergine Maria (Màryam).
La struttura della fede islamica poggia su 5 arkàn ad-din (“pilastri della religione”), tutti obbligatori. Il primo di essi è la shahàda, ossia “testimonianza” di fede nell’Unicità divina (tawhìd) e nella missione profetica di Muhàmmad, attestata dalla formula che in arabo recita: “Non v’è altro dio che non sia Iddio e Muhammad è il Suo Inviato”. È indispensabile che ciò sia detto, con retta intenzione e libera espressione di volontà, al cospetto di due uomini o di quattro donne d’età adulta. Ciò comporta l’ingresso immediato nella comunità dei credenti, da cui non sarà più lecito uscire.
Il secondo dei “pilastri” è la zakàt, ossia l’imposta “di purificazione” della propria ricchezza. La lecita fruibilità di essa è infatti conseguibile solo col versamento di una parte dei guadagni ai correligionari più bisognosi (poveri, orfani, vedove).
Questa sorta di “elemosina vincolante” – regolata in età classica islamica da precisi prontuari ed esatta da personale nominato dalla suprema autorità islamica – non impedisce il ricorso anche a una suppletiva elemosina “volontaria” che, anzi, è caldamente raccomandata e sollecitata.
Il terzo degli arkàn è la salàt, ossia la preghiera obbligatoria. Oltre a quelle volontarie e ad altre preghiere particolari (ad esempio in occasione del pellegrinaggio a Mecca, o per invocare la pioggia, o la preghiera “della paura”, da adempiere celermente in presenza d’un grave pericolo), quelle canoniche sono cinque, da assolvere nell’arco dell’intera giornata, che va dal tramonto al tramonto del giorno successivo. Nel susseguirsi di dì e notte, la prima è quella dell’alba (subh o fa’r), quindi quella del mezzodì (zuhr), poi quella del pomeriggio (’asr), del tramonto (maghrib) e infine della sera (’ishà’). Tutte, per essere valide, devono essere eseguite in stato di purità rituale (tahàra), da conseguire con lavacri parziali (wudù’) per i casi di peccaminosità minore o con un lavacro completo (ghusl) in caso si siano commessi peccati di maggior rilevanza. Da notare che, per mancanza assoluta di un clero, la purificazione della coscienza si conseguirà solo col diretto rapporto con Dio e dopo il sincero pentimento del peccatore e il sentito impegno di non peccare più.
Salvo quella del mezzodì del venerdì, da adempiere possibilmente in moschea con altri fedeli, le altre preghiere sono condotte privatamente, ovunque ci si possa trovare, con l’accortezza di delimitare un pezzo di terreno esente da sporcizia o, più spesso, facendo uso di stuoie, piccoli tappeti o, in caso di emergenza, del proprio mantello. Il periodo in cui è valida la salàt è ricordato dal richiamo d’un apposito delegato (il muezzin), effettuato dall’alto del minareto della moschea. La salàt si compone di un preciso e inderogabile insieme – definito raq’a – di giaculatorie, inchini, genuflessioni e prosternazioni che variano dalle due raq’a della preghiera dell’alba alle quattro di quella del mezzodì, del pomeriggio e della sera, alle tre raq’a del tramonto.
Il luogo principalmente delegato per tale obbligo è la moschea (dallo spagnolo mezquita: adattamento dell’arabo mas’id), al cui interno una nicchia (mihràb) indica la direzione della Ka’ba di Mecca, santuario cubico considerato d’origine celeste). Esiste anche un minbar, o pulpito, da cui il venerdì viene rivolta ai fedeli un’allocuzione da predicatori di buona nomea.
Il quarto “pilastro” è il digiuno (sawm) del nono mese del calendario lunare islamico di ramadàn. Gli adulti sani – non impegnati in attività che impediscano o sconsiglino un impegno fisico di tale portata – devono astenersi, dal levare del sole al suo tramonto, dall’ingerire cibi solidi e bevande, dall’inspirare profumi o anche il fumo del tabacco e dall’attività sessuale. Chi non adempia un simile obbligo dovrà recuperarlo appena possibile. La rottura del digiuno prima del tramonto comporta penitenze fisiche e pecuniarie. La fine dei 30 giorni del mese di ramadàn è festeggiato con una festa assai sentita (’id al-fitr, in turco bayràm).
Il quinto degli arkàn è il pellegrinaggio obbligatorio (hajj) a Mecca e ai suoi dintorni. Chi ne abbia la capacità fisica ed economica deve adempiervi una volta almeno nella vita ma il numero è contingentato dalle autorità dell’Arabia Saudita a un tetto massimo annuo di due milioni di pellegrini. Il hajj ha luogo dall’8 al 12 dhu l-higgia, ultimo mese dell’anno islamico, e ha come teatro dell’atto la Ka’ba di Mecca e i suoi dintorni. Consta di precise ritualità che i pellegrini – ricoperti con un umile doppio telo per cingere i fianchi (izàr) e il busto, lasciando scoperta la spalla destra (ridà’) – compiono collettivamente, in stato di purità rituale. Il culmine del rito (pressoché identico a quello eseguito in epoca pagana in onore delle divinità allora venerate) si ha il 10 del mese, chiamato “Giorno del sacrificio” (yawm al-adha, o an-nahar), che costituisce la festa più importante islamica.
Un ulteriore “pilastro” sarebbe il gihàd, ossia l’“impegno sacro” del musulmano “sulla strada di Allàh”, ma nella sua sola accezione “maggiore”, mirante cioè al miglioramento morale di se stessi. Nella sua accezione “minore” di guerra offensiva – quella su cui si sofferma volentieri il mondo non-islamico – il gihàd è invece riconosciuto vincolante solo dai musulmani sciiti e da una parte minima del mondo sunnita (hanbaliti). La canonicità è invece unanimemente prescritta in caso di guerra di difesa.
Indiscutibili sono ovviamente i pochi dogmi dell’islam, non accettando i quali non si può dire di far parte della umma dei credenti. Assieme alla fede nella missione profetica di Muhammad, l’islam reputa indiscutibili alcuni passaggi escatologici, legati al disposto divino nel Giorno finale del Giudizio. In esso Allah decreterà il premio eterno del Paradiso per i Suoi servi (muslim significa “assoggettato a Dio”) e il castigo dell’Inferno per chi non Gli avrà ubbidito. Dogma è il “tormento della tomba”, inflitto fino al Giorno del Giudizio Finale al defunto che non sia morto da buon musulmano dai due angeli Mùnkar e Nakìr, laddove lo stesso periodo sembrerà un attimo per i buoni musulmani. Altro dogma è la Bilancia (mizàn) su cui gli angeli peseranno i fogli su cui sono vergate tutte le azioni dell’uomo, positive e negative, determinando anche visibilmente il responso finale divino.
I beati si avvieranno verso il Paradiso (Firdaws), o Giardino (Janna), percorrendo un ampio e comodo Ponte (gisr), che diventerà strettissimo per i reprobi, facendoli inevitabilmente precipitare nel sottostante Inferno, pieno di fiamme ardenti e di tormenti fisici e morali. Chi abbia attraversato il Ponte, approderà invece alle porte del Paradiso e, dopo essersi abbeverato in un Bacino (hawd) che gli toglierà per sempre la sete, entrerà nel Giardino per esservi eternamente allietato e servito da giovani donne (hur) eternamente vergini e da giovani maschi (ghulàm).
Il Corano indica alcuni di questi obblighi per sommi capi. La loro precisa ritualità deriva invece da disposizioni impartite da Muhammad e, talora, dalle generazioni seguenti dei dotti religiosi. La necessità di interpretare il Corano (spesso ricco di espressioni oscure e allusive) ha sviluppato studi specialistici, ritagliando uno spazio di assoluta preminenza per gli studiosi religiosi (’ulamà’ o mullah) che di fatto – specie in ambito sciita – surrogano la classe sacerdotale, malgrado nell’islam non sia ammesso altro che il rapporto diretto fra Dio e ogni Sua creatura.
Quanto viene riferito alle interpretazioni, alle parole e agli atti di Muhammad è definito Sunna. Essa, insieme al Corano (ma in posizione subordinata), costituisce la sharì’a, la “retta via” che guida alla salvazione il fedele. Grande importanza, tuttavia qualitativamente inferiore alla sharì’a, ha anche il “consenso dei dotti”, cui è comunque concesso un certo autonomo spazio interpretativo, seppur fortemente condizionato dalle altre due fonti del diritto islamico. Nel campo della gestione concreta del diritto islamico v’è spazio per i giurisperiti, o faqìh, alcuni dei quali (mùfti) sono incaricati di emettere fatwa (pareri pro veritate) che in passato servivano per chiarire dubbi ai giudici (qàdi) e per consentir loro di emettere sentenze giuridicamente fondate.
L’evoluzione storica dell’islam ha provocato incipientemente forti contrasti politici e ideologici, che hanno generato profonde divergenze in materia di diritto e di teologia. Le due maggiori contrapposizioni sono quelle fra lo Sciismo – che sostiene il privilegiato diritto alla guida politica dell’Islàm del Casato di Muhàmmad (Ahl al-Bayt) – e il Sunnismo che a questa visione invece si oppone in nome di un principio di uguaglianza dei musulmani. In questa cornice differenziata si sono sviluppate diverse scuole giuridiche (madhhab) che, in ambito sciita vede sopravvivere quella giafarita (dal nome di un discendente del Profeta) e in quello sunnita quelle hanafita, malikita, sciafeita e hanbalita.