Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’Italia preunitaria ha strutture economiche prevalentemente agricole, con solo poche zone di dinamico sviluppo industriale. Le regioni agricole differiscono notevolmente da nord a sud, per assetti produttivi, sistemi contrattuali e circuiti di mercato. La frammentazione economica è accentuata dalla fragilità dei sistemi di comunicazione e dalla varietà degli usi linguistici. Eppure, nonostante tutto ciò, il movimento risorgimentale fonda la sua proposta politica e il suo successo sull’idea dell’esistenza di un’unica nazione italiana.
Una vasta pluralità di strutture agrarie caratterizza l’Italia preunitaria, secondo un modello che si è imposto ormai da diversi secoli. Una panoramica sommaria invita a distinguere almeno un’area padana irrigua, ricca di canali e di risorgive, impiegate per impiantare le “marcite” o per irrigare le terre; un’area padana pure ricca di acque, ma non così abbondanti come nelle aree irrigue; un’Italia centrale dove dominano le colture collinari; le aree agricole meridionali coltivate a grano; e le aree agricole meridionali arborate, dove si coltivano mandorli, aranci, limoni, olivi.
Le tecniche colturali e le soluzioni contrattuali differiscono significativamente da zona a zona: nell’area padana si ricorre ai contratti d’affitto pluriennali, con unità produttive di dimensioni spesso piuttosto significative affidate ad affittuari che impiegano braccianti fissi e avventizi; nelle zone poderali dell’Italia centrale piccole unità aziendali sono affidate a famiglie contadine con la soluzione del contratto a mezzadria; varie forme di affitto regolano le aziende meridionali specializzate in produzioni arboree, mentre la produzione cerealicola è concentrata nelle zone a latifondo, coltivate con contratti di affitto e con il ricorso ai braccianti.
Se un aspetto nuovo dev’essere osservato nel panorama rurale primo ottocentesco esso va colto in due trasformazioni di un certo rilievo. Da un lato tra fine XVIII e inizio XIX secolo vi è stato un certo rimescolamento nella distribuzione della proprietà terriera, con la crisi di diverse famiglie nobiliari e l’ascesa di nuovi proprietari borghesi (ex affittuari, mercanti di campagna, o anche borghesi di città) che hanno rilevato antichi patrimoni nobiliari o si sono avvalsi delle vendite dei beni ecclesiastici che si sono succedute a più riprese durante l’epoca francese e napoleonica. Dall’altro lato, un po’ dovunque in quegli stessi anni, vengono cancellati o ridimensionati i privilegi giuridici di cui – in precedenza – avevano potuto avvalersi le famiglie nobiliari. Particolarmente importante, da questo punto di vista, è l’abolizione delle giurisdizioni feudali ancora attive nell’Italia meridionale: i feudi sono aboliti nel 1806 nel Regno di Napoli (cioè nel Mezzogiorno continentale, caduto nella sfera d’influenza della Francia napoleonica) e nel 1812 in Sicilia (all’epoca sotto i Borbone, sostenuti dal protettorato politico-militare britannico). Le leggi di abolizione dei feudi prevedono che tutte le attività amministrative in precedenza affidate al feudatario siano incorporate in nuove strutture istituzionali statali; e prevedono anche processi di distribuzione delle terre demaniali (cioè delle terre di uso comune, presenti all’interno dei confini dei feudi) a beneficio degli abitanti dei villaggi che erano inclusi nel feudo e che erano autorizzati ad avvalersi dei demani feudali; in realtà la redistribuzione delle terre demaniali non avverrà che in minima parte, il che provocherà infinite contestazioni e tensioni nelle comunità contadine di tutto il Mezzogiorno.
Relativamente meno importanti rispetto alle produzioni agricole sono le attività industriali, che tuttavia hanno un notevole rilievo nella zona padana e prealpina, dove la filatura di seta, cotone e lana acquista nella prima metà dell’Ottocento uno slancio significativo, ponendo le premesse per una prima industrializzazione e per l’ascesa delle prime dinastie imprenditoriali piemontesi, lombarde e venete. Viceversa nell’Italia centrale e meridionale le attività di produzione industriale sono scarsamente sviluppate, oppure sono concentrate in aree produttive sovvenzionate e protette dallo Stato, e per questo prive di ogni vera potenzialità economica.
Le produzioni agricole o industriali della penisola non viaggiano attraverso circuiti integrati che prefigurino qualcosa di simile a un “mercato nazionale”: o sono destinate a mercati locali, o sono indirizzate a mercati non italiani, in direzione della Francia, della Gran Bretagna o dell’Europa centrale. Le economie meridionali – per esempio – appartengono a circuiti commerciali che le ricollegano saldamente ai Paesi del Nord e del Centro Europa, mentre le separano dai flussi di scambio degli altri Stati preunitari: appena sei anni prima dell’unità nazionale (1855), le esportazioni dalle province napoletane verso gli altri Stati italiani – senza il dato relativo all’Impero d’Austria – sono solo l’11,8 percento sul valore totale delle merci esportate; se si tien conto anche delle esportazioni verso l’Impero d’Austria (che all’epoca ingloba ancora il Regno Lombardo-Veneto) si arriva al 37,6 percento del totale delle merci esportate dal Sud, valore che in gran parte riguarda prodotti in transito da Trieste verso altri Stati europei del Centro Europa. I rapporti inversi sono perfino più ridotti, poiché, sempre alla stessa data, le esportazioni dagli Stati italiani preunitari verso il Sud sono l’8,5 senza il dato relativo all’Impero austriaco, e il 18,2 percento con tale dato.
Dunque, i circuiti di mercato sono assai disarticolati. Quali i motivi di tale separazione? Non c’è dubbio che la debolezza dei collegamenti interni (poche strade e, al momento dell’unificazione, nessuna connessione ferroviaria nord-sud) rende difficile la circolazione delle merci nella penisola. Ma il punto fondamentale è che le varie economie meridionali e quelle centro-settentrionali sono costruite intorno a una rete di interdipendenze interne che fanno in modo che l’attivazione di circuiti e transazioni reciproche non sia conveniente o non necessaria. Le attività tessili che si vanno sviluppando nella fascia prealpina di Piemonte, Lombardia e Veneto necessitano di fonti di energia o di materie prime che possono essere reperite localmente o procurate a prezzi minori sui mercati europei che non nei porti dell’Italia meridionale. Né maggiori sono le connessioni sul mercato del lavoro: nell’area padana vi è addirittura un surplus di forza lavoro, che dopo l’Unità sfocerà nella migrazione transoceanica; e la stessa cosa accadrà, a distanza di pochi decenni, per la forza-lavoro eccedentaria delle regioni meridionali, senza che si realizzi alcun circuito di trasferimento di manodopera dal Sud al Nord (e viceversa). I mercati meridionali, mal strutturati al loro interno, e assai modesti quanto a intensità di domanda, non costituiscono un esito attraente per i beni agricoli e industriali prodotti nelle aree settentrionali. E viceversa i prodotti agricoli meridionali, come gli agrumi o l’olio o il vino, sono troppo costosi per i mercati ancora comparativamente poveri dell’Italia centro-settentrionale, oppure si trovano sottoposti alla concorrenza di analoghi beni adeguatamente prodotti in loco (olio o vino per le zone centrali, grano per l’area padana), motivo per cui le merci meridionali continuano ad essere indirizzate verso mercati extra-italiani.
Questi aspetti dei circuiti di mercato vanno collegati a un altro elemento chiave che caratterizza la struttura economica dell’Italia preunitaria, vale a dire al fatto che già prima dell’unificazione il grado di sviluppo del Sud nel suo complesso è decisamente inferiore a quello del Nord. “Basti ricordare, per l’agricoltura, il rapporto tra il patrimonio bovino del Nord, che appare essere il 46% del totale nazionale, mentre quello del Sud rappresenta solo il 19%. La quota in valore della produzione serica spettante al Nord (88%), e la quota del Sud (3%); la distribuzione della produzione dell’industria laniera, per il 62% spettante al Nord e per il 25% al Sud. Da tenere presente la rilevante diversità di sviluppo per abitante della rete stradale al Nord e al Sud e il tasso di alfabetismo […]. Tutto questo in un contesto che vedeva invece assai vicini i livelli assoluti di popolazione: 44,5% al Nord, 39,1% al Sud (1861) ”(Luciano Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, 1989).
Ciò significa che la differenza nel grado di sviluppo tra le varie zone della penisola preesiste alla costruzione del Regno d’Italia e che le difficoltà nello sviluppo economico del Mezzogiorno non sono determinate dall’attacco ai mercati meridionali dei prodotti di un’economia più forte (quella settentrionale), per l’ottimo motivo che al momento dell’unificazione le relazioni di mercato tra i due contesti economici sono piuttosto modeste. E tali resteranno ancora a lungo: sarà solo col finire del XIX secolo, infatti, che si comincerà ad avere una integrazione economica meno precaria delle varie aree del Paese.
Le divergenze tra macroaree economiche non devono nascondere la realtà di una struttura economica e sociale in effetti ancora più segmentata, con notevoli differenze tra zone costiere e aree interne, tra zone di pianura e regioni montane, tra città e campagne. La segmentazione complessiva è ulteriormente acuita dalla grandissima varietà negli usi linguistici. Già da tempo gli storici della lingua hanno mostrato che nella prima metà del XIX secolo gli italofoni, cioè coloro che usano l’italiano per le normali comunicazioni quotidiane, nella migliore delle ipotesi non superano il 10 percento del totale della popolazione della penisola, e sono concentrati in Toscana e a Roma. Il restante 90 percento della popolazione usa dialetti che sono sintatticamente e lessicalmente del tutto diversi, anche se una parte di questa massa di dialettofoni sa capire, e in qualche caso parlare, anche l’italiano. Tuttavia a rendere più difficili i contatti c’è anche il dato dell’analfabetismo, che raggiunge percentuali medie piuttosto impressionanti, che si abbassano nettamente muovendosi verso nord e si alzano corrispondentemente muovendosi verso sud. Infine le vie di comunicazione interne sono lente, precarie e insicure; come si è detto, le reti ferroviarie che esistono sono poche e hanno uno sviluppo che coinvolge solo aree relativamente ristrette.
In un quadro così frastagliato non sorprende che i conflitti sociali – che ci sono, e che in qualche caso sono anche piuttosto acuti – abbiano un rilievo solo locale, e che non diano luogo a movimenti di portata translocale. Viceversa colpisce molto l’inquietudine politica che attraversa la penisola, che nel periodo successivo al Congresso di Vienna è tra le zone più inquiete dell’intera Europa: le rivoluzioni del 1820-1821 coinvolgono il Mezzogiorno continentale, la Sicilia e il Piemonte, con code cospirative anche in Lombardia; nel 1831 insurrezioni scoppiano a Modena, Parma e in parte delle Legazioni; nel 1848-1849 l’intera penisola è scossa da insurrezioni, guerre, manifestazioni e riforme. All’origine di queste scosse rivoluzionarie (che peraltro non riguardano solo l’Italia) c’è il modello della Rivoluzione francese: gruppi politici di vario orientamento (democratico-repubblicano, liberal-monarchico) coltivano una nuova concezione della sovranità politica e sognano di poter ripetere l’esperienza della grande Rivoluzione, mutando in tal modo più o meno radicalmente le strutture istituzionali degli Stati italiani. Ma ciò che colpisce di più è che la progettualità rivoluzionaria si esprima – in modo sempre più netto e chiaro – attraverso il linguaggio della nazione. D’altronde il movimento risorgimentale, in tutte le sue varie articolazioni interne, trova un punto di convergenza proprio in questa “scoperta” della nazione italiana, e nell’urgenza non solo di rinnovare le istituzioni politiche, ma di farlo in nome di questa più grande comunità nazionale. Da qui l’enorme ambizione del movimento risorgimentale, che non vuole solo “costituzionalizzare” i diversi Stati italiani, ma li vuole proprio cancellare a favore di uno Stato nazionale italiano, o quanto meno li vuole inglobare all’interno di una nuova compagine statuale che abbracci tutta la penisola. Precisamente in questo va vista l’enorme ambizione del movimento risorgimentale: mutare non solo le istituzioni, ma anche l’intera carta geopolitica della penisola, un obiettivo che – per essere attuato – comporta necessariamente che si sfidi una delle grandi superpotenze dell’epoca, l’Austria, che dopo il Congresso di Vienna possiede il Regno Lombardo-Veneto e che è capace di influenzare politicamente e diplomaticamente quasi tutti gli altri Stati italiani.
Si è detto sopra che il movimento politico risorgimentale “scopre” la nazione italiana; questo è in effetti il linguaggio che si usa all’epoca e che trasmette l’idea secondo la quale le nazioni esistono da tempo immemorabile, cosicché le popolazioni che ne fanno parte devono solo riacquistare la consapevolezza della loro appartenenza nazionale. La realtà del processo è più complicata. Le nazioni (tutte le nazioni europee, e tra queste anche quella italiana) non preesistono al movimento nazionale, come i dati socio-economici propri della penisola suggeriscono già molto chiaramente. Piuttosto sono i movimenti nazionali (e tra questi il movimento risorgimentale) a “inventare” o – se si preferisce – a “costruire” l’idea della nazione italiana. I protagonisti di questa “costruzione concettuale” sono intellettuali, artisti, scrittori, leader politici, che avendo alle spalle un buon training formativo compiuto in lingua italiana trovano ovvio che la nazione di riferimento, in nome della quale chiedere trasformazioni politiche radicali, sia quella italiana. Si tratta dei migliori cervelli creativi dell’Italia del primo Ottocento, gente del calibro di Vincenzo Cuoco, Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Massimo d’Azeglio, Francesco Domenico Guerrazzi, Francesco Hayez, Giuseppe Verdi, e naturalmente anche Giuseppe Mazzini o Vincenzo Gioberti. Sono loro che ripercorrono le vicende passate della penisola, trovando in esse un filo unificante, anche se tale filo in realtà non esiste affatto. Sono loro che immaginano che le vicende della repubblica o dell’Impero romano, i contrasti tra Longobardi e Latini, la Lega lombarda e la battaglia di Legnano, i Vespri siciliani, l’assedio di Firenze eroicamente difesa da Francesco Ferrucci, la rivolta di Genova promossa da Balilla, siano tutti episodi che testimoniano delle gesta di un unico popolo, il popolo italiano (anche se storicamente nessuno dei protagonisti di quelle vicende lotta in nome dell’Italia, un’entità che a molti di quei passati combattenti è perfino del tutto sconosciuta). Le strutture poetiche, narrative, visive, melodrammatiche, costruite da questi intellettuali, hanno una grande potenza evocativa e si diffondono in primo luogo tra i giovani nobili o borghesi che nel contesto delle istituzioni della Restaurazione vorrebbero avere un peso politico maggiore di quello che è stato loro riconosciuto; attraverso l’attività di propaganda delle sette carbonare e della Giovine Italia (fondata da Mazzini nel 1831) queste idee si irradiano anche verso i ceti popolari urbani – scaricatori di porto, artigiani, manovali, operai. Il processo, sorprendentemente rapido, viste le difficoltà comunicative che segmentano la penisola, ha la sua massima espressione nel 1848, quando sulle barricate delle Cinque giornate di Milano sono soprattutto giovani di estrazione popolare a morire; e quando si cantano versi che riassumono – con notevole capacità di sintesi – la mitografia storico-nazionale elaborata nei decenni precedenti: “Dall’Alpi a Sicilia / Dovunque è Legnano, / Ogn’uom di Ferruccio / Ha il cuore, ha la mano, / I bimbi d’Italia / Si chiaman Balilla, / Il suon d’ogni squilla / I Vespri suonò” (Goffredo Mameli, Canto nazionale - Fratelli d’Italia, 1847).
Se c’è un limite alla penetrazione del discorso nazionale, questo limite va visto nella sua diffusione quasi esclusivamente urbana. Nelle campagne penetrano solo pochi frammenti della mitografia nazional-patriottica: i testi scritti non hanno alcuna efficacia, poiché l’analfabetismo domina nelle zone rurali di tutta la penisola; la propaganda orale, che così tanto effetto ha tra le classi popolari urbane, nelle campagne è quasi del tutto impraticabile: avvicinare scaricatori di porto o manovali o studenti in qualche taverna fumosa di Genova o di Palermo, di Pisa o di Napoli, di Milano o di Padova, è molto rischioso ma è fattibile; avvicinare i contadini nelle cascine padane, nei poderi dell’Italia centrale, o nei latifondi del Sud è praticamente impossibile: si viene individuati subito e si rischia un’immediata denuncia alle autorità di polizia. Osservando questi processi si può capire meglio l’accoglienza positiva che il processo di unificazione (1859-1860) incontrerà tra le popolazioni urbane; si capisce altresì come nelle campagne – dopo un breve momento di entusiasmo – le cose prendano un’altra piega, e si oscilli a lungo tra diffidenza e ostinato rifiuto di uno Stato nuovo di cui non si capiscono né i presupposti ideali né – in alcun modo – i vantaggi immediati.