L'Italia della Riforma, l'Italia senza Riforma
Premessa1
In che modo e in che misura gli italiani parteciparono al movimento che fuori d’Italia produsse la Riforma e approdò alla formazione delle Chiese protestanti? Quali atteggiamenti assunsero i nostri antenati davanti a un’Europa nella quale queste Chiese si erano stabilizzate e radicate? La letteratura scientifica sul tema è oceanica: il fenomeno della partecipazione o non partecipazione della società e della cultura italiana al progetto di rifondare la Chiesa visibile di Cristo sulla base della sola Scrittura è stato esplorato in tutti i suoi aspetti dottrinali, in tutti i tornanti della sua periodizzazione e nelle biografie di una gran parte dei suoi protagonisti. Poste davanti a questa imponente letteratura scientifica, le due autrici del presente saggio hanno operato una doppia selezione: hanno concentrato la loro attenzione sulle due età nelle quali il fenomeno qui tematizzato ha massima visibilità nel panorama della storia nazionale – secolo XVI e secolo XVIII – e hanno optato per una focalizzazione dei momenti storiograficamente eminenti, i più sistematicamente indagati, di questa vicenda drammatica, i cui esiti hanno pesato gravemente e continuano a pesare sul destino del nostro paese. L’effetto di queste scelte risulta evidente nelle pagine che seguono: non tutte le aree del paesaggio nazionale, non tutti i protagonisti del dramma collettivo, non tutti gli studiosi – spesso eminenti studiosi – attivi in questo campo d’indagine, hanno trovato posto in questo saggio. In compenso le due autrici sperano di avere reso giustizia alla centralità del tema ‘Riforma/non Riforma’ per la coscienza collettiva del paese e di avere dimostrato la ricchezza delle prospettive che si aprono a questo tema per il futuro.
Dal punto di vista geografico, la diffusione delle idee protestanti in Italia è caratterizzata da vistosi squilibri di distribuzione. L’eresia si diffonde nell’Italia del nord – per esempio in alcuni centri del Ducato di Milano e della Repubblica di Genova–, ma in particolare nell’Italia nord-orientale. La documentazione più ricca e sistematica riguarda i territori della Repubblica di Venezia. A sud della Repubblica di Venezia troviamo gruppi ereticali organizzati nel Principato di Mantova, nella città di Modena, nella piccola Repubblica di Lucca, nella Repubblica di Siena. Nel Regno di Napoli solo la capitale e la Terra di Lavoro (Capua e Caserta) sono coinvolte nel movimento del dissenso d’ispirazione protestante2. L’intero Stato della Chiesa (ad eccezione di Bologna e Faenza), la Puglia, la Calabria (a eccezione delle comunità valdesi), intere aree del centro e del meridione restarono completamente impermeabili alle idee della Riforma? Questa domanda cruciale sarà affrontata nella sezione conclusiva di questa prima parte.
La carta qui riprodotta rispecchia la geografia politica dell’Italia dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559), che stabilizzò il dominio diretto, o predominio indiretto, della Spagna sulla penisola. Sono contrassegnati in tonalità più scura i centri nei quali abbiamo individuato dei movimenti protestanti di una certa consistenza numerica; la tonalità più chiara contrassegna invece i centri nei quali l’esistenza di un movimento filoprotestante è attestato da testimonianze isolate, o non sistematiche, e dove, di conseguenza, sarebbe azzardato cercare di quantificarne lo spessore numerico.
Nei centri nei quali siamo in grado di quantificare il movimento protestante, i numeri degli adepti della Riforma non superavano – se ci si rapporta allo stato attuale della ricerca – il 3% della popolazione (Venezia, Udine e i centri minori del patriarcato di Aquileia, Modena, Bologna, Lucca)3; nei centri per i quali la documentazione ha carattere frammentario, i gruppi di filoprotestanti dei quali abbiamo notizia avevano consistenza molto varia – 20, 30, 40, 80, 100 o più evangelici – e sono documentati in fasi molto diverse del cinquantennio 1530-1580, nel quale il movimento italiano compì la sua tormentata parabola (Feltre, Genova, Cremona, Vicenza, Verona, Treviso, Rovigo, Mantova, Ferrara, Faenza, Siena, Napoli, Caserta, per non menzionare centri minori)4.
La base documentaria di questi calcoli – e delle proiezioni numeriche che sono state fatte in base a questi calcoli – è costituita, nella maggior parte dei casi, dagli inventari dei processi dell’Inquisizione conservati negli archivi locali. Questo è un dato che occorre sottolineare, perché metodologicamente sospetto: spesso gli eretici sono stati censiti nelle singole città sulla base degli inventari dei processi, non sulla base dei fascicoli processuali stessi (è ovvio che i fascicoli processuali, analizzati nel loro contenuto, si traducono in bilanci numerici notevolmente diversi). Sulla base di questi inventari Andrea Del Col arriva alla cifra di circa 650 sentenze capitali eseguite per il reato di eresia ‘luterana’, di circa 15.000 aderenti alle dottrine della Riforma processati o imputati genericamente nei tribunali dell’Inquisizione e di circa 40.000 simpatizzanti del movimento filoriformatore5. Per prudenza facciamo proprie le proiezioni quantitative di Del Col al loro livello più basso, perché siamo consapevoli che si tratta di prime approssimazioni, probabilmente per difetto, destinate a subire modifiche anche sostanziali.
Non insistiamo sullo spessore quantitativo del dissenso religioso italiano perché, a nostro avviso, questo dato non è importante come indicazione numerica: è importante come dato qualitativo. I circa 400 ‘eretici’ processati nella città di Lucca (Simonetta Adorni Braccesi) o i 774 ‘luterani’ che comparvero davanti al tribunale di Venezia (John Martin) veicolano un messaggio storiograficamente chiarissimo: essi costituiscono una minoranza talmente esigua (0,5% della popolazione urbana), che nessun disegno di conquista di spazi sociali, nessuna strategia di ceto, nessun calcolo razionale costi/benefici può essere loro attribuito – né nel senso di una Gemeindereformation (Blickle) né nel senso di Reichstadt und Reformation (Moeller), né nel senso delle Reformations teorizzate da Brady6. Nelle comunità italiane lo storico si trova di fronte a impulsi religiosi allo stato puro, non riducibili ad altro. Queste piccole minoranze erano mosse da bisogni di coscienza, totalmente «irrazionali» (Blickle): le loro avventure spirituali comportarono, per loro, ostracismo sociale, declino economico, cospicue perdite finanziarie, esilio, bando, prigionia, in non pochi casi la morte. Invece di essere l’espressione di una razionalità collettiva (Blickle)7, la parabola della Riforma in Italia è l’espressione di irrazionalità individuale. Qui lo storico non può evadere dalla dimensione religiosa del fenomeno.
Qualità, non quantità: in questo consiste la forza del movimento filoprotestante italiano. E la qualità, non la quantità, è il punto di forza della documentazione a esso pertinente. La bellezza – oseremmo dire – letteraria è il connotato principale dei processi inquisitoriali italiani, che pure sono documenti rilevanti anche per quantità. Nei tribunali dell’Inquisizione i dissidenti italiani scrivono pagine di forte e immediata eloquenza: calzolai e aromatari, tessitori e maestri di scuola, spadai e venditori ambulanti, preti e frati, gentildonne e mogli di artigiani, gioiellieri e tipografi, imbianchini, pittori, librai, rievocano pellegrinaggi e storie di voti, lumi accesi e spenti davanti a immagini devote, scene di vita matrimoniale e chiacchiere di bottega, raccontano di letture collettive, ricordano dibattiti sul peccato, sulla confessione, sul purgatorio, sui divieti alimentari, svoltisi in chiesa, in strada, in piazza, nel vicinato8. I notai del Santo Uffizio, uomini dotati di raffinata cultura cancelleresca, registrano, spesso alla lettera, le risposte degli inquisiti, le inflessioni dialettali delle loro frasi, i loro imbarazzi, i loro silenzi – anche le loro grida e implorazioni sotto la tortura9. Questi verbali riescono a trasmettere, oltre i secoli, la tensione che vibra nelle udienze, talvolta il prorompere del bisogno di parlare, di rendere testimonianza, da parte di questi uomini e donne10.
Non è qui possibile cedere alla tentazione di raccontare qualcuna di queste storie11. Il nostro compito, in questa prima parte, sarà piuttosto di delineare una cronologia del movimento nelle sue cesure fondamentali e proporre una fisionomia dei suoi protagonisti in base al ruolo che essi vi giocarono.
Abbiamo individuato quattro fasi del movimento evangelico italiano: la fase della mobilitazione teologica (1518-1542), la fase della proliferazione spontanea (1542-1555), la fase della repressione (1555-1572), la fase dell’estinzione (1572-1588). Ne delineiamo sommariamente alcune caratteristiche12.
La prima fase va dal 1518 – anno della pubblicazione della prima edizione italiana di un’opera di Lutero – al 1542, anno in cui alcuni predicatori e teologi italiani di massima popolarità (per es. Bernardino Ochino, generale dei Cappuccini) lasciano l’Italia sotto la minaccia della persecuzione13. I veri protagonisti di questa prima diffusione sono i frati mendicanti, in prima fila gli Agostiniani. Sono professionisti della teologia, conquistati dall’audacia intellettuale della dottrina della salvezza sola fide, sola gratia, sola Scriptura. Il primo tentativo di contarli era arrivato al modesto numero di 35; attualmente la lista supera il centinaio14. I frati ‘luterani’ predicavano, come disse, Bernardino Ochino, il più famoso tra loro, «Cristo in maschera»: avevano elaborato uno stile di predicazione cauta, che evitava ogni attacco diretto all’autorità ecclesiastica. Il messaggio della Riforma si diffuse in Italia, per questa via e per via di libri15, come un messaggio di consolazione, di liberazione e di gioia: la parola chiave era «misericordia di Dio»16.
La seconda fase del movimento va dal 1542 – data della fondazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana – al 1555, anno dell’ascesa al soglio pontificio di Paolo IV. Protagonisti di questa seconda fase sono gli artigiani, seguiti dai maestri di scuola e dai bottegai o commercianti. La documentazione di Venezia, Modena, Imola, Bologna, Genova e Siena rivela l’esistenza, in questo periodo, di una quarantina di gruppi dinamici e flessibili che diffondevano apertamente, nelle botteghe, per le strade e nelle piazze, il messaggio protestante. Le forme di comunicazione più frequentemente attestate sono la partecipazione comune ai riti religiosi e discussione delle prediche (anche con il predicatore del giorno), la propaganda nelle botteghe, in chiesa e nelle confraternite, la lettura in comune di libri (la Bibbia, ma non solo). Vi sono anche tentativi di trasformare la convinzione in azione (organizzazione pubblica di un banchetto di carne in tempo di quaresima; contraddizione in pubblico, in chiesa, del predicatore; scommesse pubbliche sull’esistenza del purgatorio; introduzione di modifiche nella liturgia della messa)17. Due vescovi, Vitttore Soranzo e Pier Paolo Vergerio, tentano di introdurre la Riforma, gradualmente, nelle rispettive diocesi di Bergamo e di Capodistria18. L’ala radicale convoca un concilio anabattista a Venezia19. La parola d’ordine che segna di sé questo periodo è «Vangelo» – come segno di riconoscimento reciproco, ma anche come oggetto, come libro. Lo troviamo dappertutto: legato con una catenella al banco di lavoro di un falegname, nelle case private, nelle riunioni di artigiani (che si incontrano per mettere a confronto il testo italiano con il latino pur non conoscendo il latino), nelle chiese, sotto i portici delle città. Viene letto, commentato, discusso, parafrasato, ampliato, manipolato e anche riscritto. Si inventano parabole evangeliche20.
La terza fase del movimento, che va dal 1555 al 1572, è contrassegnata dalla presenza sul soglio pontificio di due papi inquisitori, Gian Pietro Carafa (Paolo IV) e Michele Ghislieri (Pio V). Definire mite la repressione che questi due uomini di Chiesa avevano voluto come cardinali, e che misero in atto come pontefici, è un errore storico. Spie dell’Inquisizione infiltrarono i gruppi protestanti, l’impiego della tortura nei processi divenne comune21, il sacramento della confessione fu piegato a strumento di repressione del dissenso22. Alla persecuzione il movimento reagì con la settarizzazione. I filoprotestanti serrarono i ranghi e si allinearono secondo direttrici confessionali. Fu soprattutto la Chiesa di Ginevra a mantenere i contatti con questi gruppi dissidenti. Il movimento polifonico e flessibile degli anni Quaranta si trasformò negli anni Sessanta in un reticolato di conventicole, prevalentemente orientate verso Ginevra. Abbiamo tracce di questa organizzazione clandestina: messaggi in codice, parole d’ordine segrete, comportamenti nicodemitici23. L’eresia si ritirò negli spazi privati: troviamo una serie di chiese domestiche, organizzate su base familiare24. La tensione esplose in casi d’iconoclastia, peraltro isolati25. Gli interrogatori sotto tortura rivelano un aspetto particolarmente drammatico di questa fase del movimento: l’attesa di un segno, la fede che Dio non avrebbe abbandonato i suoi, l’invocazione – sotto tortura – di un miracolo26.
La quarta fase va dal 1572, cioè dalla morte di Pio V, fino al 1588, una data che abbiamo scelto per il suo valore simbolico. Il 1588 è la data dell’ultima esecuzione capitale per eresia protestante che è nota nell’ambito della documentazione veneziana. In questa fase, infatti, non è possibile individuare cesure pubbliche. Il quadro fenomenologico generale segnala un declino numerico dei casi di eresia e un corrispondente aumento dei casi di magia e stregoneria, che diventano predominanti a partire dagli anni Ottanta. Il reclutamento di nuovi simpatizzanti della causa evangelica è diventato troppo pericoloso, i filoprotestanti che compaiono davanti ai tribunali sono sopravvissuti delle fasi precedenti. Esprimono il loro dissenso in una società permeata da valori e ideali postridentini: a Lucca nascono confraternite finalizzate a smascherare gli ‘eretici’, a Faenza l’avversione contro i ‘luterani’ genera nuove forme di culto27. Il dissenso sopravvive a livello individuale o negli spazi privati, familiari. Le fonti rivelano casi di complicità ereticale tra padre e figlio o tra fratelli. Fanno eccezioni le piccolissime comunità valdesi delle valli alpine, sole depositarie dell’esperienza evangelica in Italia (le comunità valdesi della Calabria erano state sterminate negli anni Sessanta e Settanta)28. È possibile, nel caso di Lucca è sicuro, che negli spazi privati il dissenso sopravvivesse oltre la data del 158829.
Questo dissenso tendeva ora ad aggregarsi intorno ad oggetti materiali e spirituali: uno o più libri, un manoscritto, una poesia imparata da bambini. È un attaccamento che ha qualcosa di autolesionistico, del tutto irrazionale. Troviamo, in questa fase, fenomeni di camaleontismo religioso – artigiani itineranti che si adattano alla confessione del paese dove lavorano, adottano le pratiche religiose del contesto sociale – e fenomeni di sincretismo confessionale30.
Questa che abbiamo rapidamente delineato nel paragrafo soprastante è quella che Scribner avrebbe chiamato people’s Reformation, il movimento filoprotestante visto dal basso31. Ma come si presenta il movimento visto dall’alto? L’apertura dell’archivio centrale dell’Inquisizione, nella Città del Vaticano (1998), ha reso possibile lo studio di quello che è rimasto della documentazione romana. I documenti che massimamente avrebbero interessato gli storici, la massa dei processi, non è sopravvissuta32. I pochissimi processi sopravvissuti – il processo del cardinale Giovanni Morone, del protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, del vescovo di Bergamo Vittore Soranzo –, studiati e pubblicati da Massimo Firpo, costituiscono il contrappunto romano ai processi conservati negli archivi periferici, quelli che costituiscono la nostra fonte per il movimento visto dal basso33.
Morone fu arrestato per eresia luterana nel 1557 e imprigionato per due anni, e solo la morte di Paolo IV gli evitò un carcere più lungo e diede luogo a una sentenza assolutoria; Carnesecchi subì tre processi per la stessa accusa, il terzo dei quali si concluse con una sentenza di relapso, cioè con la condanna a morte, eseguita a Roma nel 1567. La pubblicazione di questi documenti e la loro analisi illuminano sì i reticolati del dissenso religioso, ma illuminano anche di più la storia del papato come istituzione di potere e la dialettica interna per la conquista di questo potere. I processi ‘romani’, a eccezione del processo Soranzo, sono processi politici.
Che il cardinale Gian Pietro Carafa (papa Paolo IV, 1555-1559) e il cardinale Michele Ghislieri (papa Pio V, 1566-1572) si servissero dell’istituzione del Santo Uffizio, che ambedue presiedettero, come di uno strumento per pervenire al pontificato; che facessero un uso efficace della segretezza e dell’assenza di meccanismi di controllo del tribunale per raccogliere dossier d’accusa contro i potenziali concorrenti al papato; che dottrine protestanti come quella della giustificazione diventassero anch’esse armi di una lotta di potere che permise al Carafa di imprimere ‘una energica svolta controriformistica’ agli indirizzi politici e religiosi della Chiesa di Roma, possono essere considerati dati di fatto acquisiti dopo la pubblicazione dei grandi processi e gli studi a essi connessi34.
La fisionomia assunta dal papato e dalla Chiesa tramite papi inquisitori non appare un esito necessario, ma il risultato di una lotta di potere nella quale armi teologiche e dottrinali furono usate come strumento di eliminazione degli avversari politici.
La sostanza teologico-religiosa dei processi inquisitoriali di Morone e di Carnesecchi è inversamente proporzionale alla loro mole. Le 5.313 pagine di stampa di grande formato alle quali i due processi ammontano sono un coacervo di schermaglie legali e di ammissioni elusive35. L’esilità della componente propriamente religiosa di tale documentazione ha posto Firpo, i suoi allievi e i suoi collaboratori, davanti a un problema cruciale: conferire sostanza teologico-dottrinale, ma anche esperienziale, a questi due capitoli di storia della Chiesa. In Juan de Valdés (m. nel 1542), uno spagnolo residente a Napoli dal 1534, già largamente studiato, Firpo ha individuato il teologo di una Riforma endogena, non esclusivamente dipendente dalla teologie e dalle ecclesiologie transalpine. La matrice concettuale di Valdés è stata tradizionalmente additata nell’alumbradismo spagnolo, una forma di spiritualismo alla cui elaborazione avevano contribuito gli ebrei convertiti della penisola iberica, che praticavano una religiosità semplificata e interiorizzata. Il programma valdesiano di Riforma sarebbe confluito, nella sua diramazione principale, nell’esperienza dei cosiddetti ‘spirituali’, il circolo dei seguaci della dottrina della giustificazione per la fede raccolto intorno al cardinale Reginald Pole, allora governatore del Patrimonium Petri a Viterbo. Nel vocabolario esoterico proprio di questi iniziati, il circolo veniva designato come ecclesia Viterbensis. Qui le ricerche di Firpo si sono saldate con quelle di Gigliola Fragnito, che ha ricostruito il profilo e la dialettica interna del partito degli ‘spirituali’36.
Una ‘Riforma italiana’: questo il concetto verso il quale convergono le ricerche di Firpo e dei suoi allievi. Tramite un’analisi raffinata degli scritti di Valdés e una ricostruzione oculatissima del reticolato relazionale che collegava Pole a Morone, a Ochino, a Carnesecchi, questa Riforma mediterranea è stata tratteggiata nel suo programma teologico ed ecclesiologico e nella dinamica della sua diffusione. Attraverso il trattato sul Beneficio di Cristo, che Firpo riconduce a una matrice valdesiana, la teologia di Valdés avrebbe lasciato la sua impronta sull’intero movimento filoriformatore in Italia e sarebbe debordata fuori d’Italia37. La versione tutta interiorizzata che Valdés e i suoi dettero della dottrina della giustificazione per la sola fede, la capacità di questa dottrina di coesistere con la struttura ecclesiale vigente, senza provocare rotture, la legittimazione della simulazione e dissimulazione religiosa e la pratica corrispondente (‘nicodemismo’)38 facevano di questo movimento una creazione che appare – nella ricostruzione di Firpo – estremamente suggestiva e affascinante, ma – nella nostra interpretazione – di scarsa presa sulla realtà vissuta, ecclesiale e sociale: che specie di Rifoma fu quella che non riformò nulla?39
L’occasione di una verifica della tesi di Firpo è stata offerta da un finora mal conosciuto capitolo di storia italiana, quello del vescovo Soranzo. Sottoposto a due processi inquisitoriali nel periodo tra il 1550 e il 1558, questo patrizio veneziano si sottrasse all’esecuzione di una sentenza di condanna solo grazie alla morte40. Sotto la sua guida pastorale la diocesi di Bergamo fu teatro di un guardingo eppure lucido tentativo di Riforma (1545-1550). L’ispiratore di questa Riforma era Lutero; il modello pastorale presente a Soranzo era quello proposto dalla confessione augustana. A nostro avviso, la matrice evangelica dell’iniziativa del Soranzo a Bergamo è altrettanto esplicita, e i suoi esiti altrettanto disperati, quanto lo è il tentativo parallelamente intrapreso dal vescovo Vergerio nella diocesi di Capodistria41.
Staccarsi dal concetto di una Riforma valdesiana riesce assai difficile allo storico di Morone e di Carnesecchi: e tuttavia Firpo riconosce, in una monografia straordinariamente ben documentata, che «le posizioni [...] ambigue dei cosiddetti spirituali», vaganti «nei labirinti del nicodemismo», avevano perso «il filo di ogni concreta azione politica» e di conseguenza – nostro commento – ogni efficacia di rinnovamento ecclesiale. Se l’azione pastorale del vescovo adottò consapevolmente i parametri evangelico-luterani era perché con i parametri di Valdés non si poteva fare nessuna riforma42.
Alla totale sconfitta e repressione del movimento di Riforma in Italia corrisponde la più duratura vitalità dell’esperienza degli italiani che lasciarono l’Italia per vivere la loro esperienza religiosa all’estero.
Il libro seminale della ricerca, "Eretici italiani del Cinquecento" di Delio Cantimori (1939), si propose l’obiettivo di immettere l’Italia nel panorama europeo della Riforma, conferendole una sua fisionomia specifica43. Ma di quale Italia e di quale Riforma si trattava? Dell’Italia «ereticale» il libro delineava un panorama variegato, affollato di profeti o pseudo-profeti, di monaci apocalittici o inventori di sette avventurose, di visionari, di mistici, di utopisti. Il punto focale di questo panorama composito era però costituito da un gruppo di personaggi, definiti come «ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiastica». Le esperienze religiose ricondicibili a una o all’altra identità confessionale, insomma, non interessavano Cantimori: gli italiani che si integrarono nelle Chiese protestanti (Pietro Martire Vermigli, Pier Paolo Vergerio, Agostino Mainardi, Giulio da Milano) non ottennero da lui che un’attenzione marginale: i suoi eretici erano gli italiani che non si integrarono, i dissidenti permanenti, gli insofferenti di ogni disciplina confessionale44. Il libro immise nella discussione scientifica un gruppo di personaggi, eredi della tradizione umanistica della critica testuale – Camillo Renato, Celio Secondo Curione, Giorgio Biandrata, Lelio e Fausto Sozzini, Matteo Gribaldi Mofa, Jacopo Aconcio, Francesco Betti, ecc. –, che nelle comunità protestanti nelle quali si erano rifugiati dettero voce alla causa della tolleranza religiosa, della libertà di coscienza e del razionalismo critico nell’interpretazione della Scrittura. Proprio per questo si trovarono costretti ad abbandonare, in alcuni casi, le comunità d’accoglienza – Basilea, Ginevra, Zurigo –, per fondare in Polonia o in Transilvania comunità d’ispirazione radicale, antitrinitaria e per molti aspetti affine all’anabattismo. L’ars dubitandi e la dottrina della tolleranza a essa connessa, della quale questi personaggi furono i promotori insieme a Sebastiano Castellione, venivano presentate da Cantimori, alla fine della sua opera, come l’anello di congiunzione tra queste esperienze italiane e la critica delle confessioni che si delineò in Olanda e in Inghilterra nei secoli XVII-XVIII, e cautamente valorizzate come un precorrimento delle dottrine dell'Illuminismo.
"Eretici italiani del Cinquecento" centrò il suo obiettivo: assegnare all’esperienza italiana della Riforma un ruolo da protagonista nella Kulturgeschichte d’Europa. Ma la tesi che, dal punto di vista intellettuale, gli eretici italiani avessero assunto posizioni più avanzate rispetto ai protagonisti della Riforma magisteriale lasciava aperto – in primo luogo per Cantimori stesso – un problema concettuale: il fatto cioè che le finezze esegetiche e le arditezze speculative degli eretici non avevano avuto alcuna presa sulla vita individuale e collettiva dei loro connazionali. Nel compito di modificare i parametri di valore e i codici di comportamento delle moltitudini degli italiani e delle italiane rimasti in Italia, gli eretici avevano fallito.
Ritorniamo per un momento alla carta geografica che, come si è detto sopra, evidenzia un vistoso squilibrio della diffusione delle idee protestanti in Italia. Questo squilibrio è connesso con lo stato delle fonti. Quella principale per la ricostruzione della geografia dell’Italia evangelica, i processi dell’Inquisizione, fornisce una distribuzione molto irregolare nell’area nazionale.
Sennonché il ‘luterano’ italiano non si incontra solo in tribunale: s’incontra anche dal notaio. La stretta connessione esistente tra il testamento e la prospettiva della morte fa del testamento una specie di professione di fede. La fonte testamento è una delle più densamente, sistematicamente, presenti negli archivi di Stato italiani. Usare il testamento come indicatore religioso significa porre le premesse per un censimento del movimento filoprotestante più sistematico di quello fatto in base ai processi dell’Inquisizione, in quanto applicabile a larga parte del territorio nazionale.
Anticipo qui i risultati di un sondaggio che chi scrive ha avviato in tre centri minori del dominio della Repubblica di Venezia – Asolo, Cittadella, Bassano. Dalla documentazione conservata nel triangolo costituito da queste tre comunità è stato ricavato un modello di testamento evangelico applicabile ad altre aree d’Italia45.
Assumiamo come parametro di confronto il testamento cattolico nella sua formulazione standard. Conservati in diecine di migliaia di esemplari negli archivi d’Italia46, i testamenti cattolici formano un complesso documentario che, per quello che riguarda la sfera del sacro, ha una notevole omogeneità. Prescindendo dalle formule introduttive fortemente standardizzate, il testamento comincia con le disposizioni che riguardano la salvezza dell’anima e che sono caratterizzate da una tripartizione piuttosto costante:
la commendatio animae («la raccomandazione dell’anima»); le disposizioni relative al corteo funebre e al seppellimento; i legati pii.
La commendatio animae ritorna in formulazioni simili o corrispondenti nella gran maggioranza dei testamenti rogati da un notaio: il testante raccomanda la sua anima a Dio, alla gloriosa Vergine Maria e a tutti i santi, o «a tutta la corte celestiale» (spesso vengono citati individualmente uno o più santi patroni, ovvero santi che sono oggetto della devozione personale del testante). Alla commendatio animae seguono le disposizioni relative al funerale e al seppellimento. Frequente è la richiesta del seppellimento in tonaca monastica, in particolare nella tonaca francescana; il testante chiede spesso la messa in scena di un funerale solenne, con accompagnamento di candele e la partecipazione di intere confraternite, conventi di frati, orfani ospitati in istituzioni di carità. In un testamento veneziano del 1548, che costituisce un esempio rappresentativo di questa categoria, la testante chiede di essere sepolta a S. Stefano dove giacciono tutti i componenti della sua famiglia, dispone che siano dette cento messe prima che il suo corpo sia sotterrato, precisa che al suo funerale deve partecipare il capitolo di S. Trovaso, che venti pizzocchere della Madonna del Carmine e i bambini dell’Ospedale degli incurabili debbano accompagnare il suo corpo: tutto questo «perché – commenta – non voglio pompe»47.
Le disposizioni per il funerale sono di regola strettamente connesse con i lasciti pii, i quali costituiscono una componente obbligata di ogni testamento cattolico. Sui lasciti pii torneremo più avanti.
Le divergenze tra un testamento cattolico e un testamento evangelico si manifestano nel diverso orientamento di queste tre componenti letterarie a carattere religioso. Le differenze caratterizzanti investono appunto i tratti che abbiamo appena menzionato.
La commendatio animae. Il testante ‘luterano’ fa uso di una commendatio animae più articolata del testante cattolico: su questo punto gli sta a cuore esprimersi con precisione. Non fa parola della Vergine e non si affida ai santi, tanto meno invoca il proprio santo patrono. Raccomanda invece la sua anima alla misericordia di Dio per il sangue di Cristo. Delle molte formule incontrate si cita solo un esempio: «Raccomanda umilmente e devotamente la sua anima alla misericordia di Dio onnipotente, pregandolo che per la passione e per i meriti della sacrosanta passione di nostro Signore Gesù Cristo abbia compassione della sua anima e l’accolga con benignità e clemenza» (Cittadella, 1541)48.
Le disposizioni relative al funerale e alla sepoltura. L’evangelico non si dà cura di organizzare il suo funerale, del quale spesso non fa menzione. Se dà disposizioni sul funerale, è per chiedere che esso si svolga nella massima semplicità. Troviamo formule di questo tenore: «Ordino che le mie esequie avvengano absque pompa; aborrisco la superbia e la pompa mondana, desiderando esser sepolto positivamente solum con il capitolo della mia contrada», e simili.
Destinazione dei lasciti pii. Il testamento cattolico contiene di regola un certo numero di lasciti pii. Quasi obbligatorio è lo stanziamento di una somma per la celebrazione di messe di San Gregorio o della Madonna; inoltre troviamo regolarmente lasciti per la celebrazione periodica di messe in esequie, per lucrare indulgenze, per finanziare pellegrinaggi a Loreto, Assisi, Roma, ecc., tutto «pro anima mea»49. Nel testamento protestante i lasciti «pro anima mea» mancano quasi completamente. I «pauperes Christi» sono i soli beneficiari dei lasciti pii; e si tratta di lasciti che possono essere ingenti, specialmente se il testante non ha figli. La tendenza a convogliare parti cospicue del patrimonio familiare verso i poveri e i bisognosi è particolarmente evidente nei casi, non rari, in cui esistono due testamenti, rogati a poca distanza l’uno dall’altro: il secondo testamento tende a beneficiare i poveri in misura notevolmente più considerevole del primo. Esempi significativi: i due testamenti successivi della moglie di un notaio di Cittadella, ‘eretica’ (28 marzo 1541 e 1 dicembre 1541), e i due testamenti paralleli del notaio suo marito, anche lui ‘eretico’ (8 luglio e 2 novembre 1541)50.
Solo il testamento che presenta tutti e tre questi contrassegni può essere considerato evangelico, ossia: la formula della commendatio animae, incentrata nell’appello alla misericordia di Dio per la passione di Cristo; la scelta di un funerale dimesso e in sordina; la sostituzione dei «pauperes Christi» a membri del clero come beneficiari dei lasciti pii.
E se un testamento presenta solo due contrassegni di religiosità evangelica, i primi due, come è il caso di testamenti veneziani segnalati da Federica Ambrosini?51. È molto probabile che questi testamenti di tipo evangelico ‘spurio’, siano testamenti ‘nicodemitici’, cioè testamenti di filoprotestanti che dissimulavano le loro convinzioni religiose per tutelare sé stessi e le loro famiglie. Non è un caso che questo tipo di testamento spurio s’incontri negli anni in cui la repressione controriformistica del dissenso religioso in Italia si fece più dura.
Quando però i contrassegni del testamento evangelico sono presenti tutti e tre, allora esso è da considerare un indicatore attendibile della posizione religiosa del testante. Fuori del triangolo Asolo-Bassano-Cittadella la validità di questo modello è confermata dai testamenti rogati dal notaio eretico fiorentino Francesco Puccerelli52, oltre che da testamenti padovani53 e da numerosi esempi veneziani54. Anche i testamenti, a noi pervenuti, di alcuni esuli religiosi italiani – il testamento di Isabella Bresegna, l’unica donna che lasciò l’Italia da sola, per ragioni di coscienza del 156655, e quello di Celio Secondo Curione, Basilea, terminus post quem 154656 – confermano, mutatis mutandis, la validità del modello.
Il carattere ‘eretico’, non conformista, del testamento che abbiamo definito ‘evangelico’ non sarebbe sfuggito a nessun notaio del tempo. Il notaio norditaliano, personaggio fornito di cultura umanistica e giuridica, sapeva riconoscere il carattere ereticale di un documento altamente significativo per la vita di coscienza come era il testamento. Inoltre il notaio era obbligato per legge – almeno nella Repubblica di Venezia – a favorire gli interessi della Chiesa tradizionale, ricordando a ogni testante l’opportunità di fare lasciti a luoghi e istituzioni pie. Anche un notaio distratto avrebbe immediatamente registrato l’anomalia che, su questo punto specifico, caratterizzava i testamenti che abbiamo definito evangelici. Perciò l’’eretico’ norditaliano salvaguardava sé stesso e la sua autonomia di decisioni dettando il suo testamento a un notaio delle sue stesse idee57.
Dietro il testamento eretico non olografo, dunque, si intravede la figura del notaio eretico. Allo stato attuale della ricerca si deve prendere in considerazione la tesi che le cancellerie di alcuni notai fungessero da gangli del reticolato protestante e da centri di irradiazione delle idee della Riforma. Il fenomeno venne registrato anche dai contemporanei58.
A conferma della ricchezza di informazioni che gli atti dei notai forniscono allo storico del movimento protestante italiano, possono essere citati i casi di due notai, gli atti dei quali sono conservati negli archivi notarili di Bassano, Asolo e Cittadella. Sono due notai dai nomi famosi, almeno per gli storici della vita religiosa italiana del Cinquecento: Francesco Spiera e Benedetto del Borgo.
Benedetto del Borgo è un vescovo anabattista, uno dei principali protagonisti del movimento anabattista nel Veneto, giustiziato e bruciato a Rovigo nel 1551 – la sua è una delle prime condanne a morte del movimento ereticale italiano59. Francesco Spiera è nome ancora più famoso: si tratta dell’eroe negativo del movimento filoprotestante italiano, il protagonista emblematico di un’esperienza-limite che ha appassionato gli storici da 150 anni e che qui non sarà il luogo di ricapitolare60.
Cinque fascicoli di rogiti di Francesco Spiera, per un totale di 157 atti (1529-1547), e quattro fascicoli di Benedetto del Borgo (1542-1549), finora rimasti totalmente ignoti agli studiosi, ci offrono una serie d’istantanee socio-psicologiche di questi protagonisti del movimento protestante, piccole scene di una vita professionale che è una continua, ininterrotta professione di fede61. La copertina dei registri di Benedetto del Borgo, per esempio, è decorata con un disegno a penna del Golgota, al di sotto del quale un cartiglio recita: «In te Domine speravi, non confundar in Aeternum». All’interno del registro il nome «Jesus» campeggia in testa a ogni foglio62. «Non nobis Domine non nobis sed nomini tuo da gloriam» troviamo reiterato due volte, in mezzo ad altre citazioni bibliche, sulla copertina del registro di un altro notaio eretico di Asolo, Felice Baseggio63.
Non solo il testamento protestante, anche il notaio protestante deve entrare come elemento costitutivo nel futuro panorama storiografico del movimento italiano.
Un allargamento dell’indagine che riguarda il movimento filoprotestante italiano agli archivi notarili, per sondaggi, è destinato a introdurre notevoli modifiche nel quadro attuale. Dal punto di vista quantitativo, per esempio, il numero dei filoprotestanti di Asolo, Bassano e Cittadella, ricavabile dai contemporanei processi del Santo Uffizio, lievita notevolmente se si tiene conto delle fonti notarili. Anche il consenso sociale che circonda l’eretico, o almeno il notaio eretico, risulta considerevole. Fra i clienti di Francesco Spiera e di Benedetto del Borgo figurano i rappresentanti del notabilato locale. Le massime autorità civili di Cittadella e di Asolo – i podestà veneziani – figurano tra i clienti di notai notoriamente eretici. Proprio sedendo alla tavola del podestà Francesco Spiera può permettersi di confutare pubblicamente la confessione auricolare: questo significa che il podestà di Cittadella, un patrizo di casa Gradenigo, presta un orecchio benevolo alla propaganda protestante di Francesco Spiera. Lo stesso atteggiamento si nota nel podestà di Asolo, Francesco Nani, nei confronti di Benedetto del Borgo64.
Il coinvolgimento del potere politico era la condizione preliminare per l’affermarsi del movimento di Riforma in Italia, o almeno per la tutela di uno spazio nel quale un diverso linguaggio della pietà e una diversa dimensione della vita di coscienza potessero dispiegarsi e sopravvivere. Prospettive di questo genere si intravedono effettivamente nella Repubblica di Venezia e nell’Italia centro-settentrionale negli anni Quaranta del Cinquecento. Una principessa di sangue reale, Renata, duchessa di Ferrara, finanzia sistematicamente il movimento filoprotestante e fa scudo ai perseguitati con la sua autorità65. Nei territori della Repubblica di Venezia, nobili e signori feudali organizzano un’insurrezione filoprotestante66; a livello di governo si prende in considerazione la possibilità di un’alleanza con la lega di Smalcalda. Nella Repubblica di Lucca, il ceto dirigente è fortemente infiltrato di ‘eretici’ che più tardi, sotto il regime dell’Inquisizione, prenderanno la via di Ginevra67. Ma la vittoria di Carlo V sulla lega di Smalcalda (1547) e soprattutto l’avvento sul soglio pontificio di Gian Pietro Carafa (1555) mettono fine a queste tentazioni.
Non sembra plausibile che future ricerche possano cambiare il quadro del potere politico e della sua disponibilità a tutelare il movimento protestante. L’auspicabile esplorazione degli archivi notarili alla ricerca dei testamenti evangelici potrà cambiare lo spessore quantitativo dell’adesione degli italiani alle idee della Riforma e allargare il quadro geografico del dissenso, ma solo a livello di sensibilità individuale e di scelte personali, destinate comunque, nell’Italia dell’Inquisizione, a essere perseguitate e represse.
La cultura italiana di metà Settecento è ancora fortemente condizionata dal tabù confessionale. Citare gli autori protestanti – sistematicamente indicati nell’Indice dei libri proibiti – o addirittura apprezzarne pubblicamente i contenuti è cosa ritenuta ancora da molti disdicevole, per non dire altamente sospetta. I censori romani condannano «l’uso soverchio di libri ed autori o dannati, o sospetti», sollecitano gli autori a «premunire il lettore ed avvertirlo della cautela con la quale si debbono leggere, massimamente nelle materie, e luoghi pericolosi», impongono che ci «si astenga dal citarli, e molto più dal lodarli»68. Il confronto con la cultura protestante, dunque, non era facile. Ma si sbaglierebbe a dedurre da testimonianze siffatte l’esistenza di una cortina impenetrabile, impermeabile ai libri e alle idee. In realtà, se guardiamo all’Italia di metà Settecento, vediamo all’opera vivaci e battagliere correnti di pensiero e di azione di segno contrapposto, fuori e dentro la Chiesa cattolica. Si tratta, come vedremo, di un confronto acceso che ha una sostanza culturale, filosofica, politica. Vere e proprie alternative si impongono nel dibattito sul ruolo della Chiesa di Roma: un dibattito che investe la figura stessa del papa e ci ricorda che, a dispetto di un’immagine ottocentesca ancora oggi persistente69, nel corso del Settecento per una riforma interna alla Chiesa cattolica e alla società italiana non c’è una sola, necessaria, opzione.
Certo, la cultura della Controriforma ha ancora i suoi potenti epigoni e produce una gran messe di libri; ma nel complesso una nuova cultura ed esigenze nuove conducono progressivamente a superare schemi culturali e mentali: lungo questo percorso non senza ostacoli un confronto aperto con la cultura protestante si impone come urgente e auspicabile. È un itinerario intellettuale, beninteso, che coinvolge i ceti colti e di governo: i protagonisti sono uomini di lettere e scienziati, ecclesiastici ‘progressisti’, giuristi e funzionari di governo.
Segnali eloquenti dei mutamenti in atto nell’Italia della prima metà del Settecento ci vengono dai tratti inediti che accompagnano la rappresentazione di Lutero. Soffocato dai giudizi morali, il padre della Riforma esce malconcio dai trattati di stampo tradizionale: «apostata, invidioso, impuro, ubbriaco», strumento del Male («diaboli discipulus»), mosso da arroganza e, quel che è peggio, da un pernicioso e irresponsabile desiderio di ‘novità’ («superbo animo et novitatis prurigine»)70. Assente, invece, una riflessione sulla teologia luterana e sulle ragioni storiche che conducono al drammatico scisma dell’Europa cristiana. Si tratta, però, di lacune che non possono soddisfare chi fa dell’approccio critico alla ricerca storica uno strumento di rinnovamento culturale e spirituale. La figura di Lutero solleva questioni ancora senza risposta, e scomode, che solo un protagonista autorevolissimo della cultura italiana dell’epoca come l’abate Ludovico Antonio Muratori può sollevare. L’etichetta di ‘pre-illuminista’ con cui si è cercato di sintetizzarne pensiero e opera suggerisce l’orizzonte in cui si muove Muratori, capace di coniugare la ricerca d’archivio (era prefetto della biblioteca e dell’archivio di Casa d’Este a Modena) alle esigenze del presente e di farsi promotore di una riforma interna alla Chiesa cattolica sotto il segno di una spiritualità più consapevole e sobria, guidato dall’urgenza di depurare l’esercizio del potere papale da illeciti e abusi evidenti. Non sfuggirà la cifra politica del messaggio muratoriano, che costituirà un punto di riferimento anche per la corte di Vienna e per la cattolicissima Maria Teresa, alle prese con riforme strutturali che colpiscono anche i molti privilegi della Chiesa.
È Muratori, dunque, a formulare per primo la domanda fatale: «Perché si deve continuare a considerare falsa ed empia qualunque cosa venga detta dagli eterodossi?»71. È ormai tempo di ammettere che anche «dalla bocca degli eretici» può uscire qualche verità – una verità storica, s’intende, non certo teologica. Nell’affidare queste riflessioni alle stampe, Muratori si protegge ricorrendo allo pseudonimo, ma intanto il dado è tratto: le sue opere godono di un’ampia circolazione e di un vasto sostegno, a dispetto degli attacchi e delle censure che piovono sui suoi scritti e sulla sua persona72. E Lutero? Anche lui, sottolinea Muratori, aveva le sue ragioni: la responsabilità gravissima dello scisma è dell’agostiniano di Wittenberg, ma una onesta riflessione storica non poteva esimersi dal ragionare sulle colpe e sulla corruzione della Chiesa romana di allora.
Per cattolici e protestanti il terreno d’incontro possibile è appunto la ricerca storica. Una vasta rete di contatti unisce i membri di quella che viene felicemente definita ‘Repubblica delle Lettere’, nella quale l’identità confessionale è un elemento non prevalente73. In questo spazio confessionalmente neutro, per così dire, sono intensi il confronto e lo scambio di informazioni e di documenti conservati negli archivi e nelle biblioteche private d’Europa. Ma la comunicazione con «gli amici luterani» non si limita alla via epistolare: eruditi e biblisti cattolici incontrano i colleghi di fede protestante nelle biblioteche e nelle accademie, anche a Roma74. In tale contesto cala anche il progetto, fallito, del cardinale e vescovo di Brescia Angelo Maria Querini, di ricongiungere i dotti cristiani non solo nel dialogo erudito ma anche nell’ambito teologico-spirituale75.
L’evoluzione nei rapporti praticata dagli ambienti cattolici più ‘progressisti’ non è, però, tale da consentire un approccio libero a qualunque ambito della conoscenza. Ci sono argomenti particolarmente scivolosi, che anche per un muratoriano convinto è meglio non trattare: tra questi, il diritto naturale e il rapporto tra ragione e fede. Questa sorta di ‘autocensura’ produce un importante ritardo culturale di cui c’è consapevolezza solo dagli anni Sessanta in poi. Non stupirà che a porre la questione sia un intellettuale cresciuto nella cultura muratoriana e approdato a un pensiero secolarizzato, Carlantonio Pilati.
Il ritardo culturale italiano riscontrabile soprattutto nell’ambito della riflessione filosofica – un ritardo provocato da assilli di natura confessionale e da una radicata predisposizione mentale all’autocensura – si fa tangibile nel modo in cui talune tematiche entrano nel discorso filosofico e politico nella penisola. Sul tappeto questioni urgenti e delicate: il rapporto tra ragione e fede, tra diritto e teologia, tra Chiesa e Stato. Si tratta di temi sui quali era giocoforza confrontarsi con i massimi esponenti della cultura luterana e riformata, autori dunque tecnicamente eretici e rigorosamente censurati, che hanno elaborato le dottrine del diritto naturale moderno: Pufendorf, Thomasius, Grozio, Heineccius, Barbeyrac, Burlamaqui, Wolff, ma anche Hobbes e il terribile Spinoza. Le condanne romane non sono in grado di arrestare la circolazione dei loro libri, tanto più che gli stessi governi secolari cattolici per buona parte promuovono quei testi, giacché forniscono un corpo di riflessioni filosofiche e giuridiche fondamentali per l’esercizio del potere, mentre sono alle prese con massicce riforme strutturali. Si realizzano anche traduzioni, indizio chiaro di un interesse specifico nei confronti delle dottrine d’Oltralpe e implicito riconoscimento al loro valore76. È, però, solo nel 1764 che un autore italiano riconosce pubblicamente la superiorità scientifica della cultura protestante su alcuni temi centrali77. L’ammissione esce dalla penna di un domenicano, Bonifacio Finetti: lo scritto è steso in latino e, nonostante l’intento sia la critica sistematica degli autori considerati, anche Finetti si cela sotto lo pseudonimo, il che testimonia del contesto di diffidenza e di timori in cui il testo appare. Finetti, in effetti, non si limita alla confutazione degli scritti considerati, ma coltiva insieme obiettivi più ambiziosi: metter mano al ritardo culturale cattolico, innegabile, individuando un sistema alternativo, un moderno diritto naturale cattolico78. L’intento è troppo impegnativo per le forze del domenicano; la sua opera, però, è alla base di un percorso dagli esiti epocali. È a partire da Finetti, infatti, che nel giro di un secolo sarà elaborata la dottrina sociale della Chiesa cattolica. Insomma, la risposta al moderno della chiesa romana si nutre e matura nel confronto serrato con il pensiero protestante.
I meriti di Finetti sono indubbi; nello stesso tempo, a guidare la penna è ancora una volta un approccio di natura religiosa. Né poteva essere diversamente, si può osservare. E però il clima culturale coevo è in grado di proporre riflessioni anche più spinte e pienamente secolarizzate. Come quelle di un intellettuale di confine, dalla biografia bilingue ‘italo-tedesca’, giurista e polemista anticuriale, muratoriano per formazione, riformatore: Carlantonio Pilati. Secondo Pilati, in Italia «uno straordinario timore» specie nei confronti della cultura di matrice protestante impedisce «ai cattolici colti» di elaborare un pensiero filosofico e politico all’altezza dei tempi. Così Pilati si sfogava con un conoscente, ragionando sul timore
«di leggere que’ migliori autori franzesi, inglesi e tedeschi che per lo addietro sopra la morale hanno scritto [e che] per l’ordinario sono gli spauracchi della nostra nazione italiana, da’ quali si guardano come i fanciulli dall’orco e dalla beffana»79.
Sappiamo che il quadro delineato da Pilati è sostanzialmente esatto80.
All’indomani della pubblicazione dell’opera di Finetti, un breve carteggio si apre tra il domenicano e Pilati, che affida a lettere lucide e oneste l’espressione delle perplessità nutrite nel leggere il testo del domenicano. Siamo di fronte a uno scarto significativo, che divide i due non solo per generazione, ma anche per cultura, sensibilità, mentalità. Scrive Pilati a Finetti nel 1766:
«Io Le dirò ingenuamente che ho sempre, rispetto alle scienze profane che non dipendono immediatamente dalla Religione, grandemente stimato quegli stessi autori ch’Ella nell’opera sua ha preso a combattere ed a volere pressoché annichilare. E questa stima io la conservo tuttavia, nonostante tutto lo sforzo da Lei adoperato per rovinare il credito di quella gente poco religiosa sì, ma però dotta ed ingegnosa [...]. Sicché a mio giudizio Ella ha scritto eccellentemente per quello che speta [sic] alla legge naturale, ed in ciò Ella è propriamente l’unico fra i nostri. Ma Ella non è poi, a mio debole parere, riuscita così bene nel suo impegno contro i protestanti; il che non già ad alcuno suo difetto, ma alla qualità della sua causa attribuir si deve»81.
La cattiva «qualità» della causa è appunto il presupposto confessionale con cui sono affrontati argomenti cruciali. Per parte sua, Pilati ha decisamente superato il tabù confessionale; e non a caso le opere filosofiche che dedica al diritto naturale sono censurate, anche se l’autore si è sottoposto a un umiliante lavoro di autocensura preventiva.
La mentalità secolarizzata di Pilati è il tratto distintivo di una personalità eccezionale nel contesto italiano? Siamo di fronte a un filoprotestante? La pericolosa equazione con cui a Roma si associa a un presunto cripto-protestantesimo il dissenso anticuriale non deve trarci in inganno. In realtà, se si colloca Pilati nel contesto politico coevo, se ne vedrà combaciare il profilo con la cifra secolarizzata dei programmi di riforma che i governi cattolici stanno realizzando in Europa e lungo la penisola, in particolare nella Lombardia austriaca sottoposta al governo di Maria Teresa82. L’aggressiva politica ecclesiastica dei principi secolari si serve anche dei migliori titoli della dottrina protestante per legittimare giuridicamente e politicamente le proprie scelte, ormai del tutto autonome ed emancipate dal vincolo confessionale.
Nel corso del Settecento, tra i punti all’ordine del giorno dell’agenda riformatrice dei governi, la ridefinizione del rapporto tra Stato e Chiesa è prioritaria. È un terreno in cui prosperano le tensioni e gli incidenti diplomatici tra corti secolari cattoliche e curia romana. Ma la ridefinizione del potere papale è questione agitata con rinnovato vigore all’interno della Chiesa stessa. Nel mirino dei dissidenti cattolici sono in particolare due elementi che conferiscono l’autorità suprema al pontefice, pur senza costituire materia di fede: il primato del vescovo di Roma (rispetto al concilio dei vescovi) e la dottrina dell’infallibilità papale, che sarà formalmente sancita solo in occasione del concilio Vaticano I (1870). Sono questioni tutt’altro che inedite, ma che ora acquistano una nuova attualità e vedono coagularsi nel dissenso antiromano i vertici delle gerarchie ecclesiastiche della Germania cattolica – i tre principi elettori di Magonza, di Treviri e di Colonia e il principe-arcivescovo di Salisburgo –, al punto che uno scisma e la costituzione di una Chiesa ‘nazionale’ (grossomodo sul modello della Chiesa gallicana francese)83 restano una prospettiva del tutto realistica almeno fino agli anni Ottanta84.
Anche nella penisola una porzione non irrilevante del clero e del ceto colto chiede una riforma strutturale e nutre sentimenti anticuriali (benché, va detto, la Curia di Roma sia a sua volta tutt’altro che un corpo omogeneo e compatto). È una vera e propria alternativa alla costituzione monarchica pontificia quella al centro delle proposte. Nonostante le censure, gode di un successo enorme anche in Italia il libro del vescovo ausiliare di Treviri Nikolaus von Hontheim (prima edizione 1763)85, che si cela sotto lo pseudonimo di Justinus Febronius86. Febronio dichiara senza giri di parole il suo obiettivo: «tutta la nostra presente opera – scrive – su questo s’aggira, cioè di cacciar dagli animi degl’Italiani e di alcuni altri l’idea di Stato Monarchico nella Chiesa»87. E ancora:
«quella potestà Monarchica da molti attribuita al Pontefice Romano non può sostenersi né col Sacro Testo, né coll’uso, ovvero osservanza de’ primi secoli; anzi, all’opposto, distruggesi»; «Gli oltramontani [cioè il clero filocuriale] rendono un culto superstizioso al Papa, attribuiscono a lui (o col fine de’ loro privati comodi o trasportati da errore e malfondati giudicii) delle prerogative che né Gesù Cristo, né la sua Santa Chiesa gli diedero»88.
La responsabilità dello scisma luterano, si sottolinea, va attribuita alla condotta della Curia romana. Anche in Febronio l’apporto del pensiero protestante è significativo; basti dire che il prelato di Treviri si affida a una pagina del luterano Samuel Pufendorf per chiarire la propria posizione nel contesto dell’argomentazione secondo la quale «la chiesa non è uno stato, né monarchico, né aristocratico, e neppure democratico»89. L’autore si scusa con i lettori per essersi affidato al testo di un protestante, ma non esita a riconoscere la validità dell’assunto del giusnaturalista sassone, «molto perito in politica».
Il libro di Febronio sollecita i cattolici alla disobbedienza e alla «resistenza» contro il papa, sovrano ritenuto senza legittimazione; i prìncipi sono chiamati a sostenere la causa e a recuperare le prerogative erose dallo smisurato potere pontificio. In effetti, la supremazia del vescovo di Roma non è un dogma e una condanna formale della Chiesa nazionale francese non è stata ancora pronunciata (ciò che avverrà nel 1794). I giochi erano, perciò, ancora aperti, per così dire. Alla dura contrapposizione prendono parte quei laici che nella monarchia papale e nell’amplissimo potere ecclesiastico vedono un grave problema politico, oltre che etico. «Si può ritardare per poco, ma Febronio deve diventare il codice universale», scrive Pietro Verri al fratello, nel novembre 1768; analogamente, il già citato Pilati riferisce del consenso e delle aspettative che il libro di Febronio suscita in una porzione ampia dei cattolici colti: «Tutti coloro che tengono con Febbronio, val a dire tre quarti dei cattolici d’oggigiorno, diranno che la dottrina febbroniana rimane nel suo pieno vigore, come se non fosse mai stata combattuta, non che rifiutata». Il clima è tale che Pilati pone al centro della sua opera più nota, Di una riforma d’Italia (1767) – che va letta come un programma concreto di riforme per l’Italia degli anni Sessanta del Settecento, gli argomenti febroniani volti a innescare un rinnovamento radicale all’interno della Chiesa di Roma90. È interessante osservare che il pensiero di Febronio è stato considerato cripto-protestante, al pari del libro di Pilati, naturalmente condannato dalla censura ecclesiastica (ma anche dalla censura di Stato di Venezia e Vienna)91; si è anzi ipotizzato che l’autore della Riforma d’Italia si fosse convertito alla fede luterana, mentre è stato sottovalutato l’apporto fondamentale del corposo e secolare bagaglio anticuriale e conciliarista prodotto all’interno del contesto cattolico stesso. Va anche detto che nel suo percorso Pilati procede ben oltre Febronio, confezionando una proposta pienamente secolarizzata, indirizzata ai governi degli Stati italiani. Ancora una volta, l’apporto della cultura protestante è significativo: troviamo, per esempio, riferimenti frequenti al prussiano Justus Henning Böhmer, uno dei giuristi più noti nel panorama del Settecento tedesco, promotore dell’emancipazione del diritto ecclesiastico protestante rispetto al diritto canonico. D’altra parte, l’adozione dei testi di Böhmer è imposta dalla cattolica e secolarizzata corte di Vienna alle facoltà giuridiche e teologiche sin dagli anni Cinquanta92, nonostante si trattasse di titoli all’Indice romano.
Il conflitto tra concezioni diverse rispetto alla figura e al ruolo del pontefice raggiunge la visibilità massima nel 1786, quando il vescovo di Pistoia-Prato, Scipione de’ Ricci, convoca un sinodo diocesano nel quale confluiscono anche molte istanze febroniane. «Erano in gioco un modello di Chiesa e un modello di rapporti tra la Chiesa e lo Stato»93. In ballo questioni molteplici, di natura dottrinale e liturgica, istituzionale e politica; qui ci limitiamo a prendere nota di alcune delle risoluzioni sottoscritte in quel contesto: il clero riunito a Pistoia nega il primato papale, rigetta l’infallibilità pontificia, contesta il potere temporale della Chiesa.
L’azione di Ricci avrebbe avuto certamente un altro impatto se non avesse potuto contare sul sostegno del granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena94. Non è un passaggio di poco conto: gli studi segnalano come l’appoggio del potere politico fosse necessario a far emergere le posizioni dei cattolici riformatori, che viceversa rimanevano nell’ombra negli Stati contraddistinti da una politica ostile al riformismo ecclesiastico, non solo nello Stato pontificio, ma anche, per esempio, nei domini sabaudi e in alcuni territori della Terraferma veneta95. In ogni caso, anche in Toscana la prospettiva virtuale di approdare a una Chiesa ‘nazionale’ naufraga per limiti intrinseci, oltre che per contingenze particolarmente sfavorevoli. Pietro Leopoldo è chiamato a Vienna, al soglio imperiale, a seguito della morte del fratello Giuseppe II, nel 1790; la Rivoluzione francese impone nuove priorità; ma è mancata anche una ‘politica del consenso’ del partito di Ricci rispetto a un rinnovamento che è anche liturgico e devozionale e prevede l’abolizione di culti che sono radicati e popolari. I tumulti scoppiati a Pistoia nel 1786 ne sono un segnale. Forti ostilità si registrano nella diocesi di Ricci e tra gli stessi ministri della corte leopoldina, si perde l’appoggio dei vescovi non propriamente filopapali di fronte a proposte sostenute da scarso realismo e non scevre da intransigenza. Nel 1794, infine, la bolla Auctorem fidei decreta solennemente la condanna del sinodo di Pistoia e insieme le ‘libertà gallicane’96. Si chiude così la stagione delle alternative: mentre trionfa il primato papale, si sancisce la «sconfitta storica della prospettiva di una radicale riforma religiosa»97. Tale parabola trascina con sé anche la (possibile) eredità di Lutero: l’itinerario, appena avviato, di contestualizzazione storica della sua figura e di ripresa critica e operativa delle sue istanze si interrompe; alla Riforma viene imputata ora anche la responsabilità di essere alla radice della cultura dei lumi e della Rivoluzione98.
L’Italia del Settecento è una terra senza Riforma. Fatta eccezione per i valdesi – gli unici fedeli cristiani non cattolici sudditi di uno Stato italiano –, la mappa confessionale della penisola nel Settecento è ormai monocroma99. I tribunali inquisitoriali raccolgono le testimonianze di figure dal profilo sospetto, ma non registrano dissidenze estese a comunità intere, come in passato. Sono voci individuali e private, non più collettive; né hanno il tratto marcato di una visione alternativa chiara e teologicamente consapevole. Calvino e Lutero appaiono perlopiù come una sorta di endiadi, figure facilmente sovrapponibili, capaci di sintetizzare inclinazioni anticlericali e latamente anticattoliche o anticristiane100.
Per l’eterodossia esplicita non c’è spazio, come, del resto, non ce n’è nella gran parte d’Europa. Un approccio comparato si rende in effetti necessario: la libera manifestazione del proprio pensiero è ovunque soggetta a forti limiti, imposti non solo dalla censura ecclesiastica, ma anche dalla censura di Stato, che nel Settecento, il secolo del libro trionfante, mostra una capacità di controllo superiore. Leggi scritte e non scritte impongono consapevoli, e spesso condivise, (auto)inibizioni rispetto a quanto può essere affidato al pubblico101. A dispetto di miti radicati, anche in Olanda si celebra il triste rito del rogo dei libri101 e un editore del calibro di Marc-Michel Rey si vedrà espulso dalla Chiesa vallona e condannato alla sepoltura in terra sconsacrata102. Ma Rey, certo, resta in patria e continua la propria attività. In Italia, il peso sociale di una scomunica è invece insostenibile; nemmeno le protezioni altolocate bastano per contenere gli effetti di una simile sanzione. Non resta che l’esilio. Pietro Giannone troverà momentaneo riparo preso la corte di Vienna, che apprezza le opere anticuriali per cui è stato condannato; ma in seguito a ogni fuga segue l’arresto: la ferrea alleanza tra ‘trono e altare’ confinerà a vita nelle carceri sabaude un intellettuale di massimo spessore, condannandolo al silenzio102.
La storia dei dissidenti italiani che nel corso del Settecento scelgono la via dell’esilio è ancora in gran parte da scrivere: esuli che aderiscono chi a una confessione riformata chi a opzioni anche più radicali, rigettando chiese e religione, come quel Giovanni Manzoni, meglio noto come Jean Manzon, che lascia il Piemonte e gli ordini minori e conquista fama a Kleve come redattore anticonformista di un giornale militante di successo, il «Courier du Bas-Rhin», propenso alla letteratura materialista103. O come Vincenzo Gaudio, docente all’Accademia reale di Napoli prima di lasciare la penisola alla volta di Vienna, dove è segretario presso la cancelleria italiana per un triennio, e quindi a Dresda e a Gottinga. Qui Gaudio si converte alla fede riformata, preferendola, come dirà, a quella dominante luterana, e per vivere fa il lettore di italiano. Infine si ferma ad Amsterdam: acquista la cittadinanza e diventa uno dei più stretti collaboratori di Rey, al centro di polemiche roventi per aver preso posizione contro la censura decretata a danno di Rousseau e per aver pubblicato testi durissimi nei confronti del clero di qualsivoglia confessione. Condannato infine al bando da Amsterdam e a trent’anni di prigione, Gaudio morirà nelle carceri olandesi in preda alla follia104.
Allo stato attuale della ricerca, non è possibile quantificare il fenomeno dei fuoriusciti italiani, nemmeno in via d’ipotesi. Si tratta, certo, di una realtà numericamente minoritaria, ma qualitativamente importante.
Il tema della conversione volontaria nel contesto cristiano di età moderna è recente, ma i risultati conseguiti sono molto significativi sul piano metodologico e storiografico e mostrano la produttività di indagini complesse, che si muovono tra dimensione religiosa e istituzionale, sociale e culturale, tra spazi collettivi e sfera intima105.
Nei registri delle Camere dei proseliti (Proselytenkammer) della Chiesa calvinista elvetica, tra i neoconvertiti si trovano iscritti diversi nominativi di italiani. Chi sono? Cosa li ha spinti a questa scelta? E quanti sono i neofiti che abiurano la fede cattolica davanti alle commissioni svizzere, olandesi, inglesi? Sono quesiti ancora in buona parte senza risposta106. Perlopiù si tratta di figure per noi senza identità; ma nei registri di Ginevra e di Berna troviamo anche il nome di personalità destinate a svolgere un ruolo di primo piano nella cultura europea del Settecento, come Giovanni Salvemini di Castiglione e Fortunato Bartolomeo de Felice. Il primo nasce cattolico a Firenze e muore a Berlino da riformato. Matematico di grande talento e scienziato, Salvemini lascia la Toscana nel 1737 per una sostanziale incompatibilità con l’ambiente culturale e spirituale107. Una volta a Ginevra il transfuga si rivolge subito alla locale Proselytenkammer, di fronte alla quale fa atto di abiura108. Nell’immaginario collettivo cattolico la città di Calvino è il porto degli eretici ed effettivamente essa è la meta prima per molti fuoriusciti. Stanziatosi in Svizzera, Giovanni Salvemini, d’ora in poi noto come Jean de Castillon, è presto conteso dalle università svizzere e olandesi; accoglie, infine, l’invito del re di Prussia e si trasferisce a Berlino, nel 1763. Salvemini si inserisce nei dibattiti scientifici e culturali europei, trovandosi anche a fare i conti con chi lo attacca con accuse di eterodossia deista. In effetti, il matematico italiano va valutato nel contesto di un vasto movimento interno alla Chiesa riformata che si contrappone al dogmatismo calvinista per perseguire istanze illuministiche di marca moderata, decisamente alternative rispetto alle posizioni radicali anticristiane e libertarie109. In virtù della comune battaglia contro Rousseau e della riflessione sul rapporto tra religione e filosofia, ossia tra verità rivelata e ragione, «Castillhon» trova consenso anche sul versante italiano e cattolico110, come nel caso dell’abate Gian Cristofano Amaduzzi, discepolo di quel Giovanni Bianchi che aveva aiutato a lasciare l’Italia un altro fuoriuscito, il frate romano De Felice.
La prima fuga di De Felice dall’Italia avviene in compagnia della donna amata, nel maggio 1756111. L’uomo è persona molto nota, forte di importanti protezioni: docente di fisica sperimentale all’università di Napoli, matematico di vaglia, membro di una selezionata cerchia di innovatori. Lei è una gentildonna napoletana sposata. Lo scandalo è sopito solo con la cattura dei due fuggiaschi. Con questa azione, De Felice compromette la propria carriera, ma è evidente che le sue priorità sono ben altre, che non intende più soffocare sentimenti e inclinazioni e condurre una vita che non ha voluto; anche la sua fedeltà nei confronti di Roma è vacillante. Come molti, il nostro frate non ha lasciato il secolo per vocazione: proviene da una famiglia di scarse fortune; l’abito gli ha fornito una condizione e la possibilità di studiare. Alla Verna, nel Casentino, dove è confinato, matura la decisione di abbandonare per sempre l’Italia. Per la seconda fuga, può contare sul soccorso dello scienziato Giovanni Bianchi (Janus Plancus), celebre medico di Rimini112, che messo al corrente dei fatti stende lettere di raccomandazione indirizzate al famoso scienziato e matematico di fede riformata Albrecht Haller. L’esame di De Felice davanti alla Proselytenkammer di Berna avviene molto presto; l’esule descrive a Bianchi la sua conversione in termini più pratici che ideologici:
«La mia risoluzione è stata costantissima, perché non poteva più vivere in Italia, conosciuto per non catolico, quantunque, la Dio mercé, sia un ragionevole Cristiano: haec requies mea, caro sig. Bianchi, hic habitabo quoniam elegi eam, godendo quella pace e tranquillità di mente e di corpo che inutilmente ho in Roma e in Napoli ricercata. E sappia che mi converto in capitale inimico con chiunque vuol disturbarmela»113.
«Questo è il mio riposo», scrive De Felice citando il salmo CXXXI, «qui abiterò perché l ’ho desiderato». Ma le condizioni di un neoconvertito non sono bucoliche. Il processo di integrazione non è mai agevole: l’abiura ne fa un rinnegato e un eretico, circondato dal sospetto anche se proselito e neofita (perché c’è anche chi, deluso, torna nell’alveo della Chiesa di Roma)114. De Felice, poi, non conosce né il tedesco né il francese; la sua precarietà è, per il momento, anche economica. Quello della penna è uno dei pochi mestieri compatibili con il suo profilo di letterato. Come giornalista, dà vita a due riviste di rapido successo, una delle quali (l’«Estratto della letteratura europea») è destinata ad aggiornare il pubblico della penisola: una mediazione che introduce nella cultura italiana titoli e dibattiti altrimenti scarsamente conosciuti. Ma onde evitare problemi con la censura ginevrina, il giornalista italiano tralascia temi relativi alla religione riformata e adotta la strategia dell’autocensura e del conformismo. Quanto ai rapporti con la patria, De Felice, ormai ricco e famoso, vorrebbe lasciare almeno un nome onorato. La richiesta spedita a Janus Plancus – un rapporto che la conversione non ha spezzato – di essere nominato come «il Signor De Felice, già professore nell’università di Napoli» ha il sapore di una domanda di riabilitazione:
«Io non comprendo la difficoltà di pubblicare il mio nome. È vero che sono scomunicato in Italia; ma gli altri eretici lo sono ancora, e voi li nominate, come Haller, Euler, etc. Nominatemi pure, et non dubitate di essere obbligato di confessarvene. Tanto più che non mi curo spandere la cognizione dell’Encyclopédie [di Yverdon], tutta venduta, ma solamente il mio nome in Italia, acciocché tutti conoschino che sono ancor vivo, che travaglio, et che non faccio disonore alla nazione che mi ha dato la vita e l’esistenza. Nominatemi!»115.
1 Silvana Seidel Menchi è autrice della «Prima parte» di questo saggio, Serena Luzzi della «Seconda parte».
2 Un panorama sommario degli sviluppi della ricerca sulla Riforma in Italia dal 1939 al 2009: S. Seidel Menchi, The Age of Reformation and Counter-Reformation in Italian Historiography, 1939-2009, «Archiv für Reformationsgeschichte», 100, 2009, pp. 193-217. Una bibliografia ragionata e articolata dei movimenti religiosi in Italia si deve a J. Tedeschi, J.M. Lattis, The Italian Reformation of the Sixteenth Century and the Diffusion of Renaissance Culture: A Bibliography of the Secondary Literature (Ca. 1750-1997), Modena 2000.
3 J.J. Martin, Venice’s Hidden Enemies: Italian Heretics in a Renaissance City, Berkeley-Los Angeles-London 1993; A. Del Col, L’inquisizione nel patriarcato e diocesi di Aquileia 1557-1559, Trieste-Montereale Valcellina 1998; M. Al Kalak, La comunità dei “fratelli”. Indagini sull’eresia a Modena nel secondo Cinquecento (1540-1575 c.), tesi di perfezionamento in Storia moderna, Scuola Normale Superiore Pisa a.a. 2008-2009; G. Dall’Olio, Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinqucento, Bologna 1999; S. Adorni Braccesi, Una città infetta. La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze 1994.
4 Per la bibliografia relativa a queste località si veda J. Tedeschi, The Italian Reformation, cit.; le varie località italiane interessate dalla diffusione delle idee protestanti sono ivi elencate in ordine alfabetico nella sezione XI, «Places», pp. 595-740. Su Genova: S. Ragagli, Il dissenso negato. Patriziato, eterodossia e Inquisizione nella Genova del Cinquecento, Scuola superiore di studi storici, San Marino a.a. 2009-2010.
5 A. Del Col, L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano 2006, pp. 490-497.
6 P. Blickle, Gemeindereformation. Die Menschen des 16. Jahrhunderts auf dem Weg zum Heil, München 1987; B. Moeller, Reichsstadt und Reformation, Berlin 1987; Th. Brady, German Histories in the Age of Reformations 1400-1650, Cambridge 2009.
7 P. Blickle, Gemeindereformation, cit.
8 Questi caratteri della documentazione italiana sono verificabili nei processi inquisitoriali già accessibili a stampa. Cfr. A. Del Col, L’Inquisizione nel patriarcato e diocesi di Aquileia, cit.; S. Pagano, Il processo di Endimio Calandra e l’Inquisizione a Mantova nel 1567-1568, Città del Vaticano 1991; M. Firpo, S. Pagano, I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558), 2 voll., Città del Vaticano 2004.
9 Un esempio impressionante di un costituto reso sotto tortura: quello del savoiardo Claudio Banière (18 aprile 1587) pubblicato da A. Del Col, L’inquisizione in Italia, cit., p. 447 segg.
10 Il bisogno di rendere testimonianza della propria esperienza intellettuale e di coscienza segna di sé i processi del più famoso dissidente italiano del secolo XVI: Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione (1583-1599), a cura di A. Del Col, Pordenone 1990. La pubblicazione degli atti processuali è stata concepita sulla scia dell’enorme eco internazional e che suscitò C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino 1976. L’avventura spirituale di Domenico Scandella non è peraltro circoscrivibile nell’ambito del movimento filoprotestante, anche se inspiegabile senza le condizioni da esso poste.
11 Le tragiche storie dei protagonisti del movimento protestante in Italia sono sistematicamente ricostruite in Dizionario storico dell’Inquisizione, 4 voll., a cura di A. Prosperi, V. Lavenia, J. Tedeschi, Pisa 2010; di questo genere di avventure intellettuali e religiose offre un ampio campionario S. Seidel Menchi, Érasme hérétique. Réforme et Inquisition en l’Italie du XVIe siècle, Paris 1997.
12 Questa cronologia è stata proposta in S. Seidel Menchi, Italy, in B. Scribner, R. Porter, M. Teich, The Reformation in National Context, Cambridge 1994, pp. 181-201, e fatta propria, con opportune rettifiche e modifiche, da A. Del Col, L’Inquisizione in Italia, cit., pp. 271-279.
13 I libri giocano un ruolo importante soprattutto in questa prima fase della diffusione dell’’eresia’: La Réforme et le livre: L’Europe de l’imprimé (1517-v.1570), éd. par J.-F. Gilmont, Paris 1990, in partic. pp. 327-374.
14 Un primo elenco in S. Seidel Menchi, Italy, cit., pp. 186, 197. L’ampliamento di quell’elenco attualmente in corso si basa sull’analisi del primo volume dei verbali della Congregazione del Sant’Uffizio, un volume nel quale i frati mendicanti sono la categoria sociale di gran lunga più rappresentata: Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Sanctum Officium, Decreta I (1548-1555).
15 S. Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero nella prima metà del Cinquecento, «Rinascimento», n.s. 17, 1974, pp. 31-108 (per es. la Kurze Form der zehn Gebote, una primitiva versione del Piccolo catechismo di Lutero, ebbe in Italia sette edizioni, tre delle quali uscirono sotto il nome di Erasmo). La diffusione in Italia dei libri e della dottrina di Calvino è tematizzata da L. Felici, Giovanni Calvino e l’Italia, Torino 2010.
16 S. Seidel Menchi, Érasme hérétique, cit., cap. 6, Le ciel ouvert ou l’infinie misericorde de Dieu.
17 Vedi la letteratura citata sopra (note 2, 8, 11). Su Siena: V. Marchetti, Gruppi ereticali senesi del Cinquecento, Firenze 1975. Per la fenomenologia concreta della propaganda: S. Seidel Menchi, Italy, cit., pp. 189-191, 198; S. Peyronel Rambaldi, Propaganda evangelica e protestante in Italia (1520- c.-1570), in La Réforme en France et en Italie, éd. par Ph. Benedict, S. Seidel Menchi, A. Tallon, Rome 2007, pp. 53-68.
18 M. Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2006; A. Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio: The Making of an Italian Reformer, Genève 1977.
19 I costituti di don Pietro Manelfi, a cura di C. Ginzburg, Firenze-Chicago 1970; A. Stella, Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo, Padova 1969.
20 Vedi le citazioni documentarie in S. Seidel Menchi, Italy, cit., pp. 192, 198-199.
21 Venezia, Archivio di Stato, Santo Ufficio, b. 19, fasc. Pellizzari (1563); b. 22, Contra Odoricum Grisonum (1567); b. 24, Contra Franciscum, Joseph Cinganum (1568).
22 A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, pp. 219-243.
23 F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del Cinquecento, Milano 1999.
24 Il fenomeno è particolarmente vistoso a Rovigo, una piccola comunità di dissidenti che non è stata analizzata dal punto di vista sociale.
25 Esempi in Venezia, Archivio di Stato, Santo Uffizio, b. 22, Contra Vincentium Negronem (1567); b. 37, Contra Hieronimo Parto (1572). Sul fenomeno dell’iconoclastia al di fuori d’Italia: La Réforme en France et en Italie, cit., pp. 403-462.
26 Si veda per es. Archivio di Stato di Venezia, Santo Uffizio, b. 19, fasc. Andrea e Marco Zaccaria; b. 19, fasc. 23, Contra p. Fidelem Vigo (1568).
27 S. Adorni Braccesi, La Repubblica di Lucca, cit., p.259; F. Lanzoni, La Controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1925, pp. 180-199.
28 P. Scaramella, L’Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria (1554-1703), Napoli, 1999. Un quadro aggiornato delle comunità valdesi nell’Italia del Cinquecento in L. Felici, Giovanni Calvino, cit.
29 S. Ragagli, La Repubblica e il Sant’Uffizio. Il controllo delle coscienze nella Lucca del secolo di ferro, tesi di perfezionamento, Scuola Normale Superiore Pisa, a.a. 2008-2009.
30 S. Seidel Menchi, Italy, cit., pp. 194-195, 200. Ma per un quadro approfondito delle adesioni alla Riforma e della procedura della repressione vedi A. Del Col, L’Inquisizione in Italia, cit., pp. 342-448.
31 B. Scribner, For the Sake of Simple Folk. Popular propaganda for the German Reformation, Cambridge 1981.
32 L’apertura degli archivi del Sant’Uffizio romano, Atti dei Convegni Lincei (Roma 1998), Roma 2000; A. Del Col, L’Inquisizione in Italia, cit., p. 832.
33 Il processo inquisitoriale del cardinale Giovani Morone, edizione critica a cura di M. Firpo, 6 voll. (voll. 2-6 in collaborazione con D. Marcatto), Roma 1981-1995; Id., I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567), 2 voll., Città del vaticano 1998-2000; M. Firpo, S. Pagano, I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558), 2 voll. in 4t., Città del Vaticano 2004. M. Firpo, Il processo inquisitoriale di Lorenzo Davidico (1555-1560), Firenze 1992.
34 M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinale Giovanni Morone e il suo processo di eresia, Bologna 1992.
35 Nel processo Carnesecchi sia l’imputato che i suoi giudici erano consapevoli che la posta in gioco era la morte.
36 G. Fragnito, Gli “spirituali” e la fuga di Bernardino Ochino, «Rivista storica italiana» 84, 1972, pp. 777-813.
37 M. Firpo, Tra alumbrados e “spirituali”. Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze 1990.
38 C. Ginzburg, Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del Cinquecento, Torino 1979.
39 Se vogliamo tutelare la chiarezza e la distinzione dei concetti, l’unica Riforma italiana fu quella realizzata dalle comunità valdesi, vedi sopra, nota 29. Ulteriore bibliografia in J.Tedeschi, The Italian Reformation, cit.
40 M. Firpo, Vittore Soranzo, cit.
41 M. Firpo, I processi inquisitoriali, cit., pp. 435-587.
42 M. Firpo, Vittore Soranzo, cit.
43 Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze 1939. Il volume è stato ristampato con il titolo Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di A. Prosperi, Torino 1992.
44 «Col termine di ‘eretici’ intendo quei gruppi di pensatori religiosi, o quei pensatori religiosi isolati, che nel secolo XVI si staccarono tanto dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, quanto dalla Chiesa Evangelica Luterana, quanto da quelle riformate, zwingliana, calvinista, valdese, quanto dalla Chiesa Episcopale d’Inghilterra, e furono da esse Chiese variamente perseguitati», in D. Cantimori, Avvertenza, in Per la storia degli eretici italiani del secolo XVI in Europa, a cura di D. Cantimori, E. Feist, Roma 1937 (Reale Accademia d’Italia, Studi e documenti, 7), p. 7.
45 Il progetto di individuare e contare sistematicamente i testamenti evangelici che sono conservati negli archivi di Venezia, di Vicenza o di Verona supera le risorse di un singolo ricercatore, ma le premesse metodologiche di una tale impresa possono essere delineate, perché il tipo del testamento evangelico può essere identificato con considerevole precisione. I fondi notarili di Asolo, Cittadella e Bassano che sono alla base dell’argomentazione qui sviluppata, sono conservati a Bassano del Grappa, Sezione Archivio di Stato.
46 Un saggio dell’ampiezza e ricchezza di questo tipo di documenti: S. Lavarda, L’anima a Dio e il corpo alla terra. Scelte testamentarie nella terraferma veneta (1575-1631), Venezia 1998.
47 Venezia, Archivio di Stato, Notarile, Elisabetta Semitecolo, busta 1206, nr.142.
48 «Animam suam humiliter ac divote commendavit Misericordiae onnipotentis Dei, rogans eum, ut virtute et meritis sacratissimae Passionis Domini nostri Jesu Christi misereatur eius anime, eamque benigne et clementer suscitiate»: commendatio animae di Leonora Meazzi nel suo primo testamento (28 marzo 1541), collocazione archivistica cit. infra, nota 50.
49 F. Ambrosini, Ortodossia cattolica e tracce di eterodossia nei testamenti veneziani del Cinquecento, «Archivio veneto» 136-137, 1991, pp. 5-48.
50 Bassano del Grappa, Sezione Archivio di Stato, Notai di Cittadella, Notaio Francesco Spiera, Testamentum D. Leonorae Iustinianae Miatij, Die Lunae 28 martii 1541; Testamentum ser Joseph Miatii [8 luglio 1541]; Testamentum ser Joseph Miatij ultimum [2 novembre 1541]; Testamentum D. Leonorae [1 dicembre 1541].
51 F. Ambrosini, Ortodossia cattolica e tracce di eterodossia, cit.
52 Firenze, Archivio di Stato, Notarile anticosimiano, N-275, prott. 17379, 17380, 17391.
53 Un esempio: Padova, Archivio di Stato, Notaio Gaspare Villani, 1561, ff. 414r-425v (testamento di Giovanni Domenico Roncalli).
54 F. Ambrosini, Ortodossia cattolica e tracce di eterodossia, cit.
55 Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Stanza Storica, E. 2/e (6), processo Contra memoriam q. Isabelle Brisegne 1569, ff. 628-736. Questo lungo testamento d’impronta fortemente autobiografica fu redatto a Chiavenna il 25 ottobre 1566. Su Isabella Bresegna: S. Trentin, Tra affetti familiari e idee eterodosse. Profilo biografico di Isabella Bresegna (1510?-1567), tesi di laurea, Università di Trento, a.a. 2000-2001.
56 Basilea, Universitätsbibliothek, G I 66, ff. 5-6. Sul testamento del Curione L. Biasiori, Celio Secondo Curione e l’Italia. Prima e dopo la fuga, M.A., Università di Pisa, Facoltà di Lettere, a.a. 2007-2008, pp. 261-262.
57 Sul fenomeno del notaio ‘eretico’: S. Seidel Menchi, Érasme hérétique, cit., cap. 14.
58 Ibidem, pp. 322, 457.
59 A. Stella, Anabattismo, cit., pp. 41-43, 48-52, 55-58, 69-79; C. Ginzburg, Costituti, cit., pp. 21, 33, 40, 50, 65, 72.
60 Dizionario Storico dell’Inquisizione, cit., III, pp. 1470-1471.
61 Bassano del Grappa, Sezione Archivio di Stato, Notai di Cittadella, b. 2 (Francesco Spera), Notai di Asolo, b. 548 (Benedetto Borgo).
62 Bassano del Grappa, Sezione Archivio di Stato, Notai di Asolo, b. 548, in particolare Prothocolus Tercius Benedicti Burgij de anno 1546 e Protocollus quartus 1548 1549.
63 Bassano del Grappa, Sezione Archivio di Stato, Notai di Asolo, b. 555, notaio Felice Baseggio.
64 Archivio di Stato di Venezia, Santo Uffizio, b. 7, fasc. Contra Franciscum Spiera et Hieronimum Facium de Citadella, 1547.
65 B. Fontana, Renata di Francia duchessa di Ferrara, 3 voll. Roma, 1888-1899.
66 A. Stella, Utopie e velleità insurrezionali dei filo-protestanti italiani, 1545-1547, «Bibliothèque d’humanisme et renaissance», 27, 1965, pp. 133-182.
67 S. Adorni Braccesi, La Repubblica di Lucca, cit.
68 L’autore censurato è qui Antonio Genovesi: N. Borchi, Quando l’inquisitore si distrae: ancora sul processo alla «Metaphysica» e all’«Ars logico-critica» di Genovesi, «Giornale critico della filosofia italiana», 81, 2002, 3, pp. 405-429, in partic. p. 406.
69 Per tali problematiche cfr. da ultimo: Il cardinale Giovanni Morone e l’ultima fase del concilio di Trento, a cura di M. Firpo, O. Niccoli, Bologna 2010 (in partic. M. Firpo, O. Niccoli, Introduzione, pp. 7-20; P. Scaramella, Una memoria non condivisa. L’immagine del cardinale Giovanni Morone da Frickius a Jedin, pp. 225-256).
70 D. Menozzi, La figura di Lutero nella cultura italiana del Settecento, in Lutero in Italia. Studi storici nel V centenario della nascita, a cura di L. Perrone, Casale Monferrato 1983, pp. 141-166.
71 «At mihi impia quidem haereticorum dogmata perpetuo displiceant; sed numquam displiceat veritas vel in haereticorum ore. Numquid enim quaecumquae ab heterodoxis dicuntur, ea omnia continuo pro falsis ac impiis habenda?»: D. Menozzi, La figura di Lutero, cit., p. 37.
72 Cfr. P. Vismara, Muratori ‘immoderato’. Le censure romane al ‘De ingeniorum moderatione in religionis negotio, «Nuova rivista storica», 83, 1999, 2, pp. 315-344.
73 H. Bots, F. Waquet, La République des lettres, Paris-Berlin 1997 (trad. it. La Repubblica delle lettere, Bologna 2005).
74 G. Cantarutti, Illuminismo, protestantesimo e transfert culturale fra Italia e «Germania». Tre assi di rilevazione, in Illuminismo e protestantesimo, Atti del Convegno internazionale, Accademia roveretana degli Agiati, Società italiana di studi sul XVIII secolo, Società di studi valdesi (Rovereto 2008), a cura di G. Cantarutti, S. Ferrari (in corso di stampa). Sono molto grata ai curatori per avermi messo a disposizione le bozze del volume.
75 Cfr. Cultura Religione Politica nell’età di Angelo Maria Querini, a cura di G. Benzoni, M. Pegrari, Brescia 1982.
76 Cfr., in particolare, il significato che assume la traduzione dell’opera di Pufendorf realizzata dal bresciano Giovanni Battista Almici (1757): D. Quaglioni, Pufendorf in Italia. Appunti e notizie sulla prima diffusione della traduzione italiana del «De jure naturae et gentium», «Il pensiero politico», 32, 1999, pp. 235-250; S. Stoffella, Il diritto naturale e la cultura italiana del Settecento. Documenti per la storia del ‘De iure naturae et gentium’ di Samuel von Pufendorf in Italia, «Laboratoire italien. Politique et société», 1, 2001, 2, pp. 173-199.
77 G. Francesco [in realtà: Bonifacio] Finetti, De principiis juris naturae et gentium adversus Hobbesium, Pufendorfium, Thomasium, Wolfium et alios, 2 voll., Venetiis, T. Bettinelli, 1764. Su Finetti: A. Barzazi, Gli affanni dell’erudizione: studi e organizzazione culturale degli ordini religiosi a Venezia tra Sei e Settecento, Venezia 2004, pp. 249-253; S. Cavazza, s.v., Finetti, Bonifazio, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, XLVIII, 1997, pp. 40-42.
78 Sull’opera di Finetti e il suo ruolo nell’elaborazione delle nuove dottrine: M. Scattola, Protestantesimo e diritto naturale cattolico nel XVIII secolo, in Illuminismo e protestantesimo, cit.
79 Lettera di Pilati del febbraio 1763 a Giovanni Giacomo Cresseri, Innsbruck, Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum, Dipauliana, 792, cc. 39r-41v.
80 Cfr. A. Trampus, La cultura italiana e l’Aufklärung: un confronto mancato?, in Il Settecento tedesco in Italia. Gli italiani e l’immagine della cultura tedesca nel XVIII secolo, a cura di G. Cantarutti, S. Ferrari, P.M. Filippi, Bologna 2001, pp. 61-93. Si consenta, inoltre, il rinvio a S. Luzzi, Percorsi secolarizzati nell’Italia del Settecento. Diritto naturale ed etica scozzese in Carlantonio Pilati, in Illuminismo e protestantesimo, cit.
81 Due le lettere di Pilati al domenicano, che saranno pubblicate in G.F. Finetti, Apologia del genere umano accusato d’essere stato una volta bestia, 3 voll., Venezia, V. Radici, 1768, I, pp. XXXVIII e XXXIX-XLIII, 16 lug e 30 set 1766, in partic. p. XXXVIII. Una delle missive di Finetti a Pilati è conservata a Trento, Biblioteca Comunale, Fondo Manoscritti, 2433/I, c. 3r-v, 16 ott 1765.
82 S. Luzzi, Culture riformatrici nell’Italia del Settecento. Per una rilettura di Carlo Antonio Pilati e dei suoi modelli, «Rivista storica italiana», 121, 2009, 3, pp. 1073-1123.
83 La condanna formale della Dichiarazione del clero gallicano (1682) è espressa solo nel 1794, con la bolla Auctorem fidei (cfr. infra, nota 95).
84 Cfr. almeno E. Garms-Cornides, Roma e Vienna nell’età delle riforme, in Storia religiosa dell’Austria, a cura di F. Citterio, L. Vaccaro, Gazzada 1997, pp. 313-340; Id., Il Papato e gli Asburgo nell’età delle riforme settecentesche, in Il Papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa, G. Cracco, Soveria Mannelli 2001, pp. 255-296, pp. 277-280.
85 De statu ecclesiae et legittima potestate romani pontificis [...], Bullioni, apud Guillelmum Evrardi, 1763.
86 Per i riferimenti a Febronio e alla ricezione della sua opera in Italia si rinvia a S. Luzzi, Culture riformatrici, cit., e bibliografia ivi citata.
87 Si cita qui dalla traduzione in volgare: Justinus Febronius [Nikolaus von Hontheim], Dello stato della Chiesa e della legittima potestà del Pontefice romano, trattato composto da Giustino Febronio giureconsulto ad oggetto di conciliar le discordie fra cristiani in materia di religione, 4 voll., Venezia, G. Bettinelli, 1767-1768: I, p. 112, 1/9.
88 Ibidem, III, p. 3, 6/1.
89 Ibidem, IV, p. 178, 8/8. Il riferimento è al titolo De habitu religionis Christianae ad vitam civile (1687). Per maggiori dettagli sul nesso Pufendorf-Febronio: S. Luzzi, Culture riformatrici, cit.
90 Ibidem.
91 S. Luzzi, Il processo a Carlo Antonio Pilati (1768-1769), ovvero della censura di stato nell’Austria di Maria Teresa, «Rivista storica italiana», 117, 2005, 3, pp. 687-741, e bibliografia ivi citata.
92 Cfr. almeno M.R. Di Simone, Percorsi del diritto tra Austria e Italia (secoli XVII-XX), Milano 2006.
93 P. Stella, Il sinodo di Pistoia dai lavori preparatori ai decreti sinodali: l’organizzazione del consenso, in Il sinodo di Pistoia del 1786, Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario, (Pistoia-Prato, 1986), a cura di C. Lamioni, Roma 1991, pp. 205-219, in partic. p. 205.
94 M. Verga, Il vescovo e il principe. Introduzione alle lettere di Scipione de’ Ricci a Pietro Leopoldo (1780-1791), a cura di B. Bocchini Camaiani, M. Verga, 3 voll., Firenze 1990: I, pp. 3-47; B. Bocchini Camaiani, Origine e poteri dell’autorità sovrana in Scipione de’ Ricci, ibidem, pp. 49-102.
95 C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1997, pp. 321-389, in partic. p. 383.
96 B. Neveu, Juge suprême et docteur infaillible: Le pontificat romain de la bulle ‘In eminenti’ (1643) à la bulle ‘Auctorem fidei’ (1794), «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-Temps modernes», 93, 1981, pp. 215-275; D. Menozzi, Chiesa gallicana e chiesa romana: un dibattito ecclesiologico nell’età della Rivoluzione francese, in Forme storiche di governo nella Chiesa universale, a cura di P. Prodi, Bologna 2003, pp. 283-298; M. Rosa, Politica ecclesiastica e riformismo religioso in Italia, in La Chiesa italiana e la rivoluzione francese, a cura di D. Menozzi, Bologna 1990, pp. 17-45.
97 M. Rosa, Scipione de’ Ricci tra pietà illuminata e religione popolare, in Il sinodo di Pistoia, cit., pp. 33-64, in partic. pp. 63-64.
98 D. Menozzi, La figura di Lutero, cit., pp. 165-166.
99 Tutt’altro discorso va fatto evidentemente per quanto riguarda le comunità di stranieri membri di Chiese riformate presenti all’interno degli Stati italiani.
100 Cfr. F. Barbierato, Politici e ateisti. Percorsi della miscredenza a Venezia fra Sei e Settecento, Milano 2006; Id., Echi protestanti nel dissenso religioso popolare veneziano (secoli XVII-XVIII), in Illuminismo e protestantesimo, cit.
101 E. Tortarolo, Censorship and the Conception of the Public in Late-Eighteenth Century Germany: Or, Are Censorship and Public Opinion Mutually Excluding Entities?, in Shifting the Boundaries. Transformation of the Languages of Public and Private in the Eighteenth Century, a cura di D. Castiglione, L. Sharpe, Exeter 1995, pp. 131-150; Id., Pubblico e segreto, in Illuminismo. Un vademecum, a cura di G. Paganini, E. Tortarolo, Torino 2008, pp. 182-195.
102 S. Groenveld, The Dutch republic, an island of liberty of the press in 17th Century Europe? The authorities and the book trade, in Commercium litterarium. La communication dans la République des Lettres, a cura di H. Bots, F. Waquet, Amsterdam-Maarssen 1994, pp. 281-300; A.H. Huussen jr, Freedom of the Press and Censorship in the Netherland 1780-1810, in Too Mighty to be Free. Censorship and the Press in Britain and the Netherland, a cura di A.C. Duke, C.A. Tamse, Zutphen 1987, pp. 107-126.
103 Cfr., per esempio, sul rogo di testi di Voltaire allestito all’Aja (1765), J. Vercruysse, Voltaire et Marc Michel Rey, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 63, 1967, pp. 1707-1763, in partic. p. 1727; R. Birn, Michel Rey’s Enlightenment, in Le magasin de l’Univers. The Dutch Republic as the centre of the European Book Trade, a cura di C. Berkvens-Stevelink et. al., Leiden 1992, pp. 23-31.
104 Cfr. almeno G. Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone: un itinerario tra “crisi della coscienza europea” e illuminismo radicale, Firenze 2001; A. Merlotti, Negli archivi del re. La lettura negata delle opere di Giannone nel Piemonte sabaudo (1748-1848), «Rivista storica italiana», 107, 1995, 2, pp. 332-386.
105 M. Beermann, Zeitung zwischen Profit und Politik. Der Courier du Bas-Rhin (1767-1810), Leipzig 1996; F. Moureau, Manzon, Jean (1740-1798), in Dictionnaire des journalistes (1600-1789), II, Oxford 1999, pp. 676-678.
106 K.R. Galla, Autour de Marc-Michel Rey et de Rousseau, «Annales de la Société Jean-Jacques Rousseau», 12, 1926, pp. 73-90; M. Baldi, De la réforme aux réformes des Lumières. Vincenzo Maria Gaudio, «La lettre clandestine», 13, 2004, pp. 139-162.
107 Cfr. K. Siebenhüner, Glaubenswechsel in der frühen Neuzeit. Chancen und Tendenzen einer historischen Konversionsforschung, «Zeitschrift für historische Forschung», 34, 2007, pp. 243-272; Les Modes de la conversion confessionelle à l’Époque Moderne: autobiographie, altérité et construction des identités religieuses, a cura di M.C. Pitassi, D. Solfaroli Camillocci, Firenze 2010. Sulle conversioni (al cattolicesimo) nel contesto della corte di Vienna: I. Peper, Konversionen im Umkreis des Wiener Hofes um 1700, Wien-Köln-Wiemar 2010. Sul fenomeno, rilevante anche numericamente, degli ecclesiastici francesi che si convertono al protestantesimo: D. Boisson, Consciences en liberté? Itinéraires d’ecclésiastiques convertis au protestantisme (1631-1760), Paris 2009. Per il versante italiano: I. Fosi, ‘Procurar a tutt’huomo la conversione degli heretici’. Roma e le conversioni nell’Impero nella prima metà del Seicento, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 88, 2008, pp. 335-368.
108 Segnalava la conversione, avvenuta a Ginevra, di un numero importante di cattolici, perlopiù appartenenti al clero regolare, già T.G. Pons, Rifugiati italiani in Ginevra: 1660-1721, «Bollettino della Società di studi valdesi», 40, 1935, pp. 75-83.
109 E. Tortarolo, Giovanni Salvemini di Castiglione: uguaglianza e giusnaturalimo arminiano, in Illuminismo e protestantesimo, cit.
110 Salvemini si converte tra l’aprile e il maggio 1737, dunque subito dopo la sua partenza dall’Italia. Devo questa e altre informazioni sostanziali alla generosità di Stefano Ferrari, che ringrazio con calore.
111 E. Tortarolo, Giovanni Salvemini, cit.
112 G. Cantarutti, Illuminismo, protestantesimo e transfert culturale fra Italia e ‘Germania’. Tre assi di rilevazione, in Illuminismo e protestantesimo, cit.
113 Per i riferimenti a De Felice il rinvio è a S. Ferrari, Il rifugiato e l’antiquario. Fortunato Bartolomeo De Felice e il transfert italo-elvetico di Winckelmann nel secondo Settecento, Rovereto 2008; Id., La conversione «filosofica» di Fortunato Bartolomeo De Felice, in Illuminismo e protestantesimo, cit.
114 G. Cantarutti, Giovanni Bianchi e la sua scuola nel transfert culturale italo-tedesco, in L’Accademia degli Agiati nel Settecento europeo. Irradiazioni culturali, a cura di G. Cantarutti, S. Ferrari, Milano 2007, pp. 129-165.
115 Lettera di Matteo Ughi (alias: De Felice) a Bianchi, 10 apr 1759: S. Ferrari, Il rifugiato e l’antiquario, cit., p. 27.
116 D. Boisson, Consciences en liberté?, cit.
117 Lettera di De Felice a Bianchi, 15 dic 1774: S. Ferrari, Il rifugiato e l’antiquario, cit., p. 73, n. 220.