L'Italia e le sue regioni - Introduzione
Pensata e proposta nel 2010 al presidente dell’Istituto Treccani Giuliano Amato mentre si avviavano le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia (del cui comitato promotore ancora Amato era presidente), l’opera che qui si presenta, nel solco delle tradizionali opere dell’Istituto, intende offrire un ausilio alla comprensione dell’Italia nel tempo presente, attraverso un’indagine pluridisciplinare delle sue istituzioni e dei suoi territori.
Perché un titolo come L’Italia e le sue regioni (L’età repubblicana)? Se l’arco temporale non ha bisogno di alcuna spiegazione (coincide con la vita della Repubblica italiana), quella congiunzione e tra i lemmi Italia e regioni è in realtà il piccolo perno intorno a cui ruota l’intero progetto. Non è, infatti, un’opera sulle singole regioni, bensì un’opera sull’Italia osservata attraverso i territori regionali – le loro istituzioni, le culture, la vita civile – in dialogo con il paese nel suo complesso: l’ingente mole di informazioni e di dati sulle singole regioni, fornita dai saggi qui pubblicati, è per la prima volta ricondotta al contesto nazionale e in quel quadro presentata e analizzata.
La nostra riflessione prende avvio dalla convinzione che la costituzionalizzazione delle regioni abbia rappresentato un importante tassello volutamente collocato dai costituenti nella struttura della forma istituzionale del paese con la consapevolezza che la sua presenza avrebbe contribuito, se opportunamente usato, alla sostanza del processo di costruzione dell’edificio democratico: una scommessa sul futuro, tra le molte presenti nella costituzione! È appunto sull’osservazione del passaggio, nell’arco del sessantennio considerato, dalla forma alla sostanza, dal progetto alla realtà del legame tra stato e regioni ‒ e tra nazione e territori ‒ che verte l’opera che qui si presenta, per trarne elementi di rinnovata conoscenza del nostro Paese e della sua storia.
Per valutare appieno il significato dell’art. 5 della Costituzione, nel quale si riconoscono tra i principi fondamentali quelli dell’autonomia e del decentramento, bisognerà ricordare che tale riconoscimento proviene da una Repubblica definita «una e indivisibile». Di fatto, l’intero testo costituzionale si ispira alla volontà dei costituenti di rifondare l’unità della nazione ‒ ancora immersa dopo il fascismo e la guerra in laceranti contrasti politici e ideologici (e in memorie divise) ‒ sopra un patto comune circa le finalità democratiche e antifasciste (riassunte nei Principi fondamentali), nonché sulla riasserita necessità di «riservare all’autorità dello Stato centralizzato la funzione unificatrice che essa aveva sempre avuto» (Romanelli 1995, p. 164). Cruciale in questo patto è il ruolo che la Costituzione assegna al partito politico, un disegno che accomuna le culture politiche protagoniste del dopoguerra (in particolare quelle cattolica, socialista e comunista). Quando i costituenti dibattono e si impegnano nel definire il posto che ai partiti spetta nella democrazia repubblicana, essi hanno in mente non solo il ristabilimento del loro primario compito di rappresentanza, ma anche una sorta di indiretta loro missione pedagogica per aiutare il paese a superare i guasti morali provocati dal passato fascista. Ai partiti si attribuisce, cioè, non solo la funzione di raccogliere le domande espresse dalla società e di raccordarle, prima di presentarle alla soglia dell’esecutivo, ma anche quella di aiutare la società a formulare tali domande in termini ‘politici’ e ‘universali’ (come previsto dall’art. 1, 2° comma: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»).
È sullo sfondo del disegno costituzionale imperniato sul ruolo ‘nazionalizzante’ del partito politico (art. 49: «Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale») che dobbiamo anche valutare il dibattito sulle regioni in sede di costituente. Si è soliti insistere sul carattere artificiale della ripartizione regionale, sul fatto cioè che le regioni costituzionali siano state ricalcate sui compartimenti statistici disegnati da Pietro Maestri nel lontano 1863 e che dunque obbediscano a una logica di regionalizzazione e non di effettivo regionalismo (per usare i termini dello storico e geografo Lucio Gambi, il più autorevole critico della regionalizzazione costituzionale, sinonimo di partizione amministrativa dall’alto): ciò è certamente vero, ma è utile ricordare che quella mancata riforma è parte di un più generale ridimensionamento in sede costituente del tema delle ‘autonomie’‒ un orientamento che stava invece particolarmente a cuore alla corrente azionista, erede di un antifascismo repubblicano e radicale. Parte della spiegazione si trova nella scelta, che i costituenti sentivano obbligata, di collocare i partiti politici in una posizione privilegiata e nazionale. Il nuovo partito politico si configura, infatti, come il vero sostituto della rivendicazione delle autonomie locali e rappresenta una inaspettata rottura rispetto alla cultura più innovativa che aveva animato l’antifascismo in questa materia. È compito infatti del partito politico fornire, attraverso le sue articolazioni territoriali e con piena autonomia interna, lo spazio istituzionale in cui sia garantito il diritto di partecipazione alla vita politica di ogni cittadino su tutto il territorio nazionale: il nesso tra nazione, cittadinanza e rappresentanza (nazionale e locale) è assicurato costituzionalmente (in maniera originale rispetto ad altre costituzioni europee) da questo strumento essenziale, come rivendicato in maniera esplicita dai protagonisti di quel dibattito.
Non a caso, il contenimento, in sede di costituente, del possibile effetto ‘dirompente’ (rispetto alla tenuta politica centrale) di un regionalismo inteso in senso autonomistico è paragonabile a ciò che si compie anche nei confronti di un altro classico istituto concepito come strumento di garanzia, il referendum, «in una fase in cui gli obiettivi primari erano lo sviluppo e il rafforzamento dell’autorità di governo» (Luciani 1997, p. 87). Così, mentre nel gennaio 1948, per chiudere subito le spinte scissioniste, si varano gli statuti speciali delle regioni insulari e di etnia/lingua mista (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, più il Friuli Venezia Giulia nel 1963), l’attuazione delle regioni a statuto ordinario dovrà aspettare il 1970, cioè la rinnovata pressione proveniente nel 1968 dalla società civile verso l’allargamento della partecipazione democratica.
La nascita delle regioni nel 1970 coincide con una fase di forte mobilitazione sindacal-politica: lo scambio tra pressioni settoriali e di area, voto, governo regionale e governo nazionale assume a lungo andare una dimensione autonoma e incontrollata che si rifletterà sul debito pubblico, alimentando anche la corruzione del sistema politico. Se gli anni Settanta vedono l’approvazione di grandi riforme in un’ottica nazionale di giustizia sociale (esemplare il caso del servizio sanitario nazionale), le stesse riforme, decentrate alle regioni, verranno a costituire una delle voci principali di incremento del bilancio nazionale, oltre che una fonte di consenso elettorale e dunque di accresciuto potere per il ceto politico locale. Infatti, a conferma dei timori dei costituenti, la moltiplicazione degli enti territoriali ha rappresentato uno dei fattori di disgregazione dei grandi partiti, mettendo in crisi, per esempio, il meccanismo di designazione dei candidati al governo nazionale, derivante da un delicato equilibrio interno a ciascun partito tra centro e periferia. Per più di un ventennio quell’equilibrio si era retto manifestamente non sull’amministrazione centrale e le sue diramazioni (come in Francia), cioè sul prefetto, ma sulla filiera politico-partitica governativa che controllava l’amministrazione, cioè sul sindaco (Tarrow 1977): ne consegue, come si è già richiamato, che la territorializzazione delle risorse pubbliche, in coincidenza con la crisi del partito-nazione, porta a favorire direttamente, senza alcuna camera di compensazione centrale e nazionale, gli eletti locali, che a loro volta condizionano la scena nazionale.
Da qui l’ovvio corollario di questo ragionamento: che l’avvio degli Enti regione, sommato alle nuove aspettative alimentate dai movimenti, all’affermarsi di una cultura dei diritti e alla crescita del welfare, abbia rappresentato in Italia un passaggio di fase importante, benché non così evidente, nell’immediato, grazie alla tenuta delle culture politiche nazionalizzanti: un passaggio più importante che in altri paesi europei, perché aggravato dalla storica inadeguatezza di una pubblica amministrazione lasciata nel dopoguerra al suo sostanziale immobilismo, quello di una ‘società senza stato’ (Cassese 2011). Bisognerà attendere il 1989-91, dunque, perché si manifesti la vera cesura politica, nella quale, insieme al crollo del mondo comunista, viene meno anche la fiducia nella capacità dei partiti di rispondere alle trasformazioni in atto nel sistema economico nazionale e internazionale.
Se ci spostiamo sul terreno delle culture politiche, tuttavia, la formula repubblica dei partiti (titolo dell’opera dello storico Pietro Scoppola, pubblicata nel 1991) pareva ancora in grado di riassumere in maniera efficace la vicenda storica dei decenni precedenti (poi chiamata prima repubblica) e dunque suggerire le possibili soluzioni: se i partiti erano stati i portatori di un’idea nazionale basata su principi di democrazia e di partecipazione, si trattava in fondo, di fronte all’impasse del governo centrale e ai mutamenti ideologici in corso, di rinnovare i canali di comunicazione con la società (è la stagione dei referendum) e di favorire la partecipazione locale attraverso nuovi meccanismi elettorali (come si fece per sindaci comunali e presidenti di regioni): è in quegli anni, non a caso, che tornano di attualità, di fronte ai numerosi movimenti che (in Italia e in Europa) rivendicano spazi di autonomia per determinati territori, i dibattiti costituzionali su regionalismo e referendum. Parallelamente si avvia una stagione di tentativi (purtroppo falliti o rinviati) di riforme importanti a livello statale (pensioni, mercato del lavoro, università, pubblica amministrazione) che caratterizza gran parte degli anni Novanta (Amato, Graziosi 2013).
Eppure, dal punto di vista storiografico, quello slogan ‘repubblica dei partiti’ attende ancora di essere sostituito da una formula altrettanto unitaria e riconosciuta: questa assenza (colmata a volte da un mero termine cronologico, ‘seconda repubblica’) si riflette, all’indietro, sulla visione dell’intera storia unitaria, anch’essa privata di quel telos che per molti decenni era stato trovato nella nascita della Repubblica democratica e che negli anni Novanta in parte sembrò venire sostituito da una nuova idea di patria e di patriottismo fondato su una convinta adesione ai principi costituzionali. Il mancato successo di uno slogan unificante (‘patriottismo costituzionale’), pensato in origine per la cittadinanza dell’Unione Europea, rimanda alle storiche fratture del nostro paese, culturali e territoriali.
Emilio Gentile, fin dai suoi primi lavori, ha sottolineato con grande coerenza come il nostro sia un Paese dove dal Risorgimento in poi convivono le immagini di due Italie, ciascuna fedele a una propria patria ideale e tuttavia molto critica verso quella reale (1997). L’immagine del aese diviso tra amico e nemico, tra due diverse identità, tra due ideologie, è diventata addirittura familiare e popolare per tutta l’età repubblicana (basti pensare ai personaggi di Peppone e Don Camillo nei racconti di Giovanni Guareschi del 1950) ed è stata artificialmente alimentata anche nei decenni postideologici del berlusconismo (e antiberlusconismo). È, questa, peraltro, un tipo di analisi innovativa, che ha introdotto nel dibattito pubblico i temi del ruolo delle culture politiche e del mancato riconoscimento reciproco. Qui si vorrebbe, tuttavia, sottolineare un cambiamento sotterraneo e coesistente con queste analisi: il fatto che, già a partire dagli anni Ottanta e soprattutto dai Novanta, le contraddizioni del paese sembrano esplodere non più solo lungo linee di divisione culturali o sociali (cattolici/non cattolici, nazionalisti/non nazionalisti, interventisti/non interventisti, fascisti/antifascisti, comunisti/anticomunisti), bensì lungo linee di divisione geografico-territoriali, che talvolta si sommano, ma non sempre, alle divisioni ideologiche. Così l’indebolirsi delle fratture sociali (cleavages) basate sulla classe e sulla religione, tipiche della nascita dei sistemi politici europei (Rokkan 1970), favorisce ‒ grazie anche alla crisi delle ideologie dopo il crollo dell’URSS ‒ il rafforzamento del territorio come fattore di identificazione politica. Paradossalmente, il paese, che non aveva conosciuto l’instaurarsi di partiti lungo la netta frattura interessi agrari/interessi industriali o lungo l’asse centro/periferia nel corso della rivoluzione nazionale, conosce, per esempio, il sorgere di una ‘questione settentrionale’ nella sua fase postideologica.
In che misura queste fratture si riflettono nella rete regionale e/o questa contribuisce a rafforzarle?
Tenendo anche conto degli esiti più recenti, appare opportuno ritornare brevemente al dibattito sul regionalismo. Un momento forte di questa riflessione è stato quello che ha coinciso con l’avvio della pubblicazione della Storia d’Italia (la collana della casa editrice Einaudi), il cui primo volume, dal titolo I caratteri originali (1972), impostato su una lunga durata di scuola francese, sembrò contrapporsi al tempo breve e uniforme dei neonati ritagli regionali. In particolare, nel saggio di Gambi che apriva il volume, era piuttosto al fenomeno dell’urbanesimo che veniva riconosciuto, sulla scorta di Carlo Cattaneo, il ruolo di principale organizzatore dello spazio nell’ultimo secolo (analoga l’ispirazione di molti saggi sull’argomento nel secondo volume dell’opera che qui si presenta): è la città, scriveva Gambi, che, coniugandosi con il fenomeno dell’industrializzazione, si riverbera «in una maggiore articolazione e perfezione delle vocazioni ambientali: e quindi in una più dinamica relazione coi paesi più vari». se ne ricavava anche la definizione di «regione funzionale» in termini economici e urbanistici: «una regione di questo genere può definirsi, in una situazione sociale avanzata, come l’area di irraggiamento di una grande città», attorno a cui gravitano in maniera dinamica anche centri urbani medi. In conclusione, dunque, la regione funzionale costituiva l’articolazione basilare di qualunque pianificazione e laddove, come nel Mezzogiorno, «la regione non c’è (o è solo – in qualche zona – agli albori), la pianificazione deve avere, in primo luogo, il fine di edificare l’armatura di una moderna regione» (pp. 55-58).
Erano quelli gli anni in cui le regioni si dotavano formalmente di statuti (si vedano i saggi nel primo volume della presente opera): in essi, anche in quelli meridionali, l’input della pianificazione era ben presente; mentre, d’altra parte, l’organizzazione dello spazio attorno ai centri urbani medi stava favorendo il configurarsi della nuova area regionale della Terza Italia (Bagnasco 1977). La celerità dei cambiamenti ambientali (la cosiddetta grande trasformazione, che è oggetto di analisi nel secondo volume della presente opera) faceva risaltare la chiusura della storiografia, rimproverata di «preferire la scala politico-statuale a un’indagine di tipo storico-geografico» e di «sottovalutare il problema storico delle omogeneità territoriali» (Soldani, Banti, Macry, Ridolfi 1993, pp. 8, 9). Effetto analogo, di impedimento di un’indagine reale sullo spazio del territorio italiano, si osservava, aveva prodotto la divisione del paese nei grandi comparti politici del nord e del sud: sempre in questa prospettiva anche l’etichetta della ‘questione meridionale’ o del ‘dualismo’ avrebbe finito per essere di ostacolo a un’analisi empirica dell’articolazione del territorio (i diversi Sud e Nord interni al paese, per esempio).
Eppure, come si è visto, dentro la tenuta di questi dualismi geopolitici, economici e culturali si è potuta ricomporre fino ad anni recenti una vicenda nazionale che, pure essendo segnata da divisioni frontali, non è però mai stata territorialmente frammentata, come invece appare oggi. Una volta venuto meno il collante dei partiti e delle culture politiche che li hanno alimentati, da dove partire per ricostituire, almeno a livello storico-interpretativo, il mosaico Italia? (Mosaico Italia, 2010). Troviamo una risposta iniziale se ci collochiamo a livello regionale. È il tentativo fatto dalla stessa équipe einaudiana della Storia d’Italia con il varo della collana Le Regioni dall’Unità a oggi. Con particolare lucidità, Silvio Lanaro, presentando il volume Il Veneto (1984), suggerisce una prima ispirazione, precisando di aver «cercato nei limiti del possibile di favorire l’intersezione di tecniche e metodi tenuti spesso lontani dalle gelosie disciplinari», con l’intento di offrire un volume in cui «il lettore non troverà né una storia d’Italia nel Veneto (che cosa vi è accaduto nel 1898 o nel 1948…) né una storia del Veneto in Italia (quali personaggi affollavano le banche o le curie…). Vi troverà nella prima parte una serie di contributi di storia dell’industria, del ‘sentire’ proprietario, dell’emigrazione, delle istituzioni culturali, della stratificazione sociale, nella seconda alcuni indispensabili interventi di raccordo narrativo impostati problematicamente» (p. XIX ).
Al Veneto di Lanaro, volutamente esemplare di una regione del nord, sarebbe seguita nel 1985 la Calabria di Augusto Placanica e Piero Bevilacqua, ugualmente esemplare per il sud e con altrettanta, ma diversa capacità interdisciplinare, in sintonia con lo sguardo ‘lungo’ di Gambi e di Manlio Rossi-Doria. Si trattava di un momento particolarmente felice per una storiografia che, in collaborazione con la geografia e le scienze sociali, si apriva anche all’interesse per lo spazio urbano e la sua organizzazione, in anni di rinnovata speranza riformatrice e pianificatrice. Tuttavia, quasi nessun accenno, anche nei volumi degli anni novanta, è fatto alla presenza sul territorio del nuovo ente amministrativo. Lo stesso Gambi, in uno dei suoi ultimi ragionamenti sul tema, a proposito di questa collana di studi sulle regioni, si stupiva che, con poche eccezioni, i volumi non dessero spazio alle innovazioni che le regioni stavano producendo attraverso la programmazione di loro competenza (2004).
Di fatto, con il passare del tempo, la critica già ricordata, presente alla costituente, per cui le regioni non sarebbero state vere regioni (nel senso etnoculturale del termine), bensì meri confini amministrativi, sembra aver perso il suo mordente iniziale, perché le regioni in quanto enti governativi complessi stanno producendo storia. Tanto che l’istituto regionale si configura insieme come storicamente surrettizio, ma istituzionalmente destinato a durare, per ragioni nazionali e internazionali (si veda per questo soprattutto il primo volume della presente opera): le regioni costituiscono ormai il perno istituzionale di reti di comunicazione europee, il referente per i piani di sviluppo, per accordi extraeuropei, per la certificazione dei prodotti alimentari ecc.; anzi, paradossalmente, si direbbe che, proprio in virtù della loro artificialità, i loro confini potrebbero anche essere ridisegnati, senza particolari conflitti, una volta che si sentisse l’esigenza di renderli maggiormente rispondenti ai processi sociali, demografici, urbani, storicamente intervenuti.
Gambi, in fondo, sollevava l’interrogativo da cui sarebbe nata quest’opera: come scrivere la storia dell’ultimo sessantennio partendo dai luoghi, ma incrociandone le dinamiche con il timing delle istituzioni, sia regionali sia nazionali? Inoltre, poiché una storia delle singole regioni nel lungo periodo già esisteva, non si doveva piuttosto scommettere su un progetto che, a settant’anni dal 1945, proponesse di tenere uniti lo sguardo alla nazione con quello ai territori, la storia del paese con quella delle regioni, in maniera trasversale e prese nel loro insieme (Gambi 2004)?
È tenendo conto del livello di analisi territoriale che conviene dunque ripartire per ritrovare la soglia oltre la quale il senso di appartenenza nazionale potrà trarre vantaggio dalla ricchezza delle articolazioni locali. Si torna così da dove eravamo partiti: la politica e la società civile e i suoi intermediari, ma questa volta sul territorio. Ed è qui che, a fronte di un ‘sistema’ apparentemente bloccato, si muovono ‘attori’ nuovi ai quali conviene prestare maggiore attenzione.
A questo livello, le regioni si presentano, all’indagine storica e sociale, in un duplice ruolo. Come si è detto prima, esse sono diventate, nel corso di questi ultimi quarant’anni, veri e propri attori collettivi, soggetti istituzionali in grado, attraverso le loro politiche, di intervenire e produrre mutamenti nella realtà economica, sociale e culturale dell’Italia e di intercettare istanze sociali sempre più composite, culturalmente plurali (basti pensare alla rilevanza assunta dalle migrazioni), che spesso travalicano gli stessi confini locali verso ambiti e problematiche globali. Le risposte da parte delle regioni non sono sempre state adeguate, a volte favorendo – come è emerso con forza mediatica anche recentemente – il proliferare di sprechi e di corruzione. Ed è così che si sono spesso innescati circoli viziosi con la società civile, invece di consolidarsi, come peraltro è in molti casi avvenuto, forme collaborative e innovative nel rapporto cittadini-istituzioni, consone all’obiettivo sostanziale dell’istituzione stessa, quello cioè di consentire, con l’individuazione di un’area di governo vasta, ma sufficientemente vicina ai cittadini, circuiti più funzionali, rispetto allo stato nazionale, di partecipazione e di responsabilizzazione.
Questo ruolo relativamente recente delle regioni si affianca a quello, sedimentato in tempi lunghi, di contesto non statico e omogeneo, ma dinamico e differenziato di tradizioni e insiemi socioculturali. A tale livello si sono registrate trasformazioni profonde nell’Italia repubblicana, e ancora più radicali e accelerate dagli anni Sessanta in poi. Basti pensare, per fare un esempio ampiamente trattato nel secondo volume della presente opera, alle trasformazioni dello ‘spazio urbanizzato’, nelle sue forme e articolazioni con quello rurale, alle continuità/discontinuità con la città e la tradizione urbana dell’Italia che, da Cattaneo in poi, è stata spesso considerata come la sola patria riconosciuta e intensamente amata nel nostro paese, definito non a caso Paese delle cento città. Questo esempio, tuttavia, consente di fare notare come trasformazioni di enorme portata nell’organizzazione dello spazio materiale superino gli stessi confini amministrativi delle singole regioni, delineando mappe diverse, più ampie e differenziate, che seguono e intrecciano altre dinamiche socioculturali legate alla mobilità, alle forme del lavoro, del consumo e del turismo. La consapevolezza di questa porosità e labilità dei confini amministrativi, quando le regioni sono viste come contesto dove si dipanano dinamiche e culture di lungo periodo, secolari a volte (si vedano al riguardo i volumi secondo e terzo), non fa venire meno l’utilità di raggruppare comunque omogeneità e diversità di comportamenti e orientamenti degli italiani in base a tali contesti, sia per ragioni di disponibilità e accessibilità di dati e documentazione empirica, sia per verificare quali demarcazioni comunemente e tradizionalmente ipotizzate, come quelle fra nord e sud, siano effettivamente rintracciabili. I due diversi livelli di analisi sono al centro della ricerca del politologo americano Robert Putnam, Making democracy work, pubblicata contemporaneamente in Italia (La tradizione civica nelle regioni italiane ) nel 1993, proprio a ridosso del crollo del sistema partitico italiano. L’analisi mostra in primo luogo – attraverso una mole di dati empirici raccolti nel corso di vent’anni, a partire dall’anno di introduzione delle regioni a statuto ordinario – che lo stesso modello istituzionale ha prodotto nel tempo risultati fortemente discrepanti sul piano del rendimento e dell’efficienza organizzativa nelle diverse regioni italiane. Nel loro insieme i dati ripropongono il tradizionale dualismo tra regioni del centro-nord, a elevato rendimento istituzionale, e regioni del sud, con un rendimento decisamente più basso. Ma è la spiegazione di questa discrepanza sul piano istituzionale l’aspetto più originale e, nello stesso tempo, più contestato dai suoi numerosi critici. Putnam, infatti, attribuisce tale dualismo essenzialmente a fattori culturali, in particolare alle diverse tradizioni di cultura civica e alla specifica trama del tessuto associativo (capitale sociale) che innervano i differenti contesti regionali. Al centro della polemica suscitata dalla spiegazione di Putnam vi è sia il modo unidirezionale in cui è trattato il rapporto tra fattori culturali e aspetti istituzionali, sia la concezione statica della cultura proposta dall’autore. In effetti, tra le due critiche vi è un rapporto molto stretto. Il ruolo attivo, politico, delle istituzioni regionali – che pure risulta in vent’anni ormai consolidato – viene trascurato a vantaggio di un’interpretazione tutta incentrata sulle radici remote del patrimonio culturale, composto da norme di convivenza civile, da fiducia, da reti cooperative e associative, che vengono fatte risalire a una storia millenaria. Al Centro-Nord è l’esperienza dei liberi comuni ad avere favorito lo sviluppo di forme di partecipazione civica e di reti di cooperazione tra cittadini, mentre i regimi monarchici che si sono succeduti nel sud d’Italia hanno generato forme di estraneità rispetto alla cosa pubblica, attraverso l’instaurazione di rapporti verticali, gerarchici e di sudditanza con la popolazione.
L’esserci soffermate sulla ricerca di Putnam ha due motivi. Il primo, a cui già si è accennato, consiste nel fatto che, con i metodi empirici tipici delle scienze sociali, viene tracciata per la prima volta una storia dell’Italia contemporanea in un ventennio cruciale, partendo dalla sua articolazione regionale, e considerandola nel suo duplice aspetto istituzionale e culturale. Il secondo motivo riguarda invece l’insoddisfazione per il tipo di prospettiva unidirezionale adottata nello stabilire il rapporto tra i due livelli e, quindi, riguarda direttamente il nuovo ‘taglio’ della nostra proposta. L’approccio di fondo che si è inteso adottare in quest’opera è, infatti, quello di indagare l’intreccio tra questi due piani, la regione come attore politico e la regione come contesto in cui si sono sedimentati e continuano a svolgersi processi socioculturali differenziati, o, detto in altri termini, il rapporto biunivoco tra il livello politico-istituzionale e quello socioculturale. Le moderne democrazie si sviluppano entro società, nelle quali, fra le istituzioni politiche e i singoli, si strutturano molteplici gruppi intermedi, pratiche culturali e tessuti relazionali che condizionano il funzionamento stesso delle istituzioni. Queste ultime, a loro volta, costituiscono il quadro entro cui relazioni e culture si organizzano e si modificano.
Quella che a noi sembra una lacuna nel lavoro, peraltro assai importante e documentato, di Putnam è proprio l’aspetto qui ritenuto cruciale: gli effetti delle istituzioni sulle culture locali, divenute regionali. Le regioni, da ritagli di ingegneria statistico-amministrativa, si sono nel tempo oggettivate e istituzionalizzate, sono diventate realtà, soggetti politico-territoriali che influenzano, rielaborano, rivitalizzano tradizioni e, a volte, creano dal nulla forme culturali e identità. senza voler entrare in una discussione epistemologica sullo statuto di realtà di fenomeni storico-politici (l’invenzione della tradizione), il dato rilevante è che nel corso del tempo le regioni hanno esercitato un’influenza, intervenendo sulla cultura, sui comportamenti politici, fin dentro le pratiche quotidiane dei cittadini. Dall’altro lato quest’opera si propone di illustrare come aspetti sedimentati della cultura abbiano, a loro volta, influito sulle istituzioni regionali o almeno condizionato la loro azione attraverso processi specifici, differenziati, spontaneamente generati da un contesto non statico ma carico di storia.
I saggi compresi nei quattro volumi, là dove è stato possibile rintracciare dati e una documentazione attendibile, si occupano di entrambi gli aspetti, e cercano di delineare il quadro di orientamenti e comportamenti che più accomunano o dividono gli italiani delle diverse regioni. Analisi interessanti di questo intreccio si trovano, per esempio, nei casi del Friuli Venezia Giulia e della Sardegna, che mostrano quanto l’identità regionale, correlata a processi storici e di tipo linguistico, risulti in gran parte una costruzione delle politiche attuate dall’istituzione regionale, in particolare quelle in difesa e promozione delle proprie diversità linguistiche. Entra in gioco, al di là del fatto che si possa parlare di ‘riscoperta’ o di vera e propria ‘invenzione’ della diversità culturale, il potere performativo del discorso pubblico. Un altro esempio è quello dell’alimentazione, quella ricchissima varietà agronomica, gastronomica, culturale che caratterizza storicamente il nostro paese, tanto da contraddistinguerne l’identità nel mondo. Qui l’enorme varietà di prodotti, ricette, saperi, pratiche alimentari si è tradotta da tempi remoti in una vocazione nazionale, italiana, non regionale, caratterizzando piuttosto il territorio controllato dalle città. Tuttavia è proprio sul forte radicamento locale della cultura gastronomica che si sono inserite le regioni come attori istituzionali, a promuovere i prodotti locali tradizionali, tutelando l’industria agroalimentare, finanziando fiere gastronomiche, sagre, mercatini, secondo modelli spesso idealizzati, che finiscono per configurare una diversa geografia regionale delle culture alimentari. Questi non sono che sintesi di alcuni tra i molti esempi che si possono trovare nella presente opera.
L’immagine che i volumi restituiscono dell’Italia, vista attraverso le sue articolazioni regionali, si distacca quindi anche dall’ampia ed eterogenea letteratura sull’identità italiana, focalizzata soprattutto sulle immagini del ‘carattere nazionale’ come viene rappresentato in ambito letterario e del discorso pubblico (Bollati 1972; Patriarca 2010), o sulle singole regioni osservate nel lungo periodo. Con dati diversi e diverse metodologie, i vari saggi contribuiscono a delineare reali affinità e differenze tra le regioni e, grazie all’analisi di molteplici dimensioni, a volte attraverso confronti con i principali paesi europei, ad articolare un quadro nazionale che storicamente si nutre delle differenze, ma raggiunge – in diversi periodi storici – elevati livelli di omogeneità, mettendo in discussione anche il tradizionale dualismo Nord/Sud.
Naturalmente, per cogliere queste articolazioni, e volendo fare un’analisi delle dinamiche socioculturali, bisogna andare sia oltre la concezione troppo ristretta di cultura ancora molto diffusa nell’ambiente intellettuale italiano, sia oltre quella cui si riferisce Putnam, per il quale i fattori significativi sono solo quelli della ‘cultura civica’ e del tessuto associativo locale. La ‘cultura’ sottesa in quest’opera, invece, è da intendersi in senso socioantropologico, non come cultura di élite, ma come dimensione più ampia, che non si esprime in forma dottrinale e teoretica e che, forse per questa ragione, è stata più raramente oggetto di indagine storica. Essa comprende sia atteggiamenti mentali e rappresentazioni (come le memorie di eventi traumatici, ambientali e storici) sia abitudini e pratiche sociali (come i riti collettivi, i modelli di consumo, gli stili di vita) della popolazione. Dall’ambito delle dinamiche socioculturali è stato tenuto distinto il piano delle istituzioni che, come si è detto, influiscono anch’esse sulla cultura e ne sono, a loro volta, influenzate. Il mantenimento di questa distinzione consente, a livello empirico, di coglierne i possibili rapporti.
I contenuti dei quattro volumi dipendono da questa ipotesi generale, a cui è collegata anche la scelta metodologica, impegnativa ma necessaria, data l’ampiezza e la varietà delle dimensioni affrontate per descrivere un paese ‘lungo’ come l’Italia, di contare su approcci e sguardi disciplinari diversi. La multidisciplinarità dell’approccio di quest’opera, che mette insieme storici, antropologi, geografi, sociologi, scienziati politici, giuristi, economisti, urbanisti, e che ha richiesto un notevole impegno di coordinamento, è d’altro canto il frutto della convinzione di chi scrive della necessità di collaborazione tra le scienze storico-sociali e di superamento degli steccati che spesso accademicamente le dividono in comparti e specialismi non comunicanti.
La descrizione della varietà e articolazione dei singoli volumi è rimandata alle presentazioni in testa a ognuno di essi. Qui è sufficiente ricordare la loro struttura generale.
Nel primo volume le regioni vengono affrontate come Istituzioni. L’oggetto dei contributi presenti in esso è il mutamento delle competenze istituzionali intervenuto nell’arco di tempo considerato. Si prendono in esame anche le sue ricadute negli ambiti legislativi, economici, sociali, amministrativi, culturali.
Nel secondo volume, Territori, si affrontano le trasformazioni del territorio e gli aspetti visibili di una cultura, quali i manufatti urbani, gli strumenti delle attività industriali e i saperi al territorio riconducibili, ma anche la produzione agricola, i consumi, il turismo.
Nel terzo volume, Culture, si affrontano aspetti ritenuti centrali nella definizione dell’identità di una comunità sociale, come le pratiche e le ritualità legate alle tradizioni popolari e religiose, la varietà linguistica, la memoria.
Il quarto volume, Società, affronta varie dimensioni del capitale sociale e della cultura civica, come il tessuto associativo, le norme di reciprocità, la fiducia, i valori civili, l’impegno pubblico e la partecipazione politica. Accanto a queste dimensioni, più direttamente affrontate nella citata ricerca di Putnam, sono considerate anche le problematiche dei migranti e dell’integrazione, e quelle relative ai più importanti mezzi di comunicazione e circolazione delle idee nelle loro dimensioni regionali e locali. Si prende inoltre in esame il ‘lato oscuro’ del capitale sociale e del tessuto associativo, come la criminalità, le reti della corruzione politica e mafiosa.
Oltre alle illustrazioni presenti nei singoli saggi e al percorso delle tavole fuori testo che caratterizza ciascun volume, segnaliamo la corposa Appendice posta nel quarto. Qui il lettore troverà, insieme alle carte di tutte le regioni, anche quelle tematiche, costruite in funzione dei capitoli dei singoli volumi, che spaziano dunque dagli istituti di cultura alle imprese, dalla religione ai redditi, dalle immigrazioni al capitale sociale, dalle cooperative ai festival e a molto altro.
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S. Rokkan, Citizens, elections, parties, Oslo 1970 (trad. it., Bologna 1982).
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