L’Italia e l’autarchia
La nascita del nazionalismo scientifico-tecnico
La politica autarchica del fascismo è considerata, non a torto, un aspetto della storia dell’Italia che rappresenta una caduta della razionalità e segna il predominio dell’irragionevolezza sulle ragioni della scienza e della tecnica. Di fronte a questa eclissi della ragione, quale fu la risposta di scienziati e tecnici, cioè di coloro che incarnavano (o avrebbero dovuto farlo) il rigore e la serietà degli studi, lontani dalle sirene della retorica guerrafondaia del regime?
Per iniziare a rispondere occorre tener presente un legame non superficiale che si venne a creare tra il periodo autarchico e gli anni della Grande guerra. La Prima guerra mondiale fu per tutte le nazioni, per tutti i gruppi sociali, per tutti gli individui che vi parteciparono un evento traumatico che segnò uno spartiacque. Anche l’ambiente scientifico-tecnico italiano fu segnato da quella grande esperienza in modo profondo e durevole. La guerra determinò in tutti i Paesi partecipanti una svolta nella concezione di scienza sino allora dominante, del suo ruolo, delle sue finalità, dei suoi poteri. Fin dai primi mesi di guerra ci si accorse ovunque che il conflitto avrebbe impegnato non solo gli eserciti, ma le comunità nazionali nel loro complesso, chiamandole a uno sforzo produttivo senza precedenti, sforzo che richiedeva la mobilitazione delle forze scientifiche. Anche nell’ambiente scientifico italiano, pur con qualche ritardo, si fece strada la consapevolezza che la scienza doveva abbandonare il mondo dell’astrazione per rivolgersi ai bisogni terreni. Proprio il nemico tedesco mostrava con clamorosa evidenza quale potere avesse assunto l’organizzazione tecnico-scientifica di un Paese nel determinare le sorti della guerra. Per «fare come in Germania» occorreva dotarsi di un’organizzazione della ricerca rivolta alla soluzione dei problemi economico-militari della propria patria.
La situazione drammatica in cui si vennero a trovare molte nostre attività produttive per le difficoltà di importazione svelò brutalmente la dipendenza dell’Italia dall’estero e impose all’attenzione di tutti la necessità di sfruttare al meglio le risorse presenti nel nostro Paese. Nacque quello che potremmo definire un nazionalismo scientifico-tecnico, una concezione della scienza che privilegiava le ricerche rivolte allo sfruttamento più ampio possibile delle risorse nazionali. Fu questo un mutamento ideologico che avrà grande peso negli sviluppi dell’ideale autarchico.
Il dibattito a questo proposito fu ampio, ma le iniziative concrete non furono molte. Va segnalata soprattutto l’apertura, nel marzo 1917, di un Ufficio invenzioni (poi Ufficio invenzioni e ricerche) presso il ministero della Guerra, sotto la direzione del matematico Vito Volterra (1860-1940). Questo ufficio cercò di instaurare forme di collaborazione organica tra le forze armate e il mondo dell’università, riuscendo a coinvolgere un notevole numero di docenti in ricerche di spiccato interesse bellico. Proprio questo ufficio fu l’embrione dal quale nacque il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR).
Il dopoguerra
Negli anni del dopoguerra la discussione sulle possibilità dell’Italia di rendersi autonoma rispetto alle importazioni fu vivissima, toccando in particolare i combustibili e i fertilizzanti. Il problema dei fertilizzanti azotati fu risolto in buona parte grazie alla messa a punto di due processi di produzione, a opera di Luigi Casale (1882-1927), ricercatore e industriale che operò praticamente da solo, e di Giacomo Fauser (1892-1971), chimico che trovò grande attenzione nella Montecatini di Guido Donegani. Nel campo dei fertilizzanti potassici, si fece promotore di molte ricerche Gian Alberto Blanc (1879-1966), scienziato e industriale assai influente, il quale nel 1918 aveva messo a punto un processo per estrarre dalle grandi riserve italiane di roccia leucitica allumina, potassa e silice. Queste ricerche si prolungheranno ancora negli anni Trenta, senza però ottenere risultati soddisfacenti.
La questione dei combustibili fu discussa ancora più diffusamente di quella dei fertilizzanti, poiché essa era decisiva per l’economia del Paese. Gli ottimisti, più che sulla prospettiva di scoprire nuovi giacimenti, puntavano sull’idea, assai diffusa anche in Francia, del ‘combustibile nazionale’, cioè di un combustibile succedaneo di quelli che era necessario importare dall’estero, dalla maggioranza individuato nell’alcol etilico poiché questo assicurava uno stretto legame con la produzione agricola e ciò lo faceva apparire particolarmente adatto a un Paese prevalentemente agricolo qual era l’Italia. Nessuno pensava che da solo l’alcol avrebbe potuto far fronte ai bisogni della nazione e vennero proposti programmi complementari che andavano dalle indagini sui nostri giacimenti fossili, allo sfruttamento ottimale di questi ultimi, alla ricerca del petrolio e dei gas naturali nel sottosuolo, alla gassificazione dei legnami. Paladino e massimo studioso dei combustibili nazionali fu Mario Giacomo Levi (1878-1955), docente prima a Bologna e poi al Politecnico di Milano, dove ebbe la direzione della Sezione combustibili. Preziosa per Levi fu la collaborazione di Carlo Padovani.
Quando il fascismo giunse al potere, la crisi economica era ormai terminata e stava per cominciare un periodo di crescita economica che sarebbe durato sino alla grande crisi del 1929. Lo sviluppo economico avvenne sulla base di un forte interscambio con l’estero, in opposizione all’ideale che mirava alla diminuzione delle importazioni. Progressivamente, il clima culturale italiano non fu più favorevole a un progetto di emancipazione a ogni costo dagli altri Paesi, e varie iniziative che erano state lanciate in un’ottica nazionalista conobbero vita grama. Per es., Umberto Pomilio, un industriale che aveva lavorato a Napoli in accordo con il chimico Francesco Giordani e aveva messo a punto un processo di produzione della cellulosa basato sul cloro, presentato come una tecnologia di sicuro interesse nazionale perché partiva da piante annuali, dovette abbandonare l’impresa nel 1926 e andare a cercare fortuna all’estero.
Com’era da aspettarsi, il ricorso retorico ad argomentazioni tratte dal bagaglio culturale del nazionalismo non cessò, soprattutto da parte di coloro che intendevano ricorrere agli aiuti di Stato per far nascere nuove produzioni. Tutte le iniziative industriali che si tentò di avviare in quegli anni venivano presentate come iniziative di interesse nazionale. L’industria dei coloranti, quella dei metalli leggeri (con Livio Cambi a dirigere le ricerche), quella della cellulosa furono tra le più presenti nella pubblicistica relativa alle ‘industrie nazionali’.
Fu proprio nel corso di questo acceso dibattito che scienza e tecnica furono ripetutamente indicate come grandi forze produttive e venne chiesto a più riprese che fossero prese misure legislative adeguate per implementare anche in Italia grandi strutture di ricerca nazionali.
L’autarchia in embrione
La spinta per un rinnovamento delle strutture di ricerca sfociò nella fondazione del CNR, programmaticamente destinato a favorire la concentrazione di risorse e a orientare la scienza italiana verso i principali problemi della patria. L’istituzione, dopo lunga e faticosa gestazione, cominciò a lavorare nel 1929, sotto la presidenza (più onoraria che operativa) di Guglielmo Marconi. Anche se molti dei progetti di ricerca ai quali il CNR concesse il proprio appoggio non riguardavano produzioni di interesse nazionale, una parte cospicua dei fondi (in assoluto comunque scarsissimi) venne distribuita partendo dal presupposto che l’Italia fosse un Paese con una propria specifica struttura produttiva a vocazione agricola e pertanto le ricerche scientifiche dovessero occuparsi di questioni altrettanto specifiche. Molto influente a questo riguardo fu la figura di Nicola Parravano (1883-1938), leader della chimica italiana e il solo scienziato presente nel Direttorio del CNR. Pur occupandosi di questioni legate alla grande industria, particolarmente quella siderurgica, Parravano pensava all’Italia non come a un Paese destinato a seguire le orme di quelli industrialmente più avanzati, bensì a rimanere il Paese dei campi e del sole. Così scriveva nel 1931:
Noi dobbiamo concepire il mondo un po’ diversamente dai Paesi nordici industrializzati e ricorrere con più larghezza e per compiti di maggior rilievo alle officine chimiche del buon Dio, officine che non hanno capriate di ferro rugginoso, ove non v’è atmosfera fumosa e viziata, ma ove l’operaio, pur più povero, canta al sole la sua canzone, che è quasi sempre d’amore o di gioia.
Il 1931 fu un anno di cambiamento del clima politico-economico italiano. Solamente nel corso di quest’anno venne valutata appieno la gravità della crisi economica iniziata a livello internazionale nel 1929. Le difficoltà del momento, e in particolare l’acuirsi delle tensioni nel mercato internazionale, risvegliarono un’attenzione rinnovata per il tema della valorizzazione delle risorse nazionali: in un periodo in cui l’economia interna stava rallentando e le strade degli scambi internazionali diventavano più strette, appariva ragionevole la prospettiva di tentare un rilancio economico puntando sul mercato interno e sullo sfruttamento delle possibilità della nazione. Non vi fu una svolta spettacolare in questo senso, ma un progressivo rafforzarsi, a partire proprio dal 1931, delle voci di coloro che ricominciavano a prendere sul serio idee che erano state in auge pochi anni prima. Naturalmente proseguirono ancora le ricerche inerenti tecnologie molto avanzate, come quelle di Giulio Natta (1903-1979) e dei suoi collaboratori sulle sintesi catalitiche degli alcol e dei loro derivati o quelle di Livio Cambi (1885-1968) e della sua scuola sui metalli non ferrosi, ma anche queste furono vissute, o comunque presentate, come imprese ad alto significato patriottico e contribuirono alla costruzione di un clima culturale sempre più vivamente proteso al raggiungimento dell’autonomia della nazione.
Negli anni seguenti, con l’acuirsi della crisi economica e il progressivo indebolimento del commercio internazionale, questa prospettiva nazionalista andò rafforzandosi, subendo un’accelerazione alla fine del 1933. Benito Mussolini decise di mobilitare la società italiana in vista di una guerra mediante la costituzione di un’organizzazione dello Stato in grado di indirizzare i movimenti economici, tanto quelli interni, quanto quelli da e verso l’estero. Volenti o nolenti, occorreva riconoscere che non era più possibile uscire dalla crisi ricorrendo ai mercati internazionali e l’alternativa per il nostro Paese sembrava ormai tracciata: sviluppo massimo delle risorse nazionali mediante l’organizzazione corporativa in funzione di una mobilitazione bellica.
Negli ultimi mesi del 1933 si estese il nazionalismo scientifico-tecnico. Dal governo vennero molteplici spinte in questa direzione, con misure legislative che favorivano i prodotti nazionali. Furono avviate anche vere e proprie campagne di mobilitazione, la più ampia delle quali fu senza dubbio, nel 1934, quella relativa alla cellulosa.
Il problema della cellulosa si era già presentato nel dopoguerra, ma in seguito era stato sostanzialmente accantonato ricorrendo all’importazione. Nella prima metà degli anni Trenta la questione si ripresentò tuttavia in termini più gravi: la difficoltà a procurarsi la materia prima ricorrendo al commercio estero, l’impetuoso sviluppo dell’industria dei tessili artificiali, gran consumatrice di cellulosa, la prospettiva dell’impegno bellico, che prefigurava un ingente consumo di cellulosa nobile per gli esplosivi, erano fattori che rendevano urgente una soluzione. Il governo decise di impiantare a Foggia una fabbrica per la carta e la cellulosa dalla paglia di grano, utilizzando i brevetti acquistati da Pomilio, che rientrava così in Italia. Fiorirono gli studi che cercavano fonti per la cellulosa nello sparto libico, nei canapuli, nella paglia di riso, inaugurando un elenco destinato a diventare molto lungo. Si giunse alla decisione di troncare l’importazione di legname, nella speranza, che poi si rivelerà infondata, di potersi reggere su fonti nazionali.
Oltre agli studi sulla cellulosa, un po’ tutti i campi di ricerca maggiormente legati alle esigenze nazionali trovarono nel 1934 un clima particolarmente favorevole: ebbero un’impennata le ricerche sull’alcol carburante, l’impiego dei gas naturali, in particolare del metano che cominciava a rivelare la propria importante presenza nel sottosuolo italiano, il gassogeno per autotrazione, le risorse delle colonie, lo sfruttamento delle risorse minerarie nazionali. Si trattava di anticipazioni autarchiche, anche se l’autarchia ufficialmente doveva arrivare solo l’anno dopo.
L’autarchia di guerra
Il 1935 e la prima metà del 1936 costituiscono un periodo in cui la preparazione e l’attuazione della guerra di Etiopia dominarono la scena politica italiana. L’economia, l’organizzazione istituzionale, la propaganda, tutto venne subordinato al progetto di costruzione di un impero. Fu il periodo in cui nacque ufficialmente l’autarchia, ma la politica autarchica si risolse in una serie di mosse decise affannosamente quasi giorno per giorno, non preordinate, piuttosto dettate dai bisogni creati dalla guerra e dagli avvenimenti internazionali: fu l’autarchia di guerra.
Anche nella seconda metà del 1936 le condizioni rimasero eccezionali, segnate profondamente da quanto avvenuto nei mesi precedenti; in particolare, il commercio con l’estero non poté riprendere velocemente, in quanto fu necessario rinegoziare i trattati commerciali conclusi in precedenza con i Paesi ex ‘sanzionisti’ e regolare le modalità di liquidazione dei debiti verso l’estero dipendenti da importazioni effettuate prima delle sanzioni. Il tutto mentre il mercato internazionale era scosso da crisi monetarie a ripetizione che costrinsero l’Italia a svalutare la lira. Soltanto con il 1937 si comincerà a ritenere l’autarchia un piano, un insieme di misure coordinate che puntavano a risolvere questioni di lungo periodo.
Nella primavera del 1935 l’inizio delle operazioni belliche pose ovviamente il problema dei mezzi materiali necessari alla guerra, delle potenzialità industriali e agricole, cosicché le mosse a scopo direttamente bellico s’intrecciarono con quelle di politica economica. Per fronteggiare il crescente disavanzo della bilancia commerciale, nel 1935 vi fu un crescendo di misure legislative che posero vincoli sempre più forti alla possibilità di importazione di materie prime e prodotti. Queste misure concepite quali mezzi per la difesa della lira, interventi finalizzati a risolvere problemi valutari, non si collegavano, tanto nella forma come nella sostanza, a un progetto autarchico.
D’altra parte, dal punto di vista militare le questioni interessanti non erano certo di ordine valutario, ma riguardavano beni materiali quali armi, mezzi di trasporto, vettovagliamenti, combustibili. Per chi doveva condurre una guerra era urgente avere mezzi materiali, poco importava se questi dovevano essere acquistati all’estero con un cambio sfavorevole. Si configurò così una dicotomia tra ‘autarchia valutaria’ e ‘autarchia integrale’, che diede origine a posizioni diverse rispettivamente rappresentate da Felice Guarneri (1882-1955), a capo della Sovraintendenza allo Scambio delle valute, e dal generale Alfredo Dallolio (1853-1952), presidente dell’appena attivato Comitato per la mobilitazione civile, responsabile della preparazione materiale della guerra.
Il 31 agosto 1935, nel discorso tenuto al termine delle grandi manovre, Mussolini anticipò il tema delle possibili sanzioni all’Italia da parte della Società delle nazioni, di cui si era appena cominciato a parlare, annunciando la tesi che l’Italia «farà da sé». Era questo l’annuncio ufficiale dell’autarchia. Il 2 ottobre venne dichiarata la guerra di Etiopia. Al Paese fu richiesto un grande sforzo produttivo, ma contemporaneamente fu sospesa l’importazione di macchinari e fu sollecitata la riduzione di materie prime estere per rispettare le esigenze valutarie.
Era veramente possibile per l’Italia fare una guerra e, contemporaneamente, riequilibrare la bilancia di pagamento con l’estero, soddisfare tanto gli Stati maggiori quanto il ministero delle Finanze? L’autarchia avrebbe dovuto compiere il miracolo: fornire tutto (o quasi) il materiale necessario alla guerra senza ricorrere al mercato mondiale. Si trattava, per molti aspetti, di un problema scientifico-tecnico più che politico-economico e, in effetti, nel corso del 1935, il governo aveva chiesto lumi alla scienza italiana coinvolgendo il CNR nello studio della questione delle materie prime, assolutamente centrale per il progetto autarchico.
Nell’aprile 1935 era già stata fondata la Commissione interministeriale per le materie prime insufficienti e per i succedanei e i surrogati (CISS), costituita da rappresentanti di alcuni ministeri, delle forze armate e da studiosi indicati dal CNR. Compito della commissione era l’elaborazione di una relazione, da presentarsi a ogni inizio d’anno, sui fabbisogni di materie prime nel caso di un anno di guerra, sulla capacità nazionale di produrle, sui surrogati disponibili. La relazione doveva fornire le reali capacità dell’Italia di ‘fare da sé’, dando così un sostegno scientifico a scelte politiche di importanza enorme. La commissione rimase operante fino al 1940, quando, dal momento che la guerra era ormai iniziata, non serviva più fare previsioni. Fino a quando rimase in vita la CISS rappresentò un’occasione di confronto unica tra ambienti scientifico-tecnici e militari.
Subito dopo l’inizio della guerra, nell’ottobre, l’assemblea della Società delle nazioni dichiarò l’Italia Stato aggressore e deliberò contro di essa sanzioni economiche che comprendevano l’embargo sulle armi e le munizioni, il divieto di dare prestiti e aprire crediti, il divieto di importare merci italiane e di esportare in Italia merci ritenute necessarie all’industria di guerra. Queste misure entrarono in vigore il 18 novembre.
Con l’annuncio delle sanzioni si aprì per l’Italia un periodo di particolare mobilitazione e il consenso al regime toccò il suo punto più alto. Per effetto delle «inique sanzioni» l’Italia era costretta a fare quello che da mesi si diceva, cioè bastare a sé stessa (o quasi), realizzare quindi l’autarchia. Quello che era stato fatto sino ad allora sulla via autarchica si riduceva alla predisposizione di misure per mettere sotto controllo il commercio con l’estero, mentre la modifica del nostro apparato industriale e agricolo al fine di produrre nel Paese quanto non avrebbe più dovuto o potuto essere importato era stata appena auspicata, invocata, vagheggiata. Certamente, il movimento di pensiero, ma anche di realizzazioni, del nazionalismo tecnico-scientifico che abbiamo visto presente da quasi due decenni in Italia costituiva una premessa non indifferente all’autarchia: era un bagaglio di idee, di ricerche, di esperienze, di indicazioni, di realtà industriali che poteva essere sfruttato, che aveva grande incidenza dal punto di vista ideologico e poteva essere impiegato come terreno di coltura sul quale far crescere il progetto autarchico, ma rappresentava, sul piano della prassi, ben poca cosa rispetto alle enormi necessità che si aprivano dinanzi a coloro che volevano realmente, per amore o per forza, rendere l’Italia bastante a sé stessa. Le sanzioni posero gli italiani di fronte alla necessità di passare dalla discussione un po’ accademica sull’autonomia, all’attuazione di misure immediate per far fronte alle necessità nuove, urgenti, generate da una drastica diminuzione delle possibilità di importazione.
Il problema energetico
Il primo, più importante scoglio sulla rotta dell’autarchia fu quello dei combustibili fossili, che erano di gran lunga la voce più elevata delle nostre importazioni: 13% nel 1935, mentre la seconda voce, il cotone greggio, rappresentava solo il 7,4%. Le severe misure di controllo delle importazioni, insieme con le difficoltà create dalle sanzioni, fecero scendere molto la quantità di carbone importata: se nel 1934 avevamo importato 14.589.600 t, nel 1936 ne importammo soltanto 9.236.600. Questo spettacolare calo, che la propaganda tentava di presentare come un grande successo autarchico, significò riduzione drastica delle scorte esistenti e grandi difficoltà per quelle attività produttive che necessitavano di carbone.
Al ‘risparmio forzoso’ di carbone si affiancò l’incremento della produzione nazionale. Nel luglio 1935 era stata fondata l’Azienda carboni italiani (ACaI). Sotto la presidenza di Guido Segre (1881-1945), l’ACaI, a partire dall’ottobre 1935, cominciò a identificare e censire la potenzialità dei nostri giacimenti carboniferi, primi su tutti quelli istriani e quelli sardi. Già nel 1936 queste due zone fecero registrare un notevole aumento di carbone estratto. Incrementate, ma in misura minore, furono anche le ricerche e le attività estrattive in altre regioni, con raccolta di ligniti e di altri combustibili di ancor minor pregio. Nel 1936 la produzione complessiva fu di circa 1.600.000 t, con un progresso di oltre il 50% rispetto all’anno precedente. Poco più di un milione e mezzo di tonnellate prodotte rappresentavano comunque appena un decimo di quello che nel 1935 era stato importato. Nessun tecnico serio poteva pensare di liberare completamente l’Italia dalla schiavitù del carbone estero. Le stime più entusiaste arrivavano a prevedere una capacità estrattiva massima di 4.000.000 di tonnellate, neppure un terzo del carbone importato.
La discussione sulla questione dei combustibili era vecchia di decenni. Il clima autarchico rinfocolò vecchie passioni, ripropose soluzioni già ampiamente discusse, e spesso scartate, che nel momento attuale potevano però essere riconsiderate. I nostri combustibili fossili erano stati studiati in primo luogo da Levi e dalla sua scuola, e già si conoscevano i problemi che essi ponevano. Se questi problemi in passato erano sembrati tali da costringerci a ricorrere al combustibile importato, ora dovevano venire risolti. Ebbe così inizio una vasta attività di sperimentazione e furono ripresi gli studi per cercare di impiegare i combustibili nostrani.
Ecco come Levi descriveva il mutamento di clima culturale che era intervenuto a seguito della guerra coloniale:
Nel 1931 nella XX riunione della nostra Società a Milano ebbi a trattare di una sola parte del problema considerando gli aspetti tecnici ed economici del problema dei carburanti. La mia fede, il mio entusiasmo ed il nostro lavoro non si erano allentati […] ma l’atmosfera italiana era scettica e pavida: prevalevano le considerazioni strettamente economiche […] Confesso che a quel Congresso io ho sofferto. […] E come oggi l’atmosfera è mutata! […] Il terreno coltivato con coscienziosa fede, germoglia vigorosamente, gli indifferenti sono divenuti entusiasti, gli incompetenti si sono affrettati a studiare e sono divenuti sapienti, gli industriali, i tecnici, i capitali sono in piena mobilitazione […] Le ragioni di tale mutamento sono note a tutti: […] contro di noi fu coalizzato o si cercò di coalizzare tutto il mondo quando 50.000 italiani erano impegnati fuori della Patria in un altro continente a conquistare l’Impero: dalla rapidità, dai trasporti, dalla produzione, dalle armi dipendevano o la sfolgorante vittoria o il soffocamento e l’umiliazione; uniche materie prime sicuramente nazionali e sicuramente disponibili l’eroismo del nostro esercito di tutte le armi e di tutti i ranghi, la profetica veggenza e il superumano coraggio del Capo (M.G. Levi, Autarchia del combustibile, in Atti della Società italiana per il progresso delle scienze, 1937, pp. 287-88).
Questione di grande rilievo era l’utilizzo più razionale possibile delle nostre ligniti. L’impiego tecnologicamente più interessante era l’ottenimento di benzina per idrogenazione. Quello dei combustibili liquidi, dal punto di vista della bilancia commerciale, non era tra i problemi più gravi, ma nell’ottica militare rappresentava la questione strategica che destava le maggiori preoccupazioni, poiché, in caso di guerra, era indispensabile far muovere carri, navi e aerei.
La tecnica di idrogenazione era molto recente e ancora in fase di perfezionamento. Non pochi tecnici erano scettici sull’opportunità di avviare nel nostro Paese una simile produzione, ma il clima antisanzionistico era foriero di iniziative ‘coraggiose’ e vari industriali si offrirono di tentare la nuova strada, s’intende con l’aiuto dello Stato. Su tutti ebbe la meglio un’iniziativa congiunta della Montecatini e dell’Agip che, nel febbraio del 1936, diedero vita all’Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC), con capitale metà pubblico e metà privato. L’ANIC nacque e prosperò con l’acquisto di brevetti esteri. Nella temperie della guerra le procedure furono accelerate e venne rapidamente dato il via alla costruzione di due grandi impianti a Bari e a Livorno.
Con la nascita dell’ANIC prendeva corpo una delle esperienze tecnologicamente più importanti del ventennio fascista, destinata ad avere riflessi di rilievo sullo sviluppo industriale del secondo dopoguerra.
Più di due milioni di tonnellate di carbone importato erano consumati nelle officine del gas e nelle cokerie. Questa industria si basava necessariamente sul carbone estero, poiché quello nazionale non possedeva le caratteristiche necessarie, sebbene non fossero mancati i tentativi di studiarne la possibile utilizzazione. Proprio in quanto inesorabilmente importatrice di materia prima, l’industria del gas aveva dovuto già nel passato difendersi dall’accusa di non essere ‘industria nazionale’ e ora, in clima sanzionistico, su «Acqua e gas», la rivista dell’Associazione italiana gas e acqua, si moltiplicarono gli articoli in difesa del grande valore che il lavoro dei gasisti aveva per la nazione. Il peso di questa polemica fu sostenuto con vigore da uno dei massimi tecnici degli impianti del gas, Camillo Giordani, il quale combatté con molti interventi contro una visione angusta e rozza dell’autarchia.
Altri importanti consumatori di carbone erano le ferrovie e la siderurgia. Per entrambi i settori furono fatti diversi infelici esperimenti per ottenere un qualche risparmio, fino a indicare come unica via praticabile l’impiego dell’energia elettrica sulle strade ferrate e negli altiforni.
La strada principale che avrebbe condotto l’Italia a svincolarsi dalle fonti energetiche d’importazione solide o liquide, appariva, a giudizio di molti, l’elettricità. L’energia elettrica avrebbe dovuto applicarsi al posto dell’energia termica ovunque. I più entusiasti giunsero a preconizzare l’elettrificazione di strade e autostrade. Le centrali elettriche italiane erano nella quasi totalità di tipo idraulico, dunque era l’acqua dei monti, il ‘carbone bianco’ la fonte dell’energia, fonte nazionale, garantita in tutte le evenienze. La parola d’ordine di sostituire, ovunque fosse possibile, l’elettricità al carbone era di facile effetto retorico, ma poneva non poche difficoltà. Alcune, nelle ore di particolare tensione in cui viveva l’Italia, potevano essere accantonate e diventava lecito, in quanto patriottico, riprendere in considerazione progetti che avevano già mostrato la propria scarsa convenienza, come nel caso dell’aratura elettrica. A gettare acqua sul fuoco degli entusiasmi provvidero in primo luogo proprio gli industriali elettrici.
Con tutta la sua autorevolezza Giacinto Motta (1870-1943), elettrotecnico di grande valore, ma anche grande imprenditore, intervenne a ribadire una posizione che da anni era una caratteristica fondamentale della strategia della Edison. La più potente società elettrica italiana si era sviluppata prudentemente privilegiando gli utenti del campo elettrochimico ed elettrometallurgico, che garantivano consumi costanti e spazialmente concentrati, mentre aveva considerato senza entusiasmo gli usi domestici e per forza motrice. Motta rifiutò con decisione le enfatiche presentazioni circolanti dell’industria elettrica quale industria ‘autarchica’ per eccellenza – anch’essa doveva importare materiali come rame e gomma – e, soprattutto, denunciò l’irrazionalità dell’uso dell’energia elettrica in ambito domestico e agricolo. Evitando questa irragionevole politica espansionistica dell’elettricità, l’Italia avrebbe potuto far fronte ai fabbisogni elettrici con le capacità produttive esistenti. Coerentemente con questa impostazione gli impianti non vennero potenziati.
Il mezzo di soluzione del problema dei carburanti che ebbe maggiori attenzioni nella stampa tecnico-scientifica nel 1936 fu il gassogeno. Era questa una via che, dopo gli entusiasmi iniziali, nel 1934 appariva deludente. Ma l’evolversi della situazione politica segnò le fortune del gassogeno. A più riprese, nel 1935 il governo emanò decreti per incentivare l’impiego del gassogeno, che fu inteso da molti come il ‘carburante nazionale’ per eccellenza. Sul tema si assistette a un fiorire di studi e di pubblicazioni. Fu soprattutto nel settore del trasporto pubblico cittadino che il gassogeno trovò applicazione pratica. Il maggior ostacolo alla diffusione dell’autotrazione a gassogeno era rappresentato dalla difficoltà della raccolta del legname, dallo stoccaggio e dalla distribuzione del carbone di legna, molto più ingombrante e di più difficile trasporto della benzina o di altri combustibili liquidi. Nel 1936 cominciò a destare interesse anche l’applicazione del metano all’autotrazione. Protagonista dello sviluppo di questa nuova forma di autotrazione fu Carlo Padovani, che lavorava a Milano in stretto contatto con Levi.
Il tessile
Nell’ordine di urgenza dei grandi problemi autarchici, subito dopo il complesso problema energetico si collocava quello della produzione tessile. L’esborso di valuta occorrente per cotone e lana era quasi pari a quello per i combustibili solidi e la penuria di queste materie prime era una tendenza di lungo periodo. Nonostante le misure prese per aumentare la produzione di lana, cotone e altre fibre tessili minori, era chiaro a tutti che dalle fibre naturali non si potevano attendere grandi aiuti per il raggiungimento dell’autarchia in questo ambito. Le fibre artificiali, in primo luogo il raion, rappresentarono la grande speranza.
L’industria delle fibre tessili artificiali era oltremodo fiorente sin dagli anni Venti in Italia, Paese che rappresentava uno tra i maggiori produttori mondiali. Sulla spinta di iniziative legislative che obbligavano gli industriali all’impiego di fibre nazionali furono realizzati tessuti misti con percentuali elevatissime di raion. La produzione di fiocco di raion schizzò dalle circa 10.000 t del 1934, alle 30.000 del 1935, alle 50.000 del 1936, portando l’Italia al primo posto nel mondo tra i Paesi produttori. Oltre al raion, un’altra fibra artificiale, non cellulosica, ma proteica, conobbe grande fortuna: il lanital. Ricavata dalla cagliata del latte, questa fibra presenta caratteristiche simili alla lana e può essere impiegata come suo succedaneo. Il lanital, probabilmente la più reclamizzata tra le scoperte autarchiche, fu ideato, sviluppato e prodotto all’interno della SNIA Viscosa (Società Navigazione Industriale Applicazione Viscosa) da Antonio Carlo Ferretti (1889-1955), già inventore del cuoio artificiale.
Aggiungendosi prepotentemente alla riduzione dei consumi, al modesto aumento della produzione nazionale, all’impiego delle scorte, all’uso di fibre naturali alternative a quelle tradizionali, le fibre artificiali irrobustirono un processo di attacco all’importazione di lana e di cotone. Il Convegno delle fibre tessili nazionali e dell’impero, che si tenne a Forlì nel dicembre del 1936, aveva qualche ragione per ostentare ottimismo e soddisfazione.
La cellulosa
L’aumento massiccio della produzione di raion si scontrava con una difficoltà: la cellulosa, materia prima fondamentale, doveva essere quasi completamente importata. La questione della cellulosa, lo si è visto, era stata posta già nel 1934 come grande problema nazionale. La cellulosa era di importanza vitale per molti settori, oltre a quello dei tessili artificiali: per la carta, per gli esplosivi, per le vernici e le materie plastiche. I due maggiori consumatori di cellulosa erano comunque il settore delle fibre artificiali e quello della carta, che avevano richiesto un’importazione sempre crescente. La produzione nazionale, nella prima metà degli anni Trenta, non aveva raggiunto il 5% del fabbisogno, ed era limitata alla sola cellulosa per carta, dovendosi importare completamente quella più pura per raion e usi militari. Non restavano che due vie, oltre al risparmio della carta, che fu sollecitato da un’intensa campagna di stampa: il rimboschimento e l’impiego di piante a ciclo annuale.
Nella riunione della Corporazione del legno dell’11 febbraio 1936 venne ripresa l’indicazione data nella sua relazione da Francesco Carlo Palazzo, massimo studioso delle possibilità di sfruttamento del nostro patrimonio boschivo, di ricercare la soluzione del reperimento di cellulosa da raion nelle latifoglie a rapida crescita, in particolare nel pioppo. Secondo i giornali (ma vi è qualche dubbio in proposito) il piano di sviluppo del pioppo si realizzò con la distribuzione gratuita di 10 milioni di pioppelle l’anno.
L’estensione della coltivazione del pioppo era comunque una soluzione a lungo termine, poiché il pioppo poteva essere utilizzato non prima dei dieci anni di età. Per questo, la via della pioppicoltura sollevò molte perplessità in coloro che credevano che il problema della cellulosa nazionale fosse urgente, soprattutto i militari. Per avere disponibilità immediata di cellulosa nazionale non restava che rivolgersi alle piante a ciclo annuale.
Al fine di promuovere lo sviluppo della fabbricazione di cellulosa da materie prime nazionali, nel giugno del 1935 era stato fondato l’Ente nazionale per la cellulosa e per la carta, sotto la presidenza di Giuseppe Caradonna, con vicepresidente Francesco Giordani. La maggior parte dei fondi dell’Ente fu versata agli editori per compensarli della crescita delle spese dovuta al maggior costo della cellulosa. Per la sperimentazione scientifica, l’Ente si appoggiò soprattutto alla Stazione sperimentale per l’industria della carta e lo studio delle fibre tessili di Camillo Levi, ove vennero messe alla prova molteplici fonti di cellulosa (soprattutto quella per carta), con risultati alterni. I tecnici delle forze armate preferivano di gran lunga il metodo Pomilio, fondato sull’utilizzo del gas cloro. Tale metodo aveva un’indubbia validità tecnica, ma richiedeva investimenti notevoli e aveva costi incerti, perciò gli industriali preferirono altri metodi.
I tecnici delle forze armate continuarono a premere affinché il processo Pomilio venisse adottato in maniera diffusa. La Commissione suprema di difesa il 27 febbraio 1937 si pronunciò a favore dell’adozione del processo al cloro per tutte le piante annuali. Tutto fu inutile e nessuno degli impianti per la produzione della cellulosa da piante annuali che si cominciarono a costruire nel 1936 presso le maggiori cartiere adottò il metodo al cloro gassoso.
In attesa che le iniziative industriali di cui tanto si parlava cominciassero a tradursi in realtà produttiva, il difficile momento fu affrontato facendo operare al massimo le tre fabbriche di cellulosa esistenti.
Per la cellulosa da raion, di qualità superiore rispetto a quella per carta, non si poté fare a meno di continuare a ricorrere all’importazione che anzi, visto l’incremento di raion resosi necessario per la sostituzione delle fibre naturali, dovette essere aumentata. Anche in questo settore gli industriali, inizialmente assai riottosi, dovettero affrontare il problema del reperimento di fonti nazionali. La SNIA Viscosa, conducendo una ricerca tutta al proprio interno, prese da sola l’iniziativa (mentre altre industrie esprimevano dubbi) di un grande impianto da realizzarsi a Torre Zuino, in provincia di Udine, che utilizzava la canna comune. Del tutto irrisolto rimase poi il problema delle cellulose nobili per nitrazione, fondamentali per gli esplosivi, tanto che la Direzione superiore del servizio tecnico armi e munizioni si adattò all’idea di fabbricare esplosivi con cellulosa per raion.
Qualche speranza di produrre cellulosa fu riposta nei vegetali dei possedimenti coloniali. Ancora una volta protagonisti di questi tentativi furono Camillo Levi, Pomilio e Giordani. Dalla loro spinta nacque un impianto al cloro gassoso presso Napoli che utilizzava lo sparto tripolino, impresa che rimase però isolata.
I metalli
Per una nazione in guerra la disponibilità di acciaio e di altri metalli è questione di vitale importanza, e l’Italia da questo punto di vista non brillava. Eppure nel biennio 1935-36 questo non venne considerato un problema particolarmente drammatico. Dell’autarchia siderurgica si sarebbe discusso soltanto in tempi successivi.
Sulla questione esistevano due schieramenti ben delineati. Da un lato, la dirigenza dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, ossia Oscar Sinigaglia, Alberto Beneduce, Agostino Rocca) favorevole al ciclo integrale; dall’altro, i produttori liguri e lombardi (con in testa la Falck), fautori del ciclo del rottame. Alla fine del 1935 la ripresa del ciclo integrale esisteva solo nella mente dei dirigenti dell’IRI e tale rimarrà per molti mesi. Un dibattito vero e proprio su quello che l’autarchia significasse per il settore siderurgico iniziò soltanto nel direttivo dell’Associazione degli industriali metallurgici (Assometal) del 7 ottobre 1936. Qui Arturo Bocciardo, esponente dell’industria privata, presentò una relazione che si concludeva osservando che, dal punto di vista valutario, era più conveniente importare il minerale piuttosto che il rottame, mentre dal punto di vista economico il rapporto si rovesciava: in particolare, la costruzione di nuovi impianti a ciclo integrale avrebbe richiesto un costo sproporzionato rispetto ai benefici. Era questo solo l’inizio di uno scontro tra siderurgia pubblica (del ciclo integrale) e siderurgia privata (a carica solida) che si sarebbe giocato all’ombra dell’autarchia.
Nel periodo della guerra e nei mesi immediatamente successivi l’approvvigionamento del ferro necessario all’Italia venne affrontato senza prospettare grandi riforme. Eppure, le condizioni nuove createsi determinarono uno sconvolgimento profondo nella disponibilità di materie prime, in primo luogo quelle per l’acciaio. L’importazione di rottami, che costituivano la principale materia prima per la nostra struttura siderurgica, diminuì del 59%; l’importazione di minerali di ferro calò dell’81%, quella della ghisa del 65%; crollarono anche le importazioni di ferro e acciaio lavorati. Per fronteggiare il venir meno del flusso dall’estero si ricorse a un aumento della produzione di minerale nazionale del 52% (che però poté appena compensare quello che non arrivava più da oltre frontiera), a una forte diminuzione delle voci corrispondenti in esportazione, alla raccolta sistematica del rottame nazionale («ferro alla Patria»), all’uso delle ceneri di pirite. Furono soprattutto queste ultime, che in precedenza erano sostanzialmente inutilizzate, a consentire nel 1936 una produzione di acciaio inferiore soltanto del 9,6% rispetto a quella del 1935. Naturalmente, il prezzo delle piriti (praticamente un monopolio della Montecatini) salì immediatamente, passando dalle 60-65 lire la tonnellata a 120.
Il problema dell’acciaio stranamente non parve particolarmente grave. Mussolini lo aveva detto:
Abbiamo ferro sufficiente per il nostro fabbisogno di pace e di guerra. La vecchia Elba sembra inesauribile: il bacino di Cogne è valutato a molte decine di milioni di tonnellate […] Aggiungendo al minerale di ferro le piriti, da questo lato possiamo stare tranquilli (cit. in Maiocchi 2003, p. 67).
Molti tecnici ostentarono la medesima tranquillità, basandosi sulla convinzione che il bisogno di acciaio per fini bellici fosse diventato, grazie ai progressi nella tecnica degli armamenti, molto inferiore a quello della Prima guerra mondiale. I due milioni di tonnellate di acciaio prodotti nel 1936, nonostante l’accerchiamento, erano ritenuti sufficienti a garantire la produzione bellica; semmai, a trovarsi in difficoltà sarebbero state le produzioni destinate ai civili.
La scelta di sacrificare i consumi civili di ferro fu compiuta con molta chiarezza dal governo che prese di mira soprattutto gli impieghi nell’edilizia, il settore meno importante per la strategia militare tra quelli che facevano grande uso dell’acciaio. Vennero prese misure limitative dell’edilizia pubblica e privata, che generarono una quasi paralisi delle attività costruttive, le quali nel 1936 calarono del 44%, ma si cercarono anche metodi costruttivi ‘autarchici’ che diminuissero il consumo di ferro risparmiando sul cemento armato.
La prospettiva di costruire case con poco cemento armato suscitò preoccupazione tra i tecnici, oltreché tra i cementieri e gli industriali del tondino. Alcuni dissero chiaramente che sarebbe stato meglio smettere di costruire piuttosto che affidarsi a materiali autarchici succedanei ignoti e aspettare tempi migliori. Altri cercarono di interpretare le direttive governative in una forma ragionevole, indicando, per es., la necessità di usare razionalmente il cemento armato secondo criteri di economia a parità di resistenza, orientandosi così lungo una direttrice affatto nuova. La soluzione autarchica preferita nel 1936 fu quella di non ritoccare i carichi di sicurezza del cemento armato, ma di alleggerire il peso complessivo degli edifici realizzando le chiusure verticali con materiali più leggeri degli usuali mattoni, segnatamente con la pietra pomice. La pomice di Lipari divenne il beniamino degli studiosi di scienza delle costruzioni, anche se il suo costo era elevatissimo. L’occasione era ghiotta anche per i produttori di alluminio e venne studiata la possibilità di impiegare barre di alluminio in luogo dell’acciaio nel cemento armato. Le travi con alluminio dovevano però essere molto più voluminose di quelle con acciaio, quindi richiedevano molto più cemento e costavano circa il triplo.
Se il ferro andava risparmiato in quanto materiale non autarchico, un altro metallo poteva, anzi doveva essere usato senza alcuna parsimonia, ed era proprio l’alluminio. Nel periodo tra le due guerre, questo metallo, trascinato dai suoi impieghi in aeronautica, divenne in tutti i Paesi industrialmente avanzati un materiale di importanza fondamentale. L’Italia era ricca di due minerali dai quali è possibile ricavare industrialmente l’alluminio: la bauxite e la leucite. Lo sfruttamento della bauxite era ormai attuato pressoché in tutti i Paesi mediante il metodo Bayer alla soda caustica e il successivo trattamento elettrolitico per ottenere il metallo. Poiché l’Italia centro-meridionale era ricca di rocce leucitiche, fin dalla Grande guerra Blanc aveva studiato il modo di ottenere dalla leucite potassio, da usare per i fertilizzanti, e alluminio, per mezzo di un trattamento con l’acido cloridrico (o nitrico). Tra i due metodi, i militari preferivano decisamente quello di Blanc, per la stessa ragione per la quale preferivano il metodo Pomilio per l’estrazione della cellulosa: l’acido cloridrico necessario a trattare la leucite necessitava di impianti per la produzione del cloro, ritenuto indispensabile per la produzione di armi chimiche. Purtroppo l’industria italiana aveva preso altre strade, esportando il minerale e importando il metallo.
Nel 1935 la situazione cambiò, la richiesta crebbe, la capacità produttiva divenne insufficiente e ripresero lena le iniziative industriali. Della leucite, però, nessuna industria si occupava. Un interesse vi era stato da parte del colosso americano Aluminium company of America, il quale aveva investito 100 milioni per acquistare i brevetti di Blanc e realizzare un impianto ad Aurelia (Roma). Sembra che tutta l’operazione fu fatta per bloccare lo sviluppo del sistema di Blanc, nella convinzione che lo sfruttamento della leucite avrebbe sconvolto il mercato. L’impianto – secondo l’interpretazione dei militari – era stato realizzato volutamente con gravi errori tecnici per dimostrare l’antieconomicità dell’impresa, e nel 1931 lo stabilimento smise di produrre. Con l’avvento dell’autarchia i militari chiesero che lo stabilimento di Aurelia fosse acquistato dallo Stato e riattivato. Pur se troppo costoso, l’alluminio divenne comunque ‘metallo nazionale’, elemento d’eccellenza nello schieramento delle nostre risorse, invocato per sostituire con le sue leghe il rame nei conduttori, nelle macchine elettriche e financo nei proiettili, il ferro nei motori, nelle pentole e nelle posate, il legno negli infissi.
Per gli altri metalli la situazione si presentava variegata; la peggiore era probabilmente quella del rame. Il rame era praticamente tutto importato e in quantità tali da rappresentare una delle principali voci d’importazione. La convinzione diffusa era che la produzione nazionale non avrebbe potuto essere aumentata in misura significativa e che, dunque, l’unico modo per ovviare al deficit commerciale fosse la sostituzione del rame con altre materie prime. In particolare, come già detto, si studiò molto l’uso dell’alluminio in luogo del rame negli impianti e nelle macchine elettriche, e fu profuso impegno anche per eliminare l’uso del solfato di rame come anticrittogamico. Tuttavia, nel biennio 1935-36 l’importazione di rame raggiunse livelli mai lontanamente sfiorati in precedenza. Protagonista delle ricerche sulla sostituzione del rame negli impianti elettrici fu Giancarlo Vallauri (1882-1953), tecnico di provata fede fascista, fondatore e direttore dell’Istituto elettrotecnico nazionale di Torino.
Prodotti chimici strategici
Nelle pubbliche occasioni la chimica venne spesso esaltata come la più tipica tra le scienze antisanzioniste. Parravano, in pieno ‘assedio economico’, così si esprimeva:
Assicurare, per quanto possibile, al Paese assediato la disponibilità di materie prime e la possibilità di fabbricazione dei prodotti necessari alla sua difesa ed alla sua vita è compito del quale gli industriali italiani hanno sentito tutta la bellezza e la nobiltà. L’industria chimica trae dalle sue stesse caratteristiche tecniche una particolare attitudine a fronteggiare situazioni difficili come quella che il nostro Paese sta attraversando: industria tipica dei surrogati, ricercatrice di vie nuove, essa, attraverso la fede, la genialità e lo spirito di sacrificio dei tecnici ha pienamente risposto ai doveri che la situazione le impone.
Nel suo complesso l’industria chimica nazionale, dominata dalla Montecatini, negli anni dell’autarchia trovò occasioni di grande espansione, venendo almeno parzialmente incontro ai bisogni della nazione. Naturalmente vi furono esigenze per le quali non vi era la minima speranza di soddisfacimento, neppure con la ‘fede’ e la ‘genialità’ dei nostri tecnici, ma vi erano prodotti di tale importanza strategica che non si potevano lasciare in balia del mercato internazionale senza combattere. Il caso più importante fu naturalmente quello dei prodotti per gli esplosivi. Già si è detto della cellulosa. Sui prodotti azotati (fondamentali per gli esplosivi) si erano erette le fortune della Montecatini, la quale, grazie ai processi Fauser di fissazione dell’azoto atmosferico, sembrava essere in grado di soddisfare, almeno in buona parte, i bisogni di fertilizzanti azotati dell’agricoltura e, al caso, quelli di acido nitrico concentrato e nitrato di ammonio delle forze armate. La guerra d’Etiopia smentì, tuttavia, questa visione ottimistica: la Montecatini non fu capace di mantenere le promesse e un mese dopo l’inizio delle operazioni fu costretta a chiedere il permesso di importare dalla Germania acido nitrico forte. Ciò fece da catalizzatore dei malumori circolanti negli ambienti militari nei confronti della Montecatini, vista come un monopolio (sorto con aiuti pubblici) dagli effetti deleteri sulla capacità bellica dell’Italia.
Prodotto di grande importanza strategica per i suoi molteplici impieghi militari (oltreché civili) era considerata la gomma. L’Italia era totalmente importatrice di gomma grezza e nel 1936 furono avviati alcuni progetti di coltivazione di vegetali da gomma sul territorio italiano, destinati comunque a mostrare risultati a lungo termine (non meno di sei anni). In ogni caso, le aspettative erano molto contenute. La soluzione autarchica della questione poteva venire solo dallo sviluppo di un’industria della gomma artificiale. Le informazioni sulle esperienze estere erano pochissime e la Pirelli lamentava di non avere a disposizione neppure un campione di Buna tedesca, la gomma sintetica prodotta dalla IG-Farbenindustrie. In tempo d’autarchia il nostro maggior produttore di articoli in gomma vide l’occasione propizia di farsi aiutare dallo Stato. Propose dunque, per poter continuare le ricerche sulla gomma sintetica che avrebbe comunque dovuto sviluppare per non essere tagliato dal futuro mercato, la fondazione di un istituto di ricerca con sede dentro lo stabilimento della Bicocca e la costruzione di un impianto semi-industriale. Lo Stato doveva accollarsi la differenza fra il costo della gomma sintetica così prodotta e il suo prezzo di vendita sul mercato. La gomma sintetica sarebbe poi stata acquistata dalla stessa Pirelli, che in questo modo avrebbe avuto a disposizione la gomma sintetica al prezzo della gomma naturale. La proposta piacque anche ai militari e venne costituita una società mista Iri-Pirelli (con presidente l’ubiquo Francesco Giordani) nel cui ambito si svilupperà una delle iniziative scientificamente più interessanti del periodo autarchico.
Scienziati propagandisti
Per tutto il periodo della guerra d’Africa e dell’autarchia il regime fascista si preoccupò di esercitare un’azione propagandistica intensa, capillare, martellante, utilizzando i mezzi e le occasioni più svariate. Gli scienziati e i tecnici ebbero un ruolo di primo piano in questo lavoro, fornendo, con la loro adesione pubblica ai programmi, alle iniziative, alle celebrazioni del governo, del partito, delle corporazioni, delle istituzioni una potente copertura di razionalità scientifica. Vi fu una saldatura pubblica senza incrinature tra le parole d’ordine della guerra e dell’autarchia, da una parte, e le ragioni della scienza e della tecnica, dall’altra, saldatura che nell’immaginario collettivo rappresentò imprese che appaiono del tutto irragionevoli alla stregua di dettati della scienza e della tecnica più avanzate. Con l’inizio della guerra l’ideologia del nazionalismo scientifico-tecnico raccontata nelle pagine precedenti si trasformò in un atteggiamento bellicoso e arrogante che si esprimeva in discorsi e scritti con i quali i nostri maggiori scienziati divennero tribuni, garanti entusiasti delle scelte politiche di fondo del governo e ufficiali di un disciplinato esercito di ricercatori. Gli esempi sarebbero moltiplicabili a piacere, ma basterà qualche cenno per dare un’idea generale del clima di consenso che la guerra generò in molti esponenti della comunità scientifica.
Luigi Vittorio Rolla (1882-1960), chimico di statura internazionale, in precedenza sempre moderato nelle sue esternazioni, in periodo sanzionistico così si esprimeva:
Mentre infuria la folle bufera scatenata contro l’Italia in nome di principii che sono nel più stridente contrasto cogli inconfessati moventi che ispirano atti e parole di coloro che rappresentano quell’impero che esercita l’egemonia più vessatoria sul mondo, la propaganda per il prodotto italiano è rivolta soprattutto alle industrie chimiche. I nostri chimici, inquadrati nelle loro corporazioni, si prefiggono di reagire nel modo più efficace liberando il Paese dall’asservimento straniero, utilizzando tutte le risorse della nostra terra; e l’università italiana, che vanta le più gloriose tradizioni del mondo, guida e disciplina i nobili sforzi dei tecnici, formando le menti e temprando i caratteri (L. Rolla, La chimica nella scienza e nella tecnica, «La chimica e l’industria», 1936, p. 5).
Giovanni Morselli (1875-1958), personalità eminente nel campo delle ricerche e delle realizzazioni farmaceutiche, celebrava la proclamazione dell’impero senza risparmiarsi:
I chimici italiani fascisti, ferventi patrioti per nobilissima tradizione, salutano coll’animo gonfio di commozione e di orgoglio l’aurora dell’Impero. Innalzano il loro pensiero al Re Vittorioso Imperatore di Etiopia, simbolo glorioso della Patria immortale, gridano il loro sconfinato amore al Duce fondatore dell’Impero, genio purissimo, espresso fatidicamente dalle profonde, arcane virtù creatrici della razza. I chimici italiani consapevoli della potenza costruttiva della loro scienza, nelle sue proteiformi possibilità applicative, fieramente aspirano di partecipare alla nuova fatica che attende il popolo italiano, per fecondare l’Impero (G. Morselli, Aurora imperiale, «La chimica e l’industria», 1936, p. 228).
Trattando della metallurgia, Cambi traeva spunto per attaccare
le pingui borghesie straniere, i superati ideologi delle nazioni che tentano di sabotare le nostre vittorie, [i quali] questo non potevano prevedere: contavano sulla modestia del nostro potenziale industriale! Non possedevano però, e non posseggono il metro per misurare questa passione e questa coscienza, questa nostra mistica dedizione alla Patria, che il Duce ha suscitata, traendola dall’anima millenaria della nostra razza (cit. in Maiocchi 2003, p. 60).
Sarebbe un errore ridurre questi esempi, e tanti altri simili, a semplici ripetizioni di parole d’ordine provenienti dall’alto, poiché di tali parole d’ordine alcuni nostri importanti scienziati erano, almeno in parte, i responsabili. Quando l’ideale autarchico era indicato come nobile e possibile da un Giordani in riferimento alla cellulosa, da un Cambi per i metalli non ferrosi, da un Oscar Scarpa per l’alluminio, da un Mario Giacomo Levi per i combustibili nazionali, da un Morselli per i medicinali, per non parlare di un Parravano, di un Gaudenzio Fantoli, di un Giuseppe Bruni, ebbene costoro parlavano sostanzialmente dei propri studi, della propria attività scientifica e organizzativa, non ripetevano, ma lanciavano parole d’ordine che essi avevano contribuito a creare.
Attorno a questi protagonisti della nostra vita scientifica si organizzò il coro dei ripetitori ossequiosi, delle personalità scialbe che trovavano comodo seguire la corrente. Difficilissimo è, naturalmente, valutare in termini quantitativi e qualitativi il consenso degli ambienti scientifici e tecnici ottenuto dal lancio del progetto autarchico. Si può certo a priori sostenere che nel determinare gli atteggiamenti pubblici l’opportunismo giocò un ruolo importante, ma non credo si debba escludere la presenza di sacche di persone che nell’autarchia videro una reale occasione di razionalizzazione e di progresso della struttura produttiva italiana.
Basti pensare alla figura di Henry Molinari (1894-1958). Figlio di un grande chimico industriale, Ettore Molinari (1867-1926), Henry fu da giovanissimo attratto dell’ideale comunista e, con il fratello e la cognata, cercò di organizzare attività propagandistiche, ma fu arrestato e messo in prigione. Divenuto esperto di impianti industriali e insegnante presso il Politecnico di Milano, quando il fascismo impose il giuramento al regime per i docenti universitari, rifiutò e fu espulso dal Politecnico. Non smise mai di professare in privato le proprie simpatie politiche. Notissimo alla polizia, sicuramente antifascista, salutò pubblicamente (anche con articoli sul «Corriere della sera») il progetto autarchico come la massima realizzazione della razionalità scientifico-tecnica. Accettò di collaborare alla politica autarchica e ricoprì posti di grande responsabilità, come il ruolo di supervisore scientifico ai lavori della CISS, che, tra l’altro, erano da considerarsi segretissimi.
L’autarchia di pace (per la guerra)
Il 23 marzo 1936 Mussolini tenne uno dei suoi più celebri discorsi, parlando davanti alla seconda Assemblea nazionale delle corporazioni. Il duce annunciò una svolta nella politica autarchica: se fino ad allora l’autarchia era stata concepita come una reazione alle sanzioni ginevrine, una strategia di difesa dettata dalle circostanze difficili, occorreva ora mutare atteggiamento e pensare l’autarchia come un progetto di offesa, di potenziamento della nazione da perseguire in modo del tutto indipendente dalle circostanze specifiche:
Coloro i quali pensano che finito l’assedio si ritornerà alla situazione del 17 novembre, s’ingannano. Il 18 novembre 1935 è ormai una data che segna l’inizio di una nuova fase della storia italiana. Il 18 novembre reca in sé qualche cosa di definitivo, vorrei dire di irreparabile (cit. in F. Giordani, Realizzazioni e mete dell’autarchia, «La chimica e l’industria», 1939, p. 44).
Le sanzioni si erano rivelate salutari, avevano stimolato energie inimmaginabili e rivelato come realistico l’imperativo dell’autonomia economica.
Finita la guerra d’Etiopia l’autarchia ‘coatta’ si trasformò in un progetto di lungo termine orientato a conseguire la capacità di affrontare una guerra di dimensioni ben maggiori. Il progetto autarchico fu totalitario e investì, distorcendola, tutta l’attività produttiva italiana: nessun settore venne escluso, nessuna nicchia merceologica protetta poté costituirsi.
I problemi maggiori per la realizzazione dell’autarchia erano quelli che si erano evidenziati drammaticamente nei mesi di guerra; le debolezze del sistema Italia erano chiare, non serviva aggiungere granché. La questione fondamentale era come affrontarle. Le soluzioni prese con le operazioni militari in corso erano state adottate sotto il segno dell’urgenza e dell’improvvisazione. Si trattava di affrontare le questioni con una visione strategica. Occorreva, tutti erano d’accordo, elaborare dei piani autarchici. Di questo compito fondamentale furono investite le corporazioni.
Tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937 le corporazioni si riunirono in lunghe sedute per mettere a punto i piani produttivi destinati a guidare l’Italia verso l’indipendenza economica. Quello che ne uscì non erano piani, ma un elenco di problemi, senza ordine di priorità né soluzioni. In quei consessi ognuno indicava quei problemi che a suo parere erano importanti e che si andavano a sommare a quelli che erano stati indicati da altri, nella più assoluta spensieratezza circa quelle che erano le reali possibilità dell’Italia. I piani autarchici non ebbero alcuna influenza sulla politica di Mussolini, che a quei documenti non attribuiva una reale importanza, salvo esaltarli in occasioni pubbliche.
Gli anni che precedettero la guerra videro la comunità scientifica italiana rispondere massicciamente alla chiamata del governo alla collaborazione in funzione della preparazione autarchica della guerra, nella convinzione che con l’autarchia il proprio ruolo nella società italiana avrebbe compiuto un salto di qualità. L’autarchia si accompagnava a una valorizzazione del ruolo della scienza e della tecnica nella società: il Gran consiglio del fascismo, nella seduta del 1° marzo 1937, nella quale venne ufficializzata la decisione di subordinare tutta la società italiana alle esigenze della preparazione bellica, votò un ordine del giorno nel quale si esprimeva:
l’invito alla scienza e alla tecnica italiana di collaborare al sollecito raggiungimento di questo massimo di autarchia perché solo con la scienza, col valore e con lo spirito pronto a qualsiasi evento, i popoli meno dotati possono resistere all’eventuale aggressione di paesi ricchi di denaro e possessori di maggiori risorse naturali (Dichiarazione del Gran Consiglio, «La ricerca scientifica», 1937, p. 125).
Il fascismo fu identificato con l’ondata dei tecnici, con la svolta epocale segnata dal passaggio, al vertice della gerarchia della fabbrica, dal capitalista al direttore tecnico, che caricava i tecnici di onori e oneri. L’autarchia senza il contributo della tecnica appariva irrealizzabile, una romantica utopia.
Tra autarchia e scienza sembrava innescarsi, almeno teoricamente, un circolo virtuoso entro il quale la scienza dava il proprio indispensabile contributo all’autarchia e quest’ultima suscitava nuovi stimoli e apriva possibilità nuove alla scienza.
Le ricerche prodotte furono di livello vario ed ebbero esiti diversi. Certamente vanno in primo luogo ricordate quelle che furono rese possibili solo dall’autarchia e che imboccarono strade perdenti. Questo gruppo, cui solitamente ci si riferisce per descrivere il particolare clima scientifico del periodo, si deve scomporre in due sottogruppi. Da una parte, quello delle ricerche tipicamente italiane, quali furono quelle relative a certe fibre tessili succedanee (lanital, canapa cotonizzata) o allo sfruttamento di piante, per es. la ginestra, come fonti di cellulosa; e dall’altra, un gruppo di ricerche tecnologicamente destinate all’oblio, ma che, nel momento storico, potevano essere considerate allineate internazionalmente: tali furono gli studi sui gassogeni, ai quali il CNR dedicò il suo maggior istituto scientifico, l’istituto motori di Napoli, che avevano come modello di riferimento la Francia, ma anche la Germania, la Svizzera, l’Austria, oppure le indagini sul cemento armato con canna di bambù al posto del ferro (sulla falsariga di quanto si faceva in Germania), che furono svolte intensamente nel centro per lo studio dei materiali da costruzione di Torino, diretto da Gustavo Colonnetti, il quale contemporaneamente si occupava di una questione all’avanguardia, ossia il cemento precompresso.
Ma accanto a sforzi giustificati soltanto dal clima di quegli anni (peraltro non sempre confinato alla sola Italia) e destinati a cadere repentinamente nel dimenticatoio, ai quali di solito si riduce emblematicamente l’intera scienza della seconda metà degli anni Trenta, ve ne furono ben altri.
Vi fu il recupero di linee di ricerca già seguite autonomamente nel passato da studiosi che nel clima autarchico trovarono finalmente modo di affermarsi e porsi al centro dell’attenzione generale: per es., quelle relative allo sfruttamento di combustibili nazionali, alla produzione di alluminio e leghe leggere, all’estrazione della cellulosa da piante annuali.
Si ebbero ricerche nuove stimolate e rese fattibili dalla congiuntura autarchica che avranno poi importanti sviluppi, su tutti gli studi di Natta per la produzione di gomma sintetica, appoggiati dall’IRI e dalla Pirelli, preludio all’affermazione nel campo delle materie plastiche della Montecatini nel dopoguerra, nonché dei personali successi di Natta nel campo della polimerizzazione.
Furono presenti ricerche industriali basate su brevetti esteri senza il contributo del mondo universitario che diedero origine a grandi realizzazioni produttive, quali l’idrogenazione dei combustibili a opera dell’ANIC o la produzione di magnesio nazionale a Bolzano. Ancora senza il contributo dell’università si ebbero ricerche industriali originali che fornirono risultati di rilievo, quali la messa a punto dell’esplosivo T4 da parte della Nobel.
Questa indubbia mobilitazione, operativa oltre che ideologica, di scienziati e tecnici non fu sufficiente, né mai avrebbe potuto esserlo, a dare una qualche plausibilità al progetto autarchico. Troppo grandi, addirittura terribili, erano le nostre carenze di materie prime e di capacità produttive per poter avvicinare gli obiettivi di un’autarchia, sia pure limitata e parziale, com’era quella che si configurava nei piani del fascismo. Né d’altra parte era scontato che le soluzioni autarchiche tecnicamente possibili indicate dalla ricerca si trasformassero poi in realizzazioni concrete: gli industriali ardevano di spirito patriottico e abbracciavano tali soluzioni allorquando queste garantivano, quasi sempre grazie all’intervento statale, un buon profitto, pronti a ripiegare sulle soluzioni più ‘razionali’ ed ‘economiche’ se si trattava di rischiare di tasca propria.
Nel periodo 1935-39 vi fu l’indubbia crescita di molte produzioni e il calo di non poche importazioni. Soprattutto mutò la struttura di queste ultime, ma all’inizio del 1940 non vi potevano essere dubbi sul fatto che l’Italia non era in grado di affrontare una guerra. Eppure molti uomini di scienza si prestarono a nascondere questa verità palese, tanto più palese a chi aveva accesso ai dati e possedeva strumenti teorici, diffondendo sui mezzi di informazione immagini dell’Italia tanto rassicuranti quanto aberranti.
Quando un personaggio del rilievo di Francesco Giordani (1896-1961) si abbassava a scrivere che
la rassegna delle disponibilità nazionali di ferro, sia sotto forma di minerale, sia sotto forma di rottami, conducono a valutare una disponibilità complessiva pari al 67 per cento del fabbisogno; una percentuale cioè più alta di quella di cui dispongono la Germania e l’Inghilterra, considerati come paesi tradizionalmente siderurgici,
o quando gli ‘esperti’ della CISS, mentre l’Europa già bruciava del fuoco devastatore della guerra, accettavano di sottoscrivere una relazione in cui si affermava che l’Italia, in caso di conflitto armato, avrebbe avuto bisogno di meno carbone che non in caso di pace, allora diventavano complici di chi stava trascinando il Paese in un baratro e si assumevano una responsabilità, oltre che politica, etica, paragonabile oggettivamente a quella che di lì a poco calerà sulle spalle di quegli scienziati che contribuiranno alla costruzione della bomba atomica.
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