L’istruzione pubblica tra primo Ottocento e primo Novecento: le scuole elementari
Anche a Venezia, il secolo che trascorre dalla caduta della Repubblica fino alla vigilia della prima guerra mondiale segna la trasformazione piena dell’insegnamento e delle forme dell’istruzione elementare. Il cambiamento procede con lentezza estrema, secondo una tendenza naturale — particolarmente viva nella scuola — a mantenere nel tempo metodi, letture, tradizioni e abitudini consolidate. Già all’inizio del secolo affiora la prima percezione della distanza che ormai separa le scuole dei sestieri, sia pure riformate grazie all’intelligente lavoro di Gasparo Gozzi nel 1774, dal sistema austriaco ormai adottato nei diversi territori dell’Impero. Nel 1804, le diciannove scuole normali erette trent’anni prima dalla Repubblica ed ancora esistenti nella città si presentano per alcuni aspetti ancora legate a metodi e forme d’insegnamento in uso dal Medioevo e per tutta l’età moderna, nonostante l’impegno profuso a rinnovarne i programmi. Le classi riuniscono insieme bambini di età diverse e cognizioni disomogenee: è il sistema tradizionale, che rallenta e rende più difficile l’apprendimento, costringe i maestri a prestare un’attenzione limitata a ciascun allievo, dedicandosi «separatamente uno per uno, qual nel leggere, qual nello scrivere, quale nell’aritmetica, e quale nella grammatica». Ad eccezione di due casi, le scuole veneziane erano dunque
normali di nome, e non di sostanza, perché sebbene vi si apprendano la Dottrina Cristiana, a leggere, a scrivere, le quattro prime operazioni dell’aritmetica, i primi elementi di geometria e a conoscere gl’istromenti degli artefici, riguardo poi al metodo d’insegnamento non avvi nelle scuole predette traccia veruna del vero metodo normale che si pratica in Germania. Non si ha idea della tavola nera, che è uno dei pregi maggiori di questo metodo, che rende contemporanea l’istruzione per tutti gli scolari, impiegando il maestro tutto il suo tempo per tutti(1).
Dall’inizio alla fine dell’Ottocento le scuole elementari si conformano lentamente a metodi didattici innovativi e uniformi, che richiedono libri di testo predisposti per i nuovi sistemi e una formazione professionale adeguata per i maestri; si assiste al costituirsi di classi omogenee e si attesta l’insegnamento simultaneo, prima nelle città, poi nelle campagne. A livelli più profondi, è il farsi strada e il problematico tradursi in pratica di un principio che porta con sé — dalla sua nascita — l’impronta illuministica di un dispotismo riformatore: l’istruzione gratuita e obbligatoria, tanto per i maschi quanto per le femmine. Non basterà l’intero secolo perché questi obiettivi possano dirsi raggiunti; ma nelle difficoltà e nelle contraddizioni, nei progressi come nei ritardi, nei successi e negli arretramenti si può intravedere e seguire la trasformazione strutturale nel panorama dell’alfabetismo. In questa luce, il trapasso dal sistema austriaco a quello italiano si manifesta in forme non traumatiche, e appaiono meno marcate e nette le differenze qualitative tra le due concezioni didattiche, discordanze che si sfumano nella continuità dei luoghi dell’istruzione, delle persone — ispettori e docenti — e che insieme mostrano la ricca eredità di tradizioni e di esperienze maturata nel lungo periodo sotto il regime asburgico.
Gli anni che precedono e seguono l’unità di Venezia e del Veneto all’Italia segnano una fase di particolare importanza, che mette in maggiore evidenza alcuni elementi specifici dei territori che entrano a far parte della nazione sei anni dopo la nascita del nuovo Regno; questo saggio intende approfondirne alcuni in particolare: in primo luogo lo stato dell’istruzione elementare prima del 1866, a partire dalle osservazioni di Giovanni Codemo, una delle figure che meglio rappresentano la vita e i problemi delle scuole elementari austriache; in secondo luogo, gli effetti del concordato tra l’Impero austriaco e la Santa Sede sull’istruzione elementare, e le conseguenze al momento dell’unificazione(2); in terzo e ultimo luogo, delineare a grandi tratti le scelte di una città — Venezia — che, nell’entrare a far parte dell’Italia, rivendica il patrimonio di esperienze maturate sotto gli Asburgo, e con orgoglio intende presentarsi all’avanguardia nell’impegno verso l’istruzione popolare dei bambini, delle donne, degli adolescenti e degli adulti.
Svanita l’illusione rivoluzionaria del ’48, le scuole elementari non sembrano toccate da censure, epurazioni, polemiche esplicite, né traspaiono con evidenza quei dissensi di cui, qualche anno dopo, non sarà difficile trovare alcune tracce. L’istruzione elementare costituisce un motivo di vanto per il regime austriaco, e il corpo dei docenti — specialmente sul fronte statale — è consapevole di far parte di un settore modello e, in alcuni casi, è fiero di dimostrarlo. A più riprese, tra il 1854 e il 1857, i maestri vengono coinvolti in importanti iniziative di promozione: e vi partecipano anche individui destinati, in seguito, ad essere processati e puniti per aver espresso idee politiche non allineate. Dalla descrizione che segue, pur espressa negli inequivocabili toni dell’encomiastica d’occasione, si coglie la partecipazione della fascia più avanzata e rappresentativa degli insegnanti elementari: si possono ben immaginare i fermenti, i preparativi intrapresi sul finire del 1856 nelle scuole di tutto il Veneto, e la speranza di ricevere una visita di Francesco Giuseppe ed Elisabetta d’Austria:
Molti i ristauri di stanze scolastiche; e gli addobbi e le ghirlande di fiori di cui furono abbellite, e le decorazioni e gli ornamenti […] e le iscrizioni sulle pareti […] gli scritti calligrafici, i disegni d’ogni specie e gli svariati lavori d’ago che si eseguirono […] gli album ad essi umiliati, od a tale intento approntati; ed i componimenti […] e le poesie e gl’indirizzi appresi a memoria da’ fanciulli […] i lieti evviva in fine ed i canti degli ingenui giovanetti, che parati a festa, fissando lo sguardo nel loro Sire, apprendevano da Lui devozione ed affetto(3).
Il viaggio ufficiale degli augusti sovrani a Venezia tra il novembre del 1856 e gli inizi del 1857 viene seguito e pubblicato — raccogliendo i resoconti stampati nella tipografia galleggiante appositamente predisposta da Giuseppe Antonelli — da un maestro, Giovanni Codemo, che al calendario puntuale di quanto si svolge giorno per giorno aggiunge, come seconda parte del libro, un elenco dettagliato dei lavori selezionati per l’occasione, intitolandolo Omaggio delle scuole reali inferiori ed elementari. I nomi e le virtù dei sovrani assumono le forme più varie («Salve Augusto, salve Elisa / E d’Absburgo la Magion», così iniziava la poesia che i bambini della scuola più importante di Venezia avrebbero dovuto declamare) nell’ampia scelta di sonetti, acrostici, anacreontiche, canzoni, e sono tracciati nei disegni, nei saggi calligrafici, nei quadri ricamati, frutto evidente di un lavoro capillare e intenso in tutti i maggiori istituti scolastici del Veneto(4).
Il testo descrive la città in un momento particolare, nell’occasione di un viaggio oggettivamente delicato, intrapreso com’era nell’intento di riconciliare alla corona i sudditi delle province venete dopo i moti rivoluzionari del ’48-’49(5). Eppure, dietro l’evidente enfasi retorica dell’Omaggio — cui del resto la scuola ricorre volentieri anche in altre epoche — si avverte l’espressione di un consenso almeno in parte autentico, nato dalla consapevolezza di ciò che il sistema scolastico austriaco aveva contribuito a far nascere e sviluppare nelle province venete; un riconoscimento che affiorerà più volte, anche dopo l’annessione di Venezia e del Veneto all’Italia. Nella premessa alla raccolta, Codemo delinea in sintesi la storia del sistema scolastico adottato nelle province del Regno lombardo-veneto, e ne ripercorre ‘a ritroso’ le tappe, illustrandone gli aspetti più significativi. Ricorda l’atto di nascita del sistema scolastico elementare: il Regolamento organico del 1818, che istituiva l’istruzione gratuita e obbligatoria, e «affinché cotesta educazione primaria fosse veramente universale, venne dal saggio legislatore estesa altresì sulla donna, su quella metà dello Stato che influisce grandemente al benessere ed al felice indirizzo dell’altro»(6). Al biennio tra 1821 e 1822 Codemo fa risalire l’apertura delle due scuole statali in ciascuna delle otto città capoluogo di provincia, le scuole maggiori maschili e femminili, e al 1823 l’organizzazione della rete capillare delle scuole comunali minori, che costituivano le fondamenta del sistema di alfabetizzazione austriaco: «quasi ogni parrocchia ebbe scuole minori pei fanciulli e non poche furono quelle ancora per le fanciulle». I risultati, a quasi quarant’anni di distanza, sono così delineati: «In 813 comuni, formanti il veneto territorio e suddivisi in 1679 parrocchie, oggidì abbiamo 7 r. scuole reali inferiori incompiute, 8 scuole elementari maggiori maschili, 9 femminili, 35 elementari maggiori comunali; 1604 elementari minori maschili e 118 femminili».
Codemo non si dilunga a chiarire e descrivere la natura di quelle scuole che, allora, risultava a tutti ben nota, ma che qui vale la pena di ricordare sinteticamente. L’impianto austriaco prevedeva una sostanziale suddivisione: le scuole elementari minori venivano istituite per offrire «la prima necessaria istruzione di tutti i fanciulli di qualunque condizione»; le scuole maggiori erano destinate all’istruzione «della gioventù che intende applicarsi allo studio delle scienze e delle arti», mentre le scuole elementari tecniche, infine, erano destinate all’istruzione di quanti intendevano «dedicarsi al commercio, agl’impieghi economici ed a tenere libri di ragione»(7). Le scuole minori (di due classi: la prima, articolata in due anni e divisa in sezione inferiore e superiore, e la seconda classe) e le scuole maggiori (di tre, poi quattro classi), infatti, rappresentavano due modelli educativi distinti, ma nello stesso tempo non pregiudizialmente separati. Nelle scuole minori si imparava a compitare, a sillabare, a recitare a memoria le preghiere, a leggere, a comprendere il significato dei brani letti, a tracciare le lettere, esercitandosi su modelli calligrafici semplici, fino a raggiungere il «carattere spedito». Queste erano le scuole che il Regolamento dichiarava obbligatorie. Le elementari maggiori erano istituti di migliore qualità, ma in parte coincidevano e in parte prolungavano il ciclo delle scuole minori: alle prime due classi, infatti, veniva aggiunta una terza, nella quale si iniziava a leggere e scrivere il latino sotto dettatura; si accedeva poi al ginnasio, continuando con gli studi grammaticali e umanistici, o, in alternativa, si passava al biennio rappresentato dalla quarta (e ultima) classe che serviva a formare nell’impiego d’ufficio, o della ragioneria e del commercio i bambini che non intendevano proseguire negli studi classici. Le due scuole maggiori, una per i maschi, l’altra per le femmine — vale a dire gli istituti scolastici modello per il ciclo elementare — erano statali e dovevano essere organizzate e avviate in ciascuna città capoluogo di provincia. Le spese a carico dell’erario riguardavano gli stipendi del personale: direttore, maestri, assistenti, bidelli, mentre quelle relative agli immobili — acquisto, affitto, restauri per adeguare gli spazi a quella destinazione — così come l’acquisto dei banchi, delle «tavole nere» o lavagne, dei mobili, delle attrezzature scientifiche, erano a carico del Comune, distinzione di ruoli che sarà fonte di infinito contenzioso tra Stato e Comune, centro e periferia, e destinato a trascinarsi anche oltre l’Unità(8). La scuola maggiore maschile di Venezia (che inizialmente trovò sede a S. Provolo, per passare in seguito a S. Stin) prendeva il nome di normale, dovendo servire da modello di riferimento a tutte le altre, e anche perché vi si svolgevano i principali corsi di metodica, ovvero di formazione professionale degli insegnanti. La scuola tecnica, istituita solo vent’anni dopo il Regolamento e diretta da Luigi Alessandro Parravicini, uno dei personaggi più noti e accreditati nel campo dell’istruzione, ebbe una storia tormentata, segnata da scarsa affluenza, innumerevoli lamentele, ripetute assenze di insegnanti e direttore, e da continui interventi di riforma e modifica dei cicli(9). La contrapposizione storica tra istruzione umanistica da un lato, e istruzione legata alla professione e al lavoro dall’altro, è resa in modo ottimistico nella sintesi di Codemo, che non fa cenno alle riserve, alle diffidenze costanti delle famiglie verso i corsi tecnici; e neppure ai timori più volte espressi dalle autorità governative per l’eccessivo afflusso agli studi ginnasiali, e il conseguente pericolo di disoccupazione intellettuale(10). Nel corso del secolo XIX si delinea la presenza di edifici riconoscibili anche dall’esterno nel tessuto urbano come sede di istruzione dell’infanzia, e che accolgono ciascuno un numero elevato di studenti, attestato intorno alle tre o quattrocento unità, che verso la metà del secolo tenderanno a raddoppiare, e ad aumentare ancora sensibilmente nei primi anni del Novecento(11). Queste sono le scuole elementari maggiori che si predispongono ad accogliere la visita di Francesco Giuseppe e di Sissi.
Questo — o all’incirca questo — il contesto che rimane sullo sfondo nella relazione offerta da Codemo ai sovrani. I risultati sono soddisfacenti: si è registrato, nell’anno scolastico 1855-1856, per tutto il Veneto un totale di 105.761 frequentanti e un sensibile aumento nella frequenza di 16.000 unità rispetto a quattro anni prima. Complessivamente, vi erano a Venezia 383 scuole elementari — tra maschili e femminili, pubbliche e private — frequentate da un totale di 11.618 studenti (va precisato che in questa occasione, come accadeva del resto non di rado nel corso dell’Ottocento, il termine scuola è spesso, ma non sistematicamente, usato come sinonimo di classe anziché come sede; l’incertezza rende in larga misura difficile un confronto dei dati statistici disponibili a partire dall’età napoleonica fino alla definizione di parametri statistici unitari)(12).
Sul piano della formazione e dell’aggiornamento, Codemo illustra un’innovazione introdotta a Venezia (e non ne rivendica a sé, pur avendolo, il merito): le riunioni di approfondimento didattico, che per regolamento si dovevano tenere scuola per scuola ogni mese, e i cui verbali venivano trasmessi all’ispettorato, diventano spunto per ampliare la discussione a più istituti. Si realizza in questo modo una pratica di coordinamento tra maestri che fa circolare punti di vista diversi, e condividere i risultati su alcuni argomenti, coinvolgendo nel confronto anche gli insegnanti delle scuole maggiori comunali e delle minori, categoria meno tutelata sul piano giuridico ed economico, e di prestigio sociale inferiore. I temi citati da Codemo dimostrano che Venezia e il Veneto partecipano a pieno titolo, e da protagonisti, al dibattito su problemi largamente presenti nelle riviste pedagogiche fiorite, in quegli anni, in diverse città italiane: la pronuncia, l’uso delle penne metalliche, le cause per cui il profitto dell’ortografia non corrisponde pienamente ai desideri dei maestri, i limiti dell’insegnamento, gli strumenti per far comprendere meglio i concetti dell’aritmetica, l’uso dei premi e delle punizioni, l’arredo scolastico e i sussidi didattici, e molti altri argomenti ancora, importanti per comprendere più nel dettaglio che cosa significhi insegnare e fare i maestri alla metà dell’Ottocento. Gli elementi negativi, sia pur presentati con grande diplomazia, non vengono nascosti dall’ispettore: in primo luogo è ammessa esplicitamente la carenza di scuole femminili, anche se in parte compensata dall’alto numero di maestre che insegnano privatamente. Ma l’aspetto più problematico che Codemo mette in luce, riservandovi ampio spazio, è lo stipendio dei maestri: «Sino a che il sarto, il tessitore, il campanajo del villaggio verranno stipendiati meglio del maestro comunale, sarà maestro comunale chi non sa essere nemmeno sarto, tessitore o campanajo»(13). È una battaglia che Codemo combatte di continuo, e in prima linea, utilizzando tutte le sedi possibili, comprese quelle di più evidente carattere elogiativo. Anzi, verrebbe da pensare che certe operazioni vengano intraprese proprio con questo obiettivo, e per tale scopo condivise dagli altri insegnanti. In questa luce, gli sforzi fatti da Codemo per organizzare gli Album e attirare l’attenzione sui vari aspetti dell’attività didattica possono essere meglio compresi, e attribuiti non tanto a una strumentale forma di personale autopromozione, quanto allo sforzo di utilizzare ogni mezzo efficace per sostenere il mondo delle scuole, per migliorarlo, e acquisire crediti per l’intera categoria dei maestri, «umili ma preziosi operai della civiltà».
La biografia di Giovanni Codemo, autore dell’Omaggio, illustra nei fatti e serve forse da paradigma per la condizione di insegnante a quell’epoca. Maestro elementare, prima in campagna poi in città, egli aveva ricoperto incarichi di sempre maggiore responsabilità, fino a raggiungere il vertice, negli ultimi quindici anni che precedono l’Unità, come funzionario facente funzione di ispettore scolastico generale. Quest’uomo — padre di dieci figli, attivissimo nelle scuole, nell’ufficio di ispettore, nella redazione della rivista pedagogica «L’Institutore» da lui fondata e diretta, e autore di numerosi libri di testo — conosceva più di chiunque altro, e nei minimi dettagli, la realtà del mondo legato all’istruzione e all’infanzia nel Veneto e a Venezia(14). Amava il suo lavoro, cui si dedicava con un entusiasmo e un’energia straordinari: «nell’insegnamento riusciva schietto; non era scrittore, ma nessuno come lui sapeva insegnar a scrivere». Per carattere, del resto, era portato verso gli aspetti pratici e concreti dell’attività didattica, più che a una riflessione filosofica sui principi pedagogici astratti, come avrà modo di dimostrare nelle diverse annate dell’«Institutore».
Figura chiave nella storia della scuola elementare, e non solo in ambito locale, vedremo più oltre come Codemo si presti bene a rappresentare il rapporto complesso di continuità e di non contrapposizione tra il recente passato austriaco e la nuova amministrazione italiana; una condizione che si registra nella mentalità pubblica cittadina, e che trova difficoltà ad essere recepita e accolta a livello centrale.
La scrittrice Luigia Codemo di Gerstenbrand, nipote di Giovanni e di convinzioni ideologiche opposte, descrive con affetto alcuni lati del carattere dello zio, il caro barba Zanetto, come lei lo chiama: «in politica non vide chiaro, ma tenne fermo, osservando sempre in bene ciò che tornava di vantaggio alle sue dilette scuole [...] mi son coa» — egli diceva di sé — vale a dire palesemente un conservatore, un ‘codino’. Agli antipodi di Garibaldi, ne parlava con simpatia anni e anni prima che il generale mettesse piede in città. «Vien sior Isepo [diceva salendo le scale e ammiccando alla porta] L’è qua. Sior Isepo m’ha scrito ch’el vien»(15). Non direttamente interessato alla politica, gli stava a cuore il destino delle scuole, il miglioramento dell’istruzione e dell’educazione dell’infanzia. Il rapporto con i superiori si mantiene nei termini di una collaborazione affidabile ed efficiente; nonostante l’uso di formule particolarmente ossequiose, e l’ossequio reale dimostrato, Codemo non ha scrupoli nell’utilizzare le proprie conoscenze per cercare soluzione ai problemi scolastici e didattici: «Quando ci si mettea lui, le autorità, a cui non dava pace, aveano un bel gridare, sbuffare — Quel benedetto Codemo!... Basta che si fissi una cosa in testa!...»(16).
L’insieme di questi atteggiamenti, di forte impegno, passione, solidarietà verso le situazioni meno protette dei maestri che insegnavano in campagna, apertura senza preconcetti alle idee e alle proposte, indipendentemente dalle convinzioni individuali, gli guadagnarono una stima generale non soltanto nel fronte filoaustriaco, ma anche in quello opposto. La sua credibilità come persona è confermata del resto dal numero e dalla eterogeneità dei suoi collaboratori nelle annate dell’«Institutore»: si rintracciano le firme di tanti futuri esponenti del risorgimento intellettuale veneto e veneziano, come Giuseppe Bianchetti, Antonio Berti, o lo stesso Luigi Antonio Gera. Integrità morale riconosciuta unanimemente a tal punto che, nel 1867, l’amministrazione comunale ritiene opportuno conferirgli l’incarico di ispettore scolastico urbano delle scuole veneziane. L’anno dopo, su sollecitazione delle autorità locali, per nomina regia diviene cavaliere dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, un’onorificenza importante, anche se non tra quelle maggiori, e utilizzata quale forma di ufficiale riconoscimento dei funzionari pubblici a quel livello (Codemo potrà dunque continuare a definirsi «cavaliere», come usava fare in precedenza con il titolo ricevuto dall’imperatore d’Austria).
Nel 1870, la valutazione sul suo conto coinvolge le massime autorità, a Venezia come al Ministero, in occasione della sostituzione di uno dei due membri di nomina governativa — ruolo rimasto appena vacante — del consiglio scolastico provinciale, massimo organo collegiale che affianca il prefetto e il provveditore agli studi nell’ordinamento didattico italiano. Luigi Torelli, nella duplice veste di prefetto e presidente del consiglio scolastico provinciale, indica il nome di Codemo. Il Ministero della Pubblica istruzione solleva obiezioni, nel timore di urtare la suscettibilità dei patrioti veneziani: timore che non viene quasi preso in considerazione. «Uomo rispettabile ed esemplare sotto ogni riguardo ed espertissimo nell’amministrazione scolastica [afferma tranquillamente Torelli] ma pur specialmente nella parte che si riferisce all’istruzione elementare, che diresse nelle Venete provincie per tanti anni sotto il regime passato, e che regge pur adesso in questa città, per destinazione particolare avuta dal Municipio»(17). La preoccupazione di commettere errori spinge l’autorità centrale ad approfondire l’indagine; si vuole evitare che il ricordo dei legami di Codemo con il governo precedente provochi la disapprovazione di una parte significativa della cittadinanza, anche perché corre voce che egli sia «poco amante del presente ordine di cose». L’interlocutore prescelto per confermare o meno i giudizi del prefetto — in un carteggio ovviamente riservato — è Tommaso Gar, direttore dell’Archivio di Stato di Venezia. La scelta sembra derivare da un rapporto di fiducia personale tra l’alto funzionario e il Ministero, perché Codemo, a differenza dell’altro consigliere, Guglielmo Berchet, o del maestro Luigi Antonio Gera, non sembra inserito nella cerchia degli eruditi cultori degli studi storici(18). «Uomo di grande esperienza nelle cose scolastiche [è la risposta di Gar, che esprime valutazioni analoghe a quelle del prefetto] acquistata col lungo esercizio dell’insegnamento pubblico e dimostrata con parecchi utili scritti. Questo merito incontrastabile mosse più volte il Municipio di Venezia ad affidargli incarichi di molta importanza, relativi a scuole comunali e ad altri istituti d’istruzione e di beneficenza». Quanto alla fama di cui gode in città, «la grandissima maggioranza dei Veneziani spassionati non comprende punto il Codemo fra coloro che, avendo percorsa tutta la carriera d’impiegati pubblici sotto il cessato governo, sono o si estimano poco amanti del presente ordine di cose»(19). In sostanza, le scelte dell’amministrazione comunale di Venezia sono e devono essere ritenute sufficiente garanzia per orientare le scelte del governo.
Quale rapporto si era creato tra il Municipio veneziano e l’ispettore generale delle scuole austriache? In quale modo la fiducia nella persona aveva superato la diffidenza per le divergenze politiche? È probabile che la risposta vada individuata nella conoscenza personale e nella reciproca stima tra Codemo e l’assessore all’istruzione in seno alla giunta comunale cittadina, il medico e senatore Antonio Berti, consigliere scolastico nel Comune di Venezia ormai italiano. Sintonia testimoniata, ancora, dalla Gerstenbrand, che dopo l’Unità segue con grande attenzione i problemi legati all’educazione, e vi partecipa attivamente per molti anni come patronessa delle scuole festive femminili della città. Il quadro rappresenta due figure in evidente e stretto rapporto di consuetudine al dialogo: Giovanni Codemo, vera e propria anima dell’istruzione popolare negli ultimi trent’anni del periodo austriaco, e Antonio Berti, cui va il merito del primo Regolamento delle scuole veneziane dopo l’Unità(20).
Berti era là, qual era in casa mia, in casa sua e sempre. Assiduo, cauto, corretto, sapiente, con una vena di quell’umore veneziano o trevisano, che dietro la facezia nasconde una gran finezza. Io mi teneva in disparte e mi godeva a udirlo discorrere in mezzo a quelle madri della patria, emancipate per lavorare, educare e dare il buon esempio. Mi sovviene d’aver fatta un’osservazione, tanto su lui che sul mio venerato zio Giovanni Codemo, compagno e fratello a Berti nella pietosa bisogna scolastica. Quando loro due parlavano là e s’occupavano con quell’interesse di cose tanto utili e serie, parean più giovani di quando eran giovani. [...] Parean belli! [...] A frolli Adoni, ansiosi di nasconder gli anni, raro accade di mostrar quella freschezza e serenità dell’uomo di lavoro e di studio(21).
Da questa descrizione di Luigia Codemo di Gerstenbrand — una delle scrittrici più interessanti nell’Italia del secondo Ottocento — cogliamo qualcosa che i documenti ufficiali non trasmettono facilmente: i legami personali, le discussioni, i fermenti, lo scambio di idee e di informazioni; in altre parole, come possano realizzarsi in concreto forme di continuità anche nei contesti della più profonda trasformazione storico-istituzionale.
La preoccupazione maggiore dimostrata dalle autorità verso le scuole del Veneto appena diventato italiano non riguardava i programmi e neppure i libri di testo, e in minima parte i maestri, ma dipendeva dal fatto che non aveva più efficacia il concordato tra l’Impero austriaco e la Santa Sede.
Le conseguenze sul sistema scolastico erano di grande rilievo, in particolare per le funzioni ispettive e riguardo alle nomine del personale insegnante: erano automaticamente cadute le ampie funzioni riconosciute pochi anni prima alla gerarchia ecclesiastica, e pertanto era ritornato in vigore, in via provvisoria, il sistema austriaco precedente il concordato(22). Il governo, intanto, si preoccupava di nominare i responsabili dell’ispezione e del controllo sull’istruzione, poiché quel sistema era giudicato «contrario alle discipline ora vigenti nel Regno italiano, ed a quei principi di libertà che formano presso i popoli civili il giure pubblico rispetto all’istruzione elementare»(23). Si trattava di una situazione nuova, ben diversa da quella esistente nelle province lombarde, annesse all’Italia sei anni prima, e che rende il Veneto e Mantova, per questo specifico settore, un caso particolare affrontato per la prima volta e risolto dalle autorità italiane, con decisioni, provvedimenti e modalità specifiche(24).
Il regime concordatario, che lasciava ampio spazio all’autorità ecclesiastica in campo scolastico, ebbe dunque nel Veneto vita molto breve, sei anni appena: ma si può osservare come solo due anni più tardi esso venne a dissolversi — per motivi evidentemente diversi — in tutti i territori dell’Impero asburgico. La durata singolarmente breve dell’accordo e il fatto che proprio gli articoli relativi all’insegnamento e al suo controllo fossero entrati in vigore con un ritardo enorme solo nel 1860 rappresentano un segnale di particolare importanza per comprendere meglio la complessa dialettica dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato austriaco nello specifico settore dell’istruzione, per verificare in quale modo alla metà del secolo fossero profondamente cambiati i parametri, le implicazioni filosofiche e morali di quelle relazioni, e come quegli stessi criteri venissero a sconvolgersi di nuovo nel giro di pochi anni.
Il concordato del 1855 «era stato la conseguenza di un trauma, il segno tangibile della rottura di un equilibrio»(25) dopo il ’48, e sanciva il rovesciamento di una lunga tradizione, da Maria Teresa a Giuseppe II, rimasta di fatto in larga misura inalterata per tutta la prima metà dell’Ottocento nelle leggi, nei regolamenti e nella mentalità dell’Impero asburgico. Oltre alla questione della professione religiosa e ai problemi legati alla celebrazione del matrimonio, lo spazio che il concordato riservava all’educazione dei giovani era tale che, nella sostanza, proprio le norme dedicate all’istruzione costituivano uno degli aspetti più significativi dell’accordo(26). Lo Stato delegava alla Chiesa le stesse nomine degli insegnanti — professori e maestri — di ogni ordine e grado, fino al generale controllo (quanto ai contenuti e alla morale) sull’attività didattica svolta nelle scuole, comprese quelle pubbliche(27). Alla Chiesa veniva affidato anche il controllo sulla più generale circolazione delle idee, poiché gli ordinari diocesani acquisivano il diritto di «colpire di censura i libri funesti alla religione e alla onestà dei costumi», mentre il governo si impegnava a far sì che tutti i testi che l’autorità religiosa non giudicava ortodossi venissero banditi dall’Impero(28). L’insieme di queste clausole doveva apparire pericoloso e anacronistico agli stessi occhi di molti funzionari e intellettuali austriaci, abituati al tradizionale giurisdizionalismo asburgico, che da Giuseppe II in poi — anche in piena Restaurazione — aveva assicurato il ruolo forte dell’amministrazione civile in campo religioso, e garantito una generale pratica della tolleranza verso le minoranze confessionali. Ed è proprio alla luce del dibattito su questo specifico ambito del concordato, per la contrarietà e le riserve di carattere politico e giuridico espresse a più riprese negli ambienti liberali, che si colgono meglio le differenze tra questo sistema e l’uso precedente. Anche prima, infatti, il clero svolgeva un ruolo di grande rilievo nell’intero contesto dell’istruzione elementare, come testimonia, dal 1818, il Regolamento organico per le scuole elementari a partire dalla indicazione stessa: «Ovunque si tiene un libro parrocchiale, vi ha una Scuola elementare minore». La parrocchia, non più il Comune come in età napoleonica, veniva dunque eletta a ‘unità di misura’ per la diffusione delle scuole nel territorio: scelta che ampliava il raggio di espansione del sistema d’istruzione primario, raddoppiando potenzialmente il numero delle scuole (e anche qui in una linea di tendenza già manifestatasi durante il periodo francese). Sul ruolo degli ecclesiastici, gli articoli del Regolamento austriaco (rimasto integralmente in vigore, salvo lievi ritocchi, fino al 1860) assumono un valore diverso se confrontati con la normativa esistente negli Stati ereditari dell’Impero, e con l’inversione di rotta imboccata poi con il concordato. Ma è in particolare sulla responsabilità della vigilanza nelle scuole che il ruolo degli ecclesiastici diventa con il concordato preminente e politicamente delicato. Il sistema austriaco prevedeva già una struttura gerarchica, in apparenza lineare: ispettore in capo (scelto preferibilmente tra gli ecclesiastici, come responsabile per tutta la parte veneta del Regno) nominato direttamente dall’imperatore. Onorifici e gratuiti, invece, i ruoli rispettivamente di ispettore provinciale, ispettore distrettuale, direttore locale. La scelta di un laico, nel ruolo di ispettore provinciale, è una eccezione da inserire tra le differenze che caratterizzano il Regolamento per il Regno lombardo-veneto rispetto alle norme in vigore negli altri territori austriaci, elaborate poiché «si è avuto riguardo alla diversità dei luoghi, delle circostanze, delle abitudini, e dei costumi»(29). Nelle altre terre dell’Impero tale funzione era direttamente affidata al vescovo; nel Regno lombardo-veneto il compito di controllare l’istruzione nell’ambito della provincia viene affidato invece ad un notabile laico, nobile o possidente, membro della congregazione provinciale che non riesce facile immaginare intento a tenere «un protocollo particolare d’amministrazione, secondo la modula 12» e a conservare «tutte le carte in separato archivio divise per ogni distretto in ordine alfabetico secondo la modula n. 13»: a Venezia, il conte Alvise Contarini(30). Era prevedibile — e così di fatto avvenne — che il coinvolgimento in compiti burocratici di alti esponenti scelti tra nobili e possidenti dovesse risolversi in un quasi completo fallimento(31). Ma vale la pena di riflettere sui motivi di questa diversità, all’origine della scelta: si trattava di un tentativo di saldare il legame tra i personaggi più autorevoli delle grandi province del Lombardo-Veneto e l’amministrazione austriaca? O non era piuttosto, come si è tentati di ritenere, un gesto prudente, per dirottare su altri la funzione di controllo politicamente più macroscopica, altrove affidata all’ordinario diocesano, nel timore di reazioni vivaci sul fronte ecclesiastico(32)? Nonostante questa misura di ‘alleggerimento’, non tardano le lamentele dei vescovi, che si fanno portavoce dei parroci, sui quali grava in modo prevalente il peso dell’istruzione e del controllo sulle scuole primarie. Si avverte l’ingerenza forte del potere imperiale sulla Chiesa; un’utilizzazione a buon mercato dei pastori d’anime, che diventano funzionari della pubblica amministrazione, con tanto di obblighi, scadenze, doveri. La caduta delle norme concordatarie, nel Veneto e a Venezia, doveva comportare, implicitamente, anche una diversa suddivisione dei distretti scolastici, non più coincidenti con i confini della diocesi, per riportarli alle circoscrizioni amministrative. Oltre quarant’anni prima, proprio su questo punto si era aperto un contrasto di notevole entità tra i vescovi delle diocesi venete e il governo, che si era risolto, nel solco della tradizione giurisdizionalistica, privilegiando in modo netto il ruolo dello Stato. Quando si era trattato di definire le circoscrizioni scolastiche, era risultato impossibile sovrapporre i confini delle diocesi a quelli amministrativi, dal momento che le parrocchie di uno stesso distretto potevano dipendere da curie diverse, e poiché addirittura interi paesi appartenenti ad una provincia potevano far capo al vescovo di un’altra diocesi: come Dolo, che era soggetto alla curia di Padova, pur essendo uno degli otto distretti scolastici della provincia di Venezia. In questi casi, i parroci si dovevano rivolgere ad un altro vescovo, non al proprio ordinario diocesano, per quanto riguardava l’istruzione religiosa e il controllo sull’insegnamento nelle scuole. Il governo, dunque, aveva preferito i distretti censuari: nel 1822 il patriarca di Venezia, Ladislao Pyrker, dopo un conflitto durato quasi tre anni, aveva preso atto di tale decisione, esprimendo chiaramente il proprio dissenso, come del resto avevano fatto (con parole ancora più vibrate) anche gli altri vescovi del Veneto(33). Forse la lentezza con cui si giunse ad elaborare il Regolamento e a renderlo esecutivo (oltre sei anni dalla costituzione del Regno lombardo-veneto) è dovuta, almeno in parte, alla sostanziale differenza di tradizione tra gli Stati ereditari austriaci e le province lombardo-venete proprio nel rapporto Stato-Chiesa. Un ritardo così consistente, per una riforma di cui già si conoscevano in larga misura i contorni, va collegato probabilmente anche alla necessità di attendere la nomina dei nuovi vescovi graditi all’imperatore nelle province venete, e alla consapevolezza di quanto fosse insieme indispensabile e delicato raggiungere un equilibrio diplomatico tra la sfera civile e quella ecclesiastica per assicurare la crescita del sistema scolastico austriaco.
In quegli stessi primi anni si era affrontato il problema del rapporto tra istruzione pubblica e confessioni religiose non cattoliche, in particolare la religione ebraica. Ripristinata con la Restaurazione la patente di tolleranza di Giuseppe II concessa nel 1781, teoricamente diveniva automatico il diritto d’accesso degli ebrei agli istituti di pubblica istruzione, diritto particolarmente avvertito nelle città di Venezia e Verona. Negli altri grandi centri del Veneto, il clima di ostilità, disprezzo, quasi di odio, che si registrava verso gli ebrei a Padova, a Treviso o Rovigo sconsigliava l’integrazione. L’abate Antonio Cicutto, ispettore in capo delle scuole elementari, riteneva che anche a Venezia una vera e propria scuola comunale separata fosse una soluzione preferibile, per evitare l’accavallarsi dei giorni festivi ebraici con quelli cattolici, ma soprattutto a causa delle molte ore (cinque alla settimana) destinate alla religione: «in tale spazio di tempo [si chiedeva] dove si raccoglieranno? In che si occuperanno? Chi li sorveglierà?». Sorvolando sul fatto che già da tempo molti di quei 120 bambini frequentavano le scuole di Cannaregio, egli sembrava temere tensioni a scuola, a causa della diversità di culto(34). Di diversa opinione era il consigliere di governo Passy, per il quale l’insegnamento comune, oltre che un diritto, era un fattore positivo tanto per i cattolici quanto per gli ebrei, salvo l’esigenza di sostituire le lezioni di religione con quelle impartite dal rabbino. L’ipotesi di scuole separate comportava una spesa ulteriore per la comunità israelitica, ed ostacolava l’abitudine ormai invalsa (almeno a Venezia) di frequentare liberamente i ginnasi e i licei (e a Padova l’università) senza che fosse mai accaduto alcun episodio d’intolleranza. Le scuole elementari, nel sistema austriaco, concepite come gratuite e obbligatorie, rappresentavano un diritto tanto per i cattolici quanto per gli ebrei(35). Ma il governo, nel 1820, affermava di preferire l’istituzione di scuole speciali per gli ebrei a carico delle rispettive famiglie(36). E tale doveva essere effettivamente l’orientamento prevalente in sede governativa, se l’ipotesi di scuole separate non venne abbandonata neppure all’arrivo di una direttiva viennese, con la quale si invitavano espressamente gli israeliti ad approfittare degli istituti di istruzione pubblica di ogni ordine e grado(37). Per ovviare alle incertezze, venne indetta una riunione nella sede dell’ispettorato delle scuole elementari, alla presenza del referente di governo per l’Istruzione, Christof Passy, dell’abate Cicutto, di Giuseppe Treves de’ Bonfili, autorevolissimo esponente della comunità ebraica e vicepresidente della Camera di commercio, e di due rappresentanti della Fraterna de’ poveri israeliti, Isaac Grego e Moisè Conigliano. La proposta governativa di circoscrivere alle scuole elementari minori la separazione, motivata dalla marcata impronta confessionale del primo ciclo destinata a stemperarsi nelle classi successive, incontra il profondo dissenso della rappresentanza ebraica, che si dichiara disposta a sostenere lo stipendio di un maestro assistente, scelto dalla comunità, per garantire la sorveglianza dei bambini ebrei durante le lezioni di religione. Le autorità veneziane sono richiamate all’ordine, Vienna boccia la richiesta di scuole speciali: si ritiene che «un’istruzione comune confluire debba non poco ad una migliore educazione anche dal lato morale», come del resto dimostravano i risultati visibili negli Stati austriaci e nella stessa capitale dell’Impero, esempio «dell’utile che all’educazione degl’israeliti arreca l’aver comune coi cristiani la loro istruzione»(38).
Ben diverso clima si avverte quarant’anni dopo, ma non privo di dissensi. Anche nelle terre rimaste all’Impero il fastidio espresso in modo sempre più forte dall’opinione pubblica per l’eccesso di potere attribuito alla Chiesa doveva montare a tal punto che il concordato si dissolse già nel 1868, a dieci anni soltanto dalla firma (una durata singolarmente breve per un testo concordatario): una delle conseguenze della sconfitta austriaca a Sadowa sarà proprio la caduta di tutta la costruzione diplomatica del 1855, e la progressiva deconfessionalizzazione dello Stato proprio sui tre punti fondamentali contenuti in quell’accordo: la professione religiosa, il matrimonio e l’istruzione.
In Italia, si era trasfuso nelle norme della legge Casati l’orientamento in senso laico e liberale della legge piemontese Boncompagni del 1848; questo indirizzo, diametralmente opposto all’ultimo periodo austriaco, doveva entrare, insieme con le prescrizioni italiane, anche a Venezia. Il contrasto stridente tra il passato e il presente trovò diverse occasioni per manifestarsi, anticipando in qualche misura quanto si registrerà a tempi alterni anche nei decenni successivi nel rapporto problematico tra lo Stato e la Chiesa dopo l’Unità, con risvolti costanti sull’insegnamento religioso e sulla presenza della religione cattolica nelle scuole pubbliche. La differenza doveva presto apparire particolarmente forte a Venezia, per la scelta ‘laica’ del calendario scolastico prescritto dal Ministero della Pubblica istruzione nel dicembre 1869, che provocava l’alzata di scudi del direttore della scuola di S. Stin. Dall’inizio del 1870 si doveva far lezione in giorni normalmente di vacanza: «il primo giorno dell’anno, le due feste di Pasqua» e via di seguito. «Per le antiche provincie, nelle quali, in esito a concordato con la Santa Sede furono tali feste regolarmente abolite, la legge va, ma per queste provincie, ove i giorni suddetti son tuttora di precetto ecclesiastico» si sottolineava la più forte contrarietà: alcune feste, oltre che religiose, erano ormai avvertite come «cittadine» e «domestiche», e si segnalavano difficoltà nel disciplinarsi al calendario prescritto(39).
La conservazione stessa delle carte scolastiche genera tensioni di inusitata asprezza tra l’autorità religiosa e quella civile: come a Padova, anche a Venezia il passaggio dalla dominazione austriaca al Regno d’Italia non registra in modo indolore la consegna, da parte della curia, dell’archivio dell’ispettorato scolastico(40), come emerge dal tono durissimo delle lettere scambiate tra il patriarca Trevisanato e il commissario del re, e tra questi e il Ministero dell’Interno. Il patriarca mette avanti motivazioni di carattere prettamente archivistico per confortare le proprie posizioni:
Gli atti risguardanti affari scolastici, i quali costituiscono l’attuale archivio dell’Ispettorato diocesano, vogliono essere distinti in tre classi, quelli cioè rimessi in altra epoca dal cessato Ispettorato provinciale, altri dalla Luogotenenza Lombardo-Veneta diretti all’Ordinariato, altri finalmente dall’Ordinariato stesso indirizzati agl’Ispettori subalterni, alle Direzioni delle scuole soggette, ovvero ad alcuna autorità. I primi e gli ultimi potranno venir consegnati al nuovo direttore scolastico provinciale, sig. Angelo dott. Tonoli, non così i secondi, i quali trasmessi direttamente alla scrivente furono registrati nel protocollo di Curia, ed intanto vennero custoditi nell’archivio scolastico, in quanto l’Ispettorato formava una sezione della curia stessa, sicché devono riguardarsi come parte dell’archivio curiale. Ciò non toglie per altro che possa venire rilasciata al nuovo ispettore la copia di qualche atto di cui per avventura abbisognasse.
Ma non tarda ad esprimere seccamente la propria contrarietà, usando toni che hanno un inequivocabile sapore di rottura:
Nel prestarsi però alla consegna degli atti surriferiti lo scrivente non intende perciò di far atto di sommissione ad una legge che toglie all’autorità ecclesiastica un diritto che le conviene per varii rispetti, ma di cedere soltanto ad una intimazione a scanso di conseguenti dispiaceri(41).
Il commissario del re — dimostrando evidente consuetudine di prudenza politico-amministrativa — prima di agire coinvolge il Ministero dell’Interno, informandolo che la curia veneziana intende restituire solo una parte degli atti richiesti, e chiede di sapere «se debba astenersi da ogni osservazione sulle frasi di cui il Patriarca si serve, e se debba ricorrere alle vie che crederà più convenienti perché le frasi siano ritirate o siano respinte le lettere»(42). Le carte, alla fine, verranno versate(43).
Il concordato aveva aperto un fronte anche sul versante delle scuole non cattoliche, prima dipendenti dall’ispettorato scolastico provinciale: a Venezia, l’incarico di vigilare su quegli istituti era stato affidato nel 1861 ad un ufficio specificamente istituito, l’ispettorato provinciale delle scuole elementari israelitiche ed acattoliche in Venezia. Si trattava di scuole private tutte di culto israelitico (tre elementari maggiori femminili e tre maschili); la scuola greca annessa al collegio «Flangini» sfuggiva alla competenza di quell’ispettorato, poiché erano cattolici i maestri privati che vi insegnavano(44). In quegli anni, non esistevano altri casi simili, né in città né in provincia. «Ora che avventurosamente questo paese va a congiungersi alla grande patria italiana, anche la condizione anomala delle scuole non cattoliche deve cessare per unificarsi in tutto colle altre», osserva l’ispettore Giuseppe Sartori, un notaio veneziano destinato a ricoprire, di lì a breve, il ruolo di primo presidente del consiglio provinciale scolastico di Venezia. La preoccupazione, anche in questo caso, verte sul destino delle carte: «Calcolando perciò che l’ufficio affidato al sottoscritto debba sopprimersi, si rivolge il medesimo alla S.V. colla preghiera di fargli conoscere a chi debba consegnare gli atti in custodia».
Verso le confessioni religiose diverse, anche il Municipio veneziano esprimeva un orientamento di altrettanto forte distacco dallo spirito egemonico sancito dal concordato austriaco, dichiarando di volersi ispirare «solamente ai principii della più stretta tolleranza religiosa e di una perfetta uguaglianza di trattamento per tutti gli alunni»(45). Nella realtà, poi, la situazione veneziana non rispecchierà costantemente l’ampiezza di vedute espressa in questa occasione, e seguirà un orientamento legato all’alternarsi delle maggioranze politiche in sede locale e su scala più ampia.
Tra il novembre e il dicembre del 1866 si definiscono le misure provvisorie più urgenti. L’atteggiamento di prudente gradualità adottato verso l’istruzione elementare fin dal momento dell’unificazione dipendeva anche dai tempi, troppo ristretti per impostare cambiamenti: l’anno scolastico ricominciava il 19 novembre. Salvo l’intervento tempestivo sull’ispezione, cui si è fatto già cenno, scuole, maestri, programmi, libri di testo andavano provvisoriamente mantenuti, per quanto possibile, così com’erano.
Qualche cambiamento nel corpo docente però non poteva essere rinviato: si cerca di sostituire velocemente gli elementi ritenuti meno adatti. «Il personale di questa R. Scuola normale e reale inferiore importa che sia sistemato all’apertura del nuovo anno scolastico con quelle modificazioni che sono reclamate dal nuovo ordine di cose». Non si assiste a massicce epurazioni del corpo insegnante, ma vengono allontanati i soggetti troppo apertamente critici verso il regime italiano. Il centro d’interesse sembra essere, ancora una volta, la scuola normale e reale di S. Stin: il direttore Antonio Clementini viene sospeso dalle sue funzioni per essersi reso, con il suo comportamento, inviso alla città(46). Il conte ravennate Giuseppe Pasolini, nella sua qualità di commissario del re, privilegia il criterio dell’anzianità per la scelta di un nuovo direttore, per quanto provvisorio, e approva la nomina del maestro Luigi Antonio Gera, giudicato dall’opinione pubblica un ottimo cittadino, quantunque egli consideri l’insegnante «fornito di mediocre ingegno», ad onta dei numerosi titoli scientifici ed accademici accumulati, e della sicura fede politica. La collaborazione all’«Institutore» e agli Album promossi da Codemo non aveva comportato un allineamento su posizioni politiche conservatrici e filoasburgiche: qualche anno prima, anzi, Gera aveva espresso forse con eccessiva sincerità posizioni di dissenso dal regime, e per questo motivo aveva subito perquisizioni da parte della polizia austriaca, e sei mesi di sospensione dall’insegnamento(47).
A quanto risulta, per ragioni politiche verrà allontanato — oltre al direttore — soltanto il catechista nella scuola normale inferiore a S. Stin, l’abate Giuseppe Meneguzzi, lasciato nell’incarico solo il tempo necessario a trovare un sostituto, compromesso accettabile dato che «nelle mutate condizioni, e sotto la sorveglianza di un onesto direttore, sarà reso innocuo»(48). Il caso poteva dunque considerarsi chiuso. Nessun altro maestro veneziano sembra essere stato destituito.
Il giudizio espresso dalla questura sul direttore e catechista della scuola elementare maggiore femminile indica i parametri seguiti dalla polizia per giudicare idoneo il personale insegnante: «non si mostrò mai caldo per la causa nazionale, e ciò fu effetto di forse troppa prudenza, ma ne’ suoi discorsi con persone fidate non si lasciò fuggir mai le occasioni di ferire e biasimare le disorbitanze e le ingiustizie del caduto Governo. Nel paese gode in generale di buona stima». Il che, unito a un’indole mite, a un carattere sincero e a cognizioni sufficienti, vale a riconfermargli l’incarico(49). Quanto alle maestre della stessa scuola, il rapporto della questura sottolinea con particolare evidenza una dote femminile — la pazienza — importante, sembra, quasi più delle capacità intellettuali e delle cognizioni: «coscienziosa, imparziale, pazientissima [...] mitissima, paziente [...] d’indole dolce, perita, paziente [...] di buone forme e di molta pazienza [...] di buon cuore e paziente». Dell’orientamento politico delle maestre non vi è traccia nei documenti.
Durante il primo anno, che coincide con l’anno scolastico 1866-1867, e mentre venivano in larga misura mantenute le strutture preesistenti, si sviluppò dunque un’attività intensa verso l’istruzione elementare. Da un lato, il carteggio tra il Ministero e i propri rappresentanti in laguna: il commissario del re prima, il prefetto poi, e la rete di comunicazioni con i diversi livelli gerarchici nei quali si articolavano la direzione e l’ispezione delle scuole(50). Dall’altro lato, il Comune, direttamente coinvolto nel problema dell’organizzazione del sistema di istruzione primaria, e chiamato a sostenerne pressoché integralmente la spesa. Su entrambi i fronti, si esprime l’esigenza di conoscere in modo dettagliato lo stato dell’istruzione elementare veneziana, presupposto per impostare un piano di riforma adeguato, e le difficoltà di mediare tra le consuetudini di matrice austriaca e il sistema italiano. Una delle prime richieste inoltrate nel 1866 al commissario del re dal nuovo direttore della scuola di S. Stin riguarda un tema concreto, un problema banale che fa comprendere come, oltre alle questioni di più serio carattere didattico, organizzativo ed economico, ci si aspettasse comunque un sollievo immediato con il cambiamento di regime. Nell’anno in corso, si sapeva bene come
non si possano nelle liberate provincie dallo straniero dominio introdurre tutte le innovazioni scolastiche nel Regno esistenti [...] i poveri docenti e direttori dovevano falcidiare un tempo prezioso, dopo diuturne penose fatiche, od al riposo od allo studio, per redigere e trascrivere in duplo, in triplo e perfino in quadruplo, prospetti, tabelle, stati di diligenza, protocolli, e trasmetterli ad un ufficio, perché col visto passasse ad un altro, finché giungessero all’ultimo gradino del Governo(51).
Si tratta di una delle lamentele più diffuse sotto l’amministrazione scolastica austriaca. Le lagnanze a tale proposito affiorano tanto da parte dei maestri che da parte dei parroci, degli insegnanti, degli ispettori; e questo compito burocratico era avvertito come uno degli aspetti più pesanti e vessatori del sistema scolastico austriaco. Il commissario del re liquida sbrigativo la richiesta, invitando a carteggiare con il suo ufficio solo per questioni di sostanza, e richiama la prescrizione generale di mantenere la normativa preesistente. Altre proposte, di ben diverso spessore, vengono volta per volta presentate e prese in esame in quei primi mesi; in primo luogo la riorganizzazione della scuola normale di S. Stin, considerata l’istituto scolastico di maggiore rilievo della città dagli stessi docenti che ne fanno parte. L’insufficienza della sede, nel palazzo Donà dalle Rose, e la necessità di ampliare gli spazi e di sdoppiare le aule di alcune classi portano presto a separare il corso elementare, per stabilire, in quella sede, una scuola tecnica(52).
Impostati e risolti i primi problemi organizzativi, come veniva ufficialmente giudicata la situazione scolastica veneziana all’indomani dell’Unità?
Devo però riassumendo attestare che quanto a zelo dei maestri comunali ed a profitto degli alunni, le scuole dipendenti dal comune, avuto riguardo ai sistemi tuttora in corso, sono tenute lodevolmente.
Così nel luglio del 1867 Guglielmo Berchet, ispettore scolastico provinciale di Venezia per mandato del governo, dipinge lo stato dell’istruzione elementare della città, da pochi mesi ormai unita all’Italia. Con questa frase asciutta, inserita nella chiara e accurata relazione di accompagnamento al Prospetto statistico della istruzione primaria nella città di Venezia, i meriti vengono attribuiti agli insegnanti e agli allievi, ma si riconoscono, e nemmeno troppo implicitamente, i buoni risultati ottenuti dall’amministrazione austriaca in campo scolastico. La valutazione imparziale della strada percorsa in quegli ultimi cinquant’anni appare con maggiore evidenza alla luce del giudizio non altrettanto positivo espresso in quella stessa sede sugli asili d’infanzia veneziani, giudicati «inferiori a quelli di altre città italiane», al di là dei risultati ottenuti a partire dalla metà degli anni Trenta(53).
Il prospetto statistico presenta i dati relativi ai sestieri della città: e Venezia, se ricondotta al solo centro storico, appare effettivamente attestata su percentuali di ottimo livello: 71% di frequentanti. Una percentuale così alta viene ottenuta perché nel conto entrano, oltre alle scuole elementari pubbliche e private riconosciute, le scuole tecniche, gli stessi asili d’infanzia, e anche le scuole abusive: i bambini e i ragazzini compresi tra i sei e i quattordici anni sono 14.185; le scuole complessivamente 300, i frequentanti 10.101 (da altre fonti successive sappiamo che gli studenti, maschi e femmine, che nell’anno scolastico 1866-1867 frequentano effettivamente le scuole pubbliche risultano essere 3.268). Le numerose correzioni apportate al prospetto ufficiale sono efficace indicatore di come sia difficile ricavare dati attendibili, anche dopo decenni di abitudine a predisporre correntemente quadri statistici sullo stato dell’istruzione.
L’analisi di Berchet mira a individuare quali parti della città richiedano l’apertura di nuove scuole comunali, o il trasferimento di quelle esistenti, per cercare di rendere più equilibrata la diffusione dell’istruzione pubblica(54). Su tutte spiccano le scuole statali: le due maggiori di quattro classi (quella maschile a S. Stin, quella femminile a S. Maria Formosa); le tre classi tecniche della scuola reale inferiore, sempre a S. Stin; le tre classi inferiori dell’Istituto industriale e professionale di S. Giovanni Laterano. Per queste, che rappresentavano un vero e proprio modello didattico, si tratta soltanto di introdurre le specifiche integrazioni legate ai programmi di studio delle scuole italiane, come si vedrà più avanti.
Oltre a questi istituti statali, si contano sette scuole maschili comunali: due maggiori di quattro classi (a S. Felice e a S. Stefano) e cinque minori di tre classi, che secondo Berchet dovrebbero almeno in parte essere trasformate in maggiori (a S. Pietro di Castello, dove la sede è già dotata di illuminazione a gas, e a S. Silvestro). L’ispettore delinea a grandi tratti una diversa possibile distribuzione delle sedi: quella a S. Francesco della Vigna (in palazzo Sagredo) dovrebbe essere trasferita in un edificio più centrale, a S. Antonin, e andrebbe aperta una sede nuova anche a S. Maria Formosa, e un’altra ai Carmini. Nel sestiere di Cannaregio, la scuola minore è «assai opportunamente» collocata a palazzo Labia, mentre alla Giudecca la scuola di S. Eufemia è poco frequentata, perché «i fanciulli sono piuttosto attratti al guadagno nelle officine del canape piuttosto che all’istruzione», e per le femmine valgono considerazioni simili. Berchet ricorda il parere del governo austriaco, orientato a ridurre quella sede, ma esprime un giudizio diverso, sostenendo come la Giudecca abbia pari diritto alle cure municipali di qualsiasi altra parte della città. Due le scuole maggiori comunali femminili (l’una a S. Cassiano, l’altra ai SS. Apostoli in palazzo Jaeger — attuale scuola media «Sansovino»), oltre a quella statale. Le scuole minori andrebbero tenute in sedi più ampie: a S. Pietro, a S. Francesco della Vigna, a S. Luca; bisognerebbe infine trasferire ai Carmini — luogo più centrale — quella di S. Raffaele Arcangelo e aprire una nuova scuola maggiore a S. Geremia.
Le scuole private (48 maschili, 76 femminili) sono in maggioranza autorizzate e di buon livello; quelle abusive si trovano in ordine sparso in tutta la città (39 per i maschi, 94 per le femmine). Le scuole tenute dalle istituzioni pie svolgono un ruolo importante, a metà strada tra la sfera pubblica e quella privata, in generale con una buona media di frequenza.
Il quadro delineato da Berchet rappresenterà in quei mesi un punto di riferimento; le considerazioni espresse nella relazione verranno condivise, e in parte assunte, dall’amministrazione comunale, alla quale compete ormai integralmente non soltanto la spesa dell’istruzione, ma la sfera ben più ampia delle scelte politiche sulle modalità dell’alfabetizzazione, tanto per i bambini quanto per gli adulti.
L’attuale condizione transitoria della legislazione nelle provincie venete, in cui le norme emanate dalla cessata dominazione in parte furono tolte o modificate per l’applicazione degli ordini vigenti nelle altre parti del Regno o da speciali successive disposizioni, ed in parte devono informarsi, se non alla lettera, almeno allo spirito delle leggi italiane, rende tuttora incerta l’azione delle dipendenti autorità scolastiche, e ciò con qualche pregiudizio di quell’ordine e di quell’armonia, che è necessaria in ogni tempo, ma in particolar modo nel presente stato eccezionale della pubblica istruzione(55).
Giuseppe Sartori, nel settembre 1867 ancora per poco presidente del consiglio provinciale scolastico di Venezia, descrive con queste parole la situazione in cui la città venne a trovarsi dopo l’annessione(56). L’adeguamento alla cornice normativa unitaria avviene, dunque, con un anno di ritardo: la legge Casati nel Veneto entra in vigore solo il 15 settembre 1867. A distanza di una sola settimana, viene pubblicato un nuovo decreto che ritocca l’impianto della legge Casati, rafforza il ruolo dello Stato e dei suoi rappresentanti periferici e semplifica i programmi di studio rispetto agli obiettivi ambiziosi del 1860: ed è in questa seconda forma modificata che la normativa italiana si diffonde fin dall’inizio nelle province venete.
Il modello organizzativo italiano si basa su una struttura burocratica fortemente accentrata: il prefetto è il presidente del consiglio provinciale scolastico, organo di governo periferico e tramite diretto di comunicazione tra il provveditore agli studi (vicepresidente) e il ministro della Pubblica istruzione. Per oltre quarant’anni (1867-1911) questa rigida costruzione piramidale, fitta di dispacci tra Venezia e il Ministero, rappresenta l’ossatura istituzionale che filtra relazioni, nomine, promozioni, rapporti riservati, encomi, trasferimenti, sussidi. L’ufficio stesso del provveditore è collocato nella medesima sede della prefettura, massimo organo periferico del Ministero dell’Interno(57). La subordinazione del provveditore comporta la subordinazione di tutto l’apparato scolastico periferico al prefetto, cui già compete d’ufficio il controllo sugli enti locali: l’istruzione in generale fu dunque sottoposta all’ingerenza degli Interni.
All’interferenza del potere politico corrisponde per molti altri aspetti una delega sostanziale alle autorità locali. Fino alla riforma del 1911, quasi tutta la spesa per le scuole elementari è affidata all’amministrazione comunale: edifici, arredi, attrezzature, biblioteche. Alcune significative scelte didattiche vengono decentrate in sede locale, ed è in seno al consiglio scolastico provinciale che si definiscono i libri di testo, talvolta elaborati da maestri che insegnano nella città (in questo, il sistema italiano si dimostra diverso dall’esperienza austriaca, che prescriveva programmi, metodo e manuali uniformi e omogenei per tutte le province lombardo-venete)(58).
Trascorso il primo periodo d’emergenza, risolti i casi contingenti grazie ai poteri straordinari del commissario del re prima, e del prefetto poi, il problema della riorganizzazione pratica delle scuole elementari passa dunque al Comune. Nel luglio del 1867, l’istruzione è all’ordine del giorno in consiglio comunale, che si attende i primi risultati da parte della commissione istituita tre mesi prima con l’incarico di studiare ed elaborare proposte volte ad estendere e migliorare l’istruzione primaria popolare nella città(59). La discussione sul tema vede protagonista, lungo tutto il periodo che porta all’approvazione del Regolamento, l’assessore alla pubblica istruzione Antonio Berti.
Tutti sanno che il bisogno di estendere e migliorare la pubblica istruzione è universalmente sentito; lo ha espresso la Giunta, lo esprimono tutto il giorno i giornali della città, lo ha in moltissime occasioni espresso il Consiglio; però se questo desiderio è da tutti sentito, non è possibile per ora porre in pratica tutto ciò che si vorrebbe [...].
L’unico intervento che Berti ritiene ragionevolmente realizzabile in tempi brevi è quello diretto alle scuole serali e festive, che sono piuttosto «un’appendice che non una parte integrante del sistema»(60) e che possono essere rapidamente riorganizzate. La formazione di base e professionale degli adulti è seguita con grande attenzione, e risulta chiara a tutti l’importanza di ampliare questa opportunità, mirata a combattere l’analfabetismo e l’inottemperanza dell’obbligo scolastico, oltre che a promuovere una migliore preparazione di artigiani, commercianti e lavoratori in genere. Insegnamento affrontato in modo pionieristico a partire dal 1843 da Luigi Antonio Gera, quando insegnava ancora a San Vito al Tagliamento, per estendersi in altre città e a Venezia nella sede di S. Stin, destinato con il tempo a trasformarsi in corsi sempre più strutturati, regolari e consistenti dopo l’Unità. Il governo austriaco aveva osservato con diffidenza la nascita e l’attività delle scuole serali, apparse subito come un possibile veicolo di ideologie sovversive, e pertanto concesse con grande riluttanza e attenti controlli. Prima dell’Unità i corsi di insegnamento serale, e così pure le scuole festive, rappresentano dunque una conquista strappata a fatica. A partire dal 1866, l’alfabetizzazione degli adulti, maschi e femmine, diventa un principio condiviso unanimemente in seno al consiglio comunale, che anzi esprime ufficialmente la riconoscenza della città verso i maestri che si sono prestati gratuitamente ad insegnare, prima ancora della ufficiale approvazione dei corsi. Proseguendo una strada aperta da un triennio, nelle scuole festive sono i ragazzi, gli studenti migliori della scuola reale superiore, che si prestano — anch’essi gratuitamente — come ripetitori nell’insegnamento primario, diretto agli analfabeti. Dai documenti affiora la testimonianza di un clima forse unico nella storia dell’istruzione veneziana per l’impegno e l’entusiasmo di quegli anni:
L’esperienza ha fatto conoscere negli anni decorsi la superiorità di questo insegnamento gratuito a qualunque altro. I giovani ricevevano siffatto incarico siccome un premio della loro diligenza e del loro profitto, ne andavano per così dire orgogliosi e ponevano il massimo impegno nell’istruzione dei loro allievi popolani(61).
Riprende la scuola domenicale, aperta nel 1863, diretta agli artigiani per l’insegnamento primario, il disegno lineare e a mano libera. Questo primo corso, diretto agli analfabeti, prevede come materie lettura, scrittura corrente, avviamento al comporre, aritmetica pratica, disegno geometrico e ornamentale, principi di educazione morale e civile. L’impianto e le finalità di queste scuole, così come gli esami, che si vogliono privi di solennità, e l’assenza di premi — che «se ponno adescare il giovanetto dai 14 ai 16 anni, non hanno né debbono avere alcun valore per l’adulto» — dimostrano una profondità e una lungimiranza singolari (e sembrano quasi precorrere, nella sostanza, i principi pedagogici del positivismo, quelli che verranno trasfusi quasi vent’anni più tardi nei programmi messi a punto da Aristide Gabelli, tra i migliori che la scuola elementare italiana abbia avuto).
Noi crediamo utile che l’artiere giunga collo studio della propria lingua almeno in là quanto basta per iscrivere una lettera famigliare in modo intelligibile: con tali cognizioni, egli non arrischia più di trovarsi a discrezione d’un furbo, e può meglio tutelare i propri interessi. Quanto al disegno, noi lo riguardiamo come un possente ausiliare della parola, e come incentivo ed aiuto all’immaginazione, quindi necessario a tutti.
Il corso superiore, l’insegnamento secondario, si basa sul principio della libera adesione e frequenza delle lezioni ritenute da ciascuno più utili: «L’obbligo di certi studi danneggia la loro efficacia, ingenerando negli allievi la noia d’un insegnamento forzato». Così si prevede per il fabbro lo studio della meccanica industriale, del disegno delle macchine, della fisica e ancora di più della chimica; per un falegname si ritiene utile lo studio della chimica e di qualche ramo della botanica; per il muratore, l’architettura pratica e quella parte della mineralogia che trova un’immediata applicazione nella sua attività.
In questo contesto si pone nel 1867 l’apertura delle biblioteche popolari nelle province venete: calzolai, mosaicisti, muratori frequentano la biblioteca di S. Giovanni Laterano, allora scuola tecnica (e attuale sede dell’istituto alberghiero «Barbarigo»); i militari leggono soprattutto libri di letteratura, mentre impiegati e macchinisti, ma anche facchini, prediligono testi di storia(62). Letture in comune per gli adulti si organizzano nelle scuole, si legge Manzoni, se ne discute.
Affrontato e risolto con rapidità il problema di avviare ufficialmente le scuole serali e festive, nei confronti dell’insegnamento elementare per i bambini l’atteggiamento di Berti è realistico e insieme di largo respiro, prudente nei tempi ma non nella sostanza. Procrastinare la riorganizzazione delle scuole segue un disegno preciso: avere l’agio di predisporre ed elaborare un piano ordinato e completo.
Quando la Commissione si mise dinnanzi agli occhi il problema della pubblica istruzione, aveva due vie a seguire. Una era quella di soddisfare ai più urgenti bisogni della pubblica istruzione, senza occuparsi dell’avvenire: l’altra era quella di gettare uno sguardo largo, complessivo, su tutti i bisogni della pubblica istruzione del nostro paese, per condurla a quel livello a cui giunsero, lentamente sì, ma pur giunsero le principali città d’Europa non solo, ma le principali città del Regno d’Italia. La seconda via ci parve preferibile, perché essa ci conduceva ad un edificio completo, il quale essendo immaginato e condotto a fine da persone intendenti, poteva nel suo insieme avere quella armonia e quell’ordine nella disposizione delle sue parti, senza cui nessuna creazione dell’intelletto può avvicinarsi alla perfezione(63).
La discussione verte principalmente sulla spesa: ma l’ottica seguita da Berti è di costruire un sistema nel quale anno per anno sia possibile attuare le misure previste dal Regolamento, in base alle risorse disponibili. Tale scelta consente di far approvare dal consiglio comunale un piano generale di qualità: «istruzione ottima, di eguale grado e di facile accesso». In quest’ottica di non fare nulla che non sia necessario, Berti sostiene che se Venezia «fosse condannata a diventare Chinese», retrocessa ad una generale condizione di ignoranza, e non vi fosse quindi più bisogno di aumentare il numero di scuole o di classi, il consiglio non sarebbe obbligato a trasformare le scuole minori in maggiori. Ma se col tempo Venezia «diventasse non più Chinese, ma o Italiana o Parigina» il Comune dovrebbe adeguare le strutture alle necessità. Il principio si basa su un «sacrosanto diritto, cioè quello che i cittadini quando pagano gli stessi pesi devano fruire degli stessi diritti. E non vi è ragione perché una contrada che è posta in un angolo della città non possa approfittare dell’istruzione come le contrade del centro»(64).
Così passa il principio della «lenta mutazione» (tale è la formula sulla quale, alla fine, il consiglio comunale trova un accordo) di tutte le scuole minori esistenti in maggiori, cominciando da quelle di S. Pietro di Castello e di S. Geremia, tanto femminili che maschili. E nello stesso modo — con una trasformazione graduale — viene approvato anche un altro principio: che ciascuna scuola maggiore sia affidata ad un direttore. Su questo punto si conquista a fatica l’assenso dei consiglieri più inclini a salvaguardare il contenimento delle spese. Il focoso Berti sembra perdere la pazienza: l’esigenza di porre un dirigente a capo di una scuola composta di sette o otto classi è ovvia, e doverlo dimostrare equivale a «portar nottole ad Atene». Nel frattempo, per esigenze non dilazionabili, si istituisce un ispettorato scolastico urbano (che verrà poi affidato, come già si è accennato, a Giovanni Codemo). Il Regolamento, approvato articolo dopo articolo nel dicembre 1867, fa intravedere una struttura molto simile a quella delle scuole austriache: una prima classe divisa in due sezioni, inferiore e superiore; il numero massimo dei bambini per classe, fissato dalla legge italiana a sessanta; le materie di studio, praticamente invariate. Alcune significative novità: già in quegli anni si avverte il fenomeno, destinato ad ampliarsi notevolmente, della presenza magistrale femminile, così il Comune di Venezia delibera di affidare a maestre, a donne dunque, le prime classi anche maschili della città.
Sul fronte delle materie d’insegnamento, si introducono le due grandi innovazioni previste dal sistema italiano: il canto e la ginnastica. Per il canto, considerato una «ginnastica polmonare» ed una educazione al bello, si può far conto sul maestro Torriani, che ha maturato una specifica esperienza didattica con i maestri delle scuole di Genova e Milano. Gli insegnanti devono acquisire un metodo, nelle scuole ci si dovrà dotare di un armonium; e si pensa di formare un coro, selezionando i migliori elementi ed istruendoli a parte, per cantare nelle occasioni ufficiali.
La ginnastica, prevista anche per le bambine, può essere impostata dal triestino Costantino Reyer, diplomatosi alla regia scuola normale di ginnastica di Torino, città dove si era trasferito anche a causa — almeno così appare dalle informazioni raccolte dalla censura — di dissensi politici con i genitori, fedeli sudditi austriaci(65). Anche negli anni seguenti rimarrà costante l’attenzione verso il problema dell’educazione fisica, e l’amministrazione cittadina se ne occuperà a varie riprese, attrezzando una palestra moderna e creando una commissione di studio per la formazione di bravi insegnanti di ginnastica(66).
L’attenzione verso l’istruzione femminile si dimostra approvando la nascita di una scuola superiore a corso triennale, corrispondente alla scuola tecnica maschile, e la scuola normale femminile dedicata alla formazione delle maestre.
La differenza immediata, e più vistosa, tra le scuole austriache e quelle italiane riguarda i libri di testo: nel primo caso, tutte le scuole delle province lombardo-venete dovevano adottare i medesimi manuali, distinti secondo le materie e le classi. Per ciascun libro di testo (questa almeno era la prassi fino al concordato) si richiedeva l’accordo dei due governi rappresentati dagli ispettori in capo delle scuole rispettivamente lombarde e venete, del patriarca di Venezia e dell’arcivescovo di Milano. I titoli così individuati venivano comunicati alla commissione aulica degli studi, a Vienna, che autorizzava formalmente la scelta. Le difficoltà spesso incontrate nel raggiungere identità di vedute, in un contesto così complesso, portavano talvolta ad adottare i manuali in uso nei territori ereditari dell’Impero, o quelli inviati da Vienna a titolo di informazione e di riferimento, e si trattava allora di garantirne la traduzione più accurata e meglio rispondente alle specifiche realtà linguistiche e territoriali. Nel sistema italiano, che delegava ai Comuni non soltanto la spesa, ma l’effettiva organizzazione delle scuole elementari, i programmi dell’unificazione lasciano ampia autonomia perché i libri di testo siano più aderenti alle esigenze locali. Nel 1875, il ministro della Pubblica istruzione, Ruggiero Bonghi, fa notare come dai dati in suo possesso esistano per le scuole elementari «72 sillabari di altrettanti autori diversi, 65 grammatiche, 56 aritmetiche, 52 geografie, 27 storie sacre, 31 storie patrie, 22 serie di modelli calligrafici e la bellezza di 121 libri di lettura»(67). Come si farà cenno più avanti, questo nuovo sistema offre a più di un maestro, quasi in ogni città, l’occasione di scrivere, presentare e vedersi approvato un manuale o una raccolta di letture per la scuola, che apre oggi percorsi di ricerca e di analisi comparata sulla fisionomia dei libri di testo di una particolare ricchezza e fecondità; talvolta come libri dati in premio, o come letture acquistate o donate alle biblioteche scolastiche(68). A Venezia, nel dicembre 1869 prende il via una vasta operazione di ricerca, da parte del Comune tramite l’ispettore scolastico urbano, per raccogliere informazioni da altri Comuni, in relazione ai libri di testo e ai programmi adottati altrove nelle scuole. Il materiale pervenuto, in parte a stampa e in parte manoscritto, testimonia l’impegno di alcune tra le più importanti città italiane: Bologna, Firenze, Genova, Livorno, Milano, Napoli, Padova e Torino(69).
I congressi pedagogici si dimostrano uno degli strumenti più efficaci di scambio di esperienze e di discussione dei problemi scolastici nei primi decenni dell’Unità d’Italia. Al congresso di Venezia del 1872 (che ha per sede Palazzo Ducale, con l’apertura dei lavori nella sala del Maggior Consiglio e lo svolgimento delle sedute plenarie nella sala dei Pregadi), tra gli altri temi (l’insegnamento religioso, gli asili froebeliani) viene posto in primo piano il legame tra alfabetizzazione e ampliamento del diritto di voto, per bocca di Antonio Berti(70). Interessi che talvolta possono tradursi in esposizioni didattiche, come la IV mostra didattica, organizzata a Venezia nel settembre 1872, o come quella promossa a Mestre nel 1877 da Guglielmo Berchet, ispettore scolastico di quel distretto(71). Fermenti spesso presenti nei numerosi dibattiti e nelle polemiche riportate dalla stampa, come testimonia il giornale quotidiano «La Venezia», che con la sinistra al potere non perde occasione per rimarcare limiti e difetti delle strutture scolastiche cittadine. L’abbondante fioritura di memorie, pubblicazioni, opere di carattere didattico e pedagogico (per tacere dei libri di testo, dei libri di lettura scritti da insegnanti veneziani per le scuole e i bambini della città) testimonia come in quegli anni i problemi della scuola elementare fossero sentiti profondamente, nella prospettiva di costruire la nuova nazione su basi solide e con strutture adeguate. Le implicazioni e le conseguenze dell’alfabetizzazione, in primo luogo l’ipotesi di ampliare il diritto di voto, in un momento storico di profonde modificazioni sociali, facevano sì che il problema della scuola primaria travalicasse i confini degli addetti ai lavori, e diventasse un tema di ampia discussione. Per formare una coscienza nazionale, il dibattito sulla scuola fu quasi altrettanto importante di quello sulla lingua(72).
Le cifre che la città spende per l’istruzione, nei primi anni dell’Unità, sono notevoli: per l’affitto dei locali sono quasi raddoppiate tra 1867 e 1871; per i libri e gli oggetti di cancelleria aumentano molto più del doppio; e così sono sensibili gli aumenti per le riparazioni e gli adattamenti dei locali, e le spese indicate sotto la generica voce «istituzioni varie». Ma è lo stipendio dei maestri l’indicatore più vistoso del radicale cambiamento: più che quadruplicato in quattro anni(73).
Nel 1874, il numero degli insegnanti elementari a Venezia è già più che raddoppiato, privilegiando decisamente l’istruzione femminile(74): vengono aperte 53 nuove scuole per le bambine, e le 8 preesistenti si trasformano da minori a maggiori(75). Laura Veruda Goretti — da tempo impegnata nell’opera di promuovere l’istruzione popolare, femminile e infantile — è nominata ispettrice ai lavori femminili nelle scuole comunali (senza concorso, per meriti personali); nomina che verrà difesa a suon di ricorsi dal Comune di Venezia, che non accettava di vedere mortificata l’attività capillare e impegnativa dell’ispettrice al rango generico — e gratuito — di patrona onoraria(76).
Con i governi della sinistra, prende impulso maggiore l’impegno politico e civile verso l’insegnamento elementare: la legge Coppino del 1877 — passata alla storia come la legge sull’obbligo scolastico — segna il tentativo di limitare il lavoro infantile nelle campagne e in città. Per le province che avevano fatto parte dell’Impero austriaco, la frequenza prescritta per tutti almeno delle prime classi (l’obbligo era fino al compimento dei nove anni) non era, come già si è visto, una novità. Così non può sfuggire il tono orgoglioso con cui, nel 1877, l’assessore comunale Giovanni Battista Ruffini sottolinea il primato di Venezia, riconoscendo implicitamente da un lato i meriti dell’amministrazione precedente, dall’altro la lungimiranza della strategia seguita da Berti nella formulazione della delibera del dicembre 1867, che vincolava l’amministrazione cittadina ad un impegno programmatico di lunga durata sul fronte scolastico.
Nel panorama italiano, la città si è conquistata un ruolo non secondario: «dai poteri esecutivi venne Venezia additata a modello per quanto seppe fare pella pubblica istruzione», e deve andare superba di aver «precorso coll’esempio i desiderî del legislatore e di essersi preparata a soddisfarli completamente»(77).
L’obbligo scolastico comporta un impulso ulteriore a migliorare e ad ampliare l’istruzione femminile: le scuole festive per le donne — già attive negli anni precedenti — trovano sempre meno detrattori, almeno da parte delle autorità municipali. Così la frequenza delle bambine nelle scuole è destinata a diventare lentamente una realtà acquisita.
E sebbene l’ingegno della donna sia meno acconcio di quello dell’uomo a toccare l’eccellenza nelle scienze e nelle arti, e sia meno fecondo di opere che arricchiscono le biblioteche e i musei, nondimeno è assai ben disposto a seguirne con ardore gli studi, ad accogliere la verità con trasporto di ammirazione, a fecondarla col calore del suo cuore per diffonderla nella vita privata, ove si formano i costumi sui quali riposa l’avvenire delle nazioni [...]. Quanto sono adunque da biasimare quei genitori che non mandano le proprie figlie alla scuola(78)!
Dieci anni dopo, i programmi scolastici del 1888 tenteranno di imprimere una svolta all’insegnamento, e di creare un antidoto alla retorica scolastica, abbondantemente profusa nei manuali. Questi programmi, frutto del lavoro principalmente di Aristide Gabelli, esprimono una concezione pedagogica d’avanguardia, che si propone fortemente di avversare i metodi tradizionali: un’istruzione «parolaia, vuota, composta di suoni, infeconda e stucchevole insieme, che disamora dallo studio, sciupa i cervelli, e contribuisce tanto a far nascere e a mantenere la funesta abitudine di attribuire tanta importanza alle parole, quanto poca alle idee e alle cose»(79). Il metodo in uso generalmente nelle scuole elementari risente in modo visibile dell’eredità del passato, osserva Gabelli, che descrive alcuni classici difetti nazionali: «un certo che di scolastico e di retorico, che toglie la vivacità e la freschezza all’insegnamento, che non desta la curiosità dei fanciulli, che spesso li disamora allo studio, costringendoli a rompersi la testa intorno a cose che non possono capire e delle quali non vedono l’utilità, che schiaccia le facoltà intellettuali, in luogo di svilupparle»(80).
L’influsso del positivismo nella riforma dei programmi (che verranno nuovamente rinnovati nel 1894) e dei metodi implicava un profondo rinnovamento dell’edilizia, del materiale didattico, della formazione degli insegnanti. Di questo clima partecipano in pieno le scuole veneziane, grazie anche alla presenza e all’attività intensa di Lorenzo Bettini. Le relazioni finali della commissione sui libri di testo testimoniano l’impegno del corpo docente, la disamina accurata di quanto viene pubblicato anno per anno in Italia; decine e decine sono le opere pubblicate da maestri e ispettori — e maestre e ispettrici — di Venezia: Arturo Lombardi, Antonio Scarpa, Giovanni Zaffoni, Giovanni Facco, Antonio Bianchessi, Irene Carlotta Aspiotti, Luigia Balbi Zen, Teresita Barbiera, Caterina Zen, Elisa Meloncini, Ida Moretti, Maria Rizzo, per citare soltanto alcuni — e non i più noti — tra i tanti nomi di autori di libri diretti ai genitori, ai maestri o ai bambini e alle bambine veneziani. La fioritura di testi scolastici più o meno significativi in ciascuna provincia italiana — come effetto macroscopico e tangibile dell’autonomia didattica qui sopra ricordata — è un fenomeno ancora in larga misura da esplorare, e per Venezia solo appena accennato. L’evoluzione della pratica didattica può essere ricostruita anche attraverso la progressiva adozione dei testi attenti alle più aggiornate concezioni pedagogiche, come testimonia il passaggio dal metodo fonico al metodo delle parole normali(81).
Nel più generale contesto di fermento che investe il mondo della politica e della scuola si colloca anche la nascita delle associazioni dei maestri, sede non solo di dibattito e aggiornamento professionale, ma vero e proprio strumento di difesa degli insegnanti elementari: l’U.M.N. (Unione Magistrale Nazionale), il cui IX congresso si tenne proprio al Lido di Venezia nel 1909, ribadiva le richieste di sottrarre la carriera professionale dei maestri all’arbitrio delle amministrazioni locali(82). Anche l’associazione magistrale cattolica «Niccolò Tommaseo», sorta pochi anni più tardi dell’U.M.N. e la cui sezione veneziana veniva intitolata a Jacopo Bernardi, tenne nel settembre 1908 uno dei suoi primi congressi a Venezia, al Teatro Rossini.
Dalle Notizie statistiche pubblicate con orgoglio in calce ai tanti opuscoli di quegli anni in occasione delle distribuzioni dei premi, o alle relazioni di carattere più ufficiale, emerge un quadro di generale progresso dell’istruzione elementare, soprattutto femminile. Dal momento dell’unificazione agli anni che precedono la Grande guerra, il numero dei bambini e delle bambine che frequentano le scuole elementari veneziane è quasi quadruplicato: nell’anno scolastico 1866-1867 risultano 3.268 alunni (sia maschi che femmine); dieci anni dopo (anno scolastico 1876-1877) la cifra tocca le 5.663 unità. Nel 1908-1909, venivano dichiarati 11.331 alunni, divisi in 6.324 maschi e 5.007 femmine.
Notevole, soprattutto nei primi anni del secolo, lo sforzo del Comune sul fronte dell’edilizia scolastica: per accogliere un numero sempre crescente di scolari (dal 1907 si faceva ricorso ai ‘doppi turni’, che venivano allora definiti ‘aule alternate’) si ristrutturano, si acquistano o si costruiscono le sedi destinate agli alunni delle elementari ‘moderne’. Si progettano le soluzioni più adeguate non solo per le immediate necessità, ma in previsione del tasso di incremento medio negli anni successivi. S. Samuele, la sede storica della scuola per i bambini e le bambine, viene attribuita ai soli maschi e ristrutturata, e le femmine trasferite nella nuova scuola a S. Maurizio. Qui, tra il 1906 e il 1908, erano stati acquistati i due piani nobili di palazzo Zaguri, dove vengono ricavate dodici spaziose e luminose aule femminili. Alla Giudecca, intorno al 1910, veniva approntata a S. Eufemia, di fronte alla laguna, la nuova scuola maschile e femminile adiacente al giardino d’infanzia, destinata ad accogliere almeno 900 alunni(83). Viene chiusa, sempre intorno a quella data, la storica sede della scuola femminile a S. Maria Formosa, giudicata ormai del tutto inadatta, e in larga misura viene sostituita dalla sede vicina, sorta nei primi anni del secolo e intitolata a Giacinto Gallina. Qui il Comune aveva acquistato e abbattuto gli edifici dell’area in cui andava costruita la scuola elementare, aprendo una fondamenta sul rio; nel nuovo fabbricato, che accoglieva diciannove aule per quasi un migliaio di allieve, erano state realizzate le soluzioni più moderne della città sul piano dell’igiene scolastica(84). Degna, allora, di apparire in una rivista di architettura, la scala in marmo, dalla forma sinuosa ‘a tenaglia’, costituisce un elemento importante di caratterizzazione per un edificio che accoglie ancora oggi gli scolari della città. In quegli stessi anni, sempre a spese del Comune, le scuole cittadine vengono dotate di telefono.
A ridosso della grande riforma del 1911, e del passaggio allo Stato delle elementari, la città consegna all’amministrazione centrale una fitta rete di scuole, in larga misura rinnovate e, per quanto possibile, moderne.
Nell’arco di un secolo, il paesaggio dell’istruzione elementare è dunque strutturalmente e profondamente cambiato: sul piano dei metodi e delle forme dell’insegnamento, dei testi e degli strumenti didattici, dei luoghi in cui fare scuola, nella mentalità delle persone.
Le percentuali sul livello di alfabetizzazione raggiunto — se confrontate con altre situazioni — non rendono giustizia agli sforzi profusi in città; la provincia di Venezia, che comprende anche i comuni ben più arretrati di Murano, Chioggia, Malamocco, Burano, e della terraferma, si presenta all’esterno con percentuali ben inferiori a quelle del solo comune di Venezia.
L’aumento in generale della frequenza scolastica è comunque fortissimo, e ancora più significativo se messo in relazione con le cifre registrate nei decenni precedenti, con una normativa scolastica indubbiamente simile. Un giudizio complessivo sui cinquant’anni del sistema scolastico austriaco non può dunque limitarsi ad un esame e ad un confronto tra le leggi, i regolamenti, i corsi di preparazione dei maestri, i libri di testo: su questo piano, si tratta di grandezze che possono reggere pienamente il confronto. Tra la normativa austriaca e la legge Casati, i programmi d’insegnamento per le scuole elementari nella sostanza differivano poco:
Le materie di insegnamento erano le stesse: religione, lettura, scrittura, lingua italiana, aritmetica elementare: soltanto nella classe quarta si faceva cenno di un insegnamento facile e piano di geografia e di fatti della storia patria spiegati per mezzo di racconti, cognizioni tutte che non dovevano essere date sistematicamente e da sé, ma costituire per una parte la materia fondamentale del libro di lettura. L’insegnamento grammaticale era un po’ meno esteso e meno teorico che non fosse nei programmi austriaci, ma costituiva ancora la parte essenziale dell’insegnamento della lingua; i primi esercizi di comporre erano esclusivamente per imitazione(85).
L’analisi deve perciò modificare il punto di osservazione, allargarsi. Va valutata la differenza — prima e dopo l’Unità — nel ruolo del Comune: il suo grado di autonomia e soprattutto la facoltà di elaborare concretamente delle scelte e realizzarle nella politica locale, in base alle entrate. In altre parole, è necessario che il confronto non si limiti ai diversi sistemi scolastici, ma si estenda alle due diverse strutture politiche, e ai rispettivi contesti sociali. Su questo punto, si registra una qualche convergenza d’opinione nel dibattito sviluppatosi fin dall’Unità. Lo stesso Codemo, nel 1866, riteneva che i Comuni, «esclusi finora da ogni ingerenza sulle scuole oltre a quella di proporre i maestri, ne sono pure indifferenti ed alcuni anche avversi, considerando quasi del tutto sprecate le spese per l’istruzione popolare, le quali sono obbligati a sostenere»(86). Si tratta dei Comuni minori, non delle più grandi città: ma dall’impietosa descrizione di Codemo si intravedono gli effetti causati da un vincolo di obbedienza alle norme, non compensato da forme di partecipazione attiva (egli, per la verità, riteneva anche dopo l’Unità che il nodo, l’elemento determinante, risiedesse nello scarso stipendio dei maestri: «gli ottimi libri di testo, i metodi migliori, le savie leggi e le norme regolatrici» avranno efficacia quando i maestri vedranno meglio compensata l’opera educativa). Codemo denunciava come concausa anche l’insufficiente preparazione metodologica dei maestri negli ultimi anni, vale a dire di un bagaglio di cognizioni limitato nei corsi di ‘metodica’, cui si accompagnava spesso un’indulgenza eccessiva nel promuovere e concedere la patente di maestro. Analoghe considerazioni — nei toni vibrati di una collera patriottica — aveva espresso, qualche anno prima, Cesare Correnti a proposito delle scuole lombarde. Ma sul livello di scolarizzazione raggiunto prima dell’Unità, Aristide Gabelli doveva esprimere un parere abbastanza lusinghiero: egli riteneva che il Veneto «fosse una regione discretamente colta»(87). Analoghi giudizi positivi vengono espressi pochi anni dopo l’entrata del Veneto nel Regno dallo stesso ministro della Pubblica istruzione, Broglio(88). Di opposto avviso i pareri espressi da altri importanti esponenti della vita politica, intellettuale, professionale di Venezia o del Veneto. Nei decenni successivi all’Unità, il clima risorgimentale che circonda Venezia, e la valutazione politica sulla ‘dominazione’ straniera da poco conclusa, influiscono in larga misura, allora e in seguito, a velare il percorso e i risultati ottenuti dal sistema scolastico austriaco. Di questi pericoli è ben consapevole Augusto Sandonà, nel suo ben noto lavoro sull’amministrazione austriaca nel Lombardo-Veneto della Restaurazione(89).
I giudizi [negativi] espressi [...] sull’istruzione elementare austriaca nel Lombardo Veneto potranno soddisfare il sentimento nostro di italiani, no di certo spegnere la sete di verità storica dello studioso. Sono le solite frasi stereotipe levate dagli scritti tutt’altro che sereni dei nostri patrioti.
A quali fattori imputare le cause della poderosa crescita esponenziale della frequenza scolastica nel giro di pochi anni dopo l’Unità? Da più parti si sottolinea l’importanza dell’autonomia dei Comuni, conquistata nel 1866 e palesemente compressa e circoscritta dall’ordinamento austriaco: anche quando si trattava di aprire scuole elementari maggiori comunali — e dunque non a carico dello Stato — il permesso poteva farsi attendere a lungo, secondo la filosofia di evitare entusiasmi e fallimenti, e di concedere solo le istituzioni realmente necessarie. Autonomia che implica scelta di strategie da parte dei Comuni, e dunque la disponibilità a sostenere le spese e a investire nell’istruzione.
Ma oltre a questi aspetti, il confronto andrebbe approfondito ed esteso agli altri paesi dell’Europa, in particolare ai territori austriaci oltre il 1866: poiché si delinea in generale, ma anche nell’Impero, un aumento più contenuto e lento lungo la prima metà del secolo e una crescita più vivace e forte a partire dal 1869-1870.
Dopo l’Unità, l’alfabetizzazione non si gioca più soltanto nel perimetro delle scuole elementari e nell’obbligo scolastico, ma anche nell’impulso a promuovere l’istruzione degli adulti, con le scuole serali e festive, con il mutuo insegnamento, gli incontri di pubblica lettura, la nascita e il sostegno alle biblioteche popolari. Si vuole far imparare di nuovo a leggere e a scrivere a quanti hanno frequentato poco da bambini e hanno abbandonato la scuola, e attirare i ragazzi che prematuramente vanno a lavorare. Non ci si accontenta di insegnare ai bambini: si vuole anche combattere la «memoria infedele» come definisce Berti in consiglio comunale il fenomeno per cui «abbandonando i libri, si dimentica ciò che fu insegnato, e si fatica a riordinare il filo interrotto dell’istruzione»(90).
1. A.S.V., Governo generale, Atti, X 10/15, b. 2153, fasc. XII.1, Venezia 5 gennaio 1806. Per un’analisi più generale sul contesto dell’istruzione nel Veneto nella prima metà dell’Ottocento, rinvio ad Augusto Sandonà, Il Regno Lombardo Veneto 1814-1859. La Costituzione e l’Amministrazione, Milano 1912, pp. 141-170; Marco Meriggi, Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Bologna 1983; Id., Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/2); Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, in partic. Mario Isnenghi, La cultura, pp. 381-482; Id., I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 233-406. Più specificamente dedicate all’istruzione sono Paolo Trotto, La scuola elementare a Padova negli ultimi cent’anni 1805-1906, Firenze 1909; Nicola Mangini, La politica scolastica dell’Austria nel Veneto dal 1814 al 1848, «Rassegna Storica del Risorgimento», 44, 1957, pp. 769-783; Problemi scolastici ed educativi nella Lombardia del primo Ottocento, I, L’istruzione elementare, Milano 1977; II, L’istruzione superiore, Milano 1978; Nascere sopravvivere e crescere nella Lombardia dell’ottocento (1815-1915), catalogo della mostra, a cura di Lilli Dalle Nogare-Luisa Finocchi, Milano 1981; Il bambino e la sua cultura nella Padova dell’Ottocento, catalogo della mostra, Padova 1981; Claudia Salmini, L’istruzione pubblica dal Regno italico all’Unità, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 59-79; Ead., Il libro scolastico a Venezia tra ’700 e ’800: due autori, in L’editoria del ’700 e i Remondini. Atti del convegno, a cura di Mario Infelise-Paola Marini, Bassano 1992, pp. 97-121; Ead., Libri di testo tra antico regime e restaurazione: continuità o cambiamento?, «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», n. ser., 22, 1992, nr. 41, pp. 145-155; Ead., L’istruzione primaria a Venezia e la nascita della Scuola tecnica, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, pp. 213-232; Ead., La scuola elementare tra Stato e Comune. Dalle riforme settecentesche al primo Novecento, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 113-125.
2. Le scuole nel Lombardo-Veneto, come verrà in parte approfondito più avanti, si sviluppano in forme diverse rispetto agli altri territori italiani appartenenti all’Impero: per l’area triestina v. Ugo Cova, Istituzioni scolastiche in Austria e a Trieste da Maria Teresa al 1918, in A.N.AI.-Sezione Friuli-Venezia Giulia, La lavagna nera. Le fonti per la storia dell’istruzione nel Friuli-Venezia Giulia. Atti del convegno, Trieste s.a., pp. 61-84; Diana De Rosa, Libro di scorno, libro d’onore. La scuola elementare triestina durante l’amministrazione austriaca: 1761-1918, Udine 1991. Per i territori istriani v. Ead., Maestri, scolari e bandiere: la scuola elementare in Istria dal 1814 al 1918, Udine 1998. Per il Trentino, si rinvia a Per una storia della scuola elementare trentina: alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, a cura di Quinto Antonelli, Trento 1998, e alla Guida agli archivi scolastici di Rovereto, a cura di Quinto Antonelli, Rovereto 1997; una sintesi delle principali differenze tra il sistema austriaco e quello italiano si ricava da Quinto Antonelli, Fare gli italiani, tra ‘redenzione’ e fascismo. Le scuole a Rovereto, in Rovereto 1919-39. Studi, I, a cura del Laboratorio di Storia di Rovereto, Rovereto 2000, pp. 243-346, in partic. il paragrafo intitolato Dall’Austria all’Italia, pp. 250-251. Soprattutto a Luigi Ambrosoli, Egle Becchi, Ester De Fort, Marina Roggero, Giovanni Vigo si deve gran parte degli studi più e meno recenti sulla storia dell’istruzione in Italia. Per un quadro d’insieme, e per indicazioni bibliografiche puntuali, si rinvia alla relazione di Ester De Fort, Storie di scuole, storia della scuola: sviluppi e tendenze della storiografia, in La scuola che cambia fa la storia: un progetto per il 2000. Gli archivi e la memoria scolastica come fonti per la storia. Venezia, 15-16 ottobre 1999. Atti del convegno, a cura di Maria Teresa Sega, in corso di stampa.
3. [Giovanni Codemo], Soggiorno delle loro Maestà I.R.A. Francesco Giuseppe I ed Elisabetta Amalia nelle provincie venete dal 25 novembre 1856 all’11 gennajo e dal 6 all’8 marzo 1857, ed omaggio delle scuole reali inferiori ed elementari. Pubblicazione offerta a festeggiare le sponsalizie di S.A.I.R. l’Arciduca Ferdinando Massimiliano, Governatore generale del Regno Lombardo-Veneto con S.A.R. la principessa Carlotta del Belgio, Venezia 1857, in partic. pt. II, Id., Omaggio delle scuole reali inferiori ed elementari, pp. 100-101 (pp. 91-188). Alla redazione di questa seconda parte collaborarono i quattro direttori delle scuole di Treviso (Vincenzo Avanzini), di Padova (Francesco Bonomo), di Belluno (Francesco Gazzetti) e di Udine (Valentino Tedeschi), oltre al maestro padovano Luigi Antonio Gera, di cui si farà cenno più avanti. Codemo non era nuovo a lanciare su grande scala simili iniziative, tese a raccogliere gli esempi migliori del lavoro svolto dagli insegnanti, e indirizzarlo a fini encomiastici: v., in proposito, Album delle scuole elementari venete per le auspicatissime sponsalizie S.M.I.R.A. Francesco Giuseppe I con S.A. la principessa Elisabetta Amalia Eugenia di Baviera, Venezia 18542.
4. [G. Codemo], Omaggio, pp. 91-92. Sullo stampatore Giuseppe Antonelli, vicino alle posizioni di Codemo, v. Piero Lucchi, Editoria e pubblico alla vigilia della rivoluzione: il Premiato Stabilimento Antonelli, «Quaderni Veneti», 2000, nrr. 31-32, pp. 103-141.
5. Per la visita dei sovrani a Venezia, v., come riferimento generale più recente, Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni Culturali e l’Editoria-Associazione Italia-Austria, Elisabetta d’Austria e l’Italia, catalogo della mostra, a cura di Marina Bressan, Venezia 2001.
6. [G. Codemo], Omaggio, pp. 91-99.
7. Regolamento organico per le scuole elementari, 22 novembre 1818, in Collezione di leggi e regolamenti pubblicati dall’I.R. Governo delle Provincie Venete, I-LXII, Venezia [1814?]-1841: V, pt. II, pp. 264-281.
8. La voce relativa alla rivendicazione del Comune di Venezia, in relazione a spese che l’amministrazione municipale ritiene di competenza statale, si ripete costantemente negli anni: Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, VII-6-22, Istituti erariali d’Istruzione pubblica. Vertenza sulla competenza passiva della spesa di fornitura mobili, e ancora ibid., 1875-1879, VII-6-33, Mobiliare scolastico. Vertenza tra il Comune ed il Governo sulla fornitura sostenuta dal Comune incompetentemente.
9. Cf. Marino Berengo, Appunti su Luigi Alessandro Parravicini. La metodica austriaca nell’età della Restaurazione, in Omaggio a Piero Treves, a cura di Attilio Mastrocinque, Padova 1983, pp. 1-17, e C. Salmini, L’istruzione primaria a Venezia.
10. Sul problema della disoccupazione intellettuale, e dei «nodi che una mancata formazione alternativa di quadri impiegatizi» comportava, v. Marino Berengo, Il numero chiuso all’Università di Padova. Un dibattito della Restaurazione, «Quaderni dell’Università di Padova», 14, 1981, p. 44 (pp. 41-53), e Donata Giglio, I ginnasi e i licei lombardi nell’età della Restaurazione, in Problemi scolastici ed educativi nella Lombardia del primo Ottocento, II, L’istruzione superiore, Milano 1978, p. 186 (pp. 87-192).
11. In realtà, per Venezia non sono conservati i disegni prodotti per il restauro della scuola normale a S. Provolo, probabilmente a causa degli scarti intervenuti nei fondi dell’Archivio storico comunale, serie Lavori pubblici, e per analoghe operazioni nei fondi relativi alle Pubbliche costruzioni conservati nell’Archivio di Stato di Venezia.
12. L’ambiguità semantica del termine scuole è esplicitamente riconosciuta ancora a fine secolo XIX: «la parola scuole adoperata nell’art. 3 della legge 16 dicembre 1878 corrisponde manifestamente al concetto di classe e maestro. Questo concetto venne chiaramente esplicato dall’art. 2 del Regolamento 7 giugno 1883 per l’esecuzione della citata legge. Regio Decreto 11 maggio 1884 e parere conforme»: Carlo Astengo, Dizionario amministrativo Repertorio generale della giurisprudenza amministrativa pubblicata nel Manuale degli amministratori comunali e provinciali e delle opere pie dall’anno 1862 a tutto il 1894, Roma 1896, p. 855.
13. [G. Codemo], Omaggio, pp. 91-99, come per la citazione successiva; sulla condizione generale dei maestri si rinvia a Giovanni Vigo, Il maestro elementare italiano nell’Ottocento. Condizioni economiche e status sociale, «Nuova Rivista Storica», 61, 1977, pp. 43-84, e a Ester De Fort, I maestri elementari italiani dai primi del novecento alla caduta del fascismo, ibid., 68, 1984, pp. 527-576.
14. Giovanni Codemo, fratello del più noto Michelangiolo, e zio della scrittrice Luigia Codemo di Gerstenbrand, inizia come maestro di campagna per passare poi a dirigere le scuole elementari maggiori di Vicenza e di Treviso. Promuove la rivista «L’Institutore», uscita in più riprese: 1836-1837 e 1851-1866; dal dicembre 1852 al 1866 svolge le funzioni di ispettore generale delle scuole elementari, posto rimasto vacante. Cavaliere dell’ordine di Francesco Giuseppe viene insignito della piccola medaglia d’oro del merito. Muore a Tezze di Conegliano nel 1877: v. Enciclopedia Biografica e Bibliografica Italiana, ser. XXXVIII, Pedagogisti ed educatori, diretta da Ernesto Codignola, Milano 1939, p. 140; Angelo Bronzini, Un giornale scolastico sotto l’Austria: l’Institutore di Giovanni Codemo, Milano 1914. Ulteriori note biografiche per il periodo successivo all’Unità sono indicate più avanti.
15. Luigia Codemo di Gerstenbrand, Pagine familiari, Treviso 1878, pp. 577-581 (Il barba Zanetto); citata in parte anche da P. Trotto, La scuola elementare a Padova, pp. 96-97.
16. L. Codemo di Gerstenbrand, Pagine familiari, p. 580.
17. Il prefetto Torelli come presidente del consiglio scolastico provinciale al Ministero della Pubblica istruzione, Venezia 4 gennaio 1870, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Personale (1860-1880), b. 611.
18. Lettera riservata del ministro della pubblica istruzione a Tommaso Gar, Firenze 28 gennaio 1870, e risposta del 31 gennaio, ibid.
19. Ibid.
20. Un profilo di Antonio Berti è tracciato da Giuseppe Gullino, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, p. 374. Nato nel 1816, morto nel 1879; antiaustriaco, nel 1848 era stato tra i difensori di Venezia. Medico, diresse il nosocomio femminile a Venezia e fu primario all’ospedale civile. Senatore dal 16 novembre 1876. Fu anche vicepresidente dell’Ateneo Veneto. Altri cenni biografici su Berti sono presentati più avanti, in questo saggio.
21. Luigia Codemo di Gerstenbrand, Svago a buona scuola, Treviso 1880, p. 302. Qualche altro accenno al rapporto con Berti precede la citazione riportata nel testo: «Poche relazioni ebbi con lui [Berti] dal 1866 in poi. Ma importantissime, perché avendo il Municipio presa la direzione delle scuole festive per le analfabete, le quali, dietro espresso incarico di Ottavio Gigli da Firenze, io dovetti iniziare in Venezia, ci accordammo più d’una volta nelle sale del Palazzo Farsetti, dove egli, in qualità di consigliere scolastico, presiedeva».
22. Il concordato, sottoscritto il 18 agosto del 1855, venne promulgato con patente imperiale del 5 novembre 1855, e reso obbligatorio per tutta l’estensione dell’Impero, ad eccezione degli articoli relativi all’istruzione.
23. Il ministro della Pubblica istruzione al commissario del re, Firenze 6 dicembre 1866, oggetto «Vigilanza ed ispezione dell’istruzione primaria», in A.S.V., Commissario del Re, b. 11, 5 11/2. Già nel novembre dello stesso anno erano stati inviati dal commissario del re al Ministero i nominativi proposti a direttori scolastici provinciali: il cav. Guglielmo Berchet per Venezia; mons. Giulio Cesare Parolari per Mestre, il dott. Giuseppe Millosevich per Mirano; il dott. Giovanni Antonio Gidoni per Gambarare; Giuseppe Ranzato di Pietro per Chioggia; Girolamo Carnielli di Ceggia per San Donà; l’avvocato Fausto Bonò per il distretto di Portogruaro, ibid., 15 novembre 1866. «Riconoscendo utile e necessario far cessare l’attuale ordinamento dell’ispezione e vigilanza dell’istruzione primaria nelle provincie venete, affidata con sovrana risoluzione del Governo austriaco del 17 gennaio 1860 ad ispettori superiori diocesani e ad ispettori ecclesiastici distrettuali», il principe Eugenio di Savoia Carignano, luogotenente generale di Vittorio Emanuele II re d’Italia, decreta il 1° agosto del 1866 che si nominino un ispettore scolastico provinciale, ispettori scolastici distrettuali, e un direttore scolastico provinciale, Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, VII-5-1, Istruzione pubblica, fasc. relativo al 1866.
24. I motivi alla base di tale differenza sono, del resto, intuibili dalle date: il concordato entra in vigore nel 1860, quando ormai le province lombarde (ad eccezione di Mantova) non fanno più parte dell’Impero. Che il problema legato all’ispezione non abbia presentato particolari problemi nelle province lombarde è testimoniato dalla stessa documentazione prodotta sull’argomento nei primi mesi dopo l’Unità: v. Gli archivi dei governi provvisori e straordinari 1859-1861: Inventario, I, Lombardia, Provincie parmensi, Provincie modenesi, Roma 1961, p. 42.
25. Andrea Zanotti, Il concordato austriaco del 1855, Milano 1986, p. 177.
26. Istruzione pubblica del cardinale Antonelli al pro-nunzio Viale-Prelà (9.8.1853), in Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Vienna, b. 404, cc. 301-319, pubblicata in A. Zanotti, Il concordato austriaco, pp. 265-266. In questa istruzione ci si riferisce all’obbligo della professione di fede nelle mani del vescovo locale, secondo la formula di Pio IV; quanto ai maestri delle scuole primarie, essi sono «scelti liberamente dal Vescovo» (art. 23).
27. A. Zanotti, Il concordato austriaco, p. 162 (art. V del concordato). In realtà, la delega si era ampliata fino a comprendere la sfera stessa della formazione: prima del concordato, l’insegnamento della metodica superiore, corso di abilitazione per i maestri delle scuole elementari maggiori, durava dieci mesi e spettava in esclusiva alle scuole maggiori e reali inferiori di Venezia, Verona e Udine; il corso di metodica inferiore, di cinque mesi e diretto alle scuole elementari minori, si teneva solo presso le altre regie scuole maggiori e reali inferiori esistenti nelle città capoluogo di provincia. Grazie al concordato, i corsi di metodica venivano impartiti anche nelle scuole comunali delle sedi vescovili (Portogruaro, Chioggia, Ceneda, Feltre), sensibilmente meno esigenti delle sedi statali, che si erano letteralmente svuotate negli ultimi anni. Il fenomeno aveva provocato un vistoso abbassamento del livello di preparazione del corpo docente, giudicato deplorevole da molti, tanto da porre il problema tra quelli che richiedevano prioritaria e urgente soluzione: v. il commissario del re al Ministero della Pubblica istruzione, 1° novembre 1866, in A.S.V., Commissario del Re, b. 12, 5 20/7.
28. A. Zanotti, Il concordato austriaco, p. 162 (art. IX). V., in questo volume, il capitolo di Giovanni Vian.
29. Citato nella notificazione del Regolamento organico, p. 265. Le norme che regolavano invece l’istruzione elementare negli altri territori dell’Impero risalgono all’11 agosto 1805, pubblicate in numerose edizioni; Politische Verfassung der deutschen Schulen in den k. auch k.k. deutschen Erbstaaten, Wien 1806; l’edizione inviata nel 1814 al governo veneto è datata Vienna 1812. Per queste indicazioni mi baso sul lavoro di Quinto Antonelli, Storia della scuola elementare e formazione degli archivi scolastici nel Trentino, in corso di stampa; l’autore cita il Regolamento politico per le scuole elementari dell’I. R. Provincie austriache ad eccezione dell’Ungheria, del Regno Lombardo Veneto e della Dalmazia, Vienna 1847, edizione particolarmente interessante perché consente di fare un confronto con il testo del 1805 e le ordinanze posteriori.
30. Regolamento organico; Istruzioni di completamento del nuovo sistema, in Collezione di leggi e regolamenti pubblicati dall’I.R. Governo delle Provincie Venete, I-LXII, Venezia [1814?]-1841: VII, pt. II, pp. 68-180. Le norme diverranno obbligatorie a partire dal giugno 1821. Per la nomina degli ispettori provinciali, v. la sovrana risoluzione 24 novembre 1819, in A.S.V., Governo, Atti, 1819, XXVII/1.
31. Oltre alle province venete, per le quali le fonti testimoniano la generale riluttanza a impegnarsi nel ruolo e la difficoltà a reperire un membro della congregazione provinciale disposto a ricoprire l’incarico, si segnala anche la parallela situazione attestata a Brescia: poiché nessuno si era dichiarato disposto ad assumere l’incarico, subentra (solo dopo formali rinunce ed espletamento di un procedimento burocratico complesso) un cittadino che ben presto cumulerà anche le funzioni di ispettore distrettuale: v. Emilio Venturini, Aspetti dell’istruzione elementare a Brescia, in Problemi scolastici ed educativi nella Lombardia del primo Ottocento, I, L’istruzione elementare, Milano 1977, p. 307 (pp. 301-386). Sulla funzione in generale delle congregazioni provinciali si rinvia a Eurigio Tonetti, Governo austriaco e notabili sudditi. Congregazioni e municipi nel Veneto della Restaurazione (1816-1848), Venezia 1997. Il conte padovano Girolamo Polcastro aveva incaricato il maggiordomo di casa perché svolgesse, al suo posto, le funzioni di ispettore provinciale delle scuole di Padova.
32. Notificazione del Regolamento organico. Nella relazione inviata alla Commissione centrale di organizzazione il nobile tirolese Christof Passy, consigliere di governo incaricato della pubblica istruzione, sottolineava l’assenza, nelle province venete, della figura del vescovo scolastico che nei paesi di lingua tedesca svolgeva opportunamente le mansioni di ispettore; per questo motivo esprimeva l’esigenza di stabilire un compenso adeguato per la carica del massimo responsabile della vigilanza, l’ispettore in capo delle scuole elementari. Venezia, 16 luglio 1816, in A.S.V., Governo, Atti, 1816, XX/41.
33. Su Ladislao Pyrker (1772-1847), patriarca di Venezia, si rinvia alla biografia ricostruita da Silvio Tramontin, Il patriarca Pyrker e la sua visita pastorale, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971, pp. XLIII-LXXVII (pp. XLIII-CXXVII). Il patriarca, di origine ungherese e proveniente «dal cuore dell’impero» godeva della nomea di «sior Luter». I legami con l’Impero sono espressi da Pyrker anche in alcune sue opere; per questo aspetto, v. Claudio Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino 1963, p. 28, che giudica «noioso», nel panorama letterario austriaco, il poema di Pyrker su Rodolfo d’Absburgo. Ladislao Pyrker al governo, Venezia, 23 febbraio 1822, in A.S.V., Governo, Atti, 1822, XX, 2/43. Non fa parola di tale conflitto Nicolò Vergottini, Analisi del concordato austriaco del 18 agosto 1855, Venezia 1856. L’opera del Vergottini, pur dogmatica e palesemente apologetica, risulta utile per i numerosi riferimenti alle particolari specificità delle province venete.
34. Cicutto al governo, Venezia, 31 luglio 1820, in A.S.V., Governo, Atti, 1821, XX, 13/1.
35. Christof Passy alla commissione aulica degli studi, Venezia, 15 novembre 1919, ibid., 1819, XXVII/1.
36. Circolare governativa alle delegazioni sul modo di applicare il Regolamento per le scuole elementari agli ebrei nelle provincie venete, Venezia, 12 marzo 1820, in Collezione di leggi e regolamenti pubblicati dall’I.R. Governo delle Provincie Venete, I-LXII, Venezia [1814?]-1841: VII, pt. I, p. 168. Le testimonianze di ostilità antisemita sono espresse nei dispacci inviati dalle rispettive delegazioni: il delegato di Padova al governo, Padova, 23 ottobre 1919, in A.S.V., Governo, Atti, 1819, XXVII/1; rapporto della delegazione di Treviso al governo, Treviso, 26 agosto 1819; rapporto della delegazione del Polesine al governo, 26 agosto 1819, ibid.
37. Decreto 19 settembre 1820 citato nella copia del verbale della riunione 18 ottobre 1820, in A.S.V., Governo, Atti, 1821, XX, 13/1.
38. La commissione aulica degli studi al governo, Vienna, 10 marzo 1821, ibid. Per questi problemi, v. inoltre: Marino Berengo, Gli ebrei dell’Italia asburgica nell’età della Restaurazione, «Italia», 6, 1987, nrr. 1-2, pp. 62-103, cit. in Gadi Luzzatto Voghera-Lia Finzi-Susanna Szabados, L’educazione del bambino ebreo, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 141-149; Teresa Salzano, Scuole e bambini ebrei, in Il bambino e la sua cultura nella Padova dell’Ottocento, catalogo della mostra, Padova 1981, pp. 76-83; Diana De Rosa, Le scuole pie e normali della nazione ebraica di Trieste, «Quaderni Giuliani di Storia», 17, 1996, nr. 1, pp. 7-37, che consente il confronto con una situazione vicina, anche se regolata dalle norme per gli Stati ereditari.
39. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, VII-5-1, rapporto del 1869, 13 dicembre.
40. V. analoga situazione segnalata in proposito da Luigi Ambrosoli, Scuole, scolari, maestri, in Il bambino e la sua cultura nella Padova dell’Ottocento, catalogo della mostra, Padova 1981, pp. 64-75, che riprende un episodio citato da P. Trotto, La scuola elementare a Padova, p. 159.
41. Il patriarca Trevisanato al commissario del re per la provincia di Venezia il 16 novembre 1866, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 25, 11 4/1. Il corsivo è mio.
42. Ibid.
43. Il fondo, indicato nella Guida generale degli Archivi di Stato, IV, Roma 1994 come Ispettorato archidiocesano delle scuole popolari di Venezia (1861-1866), b. 7, con inventario sommario, è conservato nella sede sussidiaria dell’Archivio di Stato di Venezia, alla Giudecca.
44. Decreto luogotenenziale del 20 maggio 1861, nr. 7116, in A.S.V., Luogotenenza, 1861-1866, 36 1/30; il commissario del re al ministro della Pubblica istruzione, 27 dicembre 1866, ivi, Commissario del Re, b. 12, 5 16/1, e fasc. con il carteggio. Le citazioni sono tratte dalla lettera inviata dal notaio Giuseppe Sartori, ispettore provinciale delle scuole elementari israelitiche ed acattoliche, al commissario del re, Venezia 6 novembre 1866. Le sei scuole elementari private, citate nel carteggio, erano: 1) Gioacchino Olper, S. Sofia, fondamenta del Tintor; 2) Moisè Rava, S. Sofia, calle delle Vele; 3) Giuseppe Randegger, S. Sofia, ponte Priuli; 4) Pasqua Ottolenghi, S. Canciano, campiello Dolfin; 5) Elisa Levi, S. Giovanni Grisostomo, corte Morosini; 6) Giuseppina Sacerdoti Belleli, rio Terrà della Maddalena. Non si è in grado di orientare circa l’effettiva sede di conservazione delle carte indicate da Sartori: si ritiene che, per competenza, esse possano essere state inviate all’ispettorato scolastico provinciale.
45. Ivi, Commissario del Re, b. 12, 5 16/1, circolare municipale del 18 giugno 1869, che si richiama alla delibera del consiglio scolastico provinciale del 23 gennaio 1869 sull’esame di religione per gli israeliti.
46. Nota ministeriale della Pubblica istruzione al commissario del re, Firenze, 26 novembre 1866, ivi, Commissario del Re, b. 12, 5 20/4.
47. Luigi Antonio Gera, veneziano, a quell’epoca cinquantatreenne, aveva frequentato i sei anni del ginnasio, poi il corso filosofico e proseguito con studi liberi; aveva seguito il corso inferiore di metodica a Treviso, e quello superiore a Venezia, diplomandosi nel 1832. Aveva concluso gli studi di pedagogia nel 1838, per passare poi alla lingua e letteratura tedesca, e in seguito alla letteratura italiana, alla geografia e alla storia. I suoi studi sull’epigrafia italiana e latina lo portarono a scrivere numerosi saggi, e i suoi vasti interessi lo portarono a pubblicare contributi anche nel campo dell’economia pubblica. Aveva iniziato la carriera come maestro a Noventa di Piave, poi a Oderzo, San Vito, Padova, Treviso e Venezia, progredendo in parallelo dalle classi inferiori a quelle superiori. Dal 1859 aveva svolto anche la funzione di direttore facente funzione della scuola tecnica. Socio corrispondente dell’Ateneo di Bassano, di quello di Treviso, dei Filoglotti di Castelfranco, dell’Accademia dei Concordi di Rovigo, membro delle società accademiche di Rovereto e di Gorizia; socio corrispondente degli Antiquari del nord di Copenhagen e di diversi altri istituti, autore di numerose opere a stampa. V. in proposito la Tabella di qualificazione, ivi, Commissario del Re, b. 12.
48. Il commissario del re al Ministero della Pubblica istruzione in Firenze, 12 novembre 1866, ivi, Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 25, 11 9/1. A distanza di un anno si torna in argomento in un carteggio riservato, su istanza della «Commissione istituita per gl’impiegati veneti stati sospesi» che chiede se Meneguzzi esprima ancora pubblicamente il suo dissenso: se ancora, cioè, «il medesimo continui a fare dimostrazioni contrarie alle libere istituzioni inaugurate nella Venezia». Prima di giudicarlo definitivamente decaduto dal ruolo, si vuole chiarire se egli sia anche privo dei requisiti richiesti per esercitare l’insegnamento. La risposta è obiettiva: di titoli o patenti non vi è traccia. «Rovistati attentamente i registri degli esami [il Direttore della scuola normale] non trovò il nome dell’abate [...] ex catechista di questa scuola fra i maestri approvati né pel tecnico né per l’elementare insegnamento, per cui à potuto convincersi ch’ei non ottenne mai — come già era a sua cognizione — alcun titolo, ned alcuna qualifica all’ammaestramento, tranne quella per la religione conferitagli dall’Ordinariato»: Ministero dell’Interno, segretariato generale al prefetto di Venezia, Firenze, 11 gennaio 1868, ibid.; v. il direttore della scuola tecnica di S. Stin al prefetto Luigi Torelli, Venezia, 16 gennaio 1868, ibid.
49. Si tratta dell’abate Giovanni Angeli, che oltre al ruolo di direttore e catechista della scuola elementare maggiore femminile ricopriva anche l’incarico di ispettore scolastico urbano. Dal rapporto della questura di Venezia al commissario del re, 5 novembre 1866, «Informazioni sul personale insegnante nelle R. Scuole elementari di Venezia», ibid., da cui proviene anche la citazione seguente.
50. Su Giuseppe Pasolini v. qui il capitolo di Renato Camurri; per Luigi Torelli si rinvia, sempre in questo volume, a quanto scrive Nico Randeraad.
51. Gera al commissario del re, Venezia, 27 novembre 1866, in A.S.V., Commissario del Re, b. 12, 5 20/8.
52. Per la documentazione sullo stato dell’insegnamento, le proposte di riorganizzazione, l’elenco dei docenti v. i diversi fascicoli conservati, ibid., b. 12.
53. Guglielmo Berchet, Condizioni generali della istruzione primaria, Venezia 1867, 15 luglio, relazione che accompagna il Prospetto statistico della istruzione primaria nella città di Venezia, in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, VII-7-15, Istruzione pubblica. Il primo asilo d’infanzia veneziano era stato aperto nel 1836 alla Pietà, e affidato alla direzione di Giovanni Codemo. Questi ne fornisce una preziosa descrizione in una nota pubblicata dall’«Istitutore elementare, giornale dedicato ai maestri ed ai padri di famiglia», 2, 1837, vol. II, pp. 60-66: i locali, i mobili, gli utensili e l’orario stabiliti per questa scuola. Per un quadro generale sugli asili d’infanzia veneziani si rinvia a Nadia Maria Filippini, ‘Come tenere pianticelle’. L’educazione della prima infanzia: asili di carità, giardinetti, asili per lattanti, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Ead.-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 91-112.
54. Un primo tentativo di «mappa delle scuole» a Venezia, limitata a dimostrare la concentrazione nelle diverse parrocchie tra la fine del Settecento, il primo Ottocento e la metà del secolo XIX, è stato realizzato da chi scrive per la mostra La cura dell’infanzia; è in corso da alcuni anni una ricerca a più mani, coordinata da Maria Teresa Sega e condotta da numerosi insegnanti veneziani, per ampliare, approfondire e precisare diacronicamente la distribuzione degli istituti scolastici, individuando le sedi, e ridisegnando la stratificazione delle scuole a Venezia, a Mestre, a Marghera e nei comuni limitrofi.
55. Circolare 5 settembre 1867 del consiglio per le scuole della provincia di Venezia diretta ai sindaci, ai direttori scolastici provinciali e distrettuali e direttori degl’istituti d’istruzione secondaria, in Bollettino ufficiale della Prefettura di Venezia, I, Venezia 1867, pp. 310-313. La circolare, firmata dal presidente del consiglio scolastico, Giuseppe Sartori, chiariva soprattutto gli aspetti legati alla direzione e all’ispezione degli istituti scolastici, e le questioni legate ai rapporti gerarchici tra i diversi incarichi. Sul consiglio scolastico provinciale — ufficio di grande importanza per i decenni successivi all’Unità — non è facile approfondire l’indagine su fonti documentarie dirette.
56. La presidenza del consiglio provinciale scolastico passerà al prefetto pochi giorni dopo, con il r.d. 22 settembre 1867, nr. 3956. Il prefetto di Venezia, Luigi Torelli, suggerisce allora al ministro della Pubblica istruzione di accordare il cavalierato dei SS. Maurizio e Lazzaro (lo stesso che in quell’anno viene attribuito a Giovanni Codemo) al notaio Giuseppe Sartori per il servizio prestato gratuitamente come presidente del consiglio scolastico provinciale; il Ministero vuole evitare un trattamento di favore, anche per l’impossibilità di estendere a tutti tale riconoscimento poiché «gli altri esclusi da quella potrebbero aver ciò in conto d’uno sfregio o di poca considerazione a loro usata dal Ministero»; A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 25, 11 4/1.
57. Dario Ragazzini, Il governo della scuola, in Storia della scuola e storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Bari 1982, p. 140 (pp. 113-153).
58. Per il decentramento delle competenze sull’esame e l’approvazione dei libri di testo dal consiglio superiore della pubblica istruzione ai consigli scolastici provinciali e ai provveditori, v. i vivaci resoconti nei Processi verbali pubblicati in Archivio Centrale dello Stato, L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875), a cura di Luisa Montevecchi-Marino Raichich, Roma 1995, pp. 177-192; per il rapporto con la censura, v. Giampietro Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia 1989, pp. 467-512; sui rapporti tra libri di testo e mercato editoriale, v. Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980; per un quadro d’insieme si rinvia inoltre a Libro d’obbligo. Mostra storica del libro per la scuola di base (1500-1980), catalogo della mostra, a cura di Luisa Finocchi-Claudio Minoia, Pavia 1980.
59. Tra i cinque membri incaricati, Domenico Fadiga e Marco Diena, il prof. Demetrio Busoni, l’ing. Michele Treves, Antonio Dall’Acqua Giusti, nomi che ricorrono frequentemente in quegli anni tra quelli di chi, in città, segue con attenzione i problemi dell’educazione popolare; Deliberazioni prese dal Consiglio comunale di Venezia nell’anno 1867, Venezia 1867, seduta del 15 aprile 1867, p. 7.
60. Comune di Venezia, Atti del Consiglio Comunale di Venezia (1867-1923), Verbale di deliberazione del consiglio comunale di Venezia, 8 luglio 1867.
61. Il direttore della scuola reale e principi di nautica, G. Cegami al commissario del re, 11 novembre 1866, in A.S.V., Commissario del Re, b. 12, 5 13/19, «Programma di lezioni popolari che il personale insegnante di queste rr. scuole proporrebbesi impartire alla classe proletaria di questa città».
62. Alberto Errera, Le istituzioni popolari nella Venezia, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. III, 13, 1867-1868, pp. 441-599; a p. 539: Tabella dei libri prestati dalla Biblioteca gratuita popolare e provinciale a S. Giovanni Laterano nel primo semestre (1867-68).
63. Comune di Venezia, Atti del Consiglio Comunale di Venezia (1867-1923), Verbale di deliberazione del consiglio comunale di Venezia, 11 dicembre 1867.
64. Ibid.
65. La questura di Venezia al commissario del re, 26 novembre 1866, in A.S.V., Commissario del Re, b. 11, 5 12/34. Nel verbale del consiglio comunale del 13 dicembre 1867 il nome di Costantino Reyer risulta erroneamente Bayer. Da questo giovane insegnante di ginnastica prenderà nome la palestra, e successivamente la squadra di pallacanestro che ancora nei primi anni Settanta del Novecento si allenava e giocava a Venezia, nella sede monumentale della Scuola grande della Misericordia, successivamente chiusa all’attività sportiva.
66. Comune di Venezia, Atti del Consiglio Comunale di Venezia (1867-1923), Delibera del consiglio comunale, 15 luglio 1870. In quegli anni vennero stampati numerosi testi mirati a insegnare movimenti e comportamento corretti: v., per esempio, Nicola Corinci, Manuale di ginnastica per gl’insegnanti nei giardini d’infanzia e nelle scuole elementari, Venezia 1879; in precedenza: Callistenia o ginnastica per le giovani o sia trattato elementare dei differenti esercizj atti a rafforzare il corpo mantenere la salute e preparare una buona complessione [trad. dal francese], Milano 1829; Felice Valletti, Ginnastica Femminile, Milano 1892; Id., Storia della Ginnastica, Milano 1893.
67. Si rinvia alla sintesi e alla bibliografia in Enzo Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), Firenze 1990, p. 17; si rinvia anche a Marcella Bacigalupi-Piero Fossati, Da plebe a popolo. L’educazione popolare nei libri di scuola dall’Unità d’Italia alla Repubblica, Firenze 1986.
68. Prima di diventare parte integrante del paesaggio delle scuole italiane, le biblioteche scolastiche erano apparse nelle scuole veneziane almeno dal 1853, grazie ai doni del tipografo Giuseppe Antonelli (si deve immaginare, tra l’altro, un rapporto molto cordiale, o forse di personale amicizia tra Antonelli e Giovanni Codemo).
69. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, VII-5-1.
70. L’attività frenetica — sua e dello zio Giovanni Codemo — per la buona riuscita di quel congresso è così ricordata da Luigia Codemo di Gerstenbrand: «Del 1872, l’anno del congresso pedagogico, siamo quasi morti tutti e due, sotto il peso del lavoro», in L. Codemo di Gerstenbrand, Pagine familiari, p. 581.
71. Breve nota biografica su Berchet è in G. Gullino, L’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, pp. 372-373. La perdita della memoria riguardo ai materiali esposti nelle mostre didattiche è spesso una costante; v. anche quanto ricorda Dina Bertoni Jovine sui musei didattici: «Quello di Roma, nel 1881, perdette la sua autonomia, e fu aggregato alla facoltà pedagogica; il materiale fu accatastato in un magazzino; le numerose pubblicazioni raccolte furono affidate alla Biblioteca Vittorio Emanuele […]», in Dina Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Roma 1975, p. 36.
72. Marino Raichich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa 1981; Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, in Storia d’Italia, 5, I documenti, Torino 1982, pp. 1695-1736.
73. Si tenga presente, inoltre, che già nel 1867 la voce degli stipendi dei maestri delle scuole statali doveva risultare a carico del bilancio comunale, come si ricava dai Rendiconti morali pubblicati dal Comune.
74. Nel 1869 viene nominata direttrice delle scuole femminili comunali Teresa Ghezzi: seduta del consiglio comunale, 9 settembre 1869, indice p. 90. In quella stessa data il consiglio comunale delibera l’istituzione di una scuola superiore femminile «in via d’esperimento per il primo corso», stanziamento di 2.800 lire (v. Rendiconti morali). L’anno dopo, nella seduta del 13 luglio, il consiglio delibera «la sua stabile costituzione» e prevede il secondo anno, e il terzo nell’anno scolastico 1871-1872.
75. Lettera di commiato del provveditore agli studi della provincia di Venezia, Giuseppe Da Camin, promosso ad altra sede, 10 febbraio 1872, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 25, 11 4/2. Verrà sostituito dal cav. Antonio Cima. Nel fasc. 11 11/2 la consegna formale dell’ufficio comporta, come allegato, la «Nota degli oggetti»: testimonianza di grande interesse per ricostruire libri, opuscoli, prestampati, documenti conservati nell’ufficio di un provveditore agli studi in quei primi anni del Regno.
76. Ibid., 11/1. Breve profilo di Laura Veruda Goretti è illustrato in calce al verbale della sua deposizione in Archivio Centrale dello Stato, L’inchiesta Scialoja, p. 408.
77. Giovanni Battista Ruffini, Distribuzione dei premi agli alunni ed alle alunne delle scuole elementari e festive comunali nei giorni 27 e 28 agosto 1877. Discorsi tenuti dall’Assessore municipale Cav. Avv. Giovanni Battista Ruffini e dall’Ispettore scolastico urbano cav. Giuseppe Avelli, Venezia 1877, p. 7. La citazione successiva è a p. 11.
78. Giuseppe Avelli, In occasione della premiazione delle alunne nel 28 agosto 1877, Venezia 1877, p. 18.
79. Aristide Gabelli, Le scuole elementari in Italia e il metodo d’insegnamento, «Nuova Antologia», 1880, citato da Ester De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna 1996, p. 150.
80. Aristide Gabelli, Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia, Roma 1880, ora in Id., Educazione e vita sociale. Una antologia dagli scritti, a cura di Dina Bertoni Jovine, Torino 1967, pp. 81-82.
81. Comune di Venezia [Lorenzo Bettini], La scuola elementare del Comune di Venezia nel 1908. Relazione ufficiale con documenti e statistica, Venezia 1910.
82. Ester De Fort, L’associazionismo magistrale dall’inizio del secolo alla Prima guerra mondiale, in Storia della scuola e storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Bari 1982, pp. 191-205.
83. Alcune belle e rare foto di aule, refettori, alunni e maestri dei primi del secolo nella scuola elementare di S. Eufemia alla Giudecca, quasi tutte di proprietà dell’autore, sono pubblicate da Francesco Basaldella, La scienza del pensiero a Venezia. Scuole accademie insegnanti letterati alla Giudecca, Venezia 1998.
84. Comune di Venezia [L. Bettini], La scuola elementare, pp. 78-88. Per l’esposizione e gli accorgimenti adottati per garantire una aerazione costante dei locali; per le misure igieniche dei gabinetti, per il riscaldamento «a termosifone con stufe a presa d’aria esterna». Anche l’arredo doveva rappresentare quanto si considerava più evoluto in quegli anni: «Per i banchi fu adottato il tipo Kunze, ad uno e a due posti, con sedile segregato, costruiti con l’ossatura in ferro, pedana in bilico e calamaio meccanico».
85. P. Trotto, La scuola elementare a Padova, p. 162.
86. Giovanni Codemo, Sulle scuole: Accenni, Venezia 1866. Il corsivo è mio.
87. Aristide Gabelli, Relazione statistica sulla istruzione pubblica e privata in Italia, compilata da documenti ufficiali per l’esposizione di Parigi, Roma 1878, p. 73.
88. Introduzione a Documenti sulla istruzione elementare nel Regno d’Italia, Firenze 1868, citata da P. Trotto, La scuola elementare a Padova, p. 192.
89. A. Sandonà, Il Regno Lombardo Veneto, pp. 141-170.
90. Comune di Venezia, Atti del Consiglio Comunale di Venezia (1867-1923), Verbale della seduta dell’11 dicembre 1867.