L’Italia non è un Paese povero: dall’AGIP all’ENI
In una tarda serata di fine inverno del 1960, Joris Ivens, talentuoso e problematico regista olandese, presenta a Enrico Mattei (1906-1962), presidente e artefice dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), la versione integrale del suo film documentario L’Italia non è un Paese povero. Era stato lo stesso Mattei a volere Ivens, considerato il più idoneo in una terna dei migliori documentaristi mondiali (gli altri due erano Robert Flaherty e John Grierson), per realizzare un film, da distribuire in primo luogo in televisione, il quale avesse la forza di descrivere l’impatto sulla società italiana della rivoluzione energetica promossa dalla scoperta del gas metano nella pianura padana.
Non erano valse, a dissuadere nella scelta il presidente dell’ENI, le ragioni di opportunità suggerite dalla matrice ideologica di Ivens, comunista e documentarista ufficiale della Terza internazionale. Assumendo il rischio di prevedibili censure RAI – che in effetti interverranno con cospicui tagli (118 m di pellicola) sul film poi andato in onda con il titolo edulcorato Frammenti di un film di Joris Ivens –, il regista olandese era stato ingaggiato confermandogli la massima libertà artistica.
In conformità con una strategia di comunicazione dell’ENI strutturata attraverso collaborazioni eccellenti – apparterranno a questa tradizione, nel solo ambito documentaristico, Alessandro Blasetti, Bernardo Bertolucci, Gillo Pontecorvo, Sergio Zavoli, Leonardo Sciascia –, il film si avvaleva del contributo dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, autori di uno dei tre episodi di cui è costituito, di Tinto Brass, aiuto regista, di Alberto Moravia e Corrado Sofia per i testi di commento e di Enrico Maria Salerno come voce narrante. Mattei assiste alla proiezione insieme a Pasquale Ojetti, responsabile del settore cinematografico dell’ENI, incaricato di annotare alcune osservazioni, che peraltro si rivelano marginali (per es., il disappunto per un frammento onirico, il sogno di un bambino utilizzato come espediente di raccordo narrativo per illustrare un impianto industriale).
Al termine della visione, con sorpresa e sconcerto dell’autore in attesa di riscontro, l’illustre committente si esime tuttavia dall’esprimere un giudizio. Mattei, che aveva espressamente richiesto un prodotto di prestigio, ma anche in un certo senso ‘militante’, si vede probabilmente superato nelle sue stesse intenzioni.
Il film, dal riconosciuto valore artistico, mentre promuove l’azione di sviluppo e di modernizzazione sociale operata dall’industria petrolifera nazionale, descrive per alcuni versi un contesto di estrema arretratezza culturale e di miseria. Assumendo anche un valore antropologico, la pellicola documenta, infatti, con toni di realismo lirico di rara intensità, la condizione di indigenza e di disperazione in cui versavano le popolazioni rurali di alcune regioni meridionali d’Italia (per es., lo stato d’abbandono di un neonato appartenente a una famiglia numerosa a mezzadria in Lucania, assalito da mosche in una spelonca buia e umida).
L’Italia non è un Paese povero non avrà un percorso facile. Apprezzato da Mattei, almeno secondo alcune testimonianze e per quanto si può dedurre da una prima distribuzione internazionale della versione integrale del film (seppur limitatamente ad ambiti istituzionali), precedente alla sua diffusione televisiva in formato ridotto, il film non fu catalogato ufficialmente nella cineteca ENI. La sua versione originale, conservata presso il Nederlands filmmuseum di Amsterdam, è stata acquisita dalla Cineteca nazionale di Roma soltanto nel 1997, alimentando poi peraltro interessanti ricerche filologiche (Frescani 2012). Tuttavia ancora oggi, anzi forse in modo più eloquente, il lavoro di Ivens è capace di svelare la portata del cambiamento avvenuto negli anni Cinquanta nella società italiana: misurando la distanza tra le prospettive di sviluppo economico e culturale, in buona parte già allora confermate, offerte dalla disponibilità delle fonti energetiche primarie, e la condizione di sudditanza marginale cui condanna la loro carenza, rivela che l’Italia si è emancipata dal destino di un Paese a economia rurale.
Nel 1960, l’ENI, protagonista di questa traformazione, è già un gruppo industriale integrato e manifesta pienamente quelle caratteristiche distintive che gli consentiranno di gestire gli stravolgimenti geopolitici ed economici della seconda metà del 20° sec. conseguendo e poi mantenendo il profilo di gruppo leader del settore energetico su scala mondiale. Nel 2012, l’ENI è stata la sesta impresa petrolifera del mondo per produzione di idrocarburi (escludendo le imprese nazionali dei Paesi produttori direttamente controllate dagli Stati, le cosiddette National oil company) e si è posizionata al 29° posto, per capitalizzazione (market value di 97,6 miliardi di dollari, maggio 2013), nella classifica assoluta delle imprese (www.forbes. com/global2000/).
Gli albori dell’industria del petrolio in Italia
I primi tentativi di ricerca sistematica di petrolio in Italia sono pressoché coevi a quelli molto più celebrati avvenuti negli Stati Uniti. I primi pozzi esplorativi di un certo rilievo furono effettuati nel 1860 nel Parmense, soltanto un anno dopo lo scavo fortunato del colonnello Edwin Laurentine Drake in Pennsylvania. Le caratteristiche dei giacimenti italiani, più profondi e decisamente inferiori per dimensioni rispetto agli iniziali ritrovamenti americani, non stimolarono la crescita delle attività di esplorazione. Né furono investiti capitali dalle imprese private in questo settore nei decenni successivi, malgrado lo Stato avesse previsto specifici programmi di sovvenzionamento.
Avendo riconosciuto l’alto valore strategico dei combustibili liquidi – negli anni tra il 1920 e il secondo conflitto mondiale le compagnie petrolifere americane estesero su scala internazionale il controllo sulla raffinazione (per es., in modo totale in Colombia, Bolivia e Venezuela, e per quote rilevanti di produzione in altri Paesi: il 33% circa in Germania, Ungheria e Jugoslavia, il 25% in Francia, il 16,5% circa in Inghilterra e Belgio: cfr. Sapelli, Orsenigo, Toninelli, Corduas 1993) –, il governo italiano nel 1911 aveva stanziato capitoli di spesa per sovvenzioni e forniture di macchinari a favore dei trivellatori. Secondo una visione economica liberista, era inoltre giunto ad affermare, nel d.l. 19 nov. 1921, «esplicitamente la rinuncia ad ogni concorrenza statale nelle ricerche degli idrocarburi» (Atti parlamentari 37227, Camera dei deputati, seduta 24 apr. 1952). Tali iniziative di stimolo non consentirono, tuttavia, di conseguire i risultati auspicati, tanto da indurre il relatore del documento di conversione in legge del d.l. 4 maggio 1924 nr. 677, che approvava una convenzione tra il ministero dell’Economia e una compagnia petrolifera americana (Sinclair exploration company), a dichiarare in Parlamento:
grossi organismi finanziari nazionali disposti a correre l’alea di queste ricerche non si sono costituiti, ed è ben difficile si possano costituire, perché da noi il capitale sceglie giudiziosamente la via dell’impiego sicuro (cit. in Mattei 2012, p. 345).
Fu giocoforza, a tutela degli interessi nazionali condizionati dalla lavorazione del greggio, l’istituzione di una compagnia di Stato, denominata A.G.I.P. (Azienda Generale Italiana Petroli), «avente per oggetto lo svolgimento di ogni attività relativa all’industria ed al commercio dei prodotti petroliferi» (decreto legge 3 apr. 1926 nr. 556).
Prima dell’ENI
È opinione diffusa ritenere non molto rilevante l’attività dell’A.G.I.P. nei suoi primi anni. Questo pregiudizio è probabilmente giustificato dal grande impatto che successivamente ebbe l’ENI sul piano industriale ed economico in Italia. In realtà l’A.G.I.P., negli anni 1926-40, promosse la strutturazione primaria del settore petrolifero. Dovendosi concorrenzialmente confrontare con le majors Standard oil e Shell – che operavano sul mercato nazionale rispettivamente attraverso le controllate SIAP (Società Italo Americana del Petrolio) e NAFTA e avevano acquisito le raffinerie di Trieste ex asburgiche – l’A.G.I.P., avendo a sua volta assorbito la società ROMSA (Raffineria di Olii Minerali S.A.) ereditaria nel primo dopoguerra delle raffinerie austriache di Fiume, si trovò ad adempiere alla funzione di calmierare il prezzo della benzina. Impostò, pertanto, una primitiva strategia basata sulla diversificazione degli approvvigionamenti del greggio, organizzata attraverso partecipazioni dirette alla coltivazione di giacimenti all’estero e acquisizioni di forniture da differenti Paesi produttori.
Appartengono alla prima tipologia gli interessi in alcune attività minerarie in Romania, esercitati con il controllo di società locali, Prahova, Atlas petrol, Petrolul Bucaresti (Pozzi 2008), e soprattutto la partecipazione con la British oil development alle ricerche in Mesopotamia attraverso la società Mosul oil field. Queste ultime, nel 1934, avevano portato alla scoperta di un «notevolissimo giacimento» in Iraq sulla riva destra del Tigri, per lo sfruttamento del quale fu messa allo studio la realizzazione di un «oleodotto per trasportare petrolio nel Mediterraneo» (AGIP, Relazione di bilancio, 1934, cit. in Sapelli, Orsenigo, Toninelli, Corduas 1993, p. 41). Tuttavia, finalità estranee alla missione aziendale dell’A.G.I.P. – suoi alti dirigenti, espressione dell’industria privata italiana, avevano avuto interessi nelle attività di alcune majors, le quali continuavano peraltro a esercitare pressioni a tutela delle loro quote –, ma soprattutto il precipitare della situazione internazionale a sfavore dell’Italia, con le sanzioni economiche del 1936, frustrarono l’impresa irachena (la partecipazione nella Mosul fu ceduta).
Vanno incluse nelle attività dirette di approvvigionamento all’estero anche le operazioni in Libia, compresa la costruzione di un deposito costiero a Tripoli (in compartecipazione con la Fiat). La diversificazione delle forniture di greggio coinvolse invece Paesi produttori quali Russia e Messico. La Russia dal 1923, in forza di un trattato commerciale interstatale, fornì petrolio e benzina (distribuita dalla SNOM, Società Nazionale Oli Minerali, controllata A.G.I.P.), primo atto di un rapporto che segnerà altre importanti fasi della strategia energetica della compagnia italiana. Il Messico, secondo un accordo stipulato con l’ente del petrolio di quel Paese, assicurò il greggio anche per le necessità della neonata ANIC (Azienda Nazionale di Idrogenazione Idrocarburi), antesignana della petrolchimica italiana, che era stata fondata nel 1936 in partnership con Montecatini per la produzione di combustibili nelle raffinerie di Livorno e Bari (Zamagni 1990).
L’A.G.I.P. effettuò anche diverse prospezioni in tutto il territorio nazionale. Nell’Italia centro-meridionale furono complessivamente realizzati rilievi geologici per 5935 km2, prospezioni geofisiche per 8763 km2, 127 perforazioni di pozzi per una lunghezza totale di 49.717 m. Nelle regioni centro-settentrionali, le ricerche, condotte prevalentemente in zone appenniniche in presenza di manifestazioni affioranti, condussero sostanzialmente a individuare giacimenti superficiali di scarso rilievo economico, per quanto fosse già applicato il metodo gravimetrico di prospezione geofisica (dal 1927) e fosse vivo l’interesse per gli impieghi del gas naturale (a Torino e Montecatini alcuni impianti furono alimentati a metano biologico, e a Roma si intrapresero studi applicati alla produzione di metano dai rifiuti).
Su tutto il territorio nazionale, dal 1927 al 1939, furono perforati 220 pozzi per 112.650 m. Anche se risultò insoddisfacente in termini di produzione realizzata, l’attività di ricerca di idrocarburi dell’A.G.I.P. nel periodo anteguerra conseguì perlomeno due eccellenti risultati: l’applicazione dal 1940, senza precedenti in Europa occidentale, del metodo sismico a riflessione per la prospezione – che avrebbe consentito negli anni successivi di selezionare con successo le strutture geologiche profonde da intercettare attraverso pozzi esplorativi – e, in primo luogo, l’individuazione dell’importanza del giacimento di metano di Caviaga in provincia di Lodi (di cui fu occultata la notizia alle forze di occupazione naziste nel periodo bellico).
Nel complesso, le iniziative dell’azienda di Stato non stimolarono l’intervento rilevante del capitale privato nella ricerca degli idrocarburi (nel periodo 1927-39, 84 pozzi per 22.341 m), come testimoniato nel 1937 dal simposio tecnico-scientifico sulla prospezione geologica e geofisica del petrolio in Italia presso l’Accademia dei Lincei (Problemi e discussioni. Relazioni alla classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, anno accademico 1936-1937, 1° fasc., 1937, pp. 77-122).
Tuttavia, al termine del secondo conflitto mondiale fu concreto il rischio di un controllo straniero totale sulle strutture e sul mercato petroliferi nazionali. Il Comitato italiano petroli (CIP), che sotto l’egida delle forze alleate aveva requisito le infrastrutture per la distribuzione dei prodotti petroliferi sul territorio, avrebbe coordinato tale funzione secondo le direttive di merito dell’Istituto del petrolio di Washington (Corduas 2006).
Enrico Mattei, il codice genetico dell’ENI
Nell’immediato dopoguerra il Comitato di liberazione nazionale (CNL) assegnò il ruolo di commissario straordinario dell’A.G.I.P. a Mattei, con il compito sostanziale di liquidare l’azienda. Convergevano in questa direzione la forte matrice liberista di alcuni esponenti politici di rilievo – per es., il primo presidente del consiglio dell’Italia liberata, Ferruccio Parri, e l’autorevole don Luigi Sturzo – e gli interessi delle compagnie petrolifere anglo-americane che si richiamavano a un rispetto zelante del regime di libera concorrenza. Ostacolo principale a tale obiettivo furono proprio la figura e l’opera di Mattei che, in una fase di grave crisi economica, fu in grado di catalizzare un movimento d’opinione a favore del mantenimento statale dell’AGIP (furono eliminati i puntini dall’acronimo aziendale), facendo leva prevalentemente sulle posizioni economiche del cattolicesimo progressista lombardo (Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Enrico Falck, Orio Giacchi, Marcello Boldrini) e avvalendosi del sostegno risolutivo del ministro delle Finanze Ezio Vanoni e, infine, del nuovo presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Peraltro, anche il vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio Luigi Einaudi, che di lì a poco sarebbe diventato presidente della Repubblica, si mostrò contrario alla già negoziata cessione per tre miliardi di lire dell’AGIP alla Edison, in quanto, da rigoroso liberista, era ostile alle concentrazioni oligopolistiche.
A partire da questa critica fase di transizione, il temperamento di Mattei, le sue finalità improntate al bene comune economico e la sua visione organica e di lungo periodo circa l’orizzonte di sviluppo del Paese, furono determinanti nel comporre il quadro degli equilibri politico-industriali che indirizzarono le prospettive di crescita dell’azienda energetica nazionale.
Cresciuto nell’ambito di una famiglia piccolo-borghese della provincia marchigiana (il padre era maresciallo dei carabinieri a Matelica), Mattei si affermò contando esclusivamente sulle proprie forze. Sospesi gli studi per sostenere economicamente la famiglia, dopo un periodo di lavoro in una conceria del paese di origine, che lo vide in poco tempo assumere il ruolo di direttore tecnico, si trasferì a Milano per fondare successivamente una piccola industria chimica (Industria chimica lombarda grassi e saponi). Nel volgere di pochi anni, Mattei consolidò l’impresa che gli diede l’agiatezza economica (nel corso della sua carriera in AGIP-ENI, Mattei non percepì mai stipendi, e dispose di devolvere i rimborsi spese a un orfanotrofio).
Nella capitale lombarda egli non si segnalò soltanto per la sagacia imprenditoriale e coltivò interessi culturali più vasti, in particolare politici, mediati dal conterraneo Marcello Boldrini (ordinario di statistica e accademico pontificio). La prossimità con gli ambienti cattolici progressisti gli consentì di affinare coscienza sociale, spirito civico e una visione economica ispirata alla limitazione degli eccessi del capitalismo attraverso l’intervento dello Stato. Avendo coltivato un radicato sentimento antifascista, durante l’occupazione militare tedesca fu attivamente impegnato nella guerra partigiana, assumendo incarichi di alto profilo nel CNL tanto da sfilare, alla fine della guerra, in testa al corteo del 5 maggio 1945 a Milano al fianco di altri capi partigiani (Ferruccio Parri, Luigi Longo, Raffaele Cadorna, Giovani Battista Stucchi, Fermo Solari). Alla guida dell’AGIP, constatata la consistenza del giacimento di gas metano di Caviaga, Mattei ebbe chiara visione dell’importanza strategica per lo sviluppo industriale, e conseguentemente economico-sociale della nazione, della disponibilità di una fonte energetica a basso costo.
Negli anni Quaranta, tra le maggiori cause dell’annoso ritardo industriale italiano rispetto ai più sviluppati Paesi europei poteva sicuramente essere addotto il costo più elevato dell’energia. Il carbone, la fonte energetica più utilizzata prima dell’avvento del petrolio, alla fine del 19° sec. era pagato al porto di Genova il doppio che in Inghilterra e Germania. Lo sviluppo dell’industria idroelettrica lungo l’arco alpino italiano, per quanto di notevole rilievo avendo stimolato la crescita delle industrie settentrionali (prevalentemente lombarde e piemontesi), non era valso a ridurre la distanza tra le condizioni economiche del Nord e del Sud del Paese. Il gas della pianura padana fornì l’opportunità di avviare la crescita dell’azienda energetica dello Stato, secondo modalità che Mattei seppe guidare, con intuito e lungimiranza, verso l’internazionalizzazione e puntando a conseguire il massimo grado di autonomia energetica nazionale. Fecero parte di questa strategia la diversificazione delle fonti energetiche primarie, con la pianificazione dell’incremento dell’upstream petrolifero sia in Italia sia all’estero e, successivamente, con il tentativo di sviluppo dell’energia nucleare, l’impulso all’innovazione tecnologica, con gli investimenti nella raffinazione, nella petrolchimica nascente e nell’ingegneria impiantisca a servizio delle operazioni di ricerca, coltivazione e distribuzione degli idrocarburi, la valorizzazione all’interno del gruppo della conoscenza e delle compentenze (sugellata dalla fondazione nel 1957 della Scuola superiore degli idrocarburi, oggi Scuola Enrico Mattei).
Ne conseguirono altre direttrici operative altrettanto significative: l’incremento delle attività di distribuzione dei prodotti petroliferi (con il corollario di grande impatto sociale dello sviluppo di servizi di qualità per gli automobilisti); la definizione di una politica commerciale continentale che prefigurava il mercato europeo come estensione del mercato domestico; l’inaugurazione di una geopolitica del petrolio inclusiva che, ricercando la compartecipazione dei Paesi produttori allo sfruttamento industriale delle loro risorse, implicò evidenti connessioni con le dinamiche di decolonizzazione in corso in molti di essi e con i processi di sviluppo dei Paesi arretrati (in anticipo rispetto alla rubricazione politica ufficiale del problema); la necessità di adattare l’organizzazione aziendale a un mercato che si andava delineando in forme più competitive.
Tali elementi, molti dei quali innovativi nel settore petrolifero tradizionalmente conservativo, furono governati da Mattei con risolutezza estrema, al limite della spregiudicatezza, come fu evidenziato da alcuni suoi detrattori, in particolare in relazione all’esercizio di strategie lobbistiche nell’ambito sia della comunicazione – l’ENI fu proprietaria di un quotidiano, «Il giorno» – sia politico (Mattei fu definito in modo superficiale e demagogico dal giornalista Indro Montanelli «corruttore incorruttibile»: cit. in Accorinti 2006, p. 216). Essi entrarono comunque a far parte del codice costitutivo dell’azienda e ancora oggi alimentano la sostanza e l’immagine di un gruppo ‘diverso’, che può affrontare, godendo di una solida eredità in termini di credibilità verso le istanze di rinnovamento, anche le sfide urgenti del mondo futuro, in cui la finitezza delle risorse e l’incombenza dei rischi associati ai cambiamenti climatici prospettano alle industrie delle fonti fossili un panorama radicalmente diverso rispetto a quello del 20° sec., e le obbligano a confrontarsi con la necessità di operare una trasformazione sostanziale del paradigma energetico, nella direzione di un sistema ineludibilmente sostenibile.
La difesa dell’oro blu di Caviaga
L’accertamento della rilevanza in termini quantitativi del giacimento di gas metano di Caviaga, a poche decine di chilometri a sud di Milano, rappresentò la svolta per la crescita industriale dell’AGIP. In questa località, a circa 1300 m di profondità, i terreni sabbioso-arenacei del Pliocene inferiore costituivano la roccia serbatoio di un notevole giacimento di idrocarburi gassosi, intrappolati in una piega anticlinale dagli strati sovrastanti argillosi con funzione impermeabilizzante. La struttura del giacimento era stata individuata attraverso una campagna di rilievi di sismica a riflessione iniziata nel 1940 e coordinata dall’ingegnere Tiziano Rocco, al tempo a capo dell’ufficio geofisico dell’AGIP (dopo la guerra fu direttore esplorazione dell’azienda, dal 1950 al 1968) e promotore dell’acquisizione di gruppi sismici dall’azienda statunitense Western geophysical company che erano considerati in assoluto i più avanzati.
Il pozzo esplorativo, condotto fino alla profondità di 1800 m e realizzato in un anno a partire dal maggio 1943, intercettò i livelli fertili con prove di produzione di 100.000 m3 di gas al giorno. Un successivo pozzo situato a breve distanza (a circa 500 m dal primo), effettuato tra il 1945 e il 1946 ed espressamente voluto da Mattei, confermò le indicazioni favorevoli. Caviaga prometteva riserve di metano per alcuni miliardi di metri cubi (nel corso del suo esercizio il campo, oggi praticamente esaurito, malgrado ancora ufficialmente operativo con i 943.616 m3 del 2013, produrrà in effetti circa 14 Gm3), una quantità fino allora mai riscontrata in un singolo giacimento in Europa occidentale e di enorme significato economico per un Paese che nel 1946 produceva soltanto 11 milioni di m3 (nel 1950, un pozzo con produzione media tipica di 300.000 m3/g fu stimato potesse rendere 1,5 miliardi di lire l’anno a fronte di un costo di realizzazione di circa 80 milioni). La tipologia di questo giacimento, per analogia strutturale desunta dalla natura geodinamica di bacino postorogenico della valle del Po, consentiva inoltre soprattutto di prevedere la sua diffusa replicazione nella pianura padana.
L’estensione intensiva delle ricerche confermò le indicazioni con la scoperta di numerosi altri giacimenti, Ripalta (1947) e Cortemaggiore (1949) tra i primi. Nel 1949, l’AGIP era in grado di valutare in 30 Gm3 di gas le risorse complessivamente estraibili dai tre giacimenti principali individuati nel triennio precedente, con capacità potenziale di erogazione di 4 Mm3/giorno a fronte di un consumo di combustibili fossili d’importazione per usi industriali e civili che fu calcolato (1950) in circa 30-35 Mm3/giorno equivalenti per potere calorifico (3 Mt/anno di petrolio, 8,5 Mt/anno di carbone e 0,25 m3/giorno per abitante come gas di città). Il giacimento di Cortemaggiore garantì, inoltre, una produzione di gasolina (benzina pura ad alto numero di ottani), di gas liquefacibili (propano e butano) e di petrolio (da un orizzonte geologico inferiore a quello gasifero).
Per estrarre la benzina e i gas liquefacibili, la centrale di raccolta fu dotata di un moderno impianto di degasolinaggio, il più grande allora d’Europa, in cui il metano era prima essiccato con glicol e poi lavato con solvente (olio diesel). La benzina dalle alte prestazioni di Cortemaggiore, commercializzata con il nome efficacemente pubblicizzato di Supercortemaggiore («la potente benzina italiana»), fu prodotta in volumi apprezzabili: 400 t/giorno che costituivano un quinto del consumo italiano. Per alimentare la sua distribuzione venne pianificata la realizzazione di una catena di stazioni di rifornimento (in alcuni casi corredate da officine per il lavaggio e l’ingrassaggio degli autoveicoli), progettate dall’architetto Mario Bacciocchi, che fossero riconoscibili inequivocabilmente per elementi standard di design (per es., lo stile cromatico virato sul giallo e l’inconfondibile logo del cane a sei zampe) e per forme architettoniche razionali, audaci e gradevoli, in linea con una strategia di marketing mirata a comunicare in modo diretto e tangibile agli utenti, in questo caso automobilisti, la modernità efficiente dell’azienda di Stato. Una politica commerciale che sarà poi coerentemente estesa a una gamma di servizi più completa (ristorazione, proposta alberghiera, shopping e relax) offerta dalle aree di servizio AGIP e dai Motel AGIP, in particolare sulla rete autostradale nascente.
Dopo i primi significativi ritrovamenti, in pianura padana ne seguirono numerosi altri. Nel 1952, i nove più grandi giacimenti (oltre ai sopra menzionati, Cornegliano, Bordolano, Correggio, Ravenna, Imola, Verolanuova) consentirono di effettuare una previsione di produzione di 13 Mm3/giorno sostenibile per 20 anni. Il potenziamento degli impianti di perforazione a rotazione (rotary) aveva inoltre raggiunto il risultato di munire l’AGIP del più importante parco europeo per la ricerca di idrocarburi a terra – 29 unità, di cui 1 per perforazioni più profonde di 5000 m, 3 per profondità fino a 3900 m e 20 per perforazioni da 2500 m (nel 1945 ne erano disponibili soltanto 4 per profondità non superiori ai 2000 m) – che era stato efficacemente utilizzato con percentuali di successo d’eccellenza. Dal 1946 al 1953, su 34 pozzi esplorativi si ottenne esito favorevole nel 35% dei casi; su 205 pozzi di coltivazione (equivalenti a complessivi 337.028 m trivellati) i successi furono dell’86,1%. Il confronto con le analoghe percentuali su territorio statunitense nello stesso periodo, rispettivamente 20% e 70%, permise a Mattei, nell’occasione dell’intervento di ringraziamento per la laurea honoris causa in ingegneria mineraria conferitagli dal Politecnico di Torino (1953), di lodare ufficialmente l’efficienza tecnologica guadagnata dall’AGIP. Nel 1953, la produzione nazionale di metano, sostanzialmente proveniente dalla pianura padana, aveva raggiunto 2 Gm3, ed era superata al mondo soltanto da Stati Uniti e Canada.
All’atto della costituzione dell’ENI con la l. 10 febbr. 1953 nr. 136, l’impatto della produzione di metano della pianura padana, sia per l’oggettivo valore economico e industriale sia per il significato simbolico che aveva assunto anche nella pubblica opinione, rendeva ancora di grande interesse l’argomento della riserva di esclusiva sulla ricerca e sulla coltivazione degli idrocarburi concessa all’azienda di Stato in quella zona. A tutela delle risorse del sottosuolo di pertinenza dello Stato, l’AGIP, infatti, aveva ricevuto, in virtù di una legge mineraria che da tempo richiedeva di essere aggiornata, l’esclusiva sulle risorse dell’area padana.
Il percorso per l’istituzione dell’ENI, lungo e accidentato (il disegno di legge di merito fu presentato in Parlamento il 13 luglio 1951), ereditò gli elementi del conflitto che dalla fine della Seconda guerra mondiale contrapponevano i fautori dell’intervento dell’industria privata nel settore degli idrocarburi senza vincolo di sorta su tutto il territorio nazionale, quindi anche in pianura padana, ai sostenitori del diritto dello Stato di preservare gli investimenti effettuati in un territorio dalle risorse già valorizzate (definito per questo da Mattei, «una cassaforte aperta»). I primi si erano visti rappresentati dal ministro dell’Industria Ivan Matteo Lombardo, in un estremo tentativo legislativo, respinto dal Consiglio dei ministri nel 1949, che avrebbe previsto una percentuale dell’8% per lo Stato sui profitti dei privati. I secondi, confidavano su una convergenza di merito dell’ala progressista della Democrazia cristiana e delle opposizioni di sinistra, in base all’art. 43 della Costituzione che esprime la titolarità dello Stato di «riservare originariamente […] imprese […] che si riferiscano a […] fonti di energia […] di preminente interesse generale».
Era peraltro evidente ai promotori del nuovo ente, in particolare a Mattei (deputato in Parlamento dall’8 maggio 1948 al 5 marzo 1953) e a Vanoni (primo firmatario della legge), la necessità di strutturare un soggetto economico di personalità giuridica pubblica, gestito tuttavia secondo i caratteristici criteri dell’impresa privata, che fosse in grado di investire ingenti risorse finanziarie senza l’urgenza della redditività immediata.
Con l’approvazione della l. 136, confermate queste istanze, fu infine sancita (art. 2) l’esclusiva attribuzione all’ENI della ricerca, della coltivazione e del trasporto (con le annesse funzioni di costruzione e di esercizio delle infrastrutture necessarie) degli idrocarburi liquidi e gassosi nell’area della pianura padana e del mare a essa prospiciente (definita in modo particolareggiato da una tabella allegata) e fu stabilita la funzione di promozione delle iniziative minerarie dell’ente in regime di concorrenza con i privati sul restante territorio nazionale. Secondo una linea strategica dichiaratamente prefigurata, rispetto alle opzioni industriali di sviluppo che saranno poi intraprese, ne fu previsto, «altresì, il compito di promuovere ed attuare iniziative di interesse nazionale nei settori della chimica e della ricerca, produzione, rigenerazione e vendita dei combustibili nucleari, nonché nel settore minerario attinente a questa attività» (art. 1).
Si volle, inoltre, configurare per l’ente una struttura organizzativa innovativa, che prevedeva un presidente con vasti poteri amministrativi svincolati da condizionamenti di organi interni, in quanto deferitigli, alla nomina o al rinnovo del mandato spettanti al governo, da una giunta esecutiva delegante, a sua volta di nomina governativa e costituita da tre membri oltre al presidente stesso e al vicepresidente. Tali prerogative attuarono una forma di ente differenziata rispetto a quella standard dominata, su calco delle società per azioni, dal consiglio di amministrazione (Cassese 2004), assicurando all’ENI sicure prospettive di sviluppo. Il gruppo, articolato alla costituzione in subholdings funzionali per ambito (AGIP mineraria per la ricerca e la distribuzione di petrolio e metano; AGIP per la raffinazione e vendita di prodotti petroliferi e metano; SNAM, Società NAzionale Metanodotti, per il sistema di trasporto dei prodotti; ANIC, per il coordinamento delle attività nella chimica), fu conseguentemente in grado di finanziare la propria crescita attraverso la vendita del gas naturale (rendita metanifera) e di stimolare l’accrescimento dell’economia nazionale con la fornitura di energia a basso costo. Quattro anni dopo l’istituzione dell’ENI, l’approvazione della l. 11 genn. 1957 nr. 5 completò la regolamentazione normativa della ricerca e dello sfruttamento degli idrocarburi in Italia, con l’intento di preservare lo spirito della libera concorrenza nei territori continentali non compresi nella zona di esclusiva. Tale orizzonte aveva in precedenza informato anche la legislazione mineraria della regione a statuto speciale Sicilia (l. regionale 20 marzo 1950 nr. 30), il cui sottosuolo era considerato molto promettente. Il regime di esclusiva sulla pianura padana rimase in vigore per più di quarant’anni e cessò con la l. 25 nov. 1996 nr. 625, di recepimento della direttiva comunitaria 1994/22/CE (per l’armonizzazione delle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi all’interno della Comunità europea), in un contesto industriale per l’ENI completamente diverso, essendo stato il gruppo da poco privatizzato e avendo invece già da tempo consolidato un maggiore coinvolgimento per le attività all’estero.
La prima metanizzazione del Paese e l’eredità del gas
La disponibilità rilevante di metano proveniente dal sottosuolo padano comportò la necessità di ottimizzarne l’utilizzazione favorendo inizialmente i consumi industriali dei grandi centri del settentrione relativamente vicini. Effettuata la scelta di realizzare metanodotti di collegamento, per garantire continuità di erogazione senza salti di stagionalità, tali infrastrutture furono costruite dalla SNAM con progressione senza precedenti.
Nel 1951, la rete dei metanodotti in opera contava già 1500 km e approvvigionava notevoli impianti: acciaierie Falck di Sesto San Giovanni (260.000 m3/g), stabilimenti per produzione di tubi di acciaio Dalmine (183.000 m3/g), stabilimenti Montecatini (140.000 m3/g), Azienda elettrica municipale di Milano (130.000 m3/g), SNIA Viscosa (130.000 m3/g), Pirelli (116.000 m3/g). L’analisi delle forniture per settore faceva registrare una distribuzione con i maggiori contributi alla chimica conciaria (29,82%), all’industria meccanica e siderurgica (26,85%), all’industria tessile (10,92%) e all’industria elettrica (10,52%), dove per quest’ultima il costo dell’energia elettrica prodotta per combustione di metano risultava il più basso a confronto con gli altri combustibili fossili (6,4 lire/kWh, di cui 3,35 da combustibile, contro 8,7 lire/kWh, di cui 4,85 da combustibile, per il petrolio, e 10,82 lire/kWh, di cui 6,55 da combustibile, per il carbone). Era in costruzione il metanodotto Cortemaggiore-Torino, da 16″ (entrato in funzione nel 1952, allora la più grande opera infrastrutturale di questo tipo in Europa, per alimentare le industrie piemontesi e ovviamente anche la Fiat), cui seguiranno, tra gli altri, i metanodotti sempre da 16″ Cortemaggiore-Genova e Cremona-Porto Marghera.
Esito di un piano di investimenti che aveva accompagnato la crescita dei consumi di gas, nel 1958 la rete metanodotti conseguì il primato della maggiore estensione in Europa occidentale, 4120 km più 900 km per la distribuzione urbana. Per realizzarla erano stati impiegati 200.000 t di acciaio e immobilizzazioni tecniche per un valore di 60 miliardi di lire. Dal punto di vista ingegneristico, i lavori comportarono sovrappassi fluviali, sottopassi ferroviari con armature di protezione, opere per gli incroci con vie a traffico intenso e per il superamento di livelli in quota, interventi di difesa elettrica delle condotte (ricoprimento delle tubazioni con rivestimenti isolanti, applicazione di giunti di isolamento elettrico, protezione catodica). La crescita dell’economia nazionale aveva beneficiato del forte incremento dei consumi energetici, in particolare degli idrocarburi a prezzi vantaggiosi.
Dal 1950 al 1956, il tasso di incremento dei consumi di energia (9,5%) fu superiore al pur elevato tasso d’aumento del reddito nazionale (7%). Al termine di questo periodo erano allacciate alla rete 1783 grandi utenze (industrie e comuni), che assorbivano 15 Gm3/giorno, e 1.600.000 utenze domestiche. Nel 1957, i consumi totali di energia (55 milioni di t equivalenti di carbone) furono soddisfatti al 44% da risorse interne con contributi determinanti del gas padano (5 Gm3) e del petrolio nazionale (1.300.000 t, di cui 200.000 ENI). La produzione di metano della Val Padana, sempre in aumento (6 Gm3 e 7 Gm3, negli anni 1959 e 1962), negli anni Cinquanta consentì al Paese un risparmio complessivo di 1 miliardo di dollari in importazioni evitate di combustibili fossili e garantì prezzi del gas sensibilmente inferiori a quelli praticati su scala non soltanto europea (nel 1961, 9 lire/m3, contro 13, 14, 16, 24 lire/m3, rispettivamente in Francia, nella costa nord-orientale degli Stati Uniti, in Germania, nei Paesi Bassi).
La dinamica calmierante premiò anche i derivati del petrolio, complice in questo caso l’aumento della produzione nazionale di greggio (36.000 barili/giorno nel 1959, grazie prevalentemente alla produzione in Sicilia, dove era stato da poco valorizzato dall’ENI il ritrovamento del giacimento di Gela), malgrado l’aumento rapido dei consumi petroliferi, che avevano raggiunto il livello di 293.000 barili/giorno (1959), avesse già consigliato di diversificarne le strategie di approvvigionamento verso l’estero. Il prezzo dell’olio combustibile subì nel biennio 1959-60 una riduzione da 12.597 a 10.229 lire la tonnellata sul mercato nazionale.
Sul versante della benzina, nel 1960 l’AGIP, forte di una catena di distribuzione ormai capillare che le consentiva di esercitare una politica di prezzo capace di rispondere prontamente alle oscillazioni del prezzo internazionale del petrolio, spiazzò la concorrenza attuando una riduzione dell’ordine del 4% (5 lire su 120), procurando un riallineamento delle altre compagnie con beneficio dei consumatori di circa 15 miliardi.
Negli anni Cinquanta, la realizzazione della rete infrastrutturale metanifera nel Nord del Paese tracciò il solco per lo sviluppo successivo della politica del gas del gruppo, le cui direttive, che si riveleranno in anticipo sui tempi, furono dettate da due fattori manifestatisi diacronicamente. In primo luogo, l’aumento della domanda interna di gas e la necessità di distribuire anche nel Meridione il combustibile per l’industrializzazione e la crescita economica indussero a incrementare la ricerca di nuove fonti sia in Italia sia all’estero. Inoltre, a partire dagli anni Novanta e sempre più distintamente fino ai primi anni del 21° sec., si è imposta con sempre più grande evidenza la maggiore compatibilità ambientale del metano rispetto alle altre fonti fossili per il minor impatto sui cambiamenti climatici (la sua combustione produce infatti meno anidride carbonica a causa del minore contenuto di carbonio). Tali indicazioni ambientali favorevoli trovano oggi ulteriore conferma nelle analisi previsionali energetiche IEA che vedono il gas, unico tra le fonti fossili, in crescita di consumi in tutti gli scenari condotti fino al 2035 (IEA 2012).
Accompagnato in territorio nazionale da nuove scoperte di metano, a cominciare nella seconda metà degli anni Cinquanta dal giacimento di Ferrandina (Basilicata, circa 10 Gm3 di riserve) e da quelli offshore nel Mare Adriatico (dove furono utilizzate piattaforme di perforazione autosollevanti, jack-up, costruite dalla neonata Saipem e per la prima volta usate in Europa nel 1958 sul giacimento di Gela), il potenziamento della rete dei metanodotti fu integrato dalla realizzazione di importanti infrastrutture per l’approvvigionamento da grandi Paesi produttori.
Le importazioni da Paesi Bassi e Russia comportarono l’installazione di 1110 km di condotte da 36″, con attraversamento delle Alpi per raggiungere i centri di Mortara e Sergnano rispettivamente dai confini olandese e ceco. La Saipem (Saip E Montaggi), la società del gruppo ENI costituita nel 1957 come potenziamento in percorso autonomo della SNAM montaggi, che acquisirà numerosi primati nelle attività di posa di condotte e perforazioni in terra e offshore, fu impegnata in sfide tecnologiche di frontiera per il completamento di tali grandi opere. Il gasdotto Transmed, lungo 2550 km, fu realizzato per trasportare metano in Italia (fino a Minerbio, nei pressi di Bologna) dal grande giacimento nel deserto algerino di Hassi M’rel (2000 Gm3 di riserve accertate). Una prima linea fu completata nel 1983, per un flusso di 12,3 Gm3 annui contrattualizzato inizialmente dall’ENI con la compagnia di Stato algerina (SONATRACH) per 25 anni. Il raddoppio del metanodotto fu portato a termine nel 1997 per ulteriori 7 Gm3 annui. La collocazione del tratto da 20″ del gasdotto nel canale di Sicilia consentì di stabilire (1980) il record mondiale di posa offshore (610 m d’acqua), con l’ausilio della nave posacondotte Castoro sei che incorporava un sistema di posizionamento dinamico di brevetto Saipem, testato in precedenza dalla nave di perforazione Saipem 2 (la prima in assoluto nel 1973 a poter operare d’inverno nel Mare del Nord). Il raddoppio del Transmed, che comportò nel tratto offshore un aumento del diametro delle condotte a 26″, rese necessario l’impiego complessivo di 1 milione e centomila t di acciaio.
Per potenziare la fornitura di gas dalla Russia meridionale attraverso la Turchia fu realizzato un altro grande progetto denominato Blue Stream. Questo gasdotto, operativo dal 2003, è lungo 1250 km con capacità di 16 Gm3/anno e in doppia linea di condotte da 24″ supera il Mar Nero raggiungendo la profondità massima di 2150 m (record mondiale 2001), scorrendo per 200 km oltre i 2000 m. I lavori di posa in profondità hanno previsto anche l’utilizzazione del sistema innovativo J-lay (saldatura su torre quasi verticale e varo libero in mare) eseguito dalla nave semisommergibile Saipem 7000, un mezzo ad avanzata tecnologia capace di gestire in autonomia tutte le costruzioni petrolifere in alto mare, dotato di servomotori che ne garantiscono la stabilità anche nelle peggiori condizioni meteomarine, di veicoli sottomarini telecomandati (ROV, Remoted Operated Vehicles) e contraddistinto da capacità di sollevamento fino a 14.000 t. L’apertura di una nuova via di approvvigionamento dai giacimenti della Libia occidentale (Bahr Essalam e Wafa), la prima a consentire l’approdo diretto del gas libico al mercato europeo, comportò la costruzione di un successivo metanodotto da record. Il Greenstream, lungo 520 km, con diametro da 32″ e una portata di 8 Gm3/anno, il più lungo gasdotto sottomarino del Mediterraneo (fine posa condotte nel 2004), raggiunge una profondità massima di 1127 m per connettersi a Gela con la rete nazionale.
Complessivamente, queste grandi opere infrastrutturali hanno contribuito in modo determinante al fabbisogno di gas italiano e hanno implicato lo sviluppo di tecnologie d’eccellenza per servizi ausiliari, quale, per es., il SiRCoS, ossia un Sistema di Riparazione per Condotte Sottomarine in grado di operare fino a 2200 m di profondità con l’ausilio di minisommergibili ROV, che comprende moduli e componenti gestiti da remoto per ripristinare la continuità meccanica delle condotte danneggiate. La rete nazionale, gestita nel mercato liberalizzato in qualità di operatore unico da Snam Rete Gas (controllata SNAM, di cui a sua volta l’ENI detiene ormai soltanto l’8,6%), come previsto dal d. legisl. 1° giugno 2011, è arrivata a coprire capillarmente il territorio (salvo alcune zone residue del Mezzogiorno) con un’estensione di 32.245 km. Attraversano le sue condotte circa 80 Gm3 di gas l’anno, per un consumo di 72,8 Gm3 e una produzione interna di 8,3 Gm3 sensibilmente in calo rispetto ai massimi superiori ai 20 Gm3 dei primi anni Novanta del 20° sec. (BEN, Bilancio Energetico Nazionale, 2012).
Assicurare tali flussi nel tempo al Paese continua a essere un obiettivo non marginale dell’ENI perseguito anche attraverso l’accesso a ulteriori risorse, per es. partecipando a progetti di nuove infrastrutture di collegamento (come nel caso del gasdotto South Stream per il potenziamento del trasporto di gas dalla Russia all’Europa), per quanto l’incremento delle riserve in dotazione risponda prevalentemente alla necessità del gruppo, pienamente inserito nel 21° sec. nelle dinamiche del mercato internazionale e quotato in borsa, di generare valore (e dividendi) per gli azionisti. Le prospettive delle attività di produzione sono migliorate sia definendo piani di sviluppo di nuovi giacimenti (per es., della notevole scoperta nell’offshore del Monzambico, Area 4 Mamba, 2650 Gm3 di gas in posto), sia sperimentando opzioni tecnologiche per lo sfruttamento delle risorse marginali (stranded gas) – in quanto lontane dai mercati di destinazione o di dimensioni ridotte, o di valore secondario se in associazione con il petrolio –, per es., il trasporto ad alta pressione basato sull’impiego di acciai ad alta resistenza.
La conquista della petrolchimica
In questo intervento di Mattei, risalente al 1951, presso l’Università popolare di Milano sul problema degli idrocarburi in Italia, si riscontrano le linee prospettiche per assicurare al Paese la crescita nel settore chiave della petrolchimica, che ancora una volta confermano la sua visione strategica:
Io ho avuto nei giorni scorsi modo di occuparmi dell’industria chimica, perché ci sono molte iniziative in corso; ci saranno stabilimenti importanti che verranno montati in Italia, perché con il metano si può impiantare in Italia una grande industria chimica tenendo conto di questo: che è più conveniente partire dal metano che dal carbone; e tenendo conto anche che attualmente nel Belgio le miniere di carbone vanno verso l’esaurimento; in Germania costa molto caro perché le miniere sono molto profonde e l’estrazione costosa (Mattei 2012, p. 343).
Erano evidenti le convenienze dell’integrazione del sistema della raffinazione a monte, verso la produzione degli idrocarburi (upstream) e a valle verso i prodotti. L’aumento della complessità e delle dimensioni delle raffinerie metteva all’ordine del giorno riflessioni economiche e industriali sulla tipologia delle trasformazioni delle molecole di idrocarburi (secondo processi chimici che già superavano la distillazione frazionata del greggio), sull’utilizzazione dei sottoprodotti e sull’utilità di ritorno dell’impiego negli impianti di raffineria di prodotti derivati da alcune lavorazioni petrolchimiche. Il rinnovamento della raffineria STANIC di Livorno, avvenuto con il contributo tecnico sostanziale dell’americana Standard oil company, condusse, per es., nel 1954 a un impianto tra i più moderni e completi in Europa con capacità di lavorazione di 1.600.000 t/anno di greggio (espandibile a 2.000.000) per una produzione articolata in un’ampia gamma (supercarburanti, benzine normali, gas liquefatti, petroli, gasoli, oli combustibili di vario tipo, bitumi, oli lubrificanti di tipo selettivo ad alto indice di selettività, paraffine bianche).
Lo sviluppo industriale integrato comportava, inoltre, vantaggi per le caratteristiche specifiche dell’impresa mineraria, che si distingue per essere ad alta intensità di capitali immobilizzati per lunghi periodi e con rischi elevati sul buon fine degli investimenti. Non se ne disconoscevano peraltro i limiti potenziali associati al fattore del gigantismo (criticità nella gestione di modelli organizzativi complessi, struttura finanziaria enormemente immobilizzata, indebolimento della capacità di reazione alla variazione dei mercati) e all’aumento del rischio di ingerenze politiche (anche per le notevoli implicazioni occupazionali). Quest’ultimo aspetto si confermò in particolare nelle alterne e travagliate vicende che accompagnarono lo sviluppo della chimica del gruppo ENI dagli anni Settanta al periodo della privatizzazione almeno (1992-95), con gravi ripercussioni economiche e finanziarie in alcune fasi (1977-78, 1981-83), e anche coinvolgimenti di autorevoli dirigenti in circostanze di interesse giudiziario. Una lunga dialettica a tratti aspramente conflittuale tra polo pubblico e polo privato (in particolare Montedison), segnata da commistioni varie con conseguenze onerose in termini di mancata ottimizzazione industriale, rintracciabile nei cambiamenti societari della capofila di settore – da ANIC a Enichem, passando per Enichimica ed Enoxy – con l’epilogo infausto del tentativo di fusione in Enimont (1989-90) delle attività chimiche di ENI e Montedison.
Malgrado il peso e la rilevanza di queste problematiche, il comparto chimica dell’ENI è stato protagonista di numerose sfide tecnologiche di successo che richiamano il valore strategico degli indirizzi originari. Nel 1984, al termine di una fase di ristrutturazione dell’intero settore, la divisione del mercato tra Montedison (polipropilene e polistirolo) ed ENI (gomma e produzioni rimanenti) portava ancora il segno delle prime scelte industriali dell’ANIC concretizzate nei poli di Ravenna e Gela. In ambedue i casi, impiantare stabilimenti significò premiare una logistica incentrata sulla valorizzazione di risorse locali per promuovere lo sviluppo industriale, economico e sociale dei territori coinvolti.
A Ravenna, dove gli impianti entrarono in esercizio nel biennio 1957-59, l’utilizzazione di metano proveniente da un grande giacimento in zona consentì di avviare una linea per produrre basi per gomma sintetica e fertilizzanti azotati. Secondo un brevetto Union Carbide, si ricavava acetilene dal metano per produrre butadiene da impiegare (in base a un brevetto Phillips petroleum) in un processo di copolimerizzazione in emulsione a freddo con stirene per fornire un elastomero E-SBR che fu commercializzato con il nome Europrene. Lo sviluppo dell’intero processo rispondeva al criterio di formare tecnici di primo livello dotati di tecnologie d’avanguardia per seguire le esigenze di innovazione del prodotto, poi assurto a metodo generale in tutti gli ambiti della chimica ENI, e permise di ottenere un elastomero di notevole qualità, prodotto inizialmente in quantità di 30.000 t/anno (presto estesa a 120.000), che conquistò nelle applicazioni tyres (pneumatici) e non-tyres (pavimenti, tubi, nastri trasportatori ecc.) larga parte del mercato europeo. In parallelo, dalla piroscissione del metano si ricavava idrogeno che, associato all’azoto, forniva l’ammoniaca di base per concimi azotati (con una produzione di 1.000.000 t/anno). La disponibilità di concimi a basso prezzo che ne risultò rese ancora più elevata la resa marginale delle concimazioni per gli agricoltori italiani.
A Gela, il ritrovamento di un giacimento di petrolio, dalle potenzialità estrattive di 3 milioni di t/anno, di qualità bituminosa – con peso specifico superiore all’acqua (7 gradi API), denso, ad alta viscosità e a elevato contenuto in zolfo – e non idoneo economicamente agli usi diretti in raffineria, rappresentò l’occasione per realizzare uno stabilimento petrolchimico i cui processi consentissero di valorizzare i prodotti di un preliminare coking termico: il residuo solido (per alimentare una centrale termoelettrica da 150 MW); la frazione liquida contenente frazioni distillabili leggere, medie e pesanti (equivalente a greggio di importazione, per i normali impieghi di raffineria); la frazione gassosa, incrementata da gas derivanti da raffinazione, con idrocarburi (ovvvero la carica per basi chimiche varie, tra cui in particolare polietilene) e componenti di zolfo (da cui ricavare acido solforico per solfato ammonico, urea e perfosfati da utilizzare in agricoltura). Gela avrebbe dovuto peraltro essere la sede di un esperimento urbanistico e architettonico illuminato, la città aziendale, su progetto di Edoardo Gellner, lo stesso architetto che, su mandato diretto di Mattei, aveva disegnato, secondo i criteri della nuova architettura organica e con analoghe finalità di promozione sociale della qualità abitativa, il villaggio aziendale ENI di Corte di Cadore per la residenza feriale dei dipendenti.
Alla fine degli anni Cinquanta, la petrolchimica italiana poteva dirsi avviata. Da una produzione, in contenuto di carbonio, quasi inesistente (1950), si era passati alle 12.000 t del 1953 per arrivare alle 243.000 t del 1960. Sul territorio nazionale furono costruiti nuovi poli industriali e altri ne furono acquisiti sia in Italia sia all’estero. La produzione fu estesa ai principali tipi di elastomeri e ad altre materie plastiche con numerosi casi di successo industriale. Valga su tutti citare l’impiego di elastomeri termoplastici SBS (Stirene-Butadiene-Stirene) per modificare bitumi e ottenere manti stradali drenanti, e il caso del polibutadiene catalizzato a base di neodimio (Neocis).
Il primo risultato, di enorme portata per il miglioramento della sicurezza stradale (con i manti drenanti si eliminano i ristagni d’acqua superficiali, si migliora la visibilità notturna scongiurando riflessioni della luce ingannevoli) e del comfort di viaggio (si riducono il rumore da rotolamento pneumatici e le deformazioni del manto causate dalle escursioni termiche estive e invernali), fu acquisito dai tecnici Enichem formulando una teoria, sperimentalmente testata, del meccanismo d’interazione tra elastomero (che si organizza in una struttura tridimensionale) e bitume (che si disperde in forma di goccioline nelle maglie della struttura).
Il secondo risultato, ottenuto nei laboratori di ricerca Snamprogetti di San Donato Milanese e utilizzato in produzione dagli anni Ottanta da Enichem polimeri negli stabilimenti di Ravenna e di Hythe (Gran Bretagna), fu la sintesi di un lavoro di ricerca di frontiera in cui si dimostrò, applicando con maestria la catalisi stereospecifica Ziegler-Natta, che in un materiale ad altissima regolarità strutturale (il polibutadiene) poteva essere indotto un funzionale comportamento ‘intelligente’: il polimero elastomerico al neodimio, per caratteristiche strutturali che in condizioni di elevata concentrazione di stress presentano un’entropia dello stato amorfo prossima all’entropia dello stato cristallino, tende a cristallizzare puntualmente nei luoghi di rottura impedendone la propagazione. Questa proprietà fu molto apprezzata commercialmente dai costruttori di pneumatici.
La politica industriale focalizzata sull’innovazione di prodotto e attualizzata alle esigenze di sostenibilità ambientale ha costituito un filo conduttore aziendale che giunge fino ai nostri giorni, e che accomuna ulteriormente i settori integrati della chimica e della raffinazione.
Versalis, la società del gruppo ENI che dal 2012 ha ereditato tecnologie e know-how di Polimeri Europa (la precedente capofila della chimica), ne interpreta lo spirito mantenendosi operativa in settori qualificati (chimica di base, polietilene, stirenici e ovviamente elastomeri), con rinnovato slancio verso la globalità dei mercati anche attraverso la ricerca di un posizionamento di primo piano nella chimica verde. Il progetto del polo chimico da fonti rinnovabili di Porto Torres ne testimonia il programma strategico. Un investimento da 500 milioni di euro (per parte Versalis), in partnership con Novamont nella joint-venture Matrica, per la realizzazione, nel quinquennio 2012-17, di un grande complesso industriale, tra i maggiori al mondo e prima bioraffineria di terza generazione integrata con il territorio, finalizzato alla produzione di biomonomeri e biopolimeri.
Anche nel settore della raffinazione tradizionale, che movimenta lavorazioni ingenti di petrolio e derivati (per volumi dell’ordine complessivo di 30 milioni di t/anno), si persegue l’obiettivo di ridurre l’impronta ambientale della produzione. In questa prospettiva si promuovono il miglioramento impiantistico per la resa dei processi – come nel caso della raffineria di Sannazzaro de’ Burgondi, dove è stata sviluppata una nuova tecnologia, EST (Eni Slurry Technology), che consente di evitare la produzione di sottoprodotti convertendo interamente la carica a distillati – e le sperimentazioni per la minimizzazione dei rifiuti di raffineria (per es., il progetto zero waste, con tecnologia finalizzata a ridurre i fanghi industriali, attraverso un processo di pirolisi/gassificazione e inertizzazione, e a valorizzarne il contenuto energetico).
La visione del futuro nella forza del passato
La spinta verso l’innovazione tecnologica che attraversa omogeneamente il gruppo ENI, tratto ulteriore di integrazione nell’intero arco della filiera dell’energia tra le divisioni operanti nelle diverse attività (exploration & production, gas & power, refining & marketing, ingegneria e costruzioni, chimica, trading), non si riduce a uno strumento per conseguire un vantaggio economico competitivo, per quanto questo aspetto abbia un suo ovvio rilevante peso. Se ne trova corrispondenza, infatti, nella matrice identitaria dell’azienda che, essendosi formata coniugando due istanze (le ragioni del progresso attraverso l’industrializzazione e l’accettazione della competizione internazionale), orientò pervasivamente le sue scelte di politica industriale. Conferma ne siano, oltre ai già citati casi della collocazione degli impianti di Ravenna e Gela, sia alcune opzioni di indirizzo strategico operate in condizioni di criticità (vincoli esterni o prospettive sollecitate da fattori limitativi), sia la nuova e rivoluzionaria via aperta dall’ENI nel rapporto con i Paesi produttori di idrocarburi.
Nel 1954, l’ENI fu indotta a rilevare l’industria meccanica Nuovo Pignone di Firenze, a causa di una grave crisi aziendale che minacciava l’occupazione e in virtù dei rapporti personali tra Mattei e Giorgio La Pira (sindaco di Firenze). L’industria fu riqualificata e la produzione riconvertita verso il settore petrolifero. Nuovo Pignone, che anni dopo, nella fase di privatizzazione dell’ENI, venne ceduta (1993) alla General electric, prese a costruire impianti di perforazione, piattaforme per l’attività in mare, fino a realizzare i generatori di vapore a circolazione di anidride carbonica in pressione di cui fu dotata la centrale termonucleare di Latina.
Anche inaugurando la stagione dell’energia nucleare in Italia, l’ENI trasformò un limite, il vincolo delle risorse energetiche interne non sufficienti a soddisfare la prospettiva di crescita dei consumi del Paese, in elemento di sviluppo. La centrale di Latina, operativa nel periodo 1963-86, fu la prima centrale termonucleare in Italia, nonché la prima in Europa Occidentale da 200 GW. Costruita dalla SIMEA, società al 75% di AGIP nucleare, su tecnologia gas-grafite (GCR, Gas Cooled Reactors, MAGNOX) della inglese NPPC (Nuclear Power Plant Co.), consentì di formare tecnici, ingegneri e fisici nucleari sull’allora nuova frontiera della produzione dell’energia elettrica.
L’identità aziendale si riconosce, tuttavia, in modo inequivocabile nella continuità della politica industriale nel settore basilare del gruppo, la ricerca e la produzione di idrocarburi. Gli accordi contrattuali per lo sfruttamento delle risorse petrolifere in Egitto e in Iran, che l’ENI stipulò nella seconda metà degli anni Cinquanta, ne costituiscono il suggello fondativo. Il loro contenuto rivoluzionario non va tanto ricercato nella formula fifty-fifty per la suddivisione dei ricavi tra governi concedenti e compagnie concessionarie, che era stata comunque raggiunta come riferimento in ambito petrolifero, quanto nella condivisione dell’impresa industriale attraverso la costituzione di società a partecipazione paritetica con gli Stati detentori delle risorse.
La forza dirompente di questa innovazione fu rilevata già nel 1957 dal quotidiano londinese «The Times» in un fondo dell’8 novembre in cui si affermava, con riferimento all’accordo tra ENI e NIOC (National Iranian Oil Company), mutuato dalle rispettive controllate AGIP mineraria e Societé iranienne nationale des pétroles partecipanti nella Società iraniano-italiana dei petroli, che doveva «essere accettato come nuovo stimolo nel mondo del petrolio del Medio Oriente. Le compagnie concessionarie la cui esistenza dipende da efficaci relazioni pubbliche, dovranno considerarlo come uno Sputnik, non necessariamente ostile, ruotante intorno a loro» (cit. in Mattei 2012, p. 517).
Per godere dei benefici economici delle loro risorse, i Paesi produttori furono indotti a partecipare in quota parte paritaria allo sviluppo e al rischio dei progetti industriali, superando il rapporto di tipo coloniale storicamente avuto con le majors petrolifere tradizionali fondato esclusivamente sul riconoscimento di ricavi fiscali (royalties). Il merito di aver contribuito con questa impostazione a una più equa ripartizione dei vantaggi nello sfruttamento degli idrocarburi diventerà un fattore distintivo qualificante per l’ENI, spendibile nelle attività internazionali di negoziazione.
L’ENI opera oggi attività di esplorazione, sviluppo e produzione di idrocarburi in 32 Paesi, coprendo tutti i continenti e curando il perfezionamento di piattaforme tecnologiche per affrontare i problemi chiave dell’industria energetica in prospettiva di lungo periodo (cambiamenti climatici, protezione ambientale, accesso alle risorse minerarie in aree di frontiera, idrocarburi non convenzionali ecc.). La sua produzione, 1,701 Mboe/ giorno (2012), corrisponde a un portafoglio di riserve certe di 7,17 miliardi di barili. Il gruppo è quotato in borsa dal 1995 (Borsa di Milano e NYSE, New York Stock Exchange), con capitale sociale per circa il 68% distribuito sul mercato, essendo stato collocato in 5 offerte per un incasso complessivo di circa 24 miliardi di euro (le prime 4 offerte, dal 1995 al 1998, hanno interessato il 63% del capitale aziendale producendo un ricavo di 21 miliardi di euro, il maggior aggregato fino a quel tempo mai conseguito da un governo dell’Europa Occidentale per la vendita di una singola società).
Pur essendo un’impresa integrata con vocazione internazionale pienamente consolidata, in un contesto finanziario complesso fortemente condizionante (sia per quanto riguarda gli assetti societari, per l’intervento pesante degli investitori istituzionali nel capitale sociale delle società, sia per la dinamica del mercato del petrolio severamente indirizzata dal mercato dei futures), l’ENI mantiene solide radici in Italia. Ciò è vero non soltanto sotto il profilo economico e finanziario (con il ministero dell’Economia e delle Finanze, tramite Cassa depositi e prestiti SpA, in funzione di azionista di controllo al 30,1%). Lo testimoniano produzione, ricerca, innovazione tecnologica realizzate nel territorio nazionale.
In Italia, l’ENI estrae ancora una quota significativa, circa l’11%, della propria produzione: nel 2011, 64.000 barili/giorno di petrolio (prevalentemente dal giacimento della Val D’Agri, Basilicata) e 19,1 Gm3/ giorno di gas (in buona parte dall’offshore del Mare Adriatico). Le attività dei centri di ricerca del gruppo sono applicate all’acquisizione di brevetti industriali: Novara, Istituto Donegani, Centro ricerche per le energie non convenzionali; San Donato Milanese, Centro ricerche upstream & downstream; Centri Versalis, di Mantova, Ferrara e Ravenna per monomeri e intermedi, polietilene, polimeri stirenici ed elastomeri. L’innovazione tecnologica segue linee sperimentali attraverso numerosi impianti pilota: dai progetti per lo stoccaggio della CO2 in giacimenti esauriti, per es. a Cortemaggiore, a quelli per la rimozione di contaminanti organici dalle acque di falda, per es. nella raffineria di Taranto sfruttando l’adsorbimento su zeoliti sintetiche idrofobiche, o per la bonifica di suoli contaminati, per es. a Gela con processo di estrazione con solvente (tecnologia Ensolvex); dalla tecnologia di ossidazione parziale catalitica a basso tempo di contatto (SCT-CPO, Short Contact Time-Catalytic Partial Oxidation) per la trasformazione di idrocarburi gassosi e liquidi in gas di sintesi (CO e H2) in reattori dalle ridotte dimensioni, testata nel Centro ricerche di Milazzo e utilizzata per produrre idrogeno nella stazione di servizio multienergy pilota di Mantova, al progetto GtL (Gas to Liquids) per trasformare gas naturale in distillati (in tre fasi, gas di sintesi, sintesi di cere via Fischer-Tropsch, conversione delle cere in distillati), testato nella raffineria di Sannazzaro de’ Burgondi. Con una visione strategica orientata all’ottimizzazione delle tecnologie per l’uso qualificato e sostenibile delle risorse energetiche e naturali, l’ENI si pone nuovamente in primo piano per contribuire al rinnovamento industriale necessario alla transizione verso un sistema energetico nazionale in grado di coniugare stabilmente crescita economica e tutela dell’ambiente.
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