L’Italia al femminile
Le molte incisioni e stampe popolari dedicate ai cortei festanti che tra il marzo e il novembre del 1860 mossero verso i luoghi deputati a sancire, con la forza di un suffragio allargato a tutti i maschi di oltre 21 anni che godessero dei diritti civili, la «volontà della nazione» di cambiare l’ordine di cose esistente, o quelle volte a diffondere l’immagine delle piccole, grandi folle che accoglievano i votanti al seggio, risultano invariabilmente punteggiate da figure di donne: donne quasi sempre giovani, ora ben vestite e molto composte, ora abbigliate modestamente e con movenze più spigliate, che assistono fiere e curiose, a braccetto del loro uomo o tenendo un figlio per mano, a un evento che molti dicevano essere destinato a mutare le coordinate dell’esistenza di tutti e di ciascuno, innescando processi virtuosi di progresso materiale e di «redenzione morale» tali da restituire all’Italia e alla sua progenie l’antico splendore e l’autorevolezza perduta.
Le cronache di quelle giornate riferiscono anche di proteste singole e collettive contro il divieto fatto alle donne di esprimersi in merito alla nascita di uno Stato che pure diceva di voler riconoscere il suo principio ispiratore e la radice fondamentale della sua legittimità nella nazione, di cui le donne erano parte fondativa e irrinunciabile; parlano di patriote che ottennero di poter deporre le loro schede apocrife in un’urna per lo più separata, a testimonianza di una compartecipazione convinta e attiva alla nascita del «nuovo ordine» nazionale; e ricordano perfino il caso di donne ammesse al voto in virtù del loro conclamato patriottismo, come accadde all’esuberante taverniera di Monte Calvario a Napoli detta la Sangiovannara, legata da vincoli di sangue alla «camorra liberale», o alla cattolicissima e filosabauda Maria Alinda Bonacci, giovane poetessa appartenente alla buona borghesia recanatese.
Quelle richieste e quelle forzature erano senza dubbio favorite dal fatto che i più non vissero quel voto come l’espressione segreta di una scelta individuale, ma come lo strumento per dare pubblica e solenne conferma del consenso comune alla nascita del nuovo Regno.
Non per nulla altrettanto numerose sono le notizie sull’ammissione al voto di maschi minorenni, pegno vivente di futura fedeltà al patto che quel giorno si stringeva da parte dei padri.
Del resto, anche i notabilati locali avevano tutto l’interesse a favorire un’interpretazione del genere, che allontanava i fantasmi del suffragio universale e spingeva a vedere nei plebisciti il riconoscimento e la conferma di una conquista già acquisita, come sembra suggerire l’invito a esibire le proprie intenzioni di voto e a recarsi al voto in gruppi coesi e organizzati per mestiere, dipendenza padronale, luogo di abitazione o di lavoro (Fruci 2006; 2007).
È evidente però che il fossato tra quanti erano chiamati a esprimersi e coloro che non potevano farlo restava incolmabile. Sottovalutarlo in nome della natura organicistica e simbolica dell’atto che gli aventi diritto erano chiamati a compiere sarebbe un errore: tanto più che di lì a poco le sedi dei comuni avrebbero visto fiorire lapidi che portavano scolpiti nella pietra i numeri degli elettori, dei consensi, dei voti nulli e contrari, con ciò stesso offrendo e tramandando una lettura in chiave decisamente moderna e individualizzata di quelle votazioni, quale si addiceva a cittadini liberi e responsabili. A ciò si aggiunga che a insistere troppo sulle proteste per l’esclusione si rischia di oscurare una differenza non irrilevante del 1859-61 rispetto al triennio rivoluzionario che separa l’estate del 1846 da quella del 1849, e cioè una presenza meno ricca e incisiva di quei segmenti di donne che si consideravano e volevano essere riconosciute come appartenenti alla nazione e desiderose di contribuire al suo «riscatto».
Dieci anni prima quella presenza aveva contrassegnato ogni momento della lotta per le riforme «di libertà» ingaggiata da una «opinione» ancora embrionale, ma decisa a impegnarsi nella costruzione di nuovi comportamenti e paradigmi identitari, sul piano pubblico come su quello privato. Anzi, le donne non erano scomparse del tutto dalla scena pubblica neanche quando era venuto il tempo delle insurrezioni cittadine e della guerra, nonostante la sequenza di rivolte, assedi e battaglie che le une e l’altra portarono con sé: non poche di loro trasmisero informazioni, nascosero uomini e materiali compromettenti, allestirono centri di soccorso e curarono i feriti, aiutarono a costruire barricate e cartucce, finendo perfino, qua e là, con l’imbracciare un fucile.
A rendere tutto più difficile, nella stretta del «miracolo» italiano, dovette contribuire non poco l’esistenza di un clima complessivo assai poco favorevole alla partecipazione attiva delle donne. Al centro della scena non c’erano più le mobilitazioni di un’aurorale «società civile» decisa a conquistarsi spazi e poteri, e meno ancora moti di popolo inneggianti a una libertà dai molti e contrastanti significati. C’erano diplomazie e cancellerie, parlamenti, governi, comitati politici, vale a dire ambienti e contesti strettamente e unicamente maschili: e proprio perché più direttamente figlie di una progettualità politica, anche le sollevazioni che nelle maggiori città dell’Italia centro-settentrionale siglarono la fine di regimi da tempo in crisi profonda di fiducia e di credibilità videro una presenza femminile più ridotta e indiretta. Soprattutto, però, per comune consenso, la parola decisiva era passata alle armi e agli eserciti, alle battaglie e alle campagne militari. Al protagonismo dei battaglioni di soldati sabaudi impegnati nelle operazioni di guerra le donne potevano opporre poco più delle coraggiose infermiere accorse sulle insanguinate alture di Solferino e San Martino e delle organizzatrici di precari posti di soccorso in prossimità del fronte.
Anche l’epopea dei Mille, del resto, fu tutta maschile e accentuatamente «virile». Al di là di poche «infiltrate» per desiderio di avventura, la spedizione accolse soltanto una donna, la savoiarda Rosalie Montmasson, che peraltro, nonostante la sua partecipazione a tutta la durissima campagna di Sicilia a fianco dell’amato Francesco Crispi, sarebbe stata ricordata solo come «la generosa infermiera Rosalia della battaglia di Calatafimi». Solo l’entrata di Giuseppe Garibaldi a Palermo, prima, e a Napoli, poi, sembra essere riuscita a suscitare sul versante femminile entusiasmi comparabili a quelli della mobilitazione per la prima «guerra dell’indipendenza». Ma a parte quelle brevi fiammate, è giocoforza riconoscere che in quei mesi tumultuosi la persistente fortuna del discorso nazionale fra le donne in grado di comprenderne le trame immaginifiche e di farsi conquistare dalle sue voluttuose sirene si tradusse solo sporadicamente in ansia di partecipazione, salvo forse nel caso di alcune mogli pienamente solidali con le idealità del coniuge – pensiamo a Felicita Bevilacqua La Masa – e di giovanette cresciute nel culto della patria italiana e nella memoria del 1848: come la diciassettenne Grazia Mancini, che nel suo diario registrava con partecipe entusiasmo l’incalzante dipanarsi delle voci di guerra e dei suoi eventi, dal «grido di dolore» di Vittorio Emanuele II all’inusitato armistizio di Villafranca. In ogni caso, non si ebbe nulla di simile al coinvolgimento appassionato che nella tumultuosa «primavera dei popoli» aveva spinto dame dell’aristocrazia a scendere in piazza per unire la loro voce a quella di chi cantava Fratelli d’Italia, signore «di civile condizione» a promuovere sottoscrizioni per la guardia civica e a questuare per le strade «nel nome santo d’Italia», popolane di diversa età e condizione a donare, magari sotto l’effetto del padre Bassi di turno, i loro poveri averi – un orecchino, un anello, uno scialle di seta – per soccorrere i giovani accorsi sui campi di Lombardia a lavare l’onta che voleva gli italiani imbelli e la loro patria schiava dello straniero.
Il tema della «rigenerazione della nazione», che nella crisi rivoluzionaria del 1848 aveva contribuito non poco a commuovere gli animi e le menti femminili, grazie anche alla marcata declinazione etico-religiosa da esso assunta in virtù del mito di Pio IX «liberatore d’Italia», era trascolorato in una più pragmatica e disincantata valutazione delle forze necessarie a mutare l’ordine geopolitico, premessa indispensabile – come ormai si diceva, a sostegno del più classico schema «a due tempi» – perché la riforma dei costumi potesse davvero prendere slancio, restituendo al termine Risorgimento tutta la sua pregnanza e profondità. Nell’attesa, ciò che si poteva fare era impegnarsi a costruire un modo diverso di gestire i rapporti e i sentimenti, di essere uomini e donne, padri e madri, facendo tesoro delle dinamiche di trasformazione dell’idea di famiglia, ma anche dei tratti distintivi e delle funzioni effettive delle famiglie che stavano maturando in quell’«altrove» al di là delle Alpi che costituiva l’inevitabile parametro di riferimento di quanti auspicavano, per sé e per l’Italia, un futuro diverso.
Di fatto, tutto il cosiddetto decennio di preparazione aveva conosciuto il crescente successo di una domesticità borghese i cui risvolti ed effetti – particolarmente incisivi, com’è ovvio, sul versante femminile – andrebbero presi in considerazione con più cura di quanto non sia stato fatto fin qui. Colpisce, per non dire d’altro, che fossero le pagine di periodici come «Le ore casalinghe» e «La Ricamatrice», editi a Milano dall’imprenditore Alessandro Lampugnani, molto attento al mutare delle sensibilità del ceto medio cittadino, a ospitare le pagine di alcune delle più interessanti letterate dell’ultima generazione, da Erminia Fuà Fusinato a Caterina Percoto, o che tante autrici di versi civilmente impegnati – pensiamo a Isabella Rossi Gabardi, ma anche a Caterina Franceschi Ferrucci – mostrassero di prediligere sempre di più tonalità pie, temi religiosi, accenti intimistici, scene domestiche. Questo non sempre significò abbandono delle precedenti convinzioni patriottiche; ma certo comportò un modo diverso di concepirle e di viverle. A tal punto che perfino la vivacità delle riflessioni e delle proposte sui temi educativi così caratteristica della stagione politica quarantottesca e così ricca di inviti a formare le giovani generazioni a un civismo partecipato, venne stemperandosi in una scarna ripetizione di titoli e nomi, a partire dall’austera rassegna di Pensieri e lettere sulla educazione della donna in Italia pubblicata nel 1860 da Giulia Molino Colombini.
Fino a che punto la «riscossa del privato» familiare venuta avanti fra il 1849 e il 1859 avesse modificato il posto e gli spazi della politica anche nell’Olimpo delle poetesse civili del Risorgimento italiano lo suggerisce assai bene, ad esempio, una raccolta di versi come Patria ed amore di Laura Beatrice Oliva, moglie di Pasquale Stanislao Mancini, da sempre partecipe delle idealità liberali e nazionali di lui. Pubblicata a tamburo battente nel 1861, essa segnalava fino dal titolo l’inedita volontà di far dialogare i due poli attrattori degli «amorosi sensi» dell’autrice – l’Italia e lo sposo diletto – fino a farne una endiadi; ma evidenziava anche, nella datazione delle poesie, la crescente rilevanza della vicenda privata, di cui si ricostruivano la trama e gli episodi salienti, dal primo incontro napoletano all’intenso esilio torinese. Così come, facendo leva su tradizioni e affetti di famiglia, si avvicinavano alla narrazione delle recenti vicende patrie Giovannina Garcèa Bertola, futura direttrice del primo giornale politico femminile dell’Italia unita, «La Voce delle donne», o una indomita militante del Quarantotto bolognese come Carolina Bonafede, impegnate a sottrarre all’oblio eventi che avevano invariabilmente al centro figure maschili.
Tracce di questo crescente rilievo della dimensione familiare nell’approccio al discorso pubblico si riconoscono del resto anche nella netta preferenza ormai accordata al termine patria (la terra dei padri) rispetto a quello di nazione (la comunità dei discendenti) e alla figura di Vittorio Emanuele II, suo padre simbolico: una figura che domina sia la produzione poetica femminile del periodo, sia le più rare scritture in prosa, intente a rilevare i meriti dinastico-familiari dei Savoia, da quella della celebre Cristina di Belgioioso (Histoire de la maison de Savoie, 1861) a quella dell’ignota Elisabetta De Bianchi, che nello stesso anno illustrava Alcuni fasti di Vittorio Emanuele II re d’Italia e de’ suoi antenati; per non dire del romanzo che Carlo Cattaneo giudicava il migliore uscito in Italia da una penna di donna, La famiglia del soldato della lucchese Luisa Amalia Paladini (1859), che si chiudeva al grido di: «Viva il Piemonte, viva la stirpe sabauda!».
Far uscire il manipolo di donne coinvolte nelle tensioni e nelle passioni del Risorgimento dalle secche dell’aneddotica patriottica in cui sono rimaste troppo a lungo confinate è fondamentale se si vogliono mettere a fuoco lineamenti, lentezze e ambiguità di quel processo di modernizzazione dei costumi e delle mentalità delle donne del quale esse rappresentavano le antesignane e le vestali, e al quale il Regno d’Italia avrebbe fatto da letto e da sponda. Senza mai dimenticare, però, che alla rilevanza idealtipica delle «donne della nazione» (Soldani 1999) corrispondevano profili assai poco diffusi, come avrebbe messo drammaticamente a nudo il censimento della popolazione realizzato pochi mesi dopo l’ultimo plebiscito.
I suoi risultati parlavano con tutta evidenza di una popolazione incredibilmente giovane – una persona su quattro aveva meno di 10 anni; la metà meno di 25 – e di una coorte femminile che aveva un’età media di appena 26 anni e 10 mesi, di poco inferiore a quella maschile. Più sposate e più vedove dei loro coetanei, le donne italiane ne condividevano però la connotazione profondamente arcaica e rurale, oltre che agricola. I 10.897.237 uomini e le 10.880.098 donne presenti sul territorio nazionale al 31 dicembre del 1861, infatti, non solo abitavano per oltre un terzo in case sparse e piccoli casali, ma nella loro stragrande maggioranza vivevano in comuni piccoli e piccolissimi: del resto, negli oltre 6.400 comuni (su 7.720) che avevano meno di 6.000 abitanti, si stimava che il 90% delle persone vivesse del lavoro dei campi o di attività ad esso connesse. E visto che i maschi rubricati come «agricoltori» o legati alle industrie agricole, forestali e dell’allevamento erano quasi 5 milioni, si può calcolare che il numero delle donne a vario titolo occupate nei campi e nelle attività rurali si aggirasse intorno ai 4, al di là di quello che dicevano le schede del censimento. Perché se è vero che in Sardegna e nella Sicilia interna, così come in gran parte della Calabria e della Puglia, esse restavano a casa a governare i pochi animali da cortile e i bambini – e magari, come notava qualche anno dopo un osservatore acuto della realtà rurale come Sidney Sonnino e come confermava di lì a poco l’inchiesta agraria Jacini, «a filare il lino, a far calze e a rattoppare la biancheria e gli abiti» della famiglia –, era noto a tutti che quasi ovunque le contadine lavoravano almeno tanto quanto i loro uomini, e che al Nord come al Sud nessuno si sognava di preservarle dai lavori più pesanti. Anzi, accadeva spesso che esse venissero obbligate a espletare le incombenze più gravose e ingrate, e perfino a portare i pesi «in sostituzione delle bestie da soma», come testimoni e documenti ufficiali dell’epoca non mancano di denunciare (Palazzi 1997).
Ma al di là dei vuoti e dei silenzi, ciò che più colpisce nelle schede di rilevazione concernenti le donne è la valenza «sussidiaria» loro assegnata per principio, come del resto accadeva un po’ in tutta Europa, oltre alle evidenti distorsioni indotte da un impianto statistico troppo «individualizzante» per la situazione che si era chiamati a fotografare e che di fatto sfuggiva da tutte le parti (e massimamente sul fronte femminile) alle classificazioni previste nei fogli di famiglia e nelle schede chiamate a riassumerle. Non per nulla «l’elemento femminile» risultò, con grande meraviglia degli operatori statistici, nettamente prevalente nel campo di quelle «industrie manuali» e manifatturiere che erano state immaginate come il regno degli artigiani e degli operai, e che invece avevano finito per ospitare una congerie di filatrici, tessitrici e lavoratrici dell’ago, numerosa soprattutto nelle campagne emiliane e marchigiane, e ancor più nelle province meridionali ricche di agglomerati contadini, mentre la sua consistenza – assoluta e relativa – si riduceva drasticamente proprio nelle zone in cui il tessile stava assumendo connotazioni più nettamente «industriali». A conferma – si direbbe – del ruolo dominante che manteneva, in molti luoghi d’Italia, l’area dell’autoproduzione e dell’autoconsumo, frutto di abitazioni e famiglie ancora identificabili con cellule economiche dotate di rapporti solo marginali con la dimensione del mercato e del denaro.
Di contro all’esercito di quasi 1.700.000 donne classificate come esercenti «arti manifatturiere», le poco più di 92.000 commercianti, quasi tutte dedite alla vendita al minuto di prodotti poveri e poverissimi, risultavano ben poca cosa, confermando la prevalenza di una struttura socio-economica ancora scarsamente toccata dalle novità dei tempi. Lo ribadiva la difficoltà di fissare consistenza e fisionomia di quei segmenti sociali che più e meglio di altri identificavano i ceti borghesi, vale a dire gli «esercenti professioni liberali», il cui numero esorbitante – oltre mezzo milione di persone, un quinto delle quali di sesso femminile – bastava a segnalare il diverso significato attribuito a quella espressione da chi l’aveva formulata e da chi l’aveva usata, e la difficoltà a definire parametri in grado di isolare segmenti sociali definibili come «borghesi». E analoghe considerazioni suggerisce l’impossibilità di distinguere le benestanti dalle effettive «attendenti alle cure domestiche» nella gran massa delle «donne di casa senza professione», che si calcolava assommassero a quasi 3 milioni.
A leggere le considerazioni svolte in apertura dei volumi che raccolsero i dati di quel censimento, però, si direbbe che le nebbie in cui restava avvolto, da tutti i punti di vista, il profilo delle donne italiane non suscitasse domande nemmeno nel gruppo di alti funzionari e uomini politici che a quell’operazione «investigativa» avevano assegnato una nitida valenza simbolica, vedendo in essa la raffigurazione e la mimesi della raggiunta «Unità d’Italia». Il fatto è che, com’era già accaduto nella preparazione delle schede censuarie e nei prontuari che dovevano aiutare a compilarle, il focus del rilevamento era tutto sull’elemento maschile, assunto come unità di misura e come pietra di paragone di tutte le tabelle e di tutte le elaborazioni: una centralità quasi ovvia, d’altronde, ove si pensi sia alle ricadute che quei parametri finivano per avere su due cardini delle «libere istituzioni» come la leva e il voto (di cui gli uomini detenevano il monopolio), sia alla valenza strutturante di un discorso pubblico centrato sul pater familias e sui suoi poteri, sia in termini di scelte e di responsabilità che di diritti e di rappresentanza, per non dire del valore identitario che aveva per l’intera famiglia il lavoro a cui egli si dedicava, le modalità con cui lo esercitava, il ruolo che rivestiva.
Vent’anni dopo, molte cose erano cambiate. Le città con oltre 50.000 abitanti erano passate da 9 a 14, e altre si avvicinavano a quella soglia, mentre gran parte dei centri minori conosceva un processo di decrescita numerica e di impoverimento della già scarna articolazione sociale. Inoltre, la percentuale di coloro che abitavano in campagna e che vivevano di pastorizia e di agricoltura si era ridotta – anche se le contadine di età superiore ai 15 anni erano pur sempre più di 5 milioni – ed emergeva un qualche potenziamento dei servizi e degli occupati nei servizi, degli insegnanti in genere e delle maestre in particolare, oltre che un aumento percentuale delle persone addette ad attività artigianali e industriali, di cui – ancora una volta – non si riusciva a stabilire con precisione né la posizione, né il settore di appartenenza.
«Determinare il numero degli operai nello stretto senso della parola» era risultato impossibile, confessavano gli estensori della Relazione al censimento del 1881, declinando aprioristicamente al maschile un termine che le indagini condotte fin lì dicevano essere, nei fatti, molto connotato al femminile. Così come era risultato arduo stabilire dove collocare una persona dal punto di vista della «professione o condizione»; e non solo per l’abbondanza delle «espressioni dialettali» usate, ma per il prevalere, nella coscienza dei più (e dunque nelle loro dichiarazioni), della mansione specifica sull’ambito produttivo a cui essa si riferiva, per non dire della onnipresenza di occupazioni stagionali, occasionali, multiple, svolte ora come lavoranti a domicilio, ora come lavoratori «autonomi», ora infine come dipendenti: situazioni che, specie nel caso delle donne, erano la norma e che si tradussero in una ipertrofica dilatazione della qualifica di «massaia». Tanto più che ad essa – si confessava – era stata data, questa volta, «maggiore importanza» che alle indicazioni dei lavori svolti a domicilio e segnati nella scheda di famiglia: e infatti le neppure 400.000 «attendenti alle cure domestiche» del 1871 balzavano ora a quota 3.720.906, andando ad affiancare le 502.340 «capitaliste, possidenti, benestanti» (anch’esse in crescita) e le 125.556 che si era preferito considerare «di professione non determinata», mentre il personale femminile di servizio (domestiche, portinaie, fantesche, cuoche...) faceva registrare, con le sue 400.642 unità, un aumento relativamente contenuto.
Comunque, nonostante quella «preferenza» (emblematica del rimodellamento in atto nelle identità di genere e nella loro percezione), «le salariate a lavoro fisso nelle industrie, nelle arti e nei mestieri», sommate a quelle che prendevano «lavoro a fattura, a domicilio, sia continuativamente, sia per parte dell’anno», risultavano essere 1.823.000: un numero di poco inferiore a quello dei loro omologhi maschi (1.854.000), mentre sotto la voce relativa a «padroni, direttori d’opificio, membri della famiglia occupati nella stessa professione del capo-famiglia, […] artigiani in conto proprio» - un insieme quanto mai disomogeneo, come si vede – le donne crollavano al 25% (182.260 di contro a 557.629), anche se i numeri dimostravano prima di tutto che l’industria accentrata e meccanizzata era appena agli inizi perfino nel settore tessile, che in Inghilterra si era messo su quella via da quasi un secolo.
Quel che colpisce il lettore di oggi così come i commentatori di allora, in effetti, non è tanto l’accelerazione o la decelerazione di questo o quel settore produttivo, la lentezza dell’industrializzazione o l’accentuarsi dei fenomeni legati all’emigrazione e all’urbanesimo. È piuttosto il fatto che le divaricazioni ereditate dal passato continuavano a farla da padrone. Chi aveva sperato che «il giorno in cui l’Italia venisse ridata a’ suoi confini naturali molte delle piaghe che l’avevano afflitta sin lì risanerebbero, e si ridurrebbero distanze e diversità», come si scriveva nel 1864 licenziando il primo volume dei risultati del censimento, dovette amaramente ricredersi. Invece di un avvicinamento, quello che si stava producendo era un moto che accentuava tutte le differenze e tutte le distanze: e non solo fra città e campagna, fra centri minori e maggiori o fra Nord e Sud, ma anche fra uomini e donne, sull’onda di una polarizzazione tra sfera pubblica e sfera privata segnata a fuoco sia dal netto potenziamento della prima e di chi ne era il titolare per eccellenza e il protagonista assoluto, sia dalla posizione subalterna assegnata alle donne perfino nella seconda, che pure veniva esaltata come l’unica a loro confacente.
Che uno Stato moderno articolato in strutture amministrative e istituzioni rappresentative di vario tipo e livello, ma tutte rigorosamente declinate al maschile, portasse a una ulteriore valorizzazione dell’elemento maschile – l’unico a cui si riconoscesse una piena «padronanza di sé», a prescindere dai lacci e laccioli generazionali propri delle società di antico regime – è cosa che non stupisce. Basta pensare al moltiplicarsi ordinato, dal centro alla periferia, di funzioni e di uffici di governo; all’importanza data sulla stampa periodica all’attualità politica e alle discussioni parlamentari; al moltiplicarsi di leggi presentate, discusse e approvate; all’intenso succedersi di appuntamenti elettorali, da quelli politici (1861, 1865, 1867, 1870, 1874, 1876, 1880, 1882...) a quelli amministrativi, che impegnavano un numero maggiore di elettori (poco meno di un milione, il 16,71% dei maschi di età superiore ai 21 anni) ed erano molto più sentiti e partecipati. Per non dire della liturgia annuale delle chiamate per il servizio di leva, con tanto di estrazioni a sorte, sostituzioni e feste propiziatorie, con le quali si cercava di aiutare le reclute a staccarsi dalla comunità di appartenenza, e quest’ultima a elaborare il lutto di una lontananza quinquennale. Al tempo stesso, però, le donne venivano sollecitate a sentirsi partecipi della costruzione di un mondo fondato sui diritti e non sui privilegi, sull’impegno di ciascuno a dare il meglio di sé nella sfera che gli era propria e non su pericolanti gerarchie di antenati: di un mondo in cui la famiglia fosse specchio della nazione e come quella bene ordinata perché rispettosa dei diversi ruoli e dei doveri che essi comportavano.
Chiunque abbia qualche dimestichezza con le retoriche dell’epoca sa bene quanto insistito fosse, almeno nei primi anni Sessanta dell’Ottocento, il richiamo a un modello di femminilità patriottica fatto di rigore morale, di silenziosa modestia, di operosità instancabile fra le mura di casa. Per dimostrare di essere una buona italiana, alla donna si chiedeva soprattutto di essere una buona moglie, apportatrice di pace domestica perché capace di comprendere e consigliare, e una buona madre, guida affettuosa e severa nella educazione dei figli al lavoro, all’onestà, al rispetto dell’ordine costituito. Il richiamo alla triade «Dio, Patria, Famiglia» e l’identificazione della Patria con il re-padre e sovrano costituiscono una sorta di ossessivo leitmotiv degli scritti rivolti alle donne o da loro stesse pubblicati e il vero tratto distintivo tra quante si riconoscevano «appartenenti» all’Italia uscita dal Risorgimento e quante invece si sentivano prima di tutto, e spesso unicamente, soggette al magistero della Chiesa cattolica, senza distinguere più che tanto fra l’ambito dello spirituale e del temporale.
La dimensione dei diritti restava per le donne (e in riferimento a loro) un ambito concettuale arduo e contestato, come finì per sancire il codice civile approvato nel 1865 e destinato a rappresentare per decenni la vera carta costituzionale del giovane Regno. In realtà esso esordiva affermando che «ogni cittadino gode dei diritti civili, purché non ne sia decaduto per condanna penale» (art. 1), in piena sintonia con quanto stabilito dall’art. 24 dello Statuto albertino, secondo cui «tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali innanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici […] salve le eccezioni determinate dalla legge». Ma, come si disse subito e come fu poi ripetuto infinite volte nei testi che affrontavano la questione, godere dei diritti civili non significava poterli concretamente esercitare, e dunque non vi era contraddizione tra il considerare le donne persone relativamente «libere ed eguali» nell’ereditare e nel fare testamento (due snodi cruciali della battaglia antiaristocratica per ridurre i privilegi della nascita) e l’escluderle non solo da qualunque funzione pubblica, ma perfino dalla possibilità di essere titolari in prima persona della propria appartenenza nazionale. Per non dire del vulnus più grave, quello derivante dall’introduzione del principio dell’«autorizzazione maritale», la cui valenza tutta ideologica di «architrave del sistema della diseguaglianza tra i sessi» (Martone 1996, p. 518) venne enfatizzata dalla contemporanea scelta in favore del principio della separazione dei beni, che comportava invece il pieno riconoscimento del fatto che di per sé il matrimonio non intaccava affatto la capacità e la possibilità della donna di amministrarli.
Ciò che si voleva affermare, anche a costo di una forzatura giuridica, era un modello culturale fondato sulla subordinazione della moglie al marito (e per estensione della donna all’uomo), suo onnipotente padrone e sua unica proiezione pubblica: tanto che, secondo l’art. 134, la moglie non poteva neppure «donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi in sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito», solo e indiscutibile «capo della famiglia» (art. 131). Rispetto alla «estesissima soggezione giuridica» così disegnata (Sacchi 1902, p. 1015), norme come quella che riconosceva alla «donna come moglie» un astratto «dominio» sui propri beni non dotali (detti «parafernali»), o come quella che permetteva di investirla della patria potestà «quando il padre non possa esercitarla», risultavano in concreto assai povera cosa. Nonostante molti si adoperassero a valorizzarle, sottolineando che tali norme erano state volute per mantenere «alta la condizione giuridica della donna maritata di fronte ai figli» – come faceva nel 1869 il giurista Angiolo Burri analizzando gli strumenti forniti dal codice civile in difesa Dei diritti delle donne –, quella che usciva dall’articolato era una persona giuridica (e di conseguenza una individualità) fragile e impropria, soggetta a mutare la propria configurazione personale (nome, nazionalità, residenza, natura giuridica) col modificarsi del proprio stato civile, e addirittura privata, non appena si sposava, di ogni disponibilità sui propri beni, perfino su quelli parafernali e sui «frutti del proprio lavoro», qualunque fosse stato il regime patrimoniale prescelto.
Difficile non vedere in queste disposizioni, e più in generale in tutte le norme riguardanti la Donna Maritata (Piola Caselli 1902) le colonne di una costruzione identitaria destinata a rendere ancora più fragile la figura della donna in quanto tale, e dunque a escludere a priori la possibilità che essa potesse accedere a funzioni istituzionali e a diritti politici. E si capisce meglio come mai «essere cittadine», anche per le poche élites disposte a usare un termine tanto pregno di allusioni rivoluzionarie, significasse a lungo e al massimo considerare le donne partecipi «della sostanza della vita pubblica, che risiede nel patriottismo e nell’amor del prossimo», come scriveva Carlo Francesco Gabba nel 1880 in chiusura della nuova edizione della sua celebre e fortunata messa a fuoco Della condizione giuridica delle donne italiane (p. 640).
A completare e consolidare il quadro venne, in quello stesso 1865, l’approvazione di una legge elettorale amministrativa che proprio per segnalare la differenza rispetto alle norme in vigore in alcune aree della Penisola – la Toscana, la Lombardia, il Veneto – esplicitava il fatto che non potevano essere elettori (e tanto meno eleggibili) analfabeti, donne, falliti, vagabondi, detenuti in espiazione di pena: un elenco di «minorati civili» che si ritrovava pressoché identico nel coevo codice di procedura civile, che all’art. 10 escludeva le donne dalla possibilità di essere «arbitro», proprio come – ribadiva – «non possono esserlo i minori, gli interdetti, ed i condannati ad una pena che li abbia fatti escludere dall’ufficio di giurato».
Su queste basi era evidentemente impossibile costruire una solida presenza pubblica delle donne e prefigurarne l’accesso a ruoli e professioni che, in via formale e fattuale, presupponessero una piena capacità giuridica e sociale e una riconosciuta autonomia di analisi, di giudizio e di scelta. E a imprimere il marchio dell’inferiorità non erano vincoli di competenza o di ricchezza, ma «impedimenti» legati al sesso e pericolosamente allusivi a un’inferiorità per nascita e per natura, come andava ripetendo quasi sola una sdegnata Anna Maria Mozzoni già prima di leggere le celebri considerazioni di John Stuart Mill in merito a The Subjection of Women, libro edito nel 1869 e da lei prontamente tradotto.
L’intima contraddittorietà fra l’universalismo dei princìpi e il carattere marcatamente sessuato delle loro specificazioni concrete, quali che fossero gli ambiti interessati, era al cuore di gran parte delle costruzioni discorsive dell’epoca e di tutte le realtà giuridiche dell’Europa del tempo, che in linea di massima non erano più avanzate di quella italiana, costretta a tener conto di quel principio di uguaglianza che aveva costituito uno dei motivi ispiratori e delle trame portanti del Risorgimento: e a farlo anche quando esso andava contro convinzioni e usanze largamente diffuse. Penso, ad esempio, alla resistenza – ora aperta e di principio, ora sorda e pragmatica – che tradizioni e convinzioni antiche opposero al trattamento paritario delle figlie in fatto di eredità e che si tradussero nell’abitudine, protrattasi per decenni, di far loro firmare una liberatoria che permettesse di identificare la dote con la quota ereditaria, per non dire dei mille escamotages usati, specie in ambito contadino e nei milieux di ascendenza nobiliare, per ridurre quella quota ai minimi termini, con tutte le conseguenze del caso sulla vita e sui progetti di vita di giovani donne della «Nuova Italia», che dal codice civile si videro sottrarre la certezza di una protezione antica senza che nulla venisse a sostituirla (De Giorgio 1993, pp. 328-333). Ma penso anche al fatto che quella enunciazione contraddittoria e limitativa si tradusse fino dagli inizi in una sorta di giurisprudenza «a doppio binario» in cui le sentenze ispirate al principio di parità finirono per essere fagocitate da quelle fondate sul principio di eccezione, più congrue al «senso comune». Tanto che le poche novità legislative a favore delle donne degli anni successivi – dall’ammissione al lavoro negli uffici minori di poste e telegrafi alla possibilità di aprire un libretto di risparmio a proprio nome presso una Cassa postale o di testimoniare negli atti pubblici – passarono facendosi forti di preesistenti coinvolgimenti familiari (nel primo caso), di concessioni previste anche per i minori (come nel secondo caso) o per gli stranieri (come nel terzo), e non richiamandosi alla solenne sanzione egualitaria della individualità femminile e dei diritti di cittadinanza a essa inerenti.
D’altronde, anche le donne più consapevoli dei problemi in campo ci appaiono – in quei primi, incerti anni di vita dello Stato nazionale – interessate soprattutto a mostrarsi «vere e buone patriote», e dunque più interessate a promuovere iniziative a sostegno dei «diritti conculcati d’Italia» che a rivendicare quelli a loro spettanti; più impegnate a moltiplicare gli appelli e le iniziative per la «libertà dei fratelli irredenti» di Roma e di Venezia che non a sollecitare quella del «genere femminile»: tanto più che l’accostamento dei due termini era improponibile, visto che dire «donna libera» era, nel linguaggio corrente, lo stesso che parlare di prostituta. Come scriveva la principessa Cristina di Belgioioso in un celebre articolo apparso nel 1866 sul primo numero della «Nuova Antologia» e volto a discutere, in un momento di grave incertezza per le sorti del neonato Regno d’Italia, Della presente condizione delle donne e del loro avvenire, «donna libera è espressione che eccita le risa degli uomini, e lo sdegno di molte donne», facendo pensare ad una «deplorabile confusione» nelle famiglie e nella società. E proprio per questo, anche quante erano – come lei – convinte che la condizione fatta alle donne fosse «al di sotto del loro valore intellettuale e morale», e impedisse loro di raggiungere, salvo «casi eccezionali, una durevole felicità», invitavano caldamente le donne che avessero a cuore il futuro dell’Italia a fare un passo indietro, rinviando a tempi migliori la traduzione in atto di quei diritti paritari che pure si riconosceva essere indispensabili per rompere «gli avanzi della passata barbarie» (Belgioioso 1866, p. 109).
Ma se queste erano le opinioni perfino di chi non nascondeva di ritenere ingiuste le norme approvate, anche se necessarie a mantenere in quiete una società «formata sulla base della supposta inferiorità femminile» (ibid.), non meraviglia che le iniziative dirette a modificarle avessero scarsissima eco a livello di opinione pubblica. Come accadde appunto a quelle promosse da un ardente sostenitore della necessaria e «naturale» parità di diritti civili e politici fra uomini e donne come il deputato napoletano Salvatore Morelli, il cui disegno di legge Per la reintegrazione giuridica della donna (1867) nell’immediato incontrò soltanto, sul versante femminile, il favore dei circuiti legati alla democrazia risorgimentale e al libero pensiero, come quel Comitato per l’emancipazione delle donne italiane di cui si hanno solo scarne e incerte testimonianze: circuiti che di lì a poco avrebbero trovato nel settimanale «La Donna» diretto da Gualberta Alaide Beccari un prezioso punto d’incontro e di dialogo con «sorelle» dalle convinzioni molto più moderate, ma pur sempre aperte a una messa a fuoco dei diritti e dei doveri della donna che tenesse conto delle esigenze nuove che si stavano manifestando in tutta Europa, come quel «periodico morale ed istruttivo» proponeva di fare. Perché, se la donna doveva essere educata ad assolvere al meglio i «doveri verso la famiglia, la società e la patria» che i tempi e i «portati della nuova filosofia razionale» le attribuivano, riconoscendo in lei «la potenza rigeneratrice dell’umanità prostrata», logica voleva che ella non «soggia[cesse] più a lungo sotto l’oppressione continua delle leggi che, con troppo evidente ingiustizia, la vo[leva]no tutelata dalla culla alla tomba» (Beccari 1868).
Le ambiguità del codice civile in merito alla «parità di diritti» delle donne non potevano che riprodursi ingigantite nelle modalità con cui l’opinione pubblica italiana recepì la «questione della donna», oggetto di accesi dibattiti nell’Europa del tempo (e non lì soltanto): modalità che rivelavano una radicata difficoltà a collegarla con il tema dei diritti individuali, a tutto vantaggio di un insistito richiamo all’esigenza di potenziare il ruolo e la «dignità civile» della donna assegnandole nuovi compiti e nuovi doveri all’interno di una famiglia intesa come cellula fondamentale della società, e proprio per questo capace di apportare in essa trasformazioni profonde, riproducendovi logiche, articolazioni e virtù domestiche a cui si riconosceva una sostanziale pregnanza pubblica.
A dominare il discorso pubblico di quegli anni in un’Italia segnata a fuoco dalla «massa imponente di tradizionalismo e di valori premoderni» non solo dei ceti popolari, ma di gran parte dei gruppi dirigenti (Montaldo 2000, p. 19) era una idea di donna letteralmente impensabile al di fuori del nucleo familiare di appartenenza, e di fatto difficilmente separabile da esso anche nelle sue rappresentazioni più nobili e illustri. Se ne ha un esempio nella caratterizzazione di una figura molto cara alla democrazia risorgimentale, quella di Adelaide Cairoli, che cammin facendo sembra smarrire gli originari, orgogliosi connotati della «madre cittadina» fiera di aver educato i figli all’amor di patria e di condividere pienamente con loro quella passione civile, per assumere piuttosto – e non solo a causa della tragica catena di lutti che la colpì sullo scorcio degli anni Sessanta dell’Ottocento – i tratti della mater dolorosa, «modello sublime di abnegazione» e «nobile personificazione del sacrificio» (Beccari 1871) dalle nitide ascendenze religiose, perfettamente compatibile del resto con la parallela esaltazione delle antiche romane, consce dell’ineluttabile primato della res publica sui loro affetti (D’Amelia 2005).
Ma anche quando l’immagine di donna suggerita era ben altrimenti vigorosa e combattiva, il cuore del discorso batteva sempre sul ruolo di «intermediazione comunitaria» a lei attribuito, sia che con Giuseppe Mazzini – pur convinto del dogma egualitario – si insistesse sulla sua importanza per educare «all’amore per la famiglia, la patria e l’umanità» (Gazzetta 2003, p. 47), sia che con Niccolò Tommaseo si sottolineasse che essa doveva essere messa in grado di «amare e servire la patria», anche se «non nella piazza, ma nella famiglia», come raccomandava uno dei brani raccolti nella silloge da lui dedicata a La Donna (Tommaseo 1872, p. 399). Non stupisce dunque che anche il profilo tutto proiettato nel futuro che della «nuova italiana» veniva tracciato nel 1870 da Aristide Gabelli facesse leva sull’uguaglianza virtuale del soggetto donna per chiedere di potenziarne l’educazione a vantaggio non di lei stessa, ma dei membri della famiglia e, attraverso loro, della collettività: perché – diceva – «come aspettarsi il miracolo che tutti gli uomini crescano amanti e bramosi del sapere, quando non hanno il diritto di amarlo, nonché cercarlo, le donne? come infonderanno esse negli altri la stima di quello che loro appunto manca e che non possono pregiare negli altri senza disprezzare sé medesimi?» (Gabelli 1870, p. 158).
Non molto diverso, del resto, era il discorso portato avanti nell’ambito della Chiesa cattolica dai più lungimiranti propugnatori di un suo maggiore impegno a confrontarsi con la realtà del mondo contemporaneo. Essi guardavano alla donna come al soggetto privilegiato per «ricondurre al cristianesimo la società» traviata dall’incipiente secolarizzazione, e proprio per questo sollecitavano a rafforzarne l’educazione, in modo da aiutarla ad argomentare al meglio le ragioni della Chiesa e delle Sacre Scritture. Le pagine in cui monsignor Dupanloup, arcivescovo di Orléans, tesseva le lodi delle «donne istruite» contrapponendole alle «donne dotte» divennero rapidamente una sorta di breviario delle frange cattoliche femminili desiderose di rompere l’assedio della tradizione; e altrettanta fortuna, anche se più elitaria, ebbero le conferenze con cui monsignor Jean-Baptiste-Anne Landriot, arcivescovo di Reims, rilanciava il modello della «donna forte» di biblica memoria. E se l’invito del primo servì a legittimare il «dovere sociale» di una scolarizzazione meno effimera delle figlie da parte delle famiglie di più stretta osservanza, le considerazioni del secondo insegnarono alle cattoliche l’importanza di essere, come la donna esaltata dai versetti del XXXI libro dei Proverbi di Salomone, modeste e tenaci, attive e sagge, ma soprattutto attente ad assicurare, con il «bene» della loro famiglia, quello della comunità a cui appartenevano: un «bene» che per molte di loro faceva tutt’uno con la necessità che l’una e l’altra si affidassero toto corde alla guida di Santa Madre Chiesa.
Quanto al mondo laico, ciò che più colpisce è la sua sostanziale afasia rispetto all’imponente precettistica cattolica rivolta a «giovanette», «fanciulle», «spose», «madri», per «stimolarle e istruirle» nei loro «cristiani doveri», magari proponendo ad esempio «Maria Vergine, specchio e modello della vita cristiana» e accennando solo in via del tutto marginale alla loro funzione nel «secolo» (Ascenzi 2009, pp. 99-118). E tuttavia, nel passaggio fra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento qualcosa cominciò a muoversi anche in questo ambito, soprattutto per effetto del crescente afflusso di notizie dall’estero classificabili sotto l’etichetta della «emancipazione della donna»: donne che si iscrivevano all’università e che si battevano per diventare medico, donne che chiedevano il voto e che creavano associazioni per partecipare alla vita politica. Accolte e commentate spesso come una stravaganza «forestiera», quelle notizie venivano riprese da periodici di attualità e perfino da giornali di moda, teatri e lavori femminili, e finivano per riversarsi in circoli e salotti, diventavano oggetto di conversazione, suscitavano domande, riflessioni, discussioni. Come puntualmente accadde in seguito alla pubblicazione di The Subjection of Women di Mill: un’opera la cui diffusione – certo di nicchia, ma comunque significativa – è confermata dal proliferare, nei primi anni Settanta, di opuscoli, conferenze, articoli che richiamavano i problemi da essa posti sul tappeto, ora per ironizzare sulle tesi del suo autore, ora per esorcizzarle e condannarle, ora infine (anche se molto più raramente) per riprenderne il senso adattandole al caso italiano.
Al cuore dell’analisi-denuncia di Mill c’era, in buona sostanza, il riconoscimento del «carattere tutto storico» della millenaria «soggezione» della donna all’uomo (come aveva sostenuto anche Cristina di Belgioioso nell’articolo del 1866), trasformatasi col passare dei secoli da «fatto» in «principio di diritto», fino a configurarsi come un ostacolo fondamentale al progresso umano, oltre che come una patente contraddizione dei principi dell’individualismo liberale (Urbinati 1990, pp. 54-65). Ma ammettere che anche per le donne valesse il principio che ogni essere umano è per sua natura «autonomo, razionale e morale» e che dunque esse pure avessero un indiscutibile «diritto-dovere alla realizzazione individuale» (Tasca 2007b, p. 125) significava fare riferimento a paradigmi concettuali estranei alla stragrande maggioranza del pubblico, per quanto colto, e ancor più a quello delle sue potenziali interlocutrici, come risultò chiaro dalle risposte a un questionario sull’argomento lanciato dall’intraprendente moglie di Ubaldino Peruzzi, Emilia Toscanelli.
Generale e di fondo è, in quelle risposte, il rifiuto di scendere sul terreno della storia per rifugiarsi in quello perimetrato dagli obblighi imposti da madre natura e/o dal buon funzionamento della società, e scandito dai «voli pindarici» sulle «figlie d’Eva», esaltate come idoli destinati all’adorazione maschile e al rasserenamento dell’umana specie, che qualche anno prima avevano fatto infuriare una Mozzoni pronta a ricordare che «la tesi della emancipazione della donna» non era «una ridevol cosa, una galanteria, una vanità», ma riassumeva in sé i diritti di tutte le donne, i loro bisogni, i loro stessi doveri (Mozzoni 1868, p. 86). Tutte le persone interpellate si sentono in obbligo di ripetere che fra uomini e donne esistono «differenze morali e intellettuali» tanto significative e «diversità di vocazioni naturali» tanto consistenti da comportare non solo «ruoli complementari», ma una «giusta disuguaglianza», e dunque un diverso apparato di diritti. L’unica voce fuori dal coro risulta essere quella di Aurelia Folliero de Luna, intellettuale e cosmopolita, figlia d’arte e moglie di un patriota napoletano avvocato e musicista, Tommaso Cimino, convinta che alla donna si dovevano semplicemente dare le stesse libertà e gli stessi diritti di cui godeva l’uomo: con la dovuta «moderazione e logica pratica», certamente (come avrebbe ribadito aprendo le pubblicazioni di un quindicinale intitolato a «Cornelia»), ma anche impegnandosi fin da subito a cancellare leggi che riducevano le donne in uno stato di minorità permanente e a fornire loro la possibilità concreta di «emanciparsi» col lavoro da una «esistenza monca, disutile, fittizia, o servile, e miserissima» (cit. in Tasca 2007a, pp. 229).
Nelle parole della Folliero de Luna, come già in quelle di Anna Maria Mozzoni, la «questione dei diritti» veniva dunque additata come fondamentale per costruire le condizioni materiali e morali di una esistenza migliore per sé e per gli altri, visto che per moltiplicare le opportunità di occuparsi era indispensabile potersi muovere, scegliere, decidere fuori da umilianti tutele. A riconoscerlo era, qualche anno dopo, anche un giurista vicino alle posizioni del moderatismo toscano come Gabba, che non esitava a denunciare la contraddizione per cui «in questo secolo del liberalismo e dell’uguaglianza gran parte delle donne di ogni classe trovasi purtroppo [a vivere] nella più anormale e pericolosa situazione», perché «senza schermi contro l’egoismo del sesso più forte» (Gabba 1880, p. 657), visto che il mondo risultava ormai talmente centrato sul dominio maschile da far apparire (e da rendere) decisamente inferiore e del tutto marginale ciò che non veniva considerato di sua competenza. A quella data, d’altronde, erano ormai in molti a ritenere che l’affermazione dell’economia di mercato e dell’individualismo giuridico fondato sulla centralità del «libero proprietario» rischiasse di deprimere ulteriormente il già modestissimo profilo economico delle donne, con la conseguenza di togliere loro ogni speranza di trovare una qualche difesa «in sé medesime» così come «nelle opinioni e nelle istituzioni sociali» (ivi, p. 658).
La «questione della donna», insomma, si configurava a tutti gli effetti anche come un’emergenza dai nitidi risvolti economici. Il problema, per le donne del popolo, nasceva in primo luogo dal progressivo contrarsi degli spazi della produzione domestica e dell’autoconsumo familiare oltre che dal crollo delle istituzioni di «paternalismo solidale» sviluppatesi nel corso dei secoli e in evidente crisi di compatibilità col mondo che stava crescendo. Quanto alle donne appartenenti a ceti di piccola e media borghesia, a rendere particolarmente precaria l’esistenza erano l’incremento numerico e la fragilità economica di segmenti sociali meno disposti che nel passato a sospingere le figlie verso le tradizionali istituzioni monacali e impossibilitati a dar loro doti e rendite di una qualche consistenza, ma non per questo pronti o propensi a mantenerle per tutta la vita. Ad aggravare il tutto, però, era nel primo come nel secondo caso il fatto che anche in Italia, proprio in corrispondenza dell’accresciuto bisogno di donne di diversa condizione ed estrazione sociale di mettersi in gioco «dando un prezzo alla propria operosità» (Scander Levi 1876), si stava rapidamente rafforzando quel valore costitutivo del lavoro per l’identità maschile che si traduceva inevitabilmente in una crescente stigmatizzazione di quello delle donne, se svolto – com’era giocoforza accadesse, dati i tempi – fuori dal controllo e dal cono d’ombra del reticolo familiar-domestico, e in un’aprioristica esclusione delle donne da quasi tutte le attività e gli impieghi non manuali che le dinamiche socio-economiche e statuali stavano mettendo in campo.
Di qui l’importanza assunta dal tema del lavoro – della sua opportunità, liceità, necessità – nelle riflessioni dell’epoca sulla «questione della donna», sia in ambito maschile che femminile. Di qui, anche, l’affannarsi di tanti contemporanei nel definire e suggerire i percorsi lungo cui incanalare la domanda femminile di lavoro pagato, in modo che essa non si presentasse come concorrente rispetto a quella maschile e potesse essere riferita a modelli e abitudini preesistenti: due colonne d’Ercole destinate a condizionare fortemente le direttrici occupazionali delle donne, allontanando dai tratti identitari dell’idealtipo femminino quel «lavoro produttivo manuale», specie se fuori casa, che all’epoca rappresentava ancora una risorsa insostituibile per le donne del popolo, e aprendo le grandi ali del «lavoro educativo» e di cura per tutte quelle donne «di civile condizione» che le convenzioni e le retoriche dell’epoca disegnavano come dedite esclusivamente alla famiglia, ma che non sempre ne avevano una o potevano permettersi di dedicare ad essa tutto il loro tempo. Con la conseguenza che per le prime questo processo segnò il protrarsi di un pesante differenziale nei salari e l’aprirsi del circuito vorticoso ed emarginante del lavoro a domicilio, destinato a spiccare il volo nel corso degli anni Ottanta, mentre per le seconde il quadro poté dirsi ridefinito nelle sue linee di fondo già dieci anni prima, grazie soprattutto alle straordinarie virtù performatrici della scolarizzazione di massa.
Fino dalle prime rilevazioni apparve chiaro che in gran parte d’Italia saper leggere e scrivere era il privilegio di un’esile minoranza di donne (appena il 16%) e che non c’erano differenze abissali fra le «plebi rustiche» e le «classi cittadine», visto che anche fra le abitanti delle città più di tre su quattro – il 76,8% – erano in tali condizioni, mentre l’articolazione per fasce d’età segnalava il carattere volatile di quelle rare competenze che, passati i 25 anni, si disperdevano a vista d’occhio. Le differenze erano invece enormi tra l’Italia insulare e peninsulare e le regioni settentrionali, che peraltro, con la somiglianza dei loro dati, smentivano seccamente la lettura tutta e solo ideologica – l’analfabetismo come frutto programmatico di governi stranieri e assolutistici – che quasi tutti i commentatori si ostinavano a darne. Non per nulla all’eccellenza rurale e maschile del Piemonte rispondeva quella urbana e femminile della Lombardia, mentre la Sardegna da cui prendeva nome il Regno sabaudo faceva registrare un tasso di analfabetismo pari a oltre l’87% sul versante maschile e del 95,2% su quello femminile: il più alto di tutto il paese. D’altronde, anche l’orgogliosa certezza allora espressa che «la giovane generazione, rifatta alla scuola dei tempi nuovissimi», avrebbe aperto «il campo a ogni utile progresso» e visto realizzarsi in breve tempo «il principio dell’uguaglianza» alfabetica (Statistica del Regno d’Italia 1864, p. xxxv) sarebbe stata dolorosamente smentita dall’esperienza. Almeno per tutto il primo ventennio di vita unitaria, infatti, la tendenza fu a una diminuzione complessiva molto lenta e a una divaricazione crescente di tutti gli indicatori, ivi compreso quello fra l’analfabetismo maschile e l’analfabetismo femminile, che si ridussero in media di undici punti e mezzo il primo e di neppure dieci punti il secondo, con minimi – sul versante femminile – di due-tre punti appena in larga parte del Mezzogiorno continentale e della Sicilia interna.
Il fatto che la forbice dell’alfabetismo fra uomini e donne si allargasse (e continuasse ad allargarsi) soprattutto a partire dai 12 anni d’età, per effetto del divaricarsi dei ruoli professionali, familiari e sociali degli uni e delle altre, dice assai bene quanta importanza essi avessero nel far acquisire e mantenere vive delle competenze alfabetiche. Altrettanto importante si sarebbe ben presto rivelato il fatto di vivere o meno in un ambiente in cui l’alfabeto fosse una presenza diffusa, il suo possesso un valore e la sua acquisizione favorita con impegno delle autorità municipali a cui quel compito era delegato. E da questo punto di vista, il cammino era tutt’altro che agevole, vista «l’antica e tradizionale ripugnanza contro la coltura della donna» che continuava a regnare sovrana «non soltanto nei villaggi, nelle borgate, nei comuni secondari», ma anche «nelle città capoluogo», dove la «maggior parte delle donne» – comprese le «signore che vestono di seta e vanno in carrozza» – non sapeva scrivere e spesso neppure leggere, come osservava alla vigilia dell’entrata in Roma un buon conoscitore del variegato patchwork italiano (Gabelli 1870, p. 148), che il censimento del 1871 segnalava composto da una percentuale di donne alfabetizzate oltre i 21 anni pari al 33,6% in Lombardia e al 3,3% in Lucania.
A quella data, però, i segnali di sensibilità e di interesse per l’istruzione femminile delle aree urbane più vivaci si stavano moltiplicando, come risulta chiaro anche dall’esito delle numerose iniziative assunte per rafforzarla da ministri come Angelo Bargoni e Cesare Correnti fra il 1869 e il 1872, e dall’attivismo di un segretario generale come Pasquale Villari. I problemi, semmai, venivano dalla diffusa avversione delle famiglie di sia pur modestissimo ceto medio a mandare le loro figlie a scuola con bambine di altra e più bassa estrazione sociale, cosicché per vari decenni le scuole pubbliche finirono per accogliere solo raramente allieve ascrivibili al piccolo notabilato locale: e quando ciò accadeva, come raccontano ispettori e libri di lettura del tempo, era per lo più al prezzo di attente strategie volte a tenere il più separate possibile le poche dalle molte. Quando non si dava addirittura l’inverso, come in alcuni centri della Sicilia, dove «le alunne povere non [andavano] alla scuola perché le famiglie più agiate mal comporterebbero che le figlie loro sedessero accanto a quelle del popolino» (Ministero della Pubblica Istruzione 1870, p. xvii).
Anche dal punto di vista delle mentalità dominanti e delle abitudini sociali, dunque, le difficoltà da superare erano enormi, specie se messe a confronto con l’inerzia di gran parte delle amministrazioni comunali e la discontinuità degli stimoli provenienti dal governo centrale. Non per nulla la tendenza a una crescita diversificata fra scuole di città e scuole di campagna non mutò neppure dopo il varo, nell’estate del 1877, della legge Coppino sull’obbligo scolastico, nonostante il gran discutere di quegli anni, sulla scorta dell’esempio tedesco, delle ricadute positive che una solida diffusione dell’alfabeto tra le future «madri degli italiani» poteva avere per il paese intero. Di fatto, soprattutto nell’Italia rurale e in gran parte del Mezzogiorno continentale, anno dopo anno si ripetevano uguali, e ugualmente disarmate, le denunce contro i molti, troppi comuni contrari a spendere per le figlie del popolo, considerate programmaticamente estranee alla dimensione della cultura scritta e al raggio d’azione delle istituzioni pubbliche. Ma anche quelli che si decidevano a farlo cercavano, nei limiti del possibile, di istituire «scuole miste» – maschili al mattino, femminili al pomeriggio – affidate a una maestra, in modo da ridurre al minimo l’investimento per «mettersi in regola» e da privilegiare quei «lavori donneschi» che erano guardati con particolare favore anche dalle famiglie, molto interessate alla doppia competenza del ricamo e dell’alfabeto, che ricordava quella delle «scuolette private» rette da donne del paese e degli istituti governati da monache pressoché analfabete in cui era consuetudine mandare le bambine «in educazione» (Soldani 1993).
Una delle conseguenze più rilevanti dell’insistito richiamo al valore sociale dell’istruzione femminile fu, in effetti, quella di favorire la moltiplicazione di quei luoghi tradizionali, magari rafforzandone l’«offerta formativa» sul versante dell’istruzione vera e propria, specie ad opera di un numero crescente di congregazioni religiose. Decifrare con sufficiente precisione le caratteristiche di quel mondo parallelo fatto, più che di scuole laiche, di convitti e collegi, conservatori ed educandati, scuole diurne e opere pie delle più disparate origini e finalità, è a tutt’oggi impossibile, nonostante gli studi che da qualche tempo hanno cominciato a interessarsene. Certo è che le circa 120 «istituzioni educative» femminili di tipo «moderno» (e dunque comprensive di corsi di istruzione almeno elementare) censite all’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento erano balzate dieci anni dopo a 570 (con 17.158 allieve interne e quasi 12.000 esterne), e a più di mille all’aprirsi degli anni Ottanta, venendo a riempire «un vero e proprio vuoto istituzionale» (Franchini, Puzzuoli 2005, pp. 22-23); mentre la battaglia per riformare le istituzioni più antiche – dai conservatori toscani ai collegi di Maria siciliani – sarebbe andata avanti per decenni, mettendo a nudo l’impotenza dello Stato a governarne le scelte, e dunque a modificarne l’indirizzo e la fortuna.
Le relazioni ispettive di cui disponiamo insistono, specie per gli istituti retti da monache, sulle «condizioni di vita soffocanti e retrive» che li caratterizzavano; parlano di «situazioni di generale abbandono dell’istruzione», di «ambienti dominati da conflitti» aspri e deleteri «tra partiti laici e partiti clericali», con effetti paralizzanti sull’andamento dei medesimi (ivi, p. 112). Ma non possiamo ignorare che gli straordinari volumi di Documenti sulla istruzione elementare raccolti e pubblicati fra il 1868 e il 1873 registrano, per le scuole comunali, una realtà che non è esagerato definire allarmante, specie per ciò che riguarda le scuole rurali, miste e femminili: bambine sistemate alla meglio in luoghi di fortuna, spesso bui ed esposti alle intemperie, non di rado dotati appena di qualche panca e di un tavolino per la maestra, privi di qualsivoglia strumento e sussidio didattico. Del resto le maestre, più che le regole dell’aritmetica e quelle della grammatica o «la corretta pronuncia dell’italiano» – spesso ignote anche a loro –, si limitavano per lo più a insegnare un po’ di maglia e di cucito e a far recitare le preghiere, il catechismo e un po’ di storia sacra. Le polemiche sull’insegnamento della religione che lacerarono il Parlamento e l’opinione pubblica colta degli anni Settanta sembrano appartenere a un altro mondo rispetto a quello in cui viveva immersa gran parte della popolazione italiana, fondamentalmente estranea a codici, linguaggi e bisogni della secolarizzazione e anche per questo molto sensibile agli appelli a non mandare i figli, e soprattutto le figlie, a scuole e istituti laici, «semenzai di eresia, di antipapismo, di corruzione», come avevano avuto cura di ribadire gli organizzatori del Primo congresso dei cattolici italiani, tenutosi a Venezia nel 1874.
Poter rifondare l’identità femminile incardinandola su capacità e valori funzionali alla promozione di idee di patria, di civiltà e di progresso era – in quelle condizioni – davvero impensabile. Accadde però che proprio lo stato di diffusa marginalità e precarietà delle «scuolette dell’alfabeto» frequentabili dalle bambine o a loro esplicitamente destinate favorirono il rapido aumento delle «maestre di scuola del leggere, dello scrivere e del far di conto», come molte delle aspiranti a quel ruolo scrivevano nelle loro istanze al sindaco, avessero o no (più spesso no che sì, per il momento) fatto degli studi idonei a prepararle a tale incarico, magari assistendo a qualche settimana di «conferenze pedagogiche» nei capoluoghi più solerti a organizzarle e ospitarle. L’ormai consolidato modello culturale e sociale della «madre educatrice», intrecciandosi alla scarsità di alternative possibili e pensabili tanto per le aspiranti maestre quanto per le amministrazioni comunali (interessate soprattutto a spendere poco: e il lavoro delle maestre costava meno per legge), fece il resto, aprendo alle donne di ceto medio e medio-basso nuove e inattese prospettive di lavoro «dignitoso» e di ruolo sociale.
Nell’arco di dieci anni il numero delle maestre – già alto al momento dell’Unità, anche se molto disugualmente distribuito, al solito, nelle diverse regioni italiane (Piemonte e Lombardia da sole facevano il 46% del totale) – conobbe una vera e propria impennata, passando dalle 10.541 del 1865 alle 18.000 circa del 1875, per giungere a superare, sia pure di poco, quello dei maestri già nell’anno della prima applicazione della legge Coppino, e a toccare quota 24.167 nel 1882. Poche – nel 1873 appena una ogni sette – quelle fra loro che potevano vantare un curriculum regolare di studi, nonostante la gratuità delle scuole normali e il buon numero di sussidi annualmente messi a disposizione dalle autorità pubbliche per la permanenza in convitto delle allieve fuori sede, perché solo una minoranza delle diplomate aveva come meta l’insegnamento in una scuola pubblica, a meno che non si trattasse di un posto qualificato in città. Data la situazione, le autorità comunali e centrali si limitavano a chiedere alle giovani desiderose di assumersi l’ufficio di maestra nelle scuole comunali, o che già lo esercitavano, di sottomettersi all’esame da esterne per «prendere la patente», studiando per lo più sotto qualche guida improvvisata e imparando a mente «qualche catechismo pedagogico che prepari a rispondere alle domande degli esaminatori» (Ministero della Pubblica Istruzione 1873, p. 73). E in effetti, alla fine degli anni Settanta, le maestre provviste di patente (per lo più inferiore) assommavano ormai a quasi la metà del totale.
Più in generale, però, va sottolineato come le risorse dell’alfabeto facessero miracoli soprattutto sul piano dell’immaginario collettivo, almeno in ambiente urbano, rendendo familiare una figura femminile svincolata da ambienti esclusivamente domestici, legittimando il lavoro salariato anche in rapporto a donne «istruite» e «di condizione civile», favorendo il formarsi di una rete di donne legate fra loro da compiti e interessi connessi con quello che era pur sempre un lavoro intellettuale. Un’altra conseguenza fu che, in breve volgere di anni, le scuole normali, concepite dalla legge Casati come corsi puramente professionalizzanti e proprio per questo inizialmente costrette ad andar questuando allieve in orfanotrofi e istituti caritativi, videro rapidamente mutare tipologia ed età delle giovani interessate a frequentarle, e crescere sensibilmente le domande di accesso.
Già sul finire degli anni Sessanta dell’Ottocento la bilancia delle iscrizioni pendeva vistosamente dalla parte degli istituti femminili, consigliando l’apertura sia di nuove scuole «governative» e provinciali sia di più modeste «scuole magistrali» pubbliche – spesso comunali, private o dipendenti da fondazioni – per l’acquisizione della «patente inferiore». Nel 1870, ai 23 istituti maschili ne corrispondevano 36 femminili, mentre per le magistrali lo scarto era addirittura di 13 a 43. Dieci anni dopo, agli appena 1.319 maschi iscritti a scuole normali – rifugio spesso di falliti di altre scuole e di adulti stretti dal bisogno –, faceva riscontro un esercito di ben 6.912 femmine, «cittadine e popolane», che sui banchi di scuola cominciavano concretamente a incrinare le robuste divisioni cetuali della società italiana, e che – studiando e impegnandosi molto più di quanto ci si attendesse, e con risultati di gran lunga migliori – finivano col procacciarsi «una cultura che indarno si cercherebbe in altri istituti più antichi e di maggior nome» (Buonazia 1879, p. 40). Come del resto riconosceva anche un inviato del governo francese, entusiasta non solo dei risultati, ma del «sentimento di dignità collettiva e di rispetto di sé» che circolava in quelle scuole «democratiche» dove popolane e borghesi sedevano fianco a fianco studiando le stesse cose, e del diffuso orgoglio di molte giovani donne nel frequentarle (Pecaut 1880): un dato, questo, che veniva indirettamente confermato anche dal censimento del 1881, dove il numero delle maestre risultava gonfiato dalla scelta di molte ex normaliste che non esercitavano né intendevano farlo di «segnare nella scheda il titolo onorifico di maestra» (Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio 1881, p. lxxi).
Quanto fosse ambito quel titolo, del resto, lo racconta per contrasto lo scarso successo delle cosiddette scuole superiori femminili, che nel 1881 erano 77, di cui quasi la metà private e 7 appena governative, concentrate nel centro-nord e frequentate da 3.569 adolescenti. Sorte sul modello di quelle comunali di Milano e di Torino e cresciute su impulso di Cesare Correnti, esse riuscivano a intercettare solo la fascia più esigente e agiata della domanda di scolarità femminile postelementare che stava maturando, sia perché costavano, sia perché si concludevano senza lasciare a chi le aveva frequentate un diploma socialmente apprezzato e direttamente utilizzabile. Altre possibilità, ove si fosse voluti restare nell’ambito delle iniziative pubbliche, per il momento non c’erano, visto che il primo tentativo di dar vita a un corso di studi organico a carattere «liceale» specificamente dedicato alle ragazze (1879) era affondato nella diffidenza di alcuni e nell’indifferenza dei più, nonostante la conclamata esigenza di creare il ponte indispensabile per farle accedere all’università, come aveva sancito il regolamento varato dal ministro Ruggiero Bonghi nel 1875.
Il solo accenno all’apertura di sezioni di «ginnasio femminile» (senza latino e senza greco) presso alcuni istituti classici del Regno fece sì che si riaccendessero le consuete polemiche contro le deprecate femmes savantes e i fantasmi di un mondo alla rovescia che esse evocavano: e per non infiammarle ulteriormente, il ministro evitò di dire che ormai da qualche anno un rivolo di «giovanette» in cerca di una formazione culturalmente più solida aveva cominciato a infiltrarsi – complici, spesso, padri orgogliosi e «patriottici» – nei regi ginnasi e licei, a cui del resto nessuna norma positiva vietava di iscriversi, e a chiedere di poter sostenere l’esame di licenza, a Napoli come a Bologna o a Milano, e perfino in città minori come Faenza. Nella relazione che accompagnava il progetto, egli aveva preferito insistere – a ragione – sulla necessità di provvedere alla formazione di insegnanti secondarie per i sempre più numerosi istituti pubblici e privati femminili a carattere postelementare: scuole normali e magistrali, superiori femminili e professionali, corsi «complementari» chiamati a colmare il vuoto normativo fra le elementari e le normali, per non dire di educandati e collegi che stavano potenziando il loro cursus studiorum; salvo ricordare subito dopo che le insegnanti delle scuole superiori femminili erano già 436, e 605 quelle attive nelle Normali, senza che si fossero potuti stabilire i requisiti necessari per ricoprire quei ruoli. Come del resto aveva dovuto constatare a proprie spese, qualche anno prima, Erminia Fuà Fusinato, incaricata di organizzare e dirigere l’istituto romano della Palombella – una Scuola superiore che si voleva esemplare, quasi una sfida al monopolio della Chiesa sull’educazione femminile nella capitale del Regno –, e costretta a defatiganti trattative con il comune, restio ad avallare le nomine delle insegnanti da lei incaricate perché prive dei requisiti di legge.
Intanto, però, il moltiplicarsi di scuole femminili di varia natura e livello aveva stimolato la produzione di materiale scolastico e parascolastico che, proprio in quanto specificamente rivolto ad esse, finì per favorire la scesa in campo di autrici donne. Lentamente ma inesorabilmente, le loro firme cessarono di essere una rarità, a partire dalle pagine dei periodici scolastici che rappresentavano l’unico strumento didattico disponibile e usato, specie dalle maestre, per affacciarsi subito dopo nei sommari delle antologie che quei periodici offrivano come strenna per rendere più appetibile l’abbonamento, sulle copertine dei libri di lettura e di premio, e in tutti i cataloghi delle più importanti case editrici del settore. Fu solo nel corso degli anni Ottanta che il fenomeno assunse una certa consistenza; ma è significativo che già nel decennio precedente, accanto alla ripubblicazione degli scritti pedagogizzanti delle «grandi firme» del Risorgimento italiano (da Caterina Franceschi Ferrucci a Giulia Molino Colombini e Luisa Amalia Paladini) cominciassero ad apparire testi di tono più colloquiale e «borghese», frutto di una generazione giunta alla maggiore età quando ormai il Regno d’Italia era cosa fatta, esplicitamente pensati per «insegnare a ben comportarsi» alle giovani dei tempi nuovi, e firmati quasi sempre da donne passate attraverso l’insegnamento, come educatrici in istituti privati, come maestre elementari, come insegnanti di scuole normali e superiori femminili.
Ma le virtù dell’alfabeto si manifestarono anche per altre vie, tanto più inaspettate in quanto finirono per assegnare ad alcune donne di cultura, per loro meriti speciali, ruoli e funzioni «di rappresentanza» da cui la legge escludeva a priori tutte le appartenenti al loro sesso: è il caso di Erminia Fuà Fusinato, delegata a rappresentare ufficialmente il comune di Roma alle cerimonie patavine del cinquecentesimo anno della nascita di Petrarca; di Aurelia Folliero de Luna, inviata dal ministero economico all’Esposizione universale di Parigi del 1878 con il compito di raccogliere informazioni sullo stato e sulle prospettive dell’istruzione agraria; e soprattutto di Anna Maria Mozzoni, incaricata dal ministro Francesco De Sanctis di rappresentare ufficialmente il governo italiano al Congresso internazionale per i diritti delle donne tenutosi a Parigi nel luglio dello stesso anno, e subito nominata presidente del prestigioso consesso, visto che nessun’altra poteva vantare un così alto riconoscimento. E se in quei casi la funzione di rappresentanza poteva essere giustificata dal valore eminentemente simbolico dell’incarico, cosa dire delle ispettrici governative che – prima con missioni ad hoc e poi in qualità di membri di un regolare ufficio ispettivo, ma sempre in base a nomine per regio decreto teoricamente precluse alle donne – furono inviate a controllare in nome e per conto dello Stato la condizione di conservatori ed educandati, istituti femminili di educazione e di carità su cui imperavano reti ecclesiastiche e notabilari, potenze del nome e della tradizione, del consenso popolare e dell’interesse privato?
I nomi, ancora una volta, sono di tutto rilievo e rimandano a donne di indubbia fede patriottica e di alto valore cultural-pedagogico, da Caterina Percoto a Erminia Fuà Fusinato, da Giannina Milli e Carlotta Ferrario a Brigitta Tanari Fava Ghislieri: anche se poi, al momento della istituzionalizzazione del corpo delle ispettrici nel 1875, alla valenza significante del nome si cominciarono a preferire competenze specifiche e un impegno più continuativo nell’ufficio. Le lettere e le relazioni che documentano la loro attività evidenziano la natura tutta politica degli interventi loro richiesti: raccontano di vere e proprie «battaglie di sovranità» da sostenere in terra infedelium; parlano di inesauste tensioni con il personale degli istituti; di scontri e giochi a rimpiattino con le loro dirigenti e con le autorità a cui esse rispondevano; di faticose trattative imbastite senza speranza di successo per tenere il più alta possibile l’autorevolezza dello Stato.
Colpisce, nelle loro cronache puntuali e accorate al tempo stesso, la forza di un senso di appartenenza allo Stato e di orgoglio nel rappresentarne il potere che non ci aspetteremmo da soggetti con diritti di cittadinanza tanto incerti, e tanto pervicacemente pensati e descritti come esclusi – per convenienza o per natura – da una presenza attiva e autonoma nella sfera pubblica. Così come colpisce che tali convinzioni continuassero a essere largamente condivise anche da uomini di governo che nel concreto non esitavano ad affidare a quelle «cittadine imperfette» incarichi che richiedevano una non comune sensibilità e abilità politica, oltre a doti di equilibrio, di controllo e di ragionevolezza che si era soliti proclamare assolutamente estranee al «genere femminile».
Fu nel breve arco di tempo compreso fra l’avvento al potere della Sinistra (1876) e il varo della nuova legge elettorale (1882) che il tema del voto alle donne conobbe una inedita fiammata di interesse, fino ad assumere un valore paradigmatico – più e prima che per le donne interessate a ottenere quel riconoscimento – per la configurazione della politica italiana e delle sue direttrici di marcia.
Il problema si era presentato, almeno in rapporto al voto amministrativo, fin dall’alba del nuovo Regno, quando un gruppo di gentildonne lombarde aveva avanzato la richiesta che venisse esteso a tutto il territorio italiano un diritto-privilegio di cui esse godevano in quanto suddite imperiali, così come le venete e – sia pure con modalità più restrittive – come le toscane soggette agli Asburgo-Lorena. Negli anni successivi la necessità (e l’utilità) di dare rappresentanza agli interessi patrimoniali di cui anche le donne potevano essere – ed erano – titolari uniche aveva riportato più volte in primo piano quel problema, prima e dopo l’esplicita esclusione contenuta nella legge elettorale amministrativa del 1865, in quanto erano in molti a ritenere che l’ammissione delle proprietarie avrebbe reso il corpo elettorale più organico alle élites economico-sociali del paese e dunque più efficace: una convinzione che si ritrova ancora nel progetto Nicotera del 1876, ma che già nella relazione della commissione parlamentare chiamata a discuterlo dovette fare i conti con una crescente consapevolezza della «politicità» degli enti amministrativi locali e del voto come «manifestazione di un atto individuale e personalizzato» (Bigaran 1985, p. 58).
Grazie al convinto favore del presidente della commissione, Benedetto Cairoli, quella ipotesi riuscì a sopravvivere anche nei progetti presentati nel maggio 1880 e nel novembre 1882 da Agostino Depretis, che parlava di un provvedimento avvalorato «dal consenso e dall’autorità di tutti i partiti», ma che evitava di soffermarsi sul montare dei dubbi e delle contrarietà a una inclusione percepita come riconoscimento della piena appartenenza individuale delle donne alla comunità civile e politica del paese, in evidente contraddizione con il carattere mobile della loro personalità giuridica, soggetta al principio dell’autorizzazione maritale. A chi legga in sequenza le discussioni e le relazioni di quel periodo non può sfuggire che le contrarietà all’ammissione delle donne al voto amministrativo crebbero col passare dei mesi: effetto senza dubbio della caduta delle speranze e delle tensioni riformatrici che avevano contrassegnato il primo ingresso di Cairoli al governo e la nascita della Lega della democrazia, ma anche del dibattito che accompagnò la messa a fuoco e il lungo iter parlamentare della nuova legge elettorale politica, con la sua insistenza sulla «capacità» come asse e snodo fondamentale per la determinazione di un corpo elettorale ampio, affidabile e fondato sulla «attitudine a migliorarsi».
In realtà, neppure il progetto di riforma della legge elettorale politica presentato nel 1878 sembrava chiudere le porte alla richiesta avanzata in una Petizione stesa l’anno prima dalla Mozzoni e firmata da centinaia di «signore» di varie città d’Italia che chiedeva di considerare le donne «per quello che erano veramente: cittadine, contribuenti e capaci, epperò non passibili, davanti al diritto di voto, che di quelle limitazioni che sono o verranno sancite per gli altri elettori» (Mozzoni 1975, p. 129). Ma di lì a poco discussioni e speranze si sarebbero infrante sullo scoglio della rinnovata «condanna all’esclusione» delle donne in nome non di una incapacità biologica, ma di una inconciliabilità fra i caratteri e i comportamenti richiesti dalla loro «esistenza sociale» e quelli funzionali all’esercizio della lotta politica. E il fatto che a sancirla fosse una commissione parlamentare presieduta da un politico autorevole e sicuramente liberale come Giuseppe Zanardelli rendeva quelle affermazioni ancora più amare e definitive. Ricca di comparazioni internazionali e di allegati statistici, la relazione che egli depositò alla Camera nello scorcio del 1880 insisteva sul carattere potenzialmente universale del diritto al suffragio riconosciuto dalla legge, in ottemperanza al principio democratico del voto come «diritto della persona», e sul versante maschile ammetteva limitazioni fattuali a quel diritto solo in quanto legate a precise e superabilissime contingenze storiche; ma il registro mutava non appena si veniva a parlare di donne, per le quali viceversa l’appello alle tradizioni giuridiche («Noi, gente di legge salica...») e a schemi identitari modellati sul millenario domi mansit, lanam fecit costituiva la premessa e l’alibi per passare dal mondo della storia a quello degli a priori o, come si diceva all’epoca, delle «presunzioni», eleggendole a criterio insuperabile di rigida separazione dei ruoli.
Non mi pare si possa dire che quella decisione sollevasse critiche e obiezioni, al di là della sdegnata Lettera indirizzata dalla Mozzoni a un relatore che si sperava più amico e all’approvazione di un discusso ordine del giorno a favore del voto politico alle donne da lei estorto al Comizio dei comizi, una sorta di «stati generali» della democrazia italiana convocati a Roma nel febbraio del 1881 per chiedere il suffragio universale: un’approvazione che fece scalpore soprattutto per la prontezza con cui uomini-simbolo della democrazia come Aurelio Saffi e Felice Cavallotti, Alberto Mario e Giovanni Bovio si preoccuparono di esplicitare il loro dissenso. È vero invece che nel corso delle discussioni di quegli anni, e in qualche misura grazie ad esse, venne prendendo forma e forza a livello di opinione pubblica colta un significativo spostamento di accento del «discorso sulla donna» – o meglio, e sempre più spesso, sulle donne – dal privato familiare al ruolo sociale, in nome della loro centralità nel «fare e riformare i costumi» e nell’imprimere orme incancellabili «nel regno delle coscienze e del sentimento» (Turchetti 1882, p. 163): un discorso che, anche per le donne di ceto medio, non escludeva più in modo tassativo la ricerca di spazi di autonomia rispetto alla famiglia, e di occupazioni che in qualche modo prescindessero da essa.
Le prospettive, comunque, restavano impervie, dal momento che in Italia anche il posto di lavoro più insignificante era ricercato da schiere di uomini pronti a difendere con le unghie e con i denti la loro primazia. Esse potevano occuparsi della corrispondenza e della contabilità per le attività commerciali della famiglia; potevano – a livello più alto – seguire corsi per levatrici, cercare di entrare nelle aziende dei telefoni e dei telegrafi, fare la maestra d’asilo e di scuola, l’istitutrice e l’insegnante di musica: e poco più. In ogni caso, sul finire degli anni Settanta, gli appelli di giovani donne alle loro consimili perché si adoperassero ad acquisire competenze da spendere sul mercato del lavoro, dotandosi in tal modo – come scriveva una giovane maestra fiorentina – di un capitale sicuro e utile «a loro stesse, alla famiglia, alla patria; la quale, quante più avrà braccia ed ingegni che producano, più crescerà in ricchezza e splendore» (Giovannini 1877, pp. 84, 88), cominciarono a infittirsi, insieme alla convinzione che tale obiettivo poteva essere raggiunto solo facendo leva su un’istruzione di base degna di questo nome, completata magari da appositi corsi professionali, a imitazione di ciò che si andava facendo da tempo un po’ in tutta l’Europa, e che anche alcune grandi città italiane avevano messo in cantiere (Soldani 1989).
Ma se qualche barlume di modernità cominciava ad accendersi nelle città maggiori del centro-nord, la sensazione che si ha scorrendo la documentazione disponibile è che gran parte del paese vivesse, per tutto ciò che aveva a che fare con le esperienze e gli orizzonti di vita delle donne che lo componevano, una situazione di sostanziale stallo, e che il fossato non solo fra città e campagna, ma fra città di diversa ampiezza e collocate in diverse aree del paese si stesse drammaticamente approfondendo. E dunque, nel momento stesso in cui proviamo a puntare l’obiettivo sulle novità che pure c’erano e premevano all’orizzonte per conquistarsi una qualche visibilità e legittimità, è giocoforza insistere una volta di più sul fatto che a caratterizzare la vicenda italiana di quegli anni è la vischiosità dei processi innovativi e l’estrema lentezza con cui essi riuscirono a diffondersi, a farsi mentalità, abitudini e prospettive condivise.
Al termine di questo rapido viaggio nell’universo della prima generazione di donne che vissero l’arduo consolidarsi dello Stato nazionale, è giocoforza concludere che il paesaggio (ancora assai poco esplorato) che si presenta davanti ai nostri occhi risulta caratterizzato dall’emergere di esperienze, iniziative, modalità di vita e culture che si erano lasciate alle spalle il mondo della cosiddetta tradizione e che guardavano con interesse, anche se con molta cautela, ai mutamenti apparsi all’orizzonte, ma che stentavano a diffondersi, finendo sempre più spesso per cozzare contro il muro costituito da uno stato di minorità giuridica femminile che nessun riconoscimento teorico di parità poteva contrastare, soprattutto in una fase di accelerato consolidamento di quelle strutture della politica che si era appena ribadito essere e dover restare estranee alle donne per il bene della società e della nazione. Quanto quella scelta pesasse, del resto, lo confermava, al chiudersi del periodo qui considerato, la vicenda della prima laureata in legge (1881), Lidia Poët, che – possedendo tutti i requisiti di legge e avendo fatto richiesta di iscrizione all’ordine degli avvocati – suscitò un vespaio di tensioni e di reazioni destinate a investire non solo gli ambienti giuridici, ma il Parlamento e l’intera opinione pubblica, e a concludersi con sentenze ostative pronunciate in base non solo a pregiudizi contro le donne, ma al loro effettivo stato giuridico, con conseguenze di lungo periodo sulla possibilità, per loro, di occupare spazi qualificati e di responsabilità in un mercato del lavoro già di per sé decisamente sovraffollato (Soldani 1991).
Nonostante tutto, però, se puntiamo lo sguardo sullo spazio pubblico informale e sui pur fragili segmenti di società civile che si stavano delineando qua e là per l’Italia, vediamo emergere segnali non equivoci di una tendenza delle donne non solo a essere presenti e attive sulla scena pubblica, ma a essere riconosciute come una presenza legittima e probabilmente utile: e non è un caso che il cuore e il motore di questo processo fossero piccole e medie borghesi almeno istruite e molto interessate alla carta stampata in quanto strumento principe per rompere le strettoie di una quotidianità altrimenti abbastanza povera di prospettive. Anche per questo sarebbe utile riprendere e approfondire il discorso sul crescente coinvolgimento delle donne nei periodici «generalisti» e nel mercato dei «libri per le famiglie» in qualità di produttrici e consumatrici di testi votati tanto nella forma quanto nei contenuti a costruire quella sorta di mediocritas non propriamente aurea di cui si stava appena cominciando a intuire tutta la pregnanza per la formazione di un «costume nazionale». Così come sarebbe utile far uscire dalla sfera della casualità informazioni e resoconti giornalistici che ci parlano della non banale conquista, da parte delle donne più autorevoli o più giovani e tenaci nel rivendicare la parità intellettuale della donna, della possibilità di parlare in pubblico come titolari di conferenze, di relazioni e comunicazioni in convegni «misti» o come interlocutrici nelle discussioni che le une e le altre provocavano. Anche se, una volta di più, prima di generalizzare, è opportuno porre mente alla distanza temporale che intercorre fra la prima conferenza in pubblico tenuta da una donna a Milano (1865) e a Napoli, dove bisognò aspettare il 1889 per vivere un’esperienza analoga, o all’abisso che separa i paesaggi urbani di molte città del Sud in cui – ancora negli anni Ottanta – a una signora della buona società non era dato neppure uscire a passeggio, e la scena proposta dal Circolo filologico fiorentino nella primavera del 1878, quando una colta signora «rimbeccò con nerbo di ragioni, brio ed eleganza, l’onorevole avvocato Barazzuoli» – un personaggio di primo piano della consorteria toscana – prendendosi gli applausi e l’ammirato consenso del folto pubblico presente (Turchetti 1878, p. 68).
Quello che si veniva delineando negli anni che videro scomparire dalla scena pubblica i grandi numi del Risorgimento italiano – da Vittorio Emanuele II a Garibaldi – non era il paesaggio tendenzialmente uniforme a cui pensavano i fondatori del Regno e le donne che in quel progetto avevano creduto e sperato. A caratterizzarlo erano piuttosto la discontinuità delle forme, la diversità delle reazioni agli input provenienti dal centro, e soprattutto la fragilità degli elementi che avrebbero dovuto assicurare la coesione dell’insieme, e non solo a causa del confluire sotto lo stesso orizzonte di storie troppo diverse per riuscire a costruire in così breve tempo un plot comune.
Come risulta chiaro quando si punti lo sguardo sull’universo femminile, periferico rispetto al cuore del potere e proprio per questo particolarmente segmentato, a rendere più difficoltosa la diffusione su larga scala della dignità civile e del ruolo sociale conquistato dalle poche in grado di farsi riconoscere lo status morale, se non giuridico, di cittadine, furono – e non possiamo dimenticarlo – sia l’esilità e la contraddittorietà dei diritti positivi a cui quelle conquiste potevano appoggiarsi, sia la lontananza siderale da tutte queste problematiche dei milioni di italiane alle quali perfino il senso di un simile appellativo risultava incomprensibile, quando non del tutto ignoto.
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