L'istruzione
I modi in cui una comunità organizza i processi educativi sono sempre un buon indice del tipo di società alla quale ci troviamo di fronte. La formazione scolastica, in particolare, sembra aprire spiragli per la comprensione di fenomeni generali che giungono a toccare i caratteri più profondi dell'organizzazione sociale e istituzionale. Naturalmente nulla, e dunque nemmeno la scuola o l'istruzione, è di per sé uno specchio davvero esaustivo e fedele di realtà generali troppo complesse per essere rappresentate ricorrendo ad un solo indicatore o poco più. Gli ῾specchi della società' tendono in genere ad essere specchi deformanti; tuttavia, pur con le dovute cautele, non c'è dubbio che molte ed utili indicazioni generali vengano dalla conoscenza del modo in cui la società e i suoi componenti trattano la formazione culturale dei giovani. Da questo punto di vista Venezia non fa eccezione, anche se, come si vedrà, uno dei connotati più appariscenti del suo comportamento sembra essere il massimo disinteresse da parte dello Stato e delle strutture pubbliche per il mondo delle scuole e della formazione di base. E tutto quanto detto vale specialmente per quel Trecento che, in generale, rimane un secolo cruciale per la storia delle pratiche educative.
Il secolo XIV segna, infatti, un momento chiave nella storia dei processi formativi più ancora che didattici. Era ormai completamente assorbita la fine del monopolio ecclesiastico nelle scuole, e cominciava semmai a prefigurarsi una ripresa della presenza clericale nei meccanismi educativi; le istituzioni laiche tenevano comunque abbondantemente il campo con interventi di vario genere in quello che potremmo chiamare il settore della istruzione pubblica; i bisogni concreti della società europea, trascinati dallo sviluppo complessivo avviato fin dai tempi della cosiddetta ῾rinascita dell'anno Mille', avevano fortemente indirizzato le procedure educative verso fini pratici e la cultura del mercante si era fatta sentire anche orientando le scelte nell'istruzione; il sempre più ascoltato messaggio umanistico proponeva intanto nuovi ruoli per la cultura e nuovi modelli formativi. In sostanza, come ben si vede, il mondo dell'istruzione veniva a trovarsi all'incontro fra le necessità e le abitudini delle realtà politico-istituzionali, economiche, culturali e, più genericamente, della società nel suo complesso: congiunture delicatissime, dunque, delle quali Venezia partecipa appieno, pur con le peculiarità e le specifiche connotazioni che le sono proprie.
Non entreremo qui nel merito dell'istruzione professionale e dell'avviamento al lavoro, che come altrove anche per il giovane veneziano doveva svolgersi nell'ambito della famiglia, della bottega, dell'azienda o dell'ufficio, secondo percorsi molto articolati, fra loro diversi così come diverse erano le attività alle quali caso per caso si era destinati.
Resteremo dunque sul piano della formazione genericamente culturale (il leggere, lo scrivere, la grammatica ossia quel poco o tanto di latino che poteva essere necessario, l'abaco e poco più), dicendo subito che il percorso ordinario del giovane veneziano non doveva essere molto diverso da quello attestato già negli ultimi decenni del secolo XIII dai due figli naturali di Marco Zambon: Jacopo e Nicolò. Ancora molto piccoli quando il loro padre era venuto a mancare, della loro istruzione si erano occupati, secondo l'uso veneziano, i procuratori di San Marco, ai quali competevano tutele ed esecuzioni testamentarie. Contando sui beni lasciati dal defunto, dunque, i procuratori avevano provveduto ad affrontare i costi per l'istruzione dei due fanciulli, abbastanza vicini di età da poter avere percorsi comuni. Nel 1268, per la verità, 9 grossi (la moneta d'argento che si coniava dai tempi del doge Enrico Dandolo) erano stati pagati ad una maestra (cosa piuttosto insolita: è raro incontrare donne come insegnanti) per l'insegnamento al solo "Giacomello", ma in seguito le spese non sembrano distinguere più fra i due fratelli. Così nel 1271 a un maestro Federico vanno 18 grossi "per l'insegnamento dei figli di Marco" e i pagamenti comuni continuano nel 1272, quando peraltro i due ragazzini hanno cambiato scuola e il loro maestro è un certo Tommaso.
Che i ragazzi siano allora ad una fase decisamente iniziale nell'apprendimento della grammatica lo provano i testi che vengono acquistati: per 9 grossi un Salterio, il libro sul quale si iniziava solitamente la lettura, e per 4 grossi un Sallustio. Poi naturalmente doveva esserci un Donato, altro testo che nessuno scolaro poteva evitare; la straordinaria fortuna dell'Ars grammatica nella redazione pro omnibus di Elio Donato (fiorito verso la metà del IV secolo), aveva fatto sì che Donatus divenisse sinonimo di grammatica elementare, ed è assai probabile che con quel nome ai figli di Marco Zambon sia passato per le mani il testo - sempre di grado elementare - conosciuto anche come Ianua, che circolò abbondantemente nell'Italia tardomedievale. E certamente dovettero misurarsi anche con un Cato, ossia con i Disticha Catonis, la raccolta di detti morali legata al nome di Catone il Censore che funzionò come testo base per lo studio dei primi elementi del latino dal tardo Impero romano fino all'età umanistica ed oltre. Qualche anno più tardi (nel 1275) sarebbero occorsi Prospero, ossia gli Epigrammata che nel secolo V Prospero d'Aquitania aveva cavato dalle opere di sant'Agostino, poi il Dittocheo di Prudenzio e, ancora, il Facetus, un fortunato manuale di buone maniere (facetus significa appunto cortese, bene educato) scritto forse nella prima metà del Duecento dall'inglese Giovanni di Garlandia. In sostanza, i libri su cui i due giovani veneziani studiavano erano assolutamente in linea con quanto generalmente accadeva nell'Italia di comune. Diventando più grandi, insieme ai libri su cui istruirsi era intanto cambiata anche la loro situazione. Nel marzo 1275, probabilmente in rapporto alla loro condizione di orfani senza madre legittima e a differenza dei loro coetanei più fortunati che generalmente non lasciavano la casa nel periodo di prima formazione, erano stati "messi a stare con prete Marco a San Severo", per 50 lire di piccoli all'anno. A quell'ecclesiastico, tuttavia, non va riconosciuta anche la funzione d'insegnante; per questa si doveva frequentare una delle tante scuole tenute in città da docenti laici, provvedendo oltre che alla retta anche agli altri pagamenti d'uso, e così a Natale dello stesso 1275 si registra il versamento di 4 grossi "pro donare magistro", come dono al maestro, secondo una consuetudine diffusa pure fuori Venezia, testimoniata in terraferma anche da norme statutarie, documentata per i figli di Marco Zambon di nuovo nel dicembre 1277. A quella data era trascorsa una decina d'anni da quando avevamo incontrato per la prima volta la maestra del piccolo Jacopo e per lui e per il fratello Nicolò era probabilmente in fase conclusiva la vicenda scolastica, almeno nella sua fase di formazione elementare e primaria (1).
I libri su cui studiavano i figli di Marco Zambon, si è detto, erano sostanzialmente gli stessi su cui crescevano tanti scolari del resto d'Italia se non di mezza Europa e, soprattutto, s'inserivano in una tradizione d'antica data destinata a restare ancora a lungo. Se poi andiamo a vedere di quali altri testi di studio l'ambiente veneziano ci lascia memoria, l'impressione già avuta riesce rafforzata. Incontriamo, col titolo di Doctrinale, la grammatica latina che Alessandro di Villedieu aveva scritto al cadere del secolo XII in 2.645 esametri, ancora abbondantemente usata in età rinascimentale e data alle stampe in oltre 260 edizioni fra Quattrocento e Cinquecento; incontriamo le Magnae derivationes, ossia il lessico etimologico composto da Uguccione da Pisa (morto nel 1210 mentre era vescovo a Ferrara), libro curricolare per gli studenti un po' più avanzati nello studio del latino. A un grado più basso si colloca il Liber Aesopi o Gualterium, raccolta di favole esopiche della seconda metà del secolo XII curata probabilmente dal cappellano del re inglese, Gualtiero Anglico; con Boeçius deve intendersi probabilmente il De disciplina scholastica falsamente attribuita a Boezio, altro testo di larga fortuna. Poi, tra un Liber oocabulorum e una piccola Summa di filosofia ecco apparire, familiari sicuramente ai maestri più che agli allievi, i nomi di Seneca od Aristotele, Ovidio o Lucano o Cicerone. Continuiamo dunque a rimanere in linea con situazioni assolutamente correnti (2).
L'omogeneità, nei testi di supporto, con quanto accadeva contemporaneamente fuori Venezia e con quanto si era usato per lungo tempo non deve dare la falsa impressione di un'omogeneità di situazioni complessive; identici materiali possono servire per costruzioni fra loro incomparabili e in contesti diversi. Così, anche se i testi base restavano in parte gli stessi, il passato più lontano era definitivamente trascorso; il Duecento aveva visto in generale il tramonto della lunga stagione protrattasi per tutto l'alto e in buona misura nel pieno medio evo, in cui l'insegnamento era stato anche in Italia monopolio di fatto della Chiesa. Già il secolo XII aveva mostrato segni di evidente stanchezza. Così quando nel terzo Concilio Lateranense (del 1179) si prescriveva (in linea con il passato) la nomina di un maestro che presso ogni chiesa cattedrale istruisse gratuitamente i chierici e gli studenti privi di mezzi, oppure quando nel quarto Concilio Lateranense (del 1215) si lamentava come la precedente disposizione fosse abbondantemente disattesa, prevedendosi oltre all'insegnamento della grammatica e della teologia in ogni cattedrale anche un maestro in ogni altra chiesa in cui esistessero risorse sufficienti, quelle disposizioni ormai indicavano non un ripotenziamento del sistema delle scuole ecclesiastiche ma piuttosto (almeno per l'Italia) una fase di loro avanzata decadenza e di contrazione ultima (3). Nel Trecento quel vecchio sistema è ormai smobilitato (anche se probabilmente manterrà linee di durata che poi vedremo riemergere), con alcune conseguenze evidentissime. L'insegnamento è ormai correntemente affidato a docenti laici, professionisti a tutti gli effetti, esponenti di quel nuovo ceto sociologicamente definibile come intellettuale, che vive dell'esercizio della cultura (quale che sia il livello qualitativo a cui si colloca). Strettamente connessa c'è l'altra grande novità: l'insegnamento non ha più nulla della gratuità un tempo garantita dalle strutture ecclesiastiche; e il già ricordato Facetus esprime bene le novità intervenute:
Si doctrina datur, vis ut prosit ematur;
Si datur gratis, nihil dicitur utilitatis (4).
Per i giovani figli di Marco Zambon e per tutti i loro coetanei veneziani, dunque, la formazione scolastica avveniva ricorrendo a maestri laici che facevano scuola per mestiere e per il lavoro svolto ricevevano un compenso pattuito direttamente con i genitori o i tutori dei ragazzi.
Naturalmente il prezzo dell'istruzione dipendeva dal tipo di scuola e dalla qualità del maestro, ma l'abbondanza dell'offerta e l'alto numero d'insegnanti presenti sulla piazza veneziana (temi sui quali ritorneremo) dovevano contribuire a tenere abbastanza bassi i costi. Ancora nel 1403, ad oltre un secolo dagli anni di Jacopo e Nicolò Zambon, in contesti nei quali all'istruzione veniva assegnato un ruolo ben più eminente, nel corso del processo che lo opponeva ai fratellastri intenzionati a fargli pagare fino all'ultimo spicciolo le spese d'istruzione, Francobono de Bugnis, figlio naturale di quello che era stato uno dei maggiori contribuenti veneziani, ricordava in tribunale come un buon insegnamento per gente dabbene costasse "due o quattro ducati all'anno" e come "i figli di molti nobili" frequentassero scuole "dove sono istruiti bene e diligentemente a poco prezzo" (5).
Se larga doveva essere l'offerta di scuole e insegnanti in Venezia, poco diffusa probabilmente rimaneva la pratica di porre a convitto i ragazzi, pratica che era altrove corrente al punto che in alcuni statuti, nel determinare i costi della scuola pubblica, si prevedeva appunto il caso in cui il maestro oltre all'insegnamento offrisse anche ospitalità allo scolaro. La povertà di notizie su studenti a convitto nel contesto veneziano potrebbe, per la verità, dipendere da una conoscenza delle fonti ancora modesta e, del resto, il silenzio non è un argomento davvero probante, ma qualche dato ci perviene per via indiretta. Così è per la grazia concessa nell'aprile 1350 a quel maestro Ubertino, "rector scolarum", condannato ad una multa piuttosto consistente dagli ufficiali alla giustizia nuova, che si occupavano di osti e tavernieri; l'accusa mossagli era stata quella di "tenere albergariam" per il fatto che ospitava "in duodena", come dozzinante, un fanciullo per ragioni educative: "ut melius morigeraretur"; evidentemente quell'ospitalità, di cui pure si precisava il suo essere cosa abbastanza usuale, "sicut moris est", veniva a scontrarsi con le norme vigenti e gli stessi ufficiali che pronunciavano la condanna riconoscevano l'anomalia del caso, dichiarando di non poter comunque fare altrimenti, vincolati com'erano a quanto disposto dal loro capitolare. Soltanto attraverso un procedimento di grazia la multa veniva condonata, ma resta comunque la particolarità del caso che ci offre un'indicazione non univoca. Da un lato, infatti, ci dice che per un maestro tenere studenti a convitto nel pieno Trecento non era fatto per nulla eccezionale: "moris est"; d'altro lato, se la cosa poteva scontrarsi con i vincoli previsti per gli albergatori e con i divieti di "albergaria", non si trattava evidentemente di una pratica riconosciuta e diffusa al punto di godere di un suo tranquillo statuto (6).
Possiamo ritenere (almeno in attesa di nuove indicazioni) che in un'entità urbana qual era Venezia, dalle dimensioni fuori dall'ordinario, con funzione di capitale, residenza di tutti quanti davvero contavano o si preparavano a farlo, dovessero essere proporzionalmente meno che altrove i giovani che, venendo da fuori, avevano bisogno di stare a convitto per potersi istruire. Sono però sfumature rispetto agli andamenti generali e non è su questo piano che dovranno cercarsi le eventuali peculiarità veneziane. Piuttosto, sarà opportuno considerare il modo in cui le istituzioni pubbliche guardarono (o non guardarono) al mondo delle scuole.
Il già ricordato processo di laicizzazione delle strutture scolastiche e il ridursi di ruolo dell'istituzione ecclesiastica comportò una contestuale crescita dell'attenzione da parte delle autorità civili. L'evoluzione fu particolarmente evidente nell'Italia di comune, dove le autorità cittadine ritennero opportuno intervenire in più modi con fini d'indirizzo. Così il Duecento attesta una fioritura di disposizioni intese a regolamentare il funzionamento del settore, giungendo fino ad un impegno diretto che prenderà corpo, in molti casi, anche nell'assunzione in proprio del pagamento del salario per il maestro (o di una sua quota determinante), con tutti i diritti che ciò veniva a comportare. Si assiste, in sostanza, alla nascita di scuole pubbliche, direttamente gestite dai comuni, con insegnanti che ricevono una sorta di condotta, in un rapporto i cui caratteri sono resi più chiari dal fatto che il maestro comunale viene solitamente associato al medico condotto nel godimento di alcuni privilegi: immunità fiscali; esenzione dalle prestazioni militari; spesso la disponibilità di un'abitazione fornita gratuitamente dal comune; talvolta l'arredo e altri piccoli vantaggi, fino ad una quota annua di vino o di legname per il riscaldamento o al pagamento delle spese dell'eventuale trasloco. Le autorità cittadine si preoccupano anche di determinare le rette che gli studenti debbono eventualmente pagare per usufruire del servizio scolastico, con carichi differenziati a seconda del grado d'istruzione, partendo dalla fondamentale distinzione fra i "non latinantes" (per i quali l'insegnamento poteva essere anche gratuito) e i più avanzati "latinantes" (7).
Il tipo d'intervento sopra descritto è quello che mostra con più evidenza l'interesse dei pubblici poteri per il mondo scolastico, ma non è il solo. Al polo opposto esso potrà esprimersi - in una sorta di paradosso apparente - addirittura proclamando il massimo spazio per il privato, senza con ciò venire meno al presupposto di fondo: il diritto/dovere d'intervenire nel settore in nome dell'interesse generale. Così si troveranno anche delibere che, invece di regolare il funzionamento di una scuola pubblica, proclameranno l'assoluta libertà per chiunque (cittadino o forestiero) d'insegnare l'arte grammatica, anche se non era maestro abilitato e senza che nulla potessero in contrario i voleri e le disposizioni della congregazione dei maestri; ciò nell'evidente convinzione che l'interesse comune, il "vantaggio dei cittadini" che "dovevano far istruire i figli nell'arte grammaticale", fosse garantito al meglio da una larga disponibilità di insegnanti in libera concorrenza fra loro, senza vincoli o laccioli di carattere corporativo (8). La casistica nelle modalità d'intervento è dunque ampia e sembra sfuggire a precise regole, anche se qualche linea di tendenza può forse trovarsi. Così l'impegno diretto delle comunità nel mantenimento delle scuole inferiori sembra trovare spazio specialmente nei centri più piccoli, dove la scarsa popolazione non dava ai maestri certezza di sufficienti guadagni (9).
In ogni caso, quando passiamo dalle considerazioni generali alla realtà specifica di Venezia, sembra svanire quell'attenzione dello Stato che altrove in un modo o nell'altro normalmente riusciamo a trovare. La delega al privato pare farsi assoluta, ma più ancora che di una delega sembrerebbe doversi parlare di una totale estraneità o di un assoluto disinteresse per le cose dell'istruzione. A lungo Venezia non spenderà un soldo per sostenere scuole e istruzione, e se una linea di condotta deve scorgersi ancora per tutto il Trecento è quella del non ritenere giusto che fossero impegnati denari pubblici per fornire "un bene - la cultura letteraria - giudicato pertinente solo ai fini, agli interessi, alle ambizioni particolari di alcuni privati cittadini" (10). In coerenza con tale orientamento lo Stato interverrà soltanto per le scuole (che saranno allora pubbliche) "che - nel premere delle nuove necessità e responsabilità via via addossate alla classe dirigente - mireranno più tardi alla formazione di funzionari statali o comunque risponderanno a esigenze o interessi anche indiretti di governo".
In materia d'istruzione, dunque, Venezia sembrerebbe puntare molto più di altri centri sulla bontà dei meccanismi che il rapporto tra bisogni e iniziativa dei singoli, tra domanda e offerta, riesce di per sé ad innescare. In termini un po' anacronistici, potremmo parlare di una sorta di fiducia nel funzionamento autonomo del mercato della cultura, in una scommessa che si sarebbe peraltro rivelata vincente. E il primo elemento da ricordare in proposito è l'alto numero degli insegnanti che operarono nella città lagunare. Per il Trecento conosciamo centinaia di nomi di maestri che, sebbene non rappresentino un campione sicuro al punto da consentire precise valutazioni quantitative, sono certamente il segno di un tessuto scolastico diffuso e articolato. Seppure in via induttiva, si è calcolato che tra metà secolo XIV e metà secolo XV operassero contemporaneamente "da cinquanta a sessanta persone che impartivano l'istruzione elementare" (11). La valutazione, che comunque resta nel campo delle ipotesi, va presumibilmente corretta in crescita e recentemente si è proposto di calcolare in circa 130-160 i maestri privati attivi negli anni compresi fra il 1370 e il 1390 (12). Sono stime non dimostrabili con certezza, ma plausibili, e i valori suggeriti, già di per sé piuttosto alti, acquistano ulteriore significato considerando che ad ogni insegnante potevano corrispondere, stando ai parametri allora correnti, anche parecchie decine di allievi (13).
In sostanza, pur restando incontrollabili e aleatori tutti i tentativi di precise quantificazioni, sembra incontestabile una generica abbondanza di docenti che alla città lagunare giungono da ogni parte. Lungo tutto il Trecento (ma già prima e anche dopo) arrivano a decine dai luoghi più prossimi o dai centri nei quali la produzione di carattere culturale (quelli universitari anzitutto) ha maggior vigore: Padova come Treviso o Bologna o Roma o Firenze. Il reclutamento è forte naturalmente dalla regione veneta: non soltanto dai centri maggiori quali Vicenza o Verona, ma anche da località minori quali Conegliano, Feltre, Cittadella, Piove di Sacco o Soligo; quando poi comincerà a crescere il Dominio di Terraferma, dai primi anni del Quattrocento, aumenterà in parallelo il numero di docenti che provengono dalle terre di nuova acquisizione, da Bergamo come da Brescia o dal Friuli. Nondimeno, né la prossimità territoriale né poi il diretto dominio sono però condizioni davvero determinanti e forse è meglio parlare più genericamente di un flusso privilegiato di maestri dalle zone con cui erano più intensi i rapporti e gli interessi: la Romagna come le Marche, l'area istriana e quella dalmata, da Fano, Fermo, Recanati a Ravenna, Cesena o Rimini, fino a Parenzo, Sebenico o Ragusa o Pirano o Cherso (14).
Sono anni, quelli trecenteschi nell'Italia di comune, in cui la mobilità è un dato caratteristico degli insegnanti: pronti a spostarsi inseguendo assunzioni e condotte anche in città lontane, per affidamenti che spesso si contengono in contratti di pochi anni. Ma forse nessun'altra località come Venezia propone un'altrettanto articolata e ampia provenienza. Il mercato dell'insegnamento risulta apertissimo, con docenti che in laguna giungono, per esempio, da Parma o Mantova o Milano o Ferrara o dal Trentino, oppure dalla più lontana Calabria, o dalla Sicilia, o dalla Puglia. Di maggiore significato è però il ritrovare nel 1396-1397 nella zona di Sant'Agnese una scuola tenuta da un maestro David di Antivari; peraltro, quelli erano anni in cui i maggiori centri albanesi gravitavano nell'orbita veneziana. E i rapporti intercorrenti con la zona di provenienza possono richiamarsi anche ragionando di quel maestro Federico di Baviera la cui scuola è documentata in Venezia almeno dal 1393 al 1403, tanto radicato in città da prendervi moglie per ben due volte; e dal mondo tedesco proveniva anche quel Giorgio di Enrico d'Alemagna, "rector scolarum" in Santa Fosca nel 1412. In effetti non stupirà la presenza di maestri tedeschi in una città in cui nel 1306 il maggior consiglio aveva dovuto affrontare una questione di "albergaria" analoga a quella già vista sopra, relativamente all'ospitalità data ad alcuni ragazzi tedeschi. Ad essere posti sotto accusa, pesantemente multati e poi graziati per delibera del maggior consiglio, tenuto conto della loro buona fede, furono allora alcuni residenti nelle parrocchie di San Bartolomeo, San Lio, San Salvador e San Paternian (è la zona, si badi, del fontego dei Tedeschi), i quali gratuitamente, "non aliquo pretio sed amore", tenevano presso di loro "pueros theotonicos filios bonorum hominum mercatorum de illis partibus"; e di quei figli di rispettabili mercanti tedeschi così ospitati si precisava "aliqui vadunt ad audiendum gramaticam, aliqui vero a labacum" (15).
Questi giovani teutonici che imparano la grammatica e a far di conto sono un po' il corrispettivo dei maestri Giorgio d'Alemagna o Federico di Baviera, nel contesto di una presenza tedesca in laguna assai significativa. Ma per tornare all'ampiezza dell'area di reclutamento dei docenti, in contesti diversi da quelli che possono darsi per maestri giunti d'Albania o d'Alemagna (terre con le quali i rapporti erano stretti e correnti), dovremo ricordare la provenienza francese del "rector scolarum" Nicola Girardi che nel 1380-1382 viveva a Santa Croce, oppure quella del "magister" Giovanni di Francia, documentato nel 1403. Pochi anni dopo, nel 1416-1417, Francesco da Praga ha scuola a San Paternian e qualche anno prima si poteva incontrare un insegnante portoghese che teneva scuola a San Giovanni Novo: Giacomo da Lisbona che almeno dal 1395 è attestato come "rector scolarum" e nel 1397 si mette in società con un collega friulano, Manfredo da Sacile. E a questi maestri forestieri non si dovranno necessariamente assegnare lontane ascendenze o legami vecchissimi con le loro terre d'origine, ormai annullati da una lunga permanenza (magari di generazioni) nella città lagunare. Basti il caso di maestro Giacomo da Lisbona, che - pur nella modestissima documentazione residua - risulta avere ancora ben vivi i legami non soltanto con la piccola comunità portoghese residente in laguna ma anche con quanti giungevano occasionalmente dalla sua terra d'origine, come fu nel 1399 con quel suo compatriota Giovanni del fu Vincenzo "de Portagallia" che, in sosta a Venezia nel suo andar per mare, dovendo far testamento volle anche maestro Giacomo fra i suoi fidecommissari (16).
Per chi pratica il mestiere d'insegnante, Venezia è dunque un centro di forte richiamo e anche se, come si è detto, la disponibilità dei docenti a spostarsi in luoghi lontani è abbastanza diffusa nel corso del Trecento, i dati disponibili suggeriscono qui una maggiore intensità del fenomeno. Tanti maestri giunti da fuori, peraltro, sembrano indicare una carente disponibilità locale, quasi che quello di docente sia un mestiere che ai Veneziani non interessa troppo, e una verifica di questa sensazione la si ricava muovendo da un punto di osservazione opposto, andando cioè a cercare se vi siano insegnanti veneziani che operano in altre città. Sebbene le informazioni disponibili siano ancora una volta - parziali e invitino dunque a non pronunciare sentenze definitive, l'esito della verifica è piuttosto chiaro e sembra significativa la grande scarsità di maestri veneziani operanti fuori Venezia. Sono rarissimi, anche se qualcuno accade di ritrovarlo. Così verso il 1360 Giovanni di ser Francesco, incaricato dal comune di Pistoia d'informarsi sui docenti che c'erano in giro, alla ricerca di chi meglio potesse servire per una condotta d'insegnamento, stendendo la "nota di tucti li maestri di grammatica che sono in Toscana" (il riferimento è specialmente alle scuole pubbliche), registrava anche un "maestro Mondino da Venegia", in servizio a Rieti "conducto per lo Comune", e un altro maestro "da Venegia" (di cui non sapeva indicare il nome esatto) gli risultava "conducto da' Lucchesi". Ma si tratta di casi almeno per il momento eccezionali (17).
Seppure giudicato poco interessante da parte dei Veneziani, il settore delle scuole restava comunque un campo di indubbio rilievo anche economico. La scuola è soprattutto un'azienda e come tale viene trattata dal titolare del bene, quello che dobbiamo riconoscere sotto la corrente definizione di "rector" in cui la responsabilità didattica non sembra davvero prevalere sulla qualità proprietaria. Basterà ricordare, a titolo d'esempio, la cura con cui nel giugno del 1366 un maestro di lunga (e anche tribolata) esperienza, il vicentino Lanzarotto, trattò l'affitto della sua scuola a San Canciano, che era in procinto di abbandonare per altri impegni che presumeva lo avrebbero tenuto lontano per un anno. Lanzarotto si accordava dunque con un collega, Enrico di Simeone "de Lavaçolla" (forse Lavezzola) perché lo supplisse durante l'assenza. Gli cedeva ogni "lucrum et utilitatem" ricavabile dagli scolari che frequentavano le sue lezioni in cambio dell'impegno a un insegnamento puntuale ed efficace ed al pagamento di sei ducati d'oro per l'intero anno.
Non sembra un canone elevato, ma per valutarne la relativa entità bisogna considerarlo nell'insieme dei vincoli che l'accordo prevedeva, dai quali si evince come, a parte la mera rendita, a Lanzarotto premesse soprattutto il mantenimento del valore del capitale/scuola: che cioè l'azienda non si screditasse. E poi c'era la preoccupazione di conservare il pieno controllo sull'attività dell'azienda, ed affiora subito il timore che il supplente maestro Enrico finisse per rubargli clienti o rovinargli il capitale. Così ecco la richiesta al subentrante della garanzia di una buona gestione, di "bene facere" con gli scolari, con il regolare insegnamento quotidiano, il rispetto degli orari e l'obbligo di una adeguata sostituzione in caso di temporaneo allontanamento, con cautele che sembrano pensate piuttosto a garanzia della scuola/impresa che non degli alunni. E, ancora, Lanzarotto si premuniva meticolosamente quanto ai modi del suo eventuale rientro. Scaduto il contratto, maestro Enrico avrebbe restituito il "dominium" della scuola, prevedendosi anche le condizioni nel caso di un rientro anticipato. E per essere ben garantito di non favorire in alcun modo un potenziale concorrente, l'attento Lanzarotto imponeva pure che quando mai Enrico avesse voluto "regere scolas" in proprio, non avrebbe dovuto farlo né a San Canciano né a Santa Maria Nova né ai Santi Apostoli, vale a dire in zone immediatamente vicine. Andasse altrove, Enrico, a cercarsi i suoi clienti. Va comunque aggiunto che la sostanziale limitatezza della zona individuata per contratto come quella esclusa dalla concorrenza (le tre parrocchie nelle quali Enrico non avrebbe dovuto aprire la sua scuola) ci ribadisce per altra via la convinzione di un tessuto assai fitto di scuole, con ῾bacini di utenza' decisamente ridotti (18).
Il numero alto di maestri, la diffusione delle scuole, l'attenta cura per i risvolti economici della professione fanno indubbiamente pensare all'istruzione come a un campo di non irrilevante spessore economico. Da questo, peraltro, non deve dedursi che abbiamo a che fare con un ambito di benessere diffuso per chi ci lavora. Anzi, i dati convergono nel suggerire che la vita dei maestri fosse parecchie volte piuttosto grama. Del resto la riscontrata scarsità di Veneziani impegnati nel settore dell'insegnamento poteva già far supporre che quel mestiere non dovesse risultare troppo attraente per i membri di una comunità che disponeva di forti e articolate potenzialità economiche. Per certi versi viene da paragonare il settore dell'istruzione con quello del notariato, con il quale i punti di contatto sono più d'uno, a partire dal fatto che per entrambi i mestieri occorreva una preparazione culturale abbastanza elevata. Ebbene, ricordiamo come in Venezia, nella gerarchia delle professioni, quella notarile non si sia mai collocata sui livelli alti, delegata a un clero in cura d'anime in un contesto che finiva col rendere più difficile ogni effettiva crescita del notariato stesso (19).
Indubbiamente ci furono anche notai laici con posizioni di indiscutibile solidità. Allo stesso modo s'incontrano maestri in stato di tranquillo benessere o addirittura decisamente benestanti, in una situazione che (come vedremo meglio) complessivamente migliora col trascorrere degli anni, a mano a mano che ci si avvicina alla fine del secolo e ci si inoltra nel Quattrocento, quando l'affermarsi dell'esperienza umanistica porta ad un diverso apprezzamento della formazione culturale dei giovani. A lungo, peraltro, i segni di insoddisfazione restarono numerosi. Uno degli indici più evidenti è la tendenza degli insegnanti a impegnarsi in secondi lavori, allo scopo d'integrare quanto si otteneva dalla didattica. C'imbattiamo così in chi alla qualifica di "magister" o "professor" o "rector scolarum" aggiunge quella di medico, o di libraio, o di "scriptor", oppure s'impegna nell'amministrazione di qualche piccolo capitale investito sul mercato di Rialto (20).
Le vere professioni collaterali per gli insegnanti, tuttavia, sono quelle di notaio e di impiegato nei pubblici uffici. Quanto al notariato, va detto che gli intrecci con l'insegnamento sono piuttosto forti e abbastanza attestati anche fuori Venezia. La stessa conoscenza della grammatica (cioè del latino) era considerata un requisito essenziale della professione notarile e in più situazioni l'insegnamento grammaticale e quello notarile furono riuniti nella stessa persona. Certo è che l'interesse dei maestri per l'attività notarile appare molto diffuso in Venezia, specialmente nel pieno Trecento; e il nesso era tanto naturale che capita persino d'incontrare un notaio-maestro Ubertino che nel 1358 roga chiamando a testimoni i suoi allievi, indicando nell'escatocollo del documento: "testibus omnibus scolaribus mearum scolarum", oppure "omnibus scolaribus meis" (21).
La frequenza relativamente alta con cui i maestri s'impegnano nella professione di notaio, sia pure in modo per lo più sporadico ed occasionale, potrebbe far ritenere che ciò comportasse non soltanto un'integrazione di reddito, ma anche un miglioramento di status sociale. Si tratta di un equivoco che occorre subito far cadere. Probabilmente in Venezia più che altrove il notariato ebbe a godere di modesta considerazione; si poteva intuire già da quanto dicevamo a proposito dei preti-notai. Certo è che chi esercitò la doppia professione di norma non pensò mai di qualificarsi come notaio (se non nell'esercizio della professione, quando rogava i documenti) e preferì proporsi come maestro; in sintesi, quella notarile è un'attività che nei fatti i maestri veneziani giudicarono confacente e interessante più di qualunque altra, ma non vi cercarono mai soluzioni davvero alternative al loro status professionale e sociale, trovandovi piuttosto un utile e quasi naturale complemento al loro ordinario operare. In breve: meglio l'insegnamento che il notariato.
Se, nei limiti indicati, l'"ars notaria" sollecitava un interesse diffuso fra i maestri, ancora maggiore era quello per i pubblici uffici che, in un sistema burocratico-amministrativo come quello veneziano, in crescita contestualmente al crescere dell'organizzazione statuale e al tempo stesso aperto ad incarichi di durata temporanea, offrivano abbondanti opportunità. Tornando allora a Lanzarotto da Vicenza (che in precedenza era stato insegnante ad Asolo), quando nel 1366 trattava il passaggio della sua scuola a maestro Enrico "de Lavaçolla", lo faceva dichiarando di essere in procinto di entrare "in aliquo officio". Stava presumibilmente preparandosi per andare come notaio del podestà a Caorle; più tardi (nel 1370) avrebbe svolto la stessa funzione a Torcello e, tornato a Venezia, nel 1372-1373 avrebbe assunto l'incarico di scriba all'ufficio dei cinque della pace, riprendendo poi l'insegnamento (documentato dal 1377) prima a San Canciano (forse nella vecchia scuola data in affitto undici anni avanti) e poi alla Trinità.
L'esperienza di Lanzarotto non è inconsueta. Per tutto il Trecento e ancora abbondantemente nel Quattrocento incontriamo maestri che prendono temporanei impieghi nelle podesterie del Dogado o negli uffici della capitale Rialto. Giustizia vecchia, signori di notte, ufficio degli imprestiti, tavola dei Lombardi, ternaria, dazio del vin, rason vecchie, curia di petizion...: tante sono le opportunità che la macchina burocratica dello Stato veneziano può offrire anche fuori dalla capitale e dalle località del Dogado. Così troveremo maestri in servizio presso il duca di Candia o a Pola o nelle cancellerie di Negroponte, della Canea, di Corone. Bisognerà aggiungere che - almeno sulla base dei dati per il momento disponibili - l'interesse per l'impiego in uffici e apparati burocratici sembra essersi mantenuto costante per tutto il Trecento e poi nel corso del Quattrocento meglio di quanto non fosse per il notariato, che nel passare degli anni sembra subire un certo declino quanto a capacità d'attrazione (22).
Per avere un'idea più compiuta di come la biografia di un insegnante poteva trascorrere fra gli impegni della cultura, della scuola, dell'amministrazione e degli uffici, conviene forse richiamare un caso concreto e ben noto: quello di Giovanni Conversini da Ravenna, la cui vita trascorse per lo più in rapporto con Venezia, i suoi domini o le terre che con lei in un modo o nell'altro dovettero fare i conti. Si badi, peraltro, che il caso del Conversini è molto indicativo piuttosto che strettamente esemplare: in primo luogo, perché con lui abbiamo a che fare con un maestro di grande prestigio, di qualità indubbiamente superiore alla media; in secondo luogo, perché possiamo supporre una particolare irrequietezza del personaggio. Nondimeno, ciò premesso, la sua biografia rimane un buon campionario di quanto - magari con minore intensità - normalmente poteva capitare. Il Conversini, nato nel 1343 a Buda dove il padre si trovava come medico del re d'Ungheria, iniziò la sua carriera d'insegnante nel 1364 a Bologna, ma subito si trasferì come precettore a Ferrara, presso Niccolò II d'Este, e nel 1366 si trovava già a Treviso (allora veneziana) a insegnarvi grammatica. Spostatosi poi presso il signore ravennate Guido III da Polenta, nel 1368-1369 era nominato notaio forestiero nella curia del podestà di Firenze, salvo poi tornare nello stesso 1369 a far scuola in Treviso, poi a Conegliano (dal 1371) e quindi dal 1374 a Belluno per un quinquennio, quale maestro stipendiato dal comune. Ripartito per Padova come segretario di Francesco il Vecchio da Carrara, a fine 1382 è in Venezia dove gestisce una scuola di grammatica, ma a fine 1383 riceve la nomina a cancelliere di Ragusa. Tre anni in Dalmazia poi di nuovo a Venezia, titolare di una buona scuola a San Paternian, ma nel 1389 trasferisce le sue doti di docente al servizio del comune di Udine. Nel 1392, passato a Padova, comincia un periodo di insolita stabilità: protonotario o cancelliere di Francesco Novello da Carrara fin quasi alla vigilia della conquista veneziana di Padova (nel 1405). Nel 1404 il Conversini ha di nuovo scuola in laguna, fino al 1406, allorché lascia Venezia per Muggia rientrando poi in Venezia agli inizi del 1408, per pochi mesi: quelli che gli sarebbero rimasti prima che giungesse la morte a fermarlo per sempre (23).
La biografia del Conversini, ribadisco, non deve essere presa come esemplare; la sua irrequietezza era sicuramente insolita e si capisce perché gli si potesse addebitare la morte della moglie, ammalatasi per i disagi provocati da tanti cambiamenti e passaggi, ciò che spinse un parente di lei, Luigi da Ravenna, a cercare di vendicarla tentando di avvelenare il Conversini. Ma se i ritmi da lui tenuti difficilmente possono essere assunti a paradigma, i meccanismi che li mossero - seppure a cadenza tanto accelerata - sono quelli propri dell'ambiente dei maestri di quegli anni.
L'alto numero di scuole e di maestri non deve essere assunto meccanicamente come segno di buona qualità didattica. Il Conversini non fu il solo tra i grandi docenti che passarono per Venezia (e che anche l'abbandonarono), ma non furono le presenze di spicco a determinare il livello dell'insegnamento. Ancora una volta mancano strumenti e dati utili per determinare con precisione la qualità complessiva della didattica veneziana. Da una valutazione di fondo, peraltro, non si sfugge: quella di un assai diffuso grado di alfabetismo, con una città nel suo complesso ben capace di leggere, scrivere e far di conto, ma con livelli culturali qualitativamente piuttosto modesti. La brevità di permanenza in Venezia dei maestri di prestigio che avevano occasione di passarvi è un'affidabile conferma in tale direzione. Del resto, per buona parte del Trecento come già nel Duecento quel che si chiedeva per la formazione dei giovani rispondeva all'etica e ai bisogni di una società fortemente segnata dalla cultura del mercante.
Erano gli anni in cui in giro per l'Italia i genitori facevano contratti con i maestri impegnandoli a istruire i figli nel leggere e nello scrivere quanto serviva a stare in bottega: "sufficiens ad standum in apotecis artificis"; e si richiedeva d'insegnare la grammatica "secundum mercatores" o "ad usum mercatorum", educando i giovani "ad modum mercatantile" (24). Non saprei indicare per Venezia formule esplicite come quelle citate ad esempio, ma non c'è ragione di pensare che il segno del mercante fosse più debole a Rialto che a Palermo o Genova o Firenze. La conferma viene del resto per altre vie, com'è con quella paginetta pergamenacea che conserva un frammento di esercizi di traduzione svolti dagli alunni di una scuola di grammatica veneziana di metà Duecento. Si apre un ventaglio di argomenti per cui imparando il latino i ragazzi avevano a che fare con il valore di Ettore, ma pure con il biasimo per la compagnia di chi va tutto il giorno per bordelli, e traducevano di soldi e denari, di qualità del fior di farina per le focacce, di costo dei carri di fieno o di una gonnella (25). È una moralità nuova che si coglie, in quegli esercizi. Siamo, in sostanza, nel pieno della stagione culturale già indicata verso il 1215-1227 da Boncompagno da Signa quando annotava che le lettere dei mercanti debbono essere scritte "semplici stilo", senza doversi preoccupare dell'"ornatum verborum"; i mercanti, infatti, "tutti o quasi si scrivono e si riscrivono l'un l'altro nelle proprie lingue volgari" o al più "in un latino corrotto" (26).
In congiunture del genere, le novità nei processi formativi potevano venire da settori diversi rispetto a quelli dell'ambito letterario più tradizionale, incardinato sullo studio della grammatica, e vale la pena ricordare la diffusione delle scuole e dei maestri di abaco. E la minore frequenza con cui capita d'incontrarli, rispetto a quanto accade per i grammatici, non deve indurci a una sottovalutazione del settore, specialmente se si tiene conto di come la formazione di base nell'uso dei numeri, ma anche del libro mastro o della partita doppia per la tenuta della contabilità, richiedesse tempi più ridotti e maturasse poi nella pratica piuttosto che sui banchi di scuola. Certo è che in un clima culturale come quello veneziano, grammatica e abaco riuscivano a integrarsi abbastanza bene. Complesso sarebbe stato, piuttosto, l'affermarsi delle nuove istanze della cultura umanistica.
Le novità culturali e pedagogiche che l'umanesimo veniva proponendo giungevano in laguna facendo i conti con attitudini mentali che portavano ad esiti in parte contraddittori. Venezia era indubbiamente un centro dalle fortissime potenzialità, in grado di attrarre i personaggi di maggiore rilievo e di restare in contatto con le novità culturali più stimolanti. E in effetti per Rialto si trovarono a passare tra fine Trecento e primo Quattrocento alcuni fra i più sensibili pedagoghi del tempo: maestri pronti a nuovi metodi educativi, con un certo maggior rispetto per le specificità dello scolaro e perciò meno portati a prassi coercitive e al costringimento, convinti dell'autonomo valore della conoscenza, attenti alla ricerca di uno sviluppo armonioso della personalità e di una maturazione civile del fanciullo. Venezia incontrò allora il già ricordato Giovanni Conversini e Gasparino Barzizza, personalità nodale nel passaggio dalle prassi educative medievali a quelle rinascimentali. Conobbe l'insegnamento del Guarino e, per restare ai massimi didatti di quegli anni, ebbe anche l'esperienza di Vittorino da Feltre.
Furono presenze, specialmente quella del Guarino negli anni Venti e Trenta del Quattrocento, che lasciarono il segno, fra l'altro favorendo la crescita culturale di un gruppo di giovani patrizi che si inserirono "autorevolmente ma con fisionomia tutta propria nell'umanesimo ormai trionfante" ed ebbero un'influenza decisiva nel collocare, verso l'ultimo decennio del secolo XV, "l'umanesimo veneziano, accanto a quello fiorentino, alla testa di quello italiano" (27). Tuttavia, le nuove esperienze educative non ebbero in fondo molta fortuna a Venezia, e quelle stesse prestigiosissime presenze rimasero tutto sommato occasionali, spesso brevi. Il modo in cui l'ambiente veneziano e soprattutto i suoi ceti dirigenti accoglievano le nuove proposte, adattandole a sensibilità e strutture etico-sociali decisamente peculiari, non sembra avere consentito quella vera svolta nel sistema educativo di base per la quale comunque c'erano le risorse necessarie. Ed è significativo che (come già detto) nessuno dei maggiori maestri, che pure tutti passarono per Venezia, abbia qui trovato "il porto più prestigioso e ultimo della propria carriera" o vi abbia costituito "superiori istituzioni didattiche" (28).
La penetrazione dell'umanesimo, in sostanza, incontrò la mentalità e il costume mercantili, "ma senza trasformarne o modificarne i caratteri" (29). A conti fatti, non sembra superarsi l'idea della formazione culturale come funzionale a qualcos'altro; non si raggiunge mai l'affermazione davvero piena di una cultura autonoma ed autosufficiente, in grado di giustificare se stessa, e si fatica molto nell'accogliere in pieno la proposta che veniva dalla riscoperta trecentesca degli studia humanitatis. Dobbiamo così registrare l'incapacità di Venezia nello svolgere un ruolo adeguato nei processi di diffusione delle nuove istanze pedagogiche e, contestualmente, l'enunciata incapacità nel trattenere i migliori didatti. Le diverse istanze educative che il maturo umanesimo proponeva videro dunque la ricca, alfabetizzata, potente Venezia svolgere un ruolo nel complesso inadeguato, di minore rilievo rispetto a quello che seppero coprire centri indubbiamente più modesti quali la Ferrara degli Estensi o la Mantova dei Gonzaga, se non vogliamo addirittura pensare a località del Dominio di Terraferma, come poté essere in particolari congiunture per Verona (e si prescinde ovviamente qui da Padova, che per la sua fisionomia universitaria si colloca su piani diversi rispetto a quelli che in questa sede interessano).
Pare, in ultima analisi, che l'appuntamento mancato con le più aggiornate e vivaci esperienze pedagogiche, al calare del Trecento, si riconnetta ai limiti (ma forse è più opportuno parlare di caratteri peculiari) dell'ambiente veneziano in merito all'istruzione di base, che, qualunque fosse lo spazio più o meno rilevato che di volta in volta le veniva riconosciuto, rimase sempre in funzione o in collegamento con qualcosa d'altro: i bisogni dell'economia, della politica, dell'amministrazione, della famiglia. Sembra, in sostanza, che la scuola qui non riuscisse mai a disporre davvero in modo ampio e continuo di spazi totalmente liberi, senza condizionamenti o subordinazioni.
Quello con gli studia humanitatis (e la loro funzione "disinteressata") rimane dunque un appuntamento in parte mancato, con sintonie non pienamente raggiunte. Lo si poteva già leggere nelle parole che Giovanni Conversini metteva in bocca all'interlocutore Padovano impegnato con il Veneziano nella Dragmalogia, il dialogo che scrisse nel 1404. Il "negocium litterarum" marcia a Venezia non altrimenti che una compravendita di spezie, sugli stessi binari di un affare di pepe o zafferano, e "dove c'è la ῾nummalis cura', la preoccupazione del denaro, non c'è quella del sapere, mentre nel sacrario delle lettere la qualità d'essere ricchi deve venire dopo". E che significato può avere un rapporto pedagogico in cui quella tra maestro ed allievo è una mera relazione contrattuale? "Pagato il conto svanisce ogni familiare corrispondenza". Ecco, dunque, uno dei limiti strutturali dell'insegnare a Venezia. "I vostri ragazzi non si stringono con affetto ai maestri, ma passano dall'uno all'altro con la massima leggerezza, come mosche che svolazzano qua e là alla cieca, seminando disprezzo che genera disprezzo, e da ciò consegue la scarsità del profitto: ῾per hoc tepidius instruuntur'" (30).
Quantità di risorse investite nel sistema educativo e qualità dell'approccio non sono la stessa cosa. Restando alle belle pagine del Conversini, al Veneziano che da parte sua chiama in causa la disponibilità a spendere per l'istruzione, il Padovano replica senza negare la possibilità di buoni guadagni, ma "gli ingenti stipendi [...> dati ai maestri della gioventù non si devono attribuire alla larghezza del datore, ma piuttosto al luogo; che, come per le altre cose, anche questa merce si accaparra a prezzo maggiore". Cultura e istruzione come merce, ci dice dunque il Conversini, ma di questa merce Venezia è una piazza ricca e rifornita. Il problema diventa allora quello legato al particolare carattere di questa "merce", non riducibile a semplice voce di mercuriale, com'è (restando all'esempio del Conversini) per il pepe o lo zafferano. E una voce da mercuriale non fu, ad esempio, Cristoforo Scarpa.
Anche lo Scarpa va collocato fra i maestri di qualità. In contatto con Guarino Veronese, il Barzizza o il Panormita, autore di una Ortografia stampata già nel Quattrocento, fu tra i didatti di speciale qualità rimasti più a lungo in laguna. E se la tentazione della Terraferma rimase a lungo forte sino a rivelarsi vincente, non fu con ogni probabilità per ragioni economiche. I suoi "clienti" erano ragguardevoli, del livello di un Leonardo Giustinian che nel 1420, quando il maestro decideva di lasciare Venezia per Vicenza, esprimeva tutto il suo sconforto per il rischio che suo figlio Bernardo correva di perdere un tale precettore. E significativamente ne scriveva al Guarino, che l'anno prima aveva lasciato Venezia per Verona. Lo Scarpa rimase poi qualche tempo ancora, ma dopo il 1423, quando scelse lui pure il definitivo trasferimento in Terraferma; i ragazzi di casa Giustinian che vollero continuare a seguire il suo insegnamento poterono farlo soltanto recandosi presso di lui a Padova (31).
Per intendere come il clima veneziano fosse sentito meno gratificante di altri da chi era impegnato nella didattica più avanzata, e per intendere, nel contempo, come la parte avuta dalla città in ambito scolastico-didattico non fosse quella che si sarebbe potuto attendere da una delle maggiori potenze del tempo, viene ovvio il riferimento alle radicate connotazioni della civiltà veneziana e ad un ambiente in cui la cultura mercantile al livello più alto raggiungeva tutti gli strati sociali. Lo si è già detto. Ma, oltre a ciò, si deve forse tenere presente l'assetto politico-istituzionale dello Stato veneziano, che nel campo delle novità pedagogiche introdotte dall'umanesimo sembra replicare ciò che è stato notato per altri settori importanti della cultura, a partire dalla "sostanziale indifferenza" mostrata per "le nuove potenzialità della scrittura in volgare". In questo ambito la prosperità economica "non sembra avere favorito la formazione di una società letteraria che del nuovo strumento espressivo facesse la propria insegna". E si comprendono così i ritardi nei confronti delle più fragili società di Terraferma: rispetto all'entroterra veneto aveva pesato "la mancanza di una committenza aristocratico-feudale, cioè l'assenza a Venezia di una corte, di un centro d'attrazione per letterati itineranti e di stimolo per le energie locali" (32).
Come per la nuova letteratura in volgare, anche le nuove esperienze scolastiche finivano per risultare più consone a situazioni di principato che non ad una Repubblica qual era Venezia, a cui di fatto nel tempo dell'Italia delle corti mancò una vera corte, naturale centro di sperimentazioni e di capacità operative senza condizionamenti. Un'assenza che non fu surrogata né dal libero apporto di intellettuali venuti da fuori, né da presenze di straordinaria qualità (come fu quella di Francesco Petrarca), né dalla vivacità di centri culturali come fu per la cancelleria, soprattutto ai tempi del dogado di Andrea Dandolo (33).
Se l'ambiente lagunare manteneva i suoi connotati specifici e poteva alla lunga risultare meno aperto e gratificante di altri per i maestri più sensibili alle novità, è peraltro evidente la progressiva crescita del ruolo assegnato alla formazione dei giovani e alla vita scolastica. Il Trecento si era già aperto con un alto numero di maestri, dalle molte provenienze, fittamente distribuiti, articolati in grammatici e "abacisti", in "rectores scolarum, magistri, doctores, pedagogii" e più modesti "repetitores", con funzioni molto intrecciate, in un quadro complessivo senza schemi ordinatori troppo rigidi, rispondente agli equilibri tra domanda e offerta, tale comunque da consentire come legittima l'equazione tanti maestri quindi tanti scolari quindi diffusa istruzione di base. Partendo da questo stato di cose, tra pieno e tardo Trecento l'esperienza umanistica, pur nei limiti sopra abbondantemente indicati, incide comunque favorevolmente per quanto riguarda il mondo delle scuole. Non soltanto esso ebbe a godere di quella generale e significativa crescita di prestigio, ulteriormente consolidatasi poi nel corso del Quattrocento, per cui la professione docente acquistò una reputazione che non aveva mai goduto in precedenza. Al di là delle questioni di prestigio, più concretamente il miglioramento nella valutazione complessiva del mestiere di maestro si misura in termini economici. Anche in questo caso in sintonia con quanto accade nell'Italia di vecchia tradizione comunale, le testimonianze sulle pesanti difficoltà economiche di parecchi insegnanti, piuttosto frequenti ancora nel pieno Trecento, tendono a ridursi negli anni, lasciando intuire (sempre sulla base della documentazione finora disponibile) un miglioramento generale delle condizioni a mano a mano che ci si inoltra verso il Quattrocento, fino a giungere agli "stipendia" addirittura "ingenti" ricordati dal Conversini. E questo è testimonianza di come, in un modo o nell'altro, pur con le sintonie mancate, anche a Venezia le proposte della cultura umanistica avessero finito col dare un respiro diverso alla formazione scolastica dei giovani.
Giunti a questo punto, colto l'atteggiamento tutto sommato di indubbia attenzione della comunità veneziana per la realtà delle scuole, si può riprendere quanto dicevamo a proposito dell'approccio tenuto dalle istituzioni pubbliche nei confronti del settore. Si potrebbe anzi concludere che la scommessa fatta dallo Stato marciano con la delega totale del settore alla iniziativa dei singoli e alla logica del mercato si era rivelata vincente. Vale tuttavia la pena approfondire i termini di questa estraneità alle questioni educative. Anche perché si colgono indicazioni contraddittorie e segnali in controtendenza. Molto significativa è, per esempio, l'attenzione con cui si seguirono i problemi di alcuni maestri ridotti con l'età in condizione di non potere più bastare a se stessi. Con la procedura della grazia vennero concessi aiuti motivati coi meriti acquisiti proprio nell'insegnamento: "bonus homo et in doctrina et aliis gratus"; oppure "occasione sui boni portamenti"; o "bonus et utilis in moribus et in doctrina", meritevole per l'istruzione di figli di nobili e altri cittadini (34).
Ben noto è il caso di maestro Corbacino che, giunto da Firenze, aveva ottenuto il privilegio della cittadinanza nel 1305-1306. A partire dal 1322, quando un incendio lo spogliò di ogni bene lasciandogli soltanto la vita, la sua penosa vicenda è ritmata sugli aiuti che le autorità gli assegnarono in considerazione dei meriti acquisiti come insegnante dal lungo e rispettabile servizio. I sussidi lo accompagnano, dal 1322 al 1327, al 1336 quando "in decrepita etate" non ha di che vivere, al 1339 allorché l'indigenza è tale che "gli abiti gli cadono a brandelli di dosso"; poi di seguito altri aiuti gli giungeranno nel 1340, mentre è ospite "impotens et decrepitus" del monastero di San Giovanni Evangelista, e nel 1341, quando patisce anche la cecità, e poi via di anno in anno, fino al 1345, quando in "massima indigenza e bisogno" la sua tribolata vecchiaia pare giunta alla fine.
Del caso di Corbacino diremo, per inciso, che prospetta situazioni quali non incontriamo più (almeno per ciò che finora si conosce) dal Trecento avanzato, coerentemente ai cambiamenti di cui sopra si è detto. Ma quel che qui soprattutto interessa è il fatto che l'assistenza a lungo fornitagli possa spiegarsi soltanto ammettendo un'attenzione sicura da parte delle autorità per il mondo delle scuole. Del resto quella triste vicenda personale è di gran lunga la meglio documentata, ma non è affatto la sola che incontriamo sui registri delle grazie fin verso la metà del secolo XIV, a proposito di maestri bisognosi di sostegno. Il sussidio per i meriti acquisiti in una vita d'insegnamento (e si badi, abbiamo sempre a che fare con maestri che non hanno rapporto di lavoro con le strutture pubbliche), non è l'unico indice di un'attenzione da parte dell'apparentemente distratta autorità veneziana. Come si guarda ai bisogni di chi ha ben meritato insegnando, così si guarda a chi studiando può ben meritare a vantaggio dello Stato.
È il caso di quei funzionari o ufficiali che il governo finanziò perché potessero migliorare la loro formazione scolastica: interventi concreti che esprimono il riconoscimento della necessità dello studio. Fu così, ad esempio, con il notaio Giovanni Novello, assunto nel 1336 "al servigio della Corte maggiore" precisandosi "cum continue intret scolas". E fu ancora il caso di Bernardo, notaio di palazzo al quale nel 1375 venne raddoppiato il salario, avendo però cura di specificare preliminarmente come andasse a scuola e volentieri imparasse, esprimendo così il convincimento che l'istruzione è un vantaggio per l'ufficio: "ita quod utilis est et de bono in melius ad curiam". La cancelleria sembra il luogo in cui questo atteggiamento è particolarmente verificabile e le grazie ricordano spesso sussidi per giovani d'ufficio che è bene si istruiscano (35). Sono convincimenti che giungeranno poi a piena maturazione nel corso del Quattrocento, quando anche in Venezia si aprirà, seppure con grande ritardo, la pratica delle scuole pubbliche.
La scuola di San Marco o della cancelleria nascerà allora proprio da quei bisogni degli apparati burocratici che nel Trecento si risolvevano con le procedure di grazia: nel 1443 il maggior consiglio aveva deliberato che dodici ragazzini fossero assunti per le necessità elettorali e di funzionamento e garantiva loro dieci ducati all'anno perché andassero a scuola ad imparare grammatica, retorica e quant'altro utile per la pratica di cancelleria, ma le cose non funzionarono bene. Poco studiavano e poco imparavano, ci si lamentava in senato, e dunque: soldi mal spesi. Si assuma piuttosto un maestro a 100 ducati l'anno, che ben controllato insegni come si deve. Venti ducati di risparmio e risultati migliori: valeva la pena; la logica del mercante vedeva i conti tornare. Poi la scuola si sarebbe aperta anche a giovani esterni alla cancelleria, "parecchi ragazzi figli tanto di nobili che di cittadini", e così ci si incamminava lungo la strada della scuola pubblica (36).
La scuola di San Marco, tuttavia, si collocava ancora in un lontano e imprevedibile futuro quando lo Stato stabiliva "per gratiam" i sussidii a Corbacino o ai suoi colleghi. Contesti totalmente diversi. L'attenzione per il mondo delle scuole, di cui abbiamo parlato, è tutt'altra cosa da una scuola pubblica, e rimane ancora valida l'impressione di un rifiuto da parte dello Stato veneziano di un intervento diretto: un atteggiamento che potrebbe essere trasferito addirittura al piano delle ideologie. La delega al privato, in altri termini, sarebbe una scelta concettualmente forte e premeditata. Ma forse il piano più proprio non è quello delle ideologie; forse è meglio cercare nei comportamenti veneziani soltanto la risposta funzionale ed efficace ad esigenze che venivano così empiricamente risolte. Allo stesso modo il ruolo che lo Stato avrebbe assunto nel Quattrocento mantenendo scuole pubbliche (anzitutto quella di Rialto, insieme a quella della cancelleria) non corrisponde a mutamenti di principio o a canoni comportamentali mutati, ma piuttosto, e ancora una volta, a risposte empiricamente funzionali per condizioni modificatesi nel tempo.
Credo che una riprova di ciò si possa trovare non soltanto nel modo in cui Venezia, al costituirsi del Dominio di Terraferma nel corso del Quattrocento, accettò senza troppe difficoltà la permanenza di scuole pubbliche nei centri in cui esistevano. Più significativo è il fatto che già al momento della prima dominazione su Treviso (nel 1339-1381) non si ponessero ostacoli alla scuola comunale; e si consideri che eravamo in congiunture nelle quali Venezia poteva ancora puntare ad un rimodellamento della città sugli schemi vigenti nella capitale, cosa divenuta impensabile quando nel secolo XV il Dominio di Terra cominciò ad estendersi in modo straordinario. Ma ancora più indicativo è che il principio della scuola sostenuta finanziariamente dal comune, con un maestro assunto con un contratto di condotta, lo troviamo applicato anche nello stesso Dogado, seppur fuori dalla capitale Rialto (dalla città, intendo, che continuiamo a chiamare Venezia per antonomasia) (37). È quanto si verifica a Chioggia, consistente centro urbano, fra i maggiori dell'area veneta nel Trecento: città troppo importante perché lo Stato marciano potesse permettere che s'incamminasse in strade non condivisibili. Ogni ragionamento su Chioggia è complicato dalla forte carenza documentaria: quasi tutto perduto nella guerra con i Genovesi che travolse la città nel 1378-1381. Ma fin dal più antico dei registri consiliari chioggiotti superstiti, successivi alla guerra, la comunità appare impegnata nell'assunzione di un maestro di grammatica: nel 1383. E più tardi non si creeranno ostacoli alle richieste di altre località del Dogado, quali Burano, Murano o Torcello, che chiedevano che il cancelliere in servizio svolgesse anche la funzione pubblica di maestro per i ragazzi della comunità (38).
In sostanza, lo Stato veneziano pare pronto ad accettare tutte le soluzioni che possono di volta in volta rivelarsi più funzionali senza alcuna rigidità e, a maggior ragione, senza alcuna vera preclusione ideologica; al più si potrà forse parlare di un'ideologia della non ideologia. Troppa diversità sostanziale fra luoghi come Rialto-Venezia o Chioggia o Murano; e dunque soluzioni diverse fra centro e centro. Ma i segni di questa elasticità d'approccio al mondo delle scuole mi pare si colgano non soltanto ai vertici dello Stato, che riscopriamo attenti e insieme pronti a lasciare spazio alle soluzioni più diverse; di elasticità d'approccio credo si debba parlare anche a proposito dell'atteggiamento tenuto dai privati, che sembrano non voler fare delle scuole un sistema rigidamente strutturato. Ritorniamo per un momento al processo tra i fratelli de Bugnis, già sopra ricordato, e a quanto dichiarava allora Francobono (riferendosi agli anni Ottanta del Trecento) a proposito di come fosse normale per i rampolli della nobiltà frequentare le scuole ordinarie.
Più in generale, i dati finora disponibili suggeriscono che in Venezia gli stessi maestri, sugli stessi banchi, nelle stesse aule e per gli stessi compensi si trovarono ad istruire nel corso del Trecento fanciulli di qualità sociale assai diversa: figli di nobili così come figli di cittadini non nobili, di "potentiores" o di personaggi qualunque. La stessa pratica del maestro privato, del pedagogo al servizio della casata pare meno intensa che in altre realtà. È vero che troviamo già per tempo ripetitori o persino maestri legati a famiglie eminenti, ma il fenomeno è tutt'altro che generalizzato e in più d'un caso si ha anzi l'impressione che i servizi forniti da alcuni insegnanti legati ai bisogni di casate patrizie fossero aperti anche all'esterno. In sostanza, la pratica del pedagogo privato, ospite fisso in casa, tarda a divenire simbolo forte di status, a cui è importante conformarsi per non scapitarne quanto a prestigio, e soltanto molto avanti nel Trecento o addirittura nel Quattrocento già avviato si colgono i segni di una decisa evoluzione in tal senso. Sono condizioni per cui si può pensare che le prassi educative avessero a lungo in Venezia una connotazione di classe piuttosto modesta (39).
In ultima analisi, anche nel rapporto fra istituzioni e ambiente delle scuole ci si ripropone un modello di statualità notevolmente elastica, attenta a muoversi senza mai perdere il controllo delle situazioni ma, insieme, cauta nell'evitare rigidità non necessarie, preferendosi schemi pronti ad adattarsi empiricamente alle contingenze. E l'atteggiamento dello Stato marciano sembra essersi rivelato vincente, almeno sul piano della cultura diffusa se non su quello della sperimentazione più avanzata. I picchi di qualità non furono probabilmente tutti quelli che Venezia aveva i mezzi per esprimere, e tuttavia pare indiscutibile una scolarità di base diffusa e ampia, in grado di reggere senza problemi il confronto con le situazioni più favorevoli.
1. La commissaria di Marco Zambon è da tempo introvabile in A.S.V. (dove risulterebbe ricollocata nel fondo Procuratori di San Marco, de ultra, b. 311); per quanto se ne può al momento sapere, v. Bartolomeo Cecchetti, Libri, scuole, maestri, sussidi allo studio in Venezia nei secoli XIV e XV, "Archivio Veneto", 16, 1886, nr. 32, p. 363 (pp. 329-363). Avverto qui che, per ulteriori indicazioni bibliografiche e documentarie, oltre a quanto esplicitamente citato si potranno consultare: Enrico Bertanza - Giuseppe Dalla Santa, Maestri, scuole e scolari in Venezia fino al 1500, a cura di Gherardo Ortalli, Vicenza 1993 (I ediz. col titolo di Documenti per la storia della cultura in Venezia, I, Maestri, scuole e scolari in Venezia fino al 1500, Venezia 1907; lo citeremo di seguito come Documenti); Gherardo Ortalli, Scuole e maestri tra Medioevo e Rinascimento. Il caso veneziano, Bologna 1996 (nuova ediz. rivista di Id., Scuole, maestri e istruzione di base tra Medioevo e Rinascimento, Vicenza 1993).
2. Cf. per esempio Documenti, pp. 25 (al 1336), 75 (al 1361), 114-115 (al 1371), 170 (al 1382), 217 (al 1396), 236 (al 1401), 272 (al 1411), 298-299 (al 1420).
3. Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di Giuseppe Alberigo et al., Bologna 1991 (I ediz. 1962), pp. 220, 240.
4. Carla Frova, La scuola nella città tardomedievale: un impegno pedagogico e organizzativo, in AA.VV., La città in Italia e in Germania nel Medioevo: cultura, istituzioni, vita religiosa, Bologna 1981, p. 135 (pp. 119-143).
5. G. Ortalli, Scuole e maestri, p. 75.
6. Documenti, p. 57. In parte analogo è il caso del 1306, di cui parleremo più sotto, anche se non si tratta di maestri che tengono a convitto i loro studenti ma di persone che ospitano ragazzi che studiano. Cf. qui sotto, n. 15 e contesto.
7. G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 23 ss.
8. Il caso preso ad esempio è quello parmense. Cf. Statuta communis Parmae anni MCCCXLVII, a cura di Amadio Ronchini, Parma 1860, p. 92.
9. La considerazione era già espressa da Vittorio Rossi, Maestri e scuole a Venezia verso la fine del Medioevo, "Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere", ser. II, 40, 1907; anche in Id., Scritti di critica letteraria, III, Dal Rinascimento al Risorgimento, Firenze 1930, pp. 46-49 (pp. 31-64).
10. Uso la chiara formulazione fornita da Manlio Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica fra due secoli, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 102-103 (pp. 93-121).
11. Documenti, p. XIV. Per il modo in cui si è proceduto nel calcolo cf. G. Ortalli, Scuole e maestri, p. 89 n. 28.
12. Paul F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Roma-Bari 1991 (Schooling in the Renaissance Italy: Literacy and Learning 1300-1600, Baltimore-London 1989), p. 36.
13. Cf. in generale G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 56-57, 89-90 n. 30.
14. Ibid., p. 58.
15. Documenti, p. 2; per David di Antivari, pp. 215, 217, 219, 221, 222.
16. Sulle presenze straniere qui indicate cf. ibid., pp. 157, 165, 210, 221, 225, 232-233, 243, 288, 290; in generale v. G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 58-59.
17. Orazio Bacci, Maestri di grammatica in Valdelsa nel secolo XIV, "Miscellanea Storica della Valdelsa", 3, 1895, p. 90 (pp. 88-95).
18. Il contratto di cui trattiamo e cdito in Documenti, pp. 89-90. Anche per altre indicazioni v. G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 109-113.
19. In generale sui preti-notai (con ulteriori indicazioni bibliografiche) v. Giorgio Cracco, "Relinquere laicis que laicorum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto per la Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179-189; Attilio Bartoli Langeli, Documentazione e notariato, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 858-861 (pp. 847-864).
20. G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 112-114.
21. Documenti, p. 65.
22. In sintesi, su quest'ordine di problemi, con le necessarie indicazioni documentarie e bibliografiche: G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 114-122.
23. Remigio Sabbadini, Giovanni da Ravenna, Como 1924; Benjamin G. Kohl, Conversini, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 574-578.
24. Tolgo gli esempi da Santorre Denedetti, Sui più antichi "doctores puerorum" a Firenze, "Studi Medievali", 2; 1906-1907, p. 346 (pp. 327-351); Henri Bresc, Ecole et services sociaux dans les cités et les "terres" siciliennes (XIIIe-XIVe siècles), in AA.VV., Città e servizi sociali nell'Italia dei secoli XII-XV, Pistoia 1990, p. 5 (pp. 1-20); Giovanna Petti Balbi, L'insegnamento nella Liguria medievale. Scuole, maestri, libri, Genova 1979, pp. 56-60.
25. Gino Belloni - Marco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, p. 29.
26. Per il passo di Boncompagno,. ripreso dalla Rethorica antiqua o Boncompagnus, v. Ludwig Rockinger, Briefsteller und Formelbücher des elften bis vierzehnten Jahrhunderts, I, München 1863, p. 173.
27. Vittore Branca, L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento. Ermolao Barbaro e il suo circolo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 124 (pp. 123-175); Id., Ermolao Barbaro and Late Quattrocento Venetian Humanism, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 218-219 (pp. 218-243).
28. M. Pastore Stocchi, Scuola e cultura, pp. 107-108.
29. Ugo Tucci, Il patrizio veneziano mercante e umanista, in Id., Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, p. 35 (pp. 15-41).
30. Giovanni di Conversino da Ravenna, Dragmalogia de eligibili vite genere, a cura di Helen L. Eaker - Benjamin G. Kohl, London-Lewisburg (Penn.) 1980, pp. 226, 230.
31. Arnaldo Segarizzi, Cristoforo di Scarpis, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 15, 1915, nr. 29, pp. 209-220. Cf. G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 15-16, 37.
32. Alfredo Stussi, Lingua, dialetto e letteratura, Torino 1993, p. 65; soprattutto, anche per i passi citati nel testo, Id., La lingua, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 797, 798 (pp. 783-801).
33. Anche per ulteriori indicazioni: Nicholas Mann, Petrarca e la cancelleria veneziana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 517-535 Girolamo Arnaldi, in questo stesso volume.
34. Cf. G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 45-49, anche per il caso di Corbacino.
35. Per tutto quest'ordine di problemi, anche per ulteriori indicazioni, cf. B. Cecchetti, Libri, pp. 343-345; G. Ortalli, Scuole e maestri, p. 50; Marco Pozza, La cancelleria, in questo stesso volume, n. 53 e contesto.
36. Arnaldo Segarizzi, Cenni sulle scuole pubbliche a Venezia nel secolo XV e sul primo maestro d'esse, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", ser. VIII, 18, 1915-1916, pp. 640-645 (pp. 637-667).
37. Sul problema del rapporto tra Rialto e Venezia v. Gherardo Ortalli, I cronisti e la determinazione di Venezia città, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 761-782.
38. Sergio Perini, Chioggia al tramonto del medio evo, Sottomarina 1992, pp. 234-235; G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 168-172.
39. In sintesi: G. Ortalli, Scuole e maestri, pp. 68-76, 150, 188.