L’Italia repubblicana
Per presentare un quadro complessivo delle qualità specifiche degli studi di storia in Italia dal 1945 a oggi occorrerà ripercorrere sinteticamente le condizioni e le tendenze del lavoro storico, degli stili di pensiero, delle linee generali della produzione storiografica, alla ricerca di quelli che possono individuarsi come i tratti distintivi della ‘tradizione italiana’ della storiografia. Prima di fare ciò, però, non sarà inutile proporre alcune osservazioni complessive sugli sviluppi della disciplina storica nel secolo scorso. Provando infatti a immaginare il paesaggio formato dalle principali ‘imprese’ storiografiche del Novecento, e poi osservandolo un po’ da lontano e dall’alto, alcune linee diventano visibili. Innanzi tutto, il Novecento della storiografia non coincide con il 20° sec.: inizia almeno tre decenni prima e non è ancora finito nel 2013. Non ci sono novità rivoluzionarie o cesure radicali che manifestino l’inizio di un nuovo periodo delle pratiche storiografiche (nonostante la globalizzazione, Internet, il crollo degli imperi e gli attentati terroristici). Nuova, invece, era la configurazione che si formò alla fine dell’eroico, pionieristico ‘secolo della storia’, nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Emancipata da letteratura, filosofia e storia sacra, fortificata internamente rispetto agli eccessi romantici, ispirata allo stile delle scienze naturali, la storiografia si avviò a sviluppare, da quel momento in poi, gli elementi principali dell’attrezzatura concettuale e materiale che fa di essa, ancora oggi, una disciplina ‘accademica’: strumenti, metodi, istituzioni, pratiche, modi di circolazione del sapere, forme di sociabilità, teorie.
Nel lungo arco temporale così definito – segnato al suo interno, dopo una fase di consolidamento che arriva al 1914, dalla crisi della civiltà europea e dall’impatto delle due guerre mondiali sugli studi, mentre dal 1945 si apre una fase nuova, di moltiplicazione, internazionalizzazione e globalizzazione delle ricerche, con una marcata accelerazione dalla fine degli anni Settanta –, la storiografia del Novecento si è modificata profondamente, conservando però una sostanziale continuità ‘stilistica’ che ha dato alla storiografia una forma internazionale riconoscibile, l’ha resa un prodotto occidentale standardizzato, una specie di tradizione o koinè, che si esprime secondo moduli invariabili nelle più varie lingue, comprese le orientali (ma l’inglese assume rilievo dominante e in arabo compaiono quasi soltanto lavori sulla cultura islamica).
Profonde trasformazioni, dunque, si sono verificate rispetto alla situazione di partenza di fine Ottocento. Innanzi tutto, la moltiplicazione di coloro che appartengono alla ‘corporazione’ storica: in Italia si contavano in decine – tenendoci, pur in assenza di classificazioni univoche, a criteri stretti – oggi in migliaia. La ‘professione’ storica si costituisce per estensione universale di un modello tedesco di studioso proprio alla fine dell’Ottocento. Scrivono autorevolmente di storia non più i membri di sociétés savantes o ‘deputazioni di storia patria’, ma i professori di storia universitari, ricercatori più che insegnanti – che danno il meglio di sé nel ‘seminario’, pratica anch’essa tedesca – aggregati per discipline (le epoche della storia occidentale, antica, medievale, moderna, e i diversi aspetti della vita storica: la società, l’economia, la politica, il diritto). Gli ‘storici di mestiere’ scrivono per i sempre più numerosi colleghi (all’inizio in gran parte uomini, dagli anni Venti anche donne); sempre meno, progressivamente, per un pubblico generale (la quota di mercato dei libri di storia è stimabile allo 0,5%). Ma pubblicano moltissimo: nel mondo, le riviste accademiche di storia – circa 150 nel 1900, quando documentarsi era già, secondo Giacinto Romano, una difficoltà quasi insormontabile – oggi sono oltre 5000.
Certo, la profondità dei cambiamenti intervenuti nel lungo Novecento storiografico si misurerebbe meglio sulla qualità del lavoro compiuto: i temi trattati, le scoperte, i risultati concreti. Ma un conto è discutere lavoro e risultati di una singola ricerca – per es., la più famosa, La Méditerranée (1949) di Fernand Braudel: gli archivi esaminati in giro per il Mediterraneo, la scelta dell’ambiente naturale come ‘protagonista’, l’intuizione delle diverse temporalità in base alla quale si struttura il ragionamento, la novità rispetto ai lavori precedenti. Tutt’altro conto è discutere lavoro e risultati delle innumerevoli opere e imprese che formano la storiografia del Novecento: si va per approssimazioni, tutte tendenziose e contraddittorie. Si assumono punti di vista diversi. Si è costretti a utilizzare i termini delle ‘discussioni sulla storia’, per dare un ordine a ricerche condotte nella piena indifferenza per quelle teorie e le loro classificazioni.
In termini molto generali, il presupposto indiscusso – almeno fino agli anni Trenta – è che si fa storia di un centro, e che si deve escludere dalla ricerca la periferia (non essenziale). Il centro fino alla Grande guerra è la storia degli Stati nazionali, la periferia è la storia regionale e locale – quest’ultima progressivamente emarginata, dopo aver contribuito, per accumulazione, alla conoscenza della storia nazionale. Nello stesso tempo la storia ‘universale’ s’incentra sull’Occidente (gli Stati europei e le loro colonie). Nella periferia sono relegati i popoli non civilizzati (non europei). La stessa dinamica si riproduce anche all’interno della storia delle singole nazioni. All’inizio, negli ultimi decenni dell’Ottocento, centrale è la storia politica, militare, diplomatica; periferica, per es., la Kulturgeschichte di Karl Lamprecht (Deutsche Geschichte, 1891-1904). Ed esiste anche un ‘centro’ del metodo storico, all’inizio del lungo Novecento storiografico: la ‘scienza tedesca’, egemone fino al 1914, soppiantata poi da quella francese – fino agli anni Sessanta – e infine dalla storiografia nordamericana.
Nel periodo tra le due guerre le gerarchie s’incrinano e iniziano a dissolversi. Il metodo storico tedesco è attaccato nella sua pretesa di scientificità, già da tempo messa in dubbio: non basta più aver emarginato letteratura e filosofia, si vorrebbe che la storia-scienza confluisse tra le scienze sociali (magari per dominarle). Un modello alternativo propone lo storicismo, che non accetta la rimozione dal metodo storico dei problemi posti da letteratura e filosofia («La critica», 1903-1951, rivista diretta da Benedetto Croce; E. Auerbach, Mimesis, 1946). La storia politica di individui perde progressivamente la posizione centrale, conquistata nel secondo dopoguerra dalla storia economica e sociale di soggetti collettivi (si vedano, tra gli altri, Histoire économique et sociale de la France, éd. F. Braudel, C.E. Labrousse, 4 voll., 1977-1982; P. Bairoch, Victoires et déboires: histoire économique et sociale du monde du XVIe siècle à nos jours, 3 voll., 1997). Nelle pagine delle «Annales d’histoire économique et sociale» (fondate e dirette nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre) si leggono articoli di storia rurale e dei tracciati stradali, di storia monetaria e dei prezzi, della popolazione e colonizzazione, di storia delle industrie, di archeologia agraria, di storia dei mestieri, delle case, della vita materiale, delle tecniche, del lavoro, dei trasporti, di storia dell’alimentazione, delle famiglie, dei nomi di persona, ma anche di storia del tempo presente (il nazismo e la crisi economica mondiale). Il mainstream lascia alla periferia la storia diplomatico-militare, quella del diritto, delle istituzioni, delle idee. Tra le due guerre inizia anche a tramontare l’idea di una centralità indiscussa dell’Occidente europeo (la civiltà), idea che scompare quasi definitivamente, dopo la decolonizzazione, alla fine degli anni Settanta (E.W. Said, Orientalism, 1978; Subaltern studies, ed. R. Guha, 6 voll., 1982-1989), trascinando con sé anche la storia come sicuro dominio dei ‘fatti’.
L’unico possibile criterio ordinatore del lavoro storiografico più recente è proprio la perdita di un qualsiasi centro (e la conseguente scomparsa dei territori periferici). Le innumerevoli opere concrete della storiografia si collocano su una serie di mappe assai più dettagliate – disegnate in scala infinitamente minore – di quella, segnaletica, adottata per tracciare i grandi cambiamenti di cui si è detto: ogni opera alle prese con le sue indagini e le sue fonti, sempre più numerose e varie, anche orali e visive.
Tali mappe si potrebbero costruire partendo da un repertorio dei temi. Dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Settanta, oltre al prestigio delle ricerche economico-sociali, prevale l’interesse, come scrisse Arnaldo Momigliano (1981), per i gruppi subalterni e oppressi delle società avanzate e la loro storia culturale. Altri temi crescono indubbiamente come rilevanza generale negli ultimi trent’anni: scambi interrelazioni intrecci tra aree e civiltà diverse (per es., nell’area mediterranea, o nel mondo ellenistico); forme dell’esperienza religiosa, ortodosse ed eretiche; relazioni tra i sessi come costruzione sociale; circolazione del sapere, alfabetizzazione, pratiche di lettura; dimensioni culturali e sociali della storia politica delle società complesse; storia urbana; rivoluzioni, totalitarismi (con impronta revisionistica) e ora imperi; aspetti ideologici e simbolici della costruzione delle unità nazionali (Les lieux de mémoire, éd. P. Nora, 3 voll., 1984-1992); nella storia sociale, preferenza data a network parentele clientele; in quella economica, ma anche culturale e artistica, interesse prevalente per il consumo, non per la produzione (Giarrizzo 1995, pp. 293-94). Sul piano dei metodi delle imprese collettive di ricerca, si registra l’estensione, al di là dei confini originari, della prosopografia e dell’archeologia. Resiste la tradizionale periodizzazione incentrata sulle vicende dell’Occidente europeo, ma emergono come periodi autonomi il tardoantico e la early modern history, e si dissolve il Medioevo come contenitore unitario.
Alcuni sviluppi extradisciplinari appaiono però determinanti. Fino alla fine degli anni Cinquanta l’atmosfera culturale europea – in cui sono ancora vigenti marxismo e storicismo – non è del tutto sfavorevole agli studi storici, benché sia già molto diffusa una visione ‘kafkiana’ della sostanziale incomprensibilità delle azioni umane.
Poi una serie di fenomeni culturali, tra loro concatenati, ostili alla storia come progetto di conoscenza tradizionale, crea un clima di sfiducia sempre più cupa nelle possibilità della disciplina. Il lavoro di indagine storiografica continua nella più assoluta indifferenza – spesso però solo ostentata – per la circostante situazione, apparentemente disperata. Così i teoremi strutturalisti (anni Cinquanta e Sessanta) non impediscono a Michel Foucault di scrivere – attraverso ‘capitoli’ sulla follia, la clinica, il carcere e la sessualità – una storia originale e profonda dei sistemi di pensiero in Occidente (1961-1984). E la critica radicale della ragione illuminista, che anima le correnti postmoderne del Linguistic turn (dagli anni Ottanta in poi, con recentissimi segnali di esaurimento), non impedisce a Franco Venturi di comporre il suo monumento critico al Settecento riformatore (1969-2002). Certo la ‘svolta linguistica’ postmoderna è un po’ l’aria che si respira dopo l’uscita di scena dell’idealismo liberale, l’eclisse del marxismo e la sepoltura della storia quantitativa (sempre dagli anni Ottanta). Si dichiara sciolta l’alleanza della storia con le scienze sociali (ritorno di letteratura e filosofia), si mette in discussione l’articolazione del reale in ‘materiale’ e ‘immateriale’, si dubita – nei casi più generosi – della distinzione stessa tra reale e immaginario (a tutto favore del secondo) e celebrando, invece delle cose, le ‘rappresentazioni’ e la ‘memoria’ delle cose. Nonostante le nutrite schiere di storiche e storici ‘professionisti’, pronti a raccogliere la sfida – spesso disorganizzati, ma talora inquadrati in solide istituzioni, come, per es., il Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, dal 1952, il Max Planck Institut für Geschichte, dal 1956, o l’Institut d’histoire du temps présent, dal 1978 – la ‘crisi della storia’ è qualcosa di più di un’invenzione dei critici letterari. L’offerta di lavori storici supera di gran lunga la domanda e del resto l’attività stessa d’indagare sul passato ha sempre presentato notevoli difficoltà, tanto che – come è stato osservato – «se la storiografia non esistesse, si potrebbe quasi dire che è un’impresa inverosimile» (S. Kracauer, History. The last things before the last, 1969; trad. it. Prima delle cose ultime, 1985, p. 83). Non è detto, però, che questo clima di scetticismo diffuso nei confronti della storiografia non finisca per provocare ricerche nuove, pratiche nuove, nuovi stili.
Come si vede già da alcuni accenni nel profilo complessivo appena tracciato, dominano dal 1945 in poi – e in misura sempre maggiore, a mano a mano che ci si avvicina al presente – alcuni caratteri comuni nel mainstream degli studi storici internazionali, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui di una ‘tradizione italiana’ in senso stretto non è più possibile parlare. Questo accade non solo per la storiografia. Esiste una lingua comune che oggi si parla nel mondo, anche quando ci si esprime in lingue diverse – una koinè occidentale. In tale lingua prendono forma testi, immagini, azioni, istituzioni immediatamente riconoscibili come prodotti occidentali. Per fare qualche esempio: la comunicazione mediatica, articoli e libri accademici, fotografia e cinema, design, architettura, moda, il sistema politico liberaldemocratico, l’immaginario e la civiltà materiale, per non dire dell’economia di mercato.
Al di sotto di questa lingua comune, continuano a vivere sostrati linguistici locali o nazionali. Nel corso degli ultimi due secoli, questi sostrati linguistici sono stati superati, o assorbiti, dalla lingua comune, ma non ancora completamente. Si è prodotta quindi la ricomposizione culturale e politica di una molteplicità di forme locali e nazionali: un processo opposto a quello che vide l’inabissarsi dell’unità culturale del mondo antico – frantumazione che diede vita ad almeno tre filologie (classica, romanza, germanica), e che richiederebbe oggi, sia detto per inciso, la costituzione di una filologia occidentale specificamente dedicata alle espressioni di tale koinè. Anche la storiografia internazionale, come si è già osservato, è un prodotto occidentale e la vicenda italiana dopo il 1945 è quindi, da un lato, quella del sostrato di tale koinè (sostrato che si avvia a scomparire), dall’altro, quella della combinazione specifica di tratti propri della lingua comune.
Un primo elemento specifico, su cui si insisterà più volte, è il forte impatto della sfera politica sugli studi storici nel nostro Paese. Per chi accoglie la teoria crociana della contemporaneità della storia, questo non dovrebbe essere un elemento specifico. Invece lo è, per la qualità eccezionale, per molti aspetti, della vicenda politica in cui gli studi italiani di storia vengono a emergere. Questo della eccezione italiana è un problema su cui converrà soffermarsi in termini più generali e comprensivi, tornando un poco indietro nel tempo.
Non esiste, nella sfera politica, una sola Italia contemporanea. A ‘condizionare’ gli studi storici è piuttosto il reciproco rapporto di quattro Italie diverse, che in effetti coesistono, almeno in parte. La prima è in scena dalla conquista della Libia, avviata nel 1911 – quando si pone con maggiore chiarezza e con propositi di esplicita rivincita rispetto alle prime disavventure coloniali, il tema dell’espansione della nazione al di fuori dei confini naturali, poi riprodotto e amplificato nel dibattito sull’intervento nella Grande guerra, la quale realizza e compie l’unificazione territoriale entro quei confini; la seconda acquista la sua fisionomia alla fine del 1926, quando il regime fascista è ormai saldo, la crisi provocata dalla guerra si è ricomposta grazie a una soluzione autoritaria (poi totalitaria) che asseconda lo slancio aggressivo ed espansivo della nazione italiana, la democrazia liberale è stata bandita, socialismo e comunismo quasi annientati, monarchia, Chiesa e classi dirigenti addomesticate senza troppa difficoltà, la società messa sotto sorveglianza, inquadrata nel partito-Stato.
Perché esca di scena questa seconda Italia saranno necessari la sconfitta militare nella Seconda guerra mondiale, il colpo di Stato monarchico e la fine del regime fascista, il crollo dello Stato, la guerra civile, la guerra di liberazione e la Resistenza. La terza Italia che nasce con il 1946 è quella repubblicana, costituzionale, europeista, che dura almeno fino al 1992, quando inizia la transizione infinita verso un nuovo assetto repubblicano, nella quale ci troviamo ancora oggi (e questa sarebbe la quarta Italia, forse l’unica davvero ‘contemporanea’).
Queste sequenze temporali non corrispondono a una impossibile storia ‘generale’ dell’Italia contemporanea, ma si fondano sui movimenti delle sfere politica, istituzionale, nazionale. Quello che cambia, scompare, entra in scena nei diversi momenti è una precisa configurazione, risultante da diverse combinazioni degli stessi elementi: spirito della nazione, suo destino progettato, decisione politica sull’assetto istituzionale del potere dello Stato.
La concatenazione e il reciproco rapporto di queste diverse Italie contemporanee, e in fondo la loro stessa contemporaneità, non consistono solo nella continuità di persone, istituzioni, processi storici da una sequenza all’altra. C’è un gioco di distanziamento e ripresa, di messa in prospettiva e di cancellazione tra un periodo e l’altro, un gioco animato in profondità dall’uso del passato e della conoscenza storica. Solo due esempi ovvi: per il regime fascista è essenziale riprendere i temi dell’Italia che si espande nel Mediterraneo e che partecipa vittoriosamente alla Grande guerra (nella mostra della Rivoluzione fascista del 1932 l’inizio del percorso espositivo è l’entrata in guerra, non la marcia su Roma). Al contrario, uno dei problemi dell’Italia repubblicana fino al 1992 è proprio la presa di distanza dal regime fascista, che poi diventa una messa in prospettiva: si passa dall’antifascismo esplicito della Carta repubblicana, alla discussione radicale nella lunga transizione successiva, durante la quale si manifesta anche un’ambiguità significativa nella valutazione della ‘prima’ Repubblica. Per non dire poi del rapporto che si viene a creare tra le singole Italie contemporanee e il passato più lontano (la Roma imperiale, per es., l’Italia medievale, o il Rinascimento).
Se si è accennato ai tempi, prima degli spazi, è perché questi ultimi, in un certo senso, sono modellati diversamente nei diversi periodi, nelle diverse Italie contemporanee.
In effetti, è proprio la configurazione politica, la combinazione di spirito nazionale, destino del popolo italiano, natura delle istituzioni a suggerire, di volta in volta, all’immaginazione profetica, all’immaginario storico e soprattutto alla decisione strategica e real-politica quali siano i confini dell’Italia. Questo è un tipico tema in cui s’intersecano enjeux politici e forme culturali (per es., la storia, l’archeologia, la geopolitica).
L’Italia repubblicana cercherà la ri-definizione dei confini esterni ancora nel Mediterraneo, magari con la diplomazia informale delle grandi imprese di Stato, giocando sulla contesa bipolare (e quindi assumendo di volta in volta un profilo filoarabo o filoisraeliano, o i due profili contemporaneamente), ma soprattutto nella integrazione europea, la quale come linea di tendenza metterà in discussione l’idea stessa di confine territoriale (fino alla concreta abolizione).
Le due immagini, prodotte durante la transizione 1943-46, dell’«Italia divisa in due» e del «vento del Nord» mostrano bene che questi spazi nuovi, che si creano con il mutare delle configurazioni politiche, sono costruzioni materiali e simboliche allo stesso tempo (e quindi durano più a lungo delle formule politiche da cui scaturiscono).
Più complesso, se pensiamo ai diversi spazi delle Italie contemporanee, è il discorso dei confini interni, che coincide con quello, assai problematico, dei limiti reali dell’unificazione stessa dell’Italia in quanto Stato nazionale. Si pensi anche alla molteplicità di situazioni diverse, imperfettamente ridotte a unità (basta pensare al caso della Sicilia, nello stesso tempo microcosmo italiano e irriducibile specificità). Non è difficile immaginare quanto pesi questo tema, centrale per le varie configurazioni politiche di cui abbiamo detto (e per l’esistenza stessa di una ‘configurazione nazionale’), sull’elaborazione della storiografia e, più in generale, sull’autocoscienza storica stessa, a cominciare dall’uso comune e letterario della lingua italiana. Non c’è solo la questione meridionale, e cioè la domanda se e in che modo il Sud sia parte integrante della storia nazionale; c’è anche la questione dell’emigrazione, quella interna, particolarmente forte nei primi decenni del secondo dopoguerra, e quella esterna (le Italie fuori d’Italia). Problema difficile, che rende ardua la costruzione di uno spazio reale, cioè storico, delle Italie contemporanee, anche limitandoci a ciò che è rilevante per l’emergere degli studi di storia. Problema che si è complicato nella più recente transizione (non conclusa), iniziata nel 1992, con la frattura culturale e politica provocata dall’invenzione della Padania, e la correlativa creazione, non solo immaginaria, di un’Italia divisa in tre (il centro ex comunista, il Sud conservatore). È emersa, quindi, anche una questione settentrionale, ma è il centro nazionale stesso a essere messo in discussione, e a volte negato come centro (processo da osservare in rapporto alle controverse celebrazioni dei centocinquant’anni dell’Unità: cfr. Vivarelli 2011; «Ricerche storiche», 2012, 2).
Nel modo in cui si configura ciascuna sequenza, le transizioni che avviano ai rispettivi passaggi, e la stessa concatenazione e azione reciproca di esse, si riconoscono i sintomi di uno stato d’eccezione della sfera politica nell’Italia contemporanea. È la percezione di un avvenuto, o imminente, o necessario, o eversivo, o rivoluzionario, cambiamento istituzionale, il contesto che rende comprensibili e fa emergere le forme culturali da osservare, tra le quali la produzione di storie. È possibile che ciò che sembra eccezione politica non lo sia effettivamente. Ma c’è bisogno di motivare con esempi concreti la pretesa che, nella sfera politica, le diverse sequenze delle Italie contemporanee, di cui abbiamo detto, siano state animate da fenomeni che giustificano il ricorso alla categoria dell’eccezione?
Nella prima sequenza, nel tempo della costruzione democratica, una forte polemica antidemocratica, proprio sul piano culturale (si pensi alla «Voce», allo stesso Croce e agli antigiolittiani); nella seconda, l’invenzione del fascismo, come laboratorio del totalitarismo in Europa; nella terza, una restaurazione democratica operata da un partito-Stato cattolico, arrivato al potere in modo del tutto imprevisto dalla vecchia classe dirigente pre-fascista, e contrastata da un forte partito comunista rivoluzionario, talmente forte da escludere la possibilità stessa di un’alternanza democratica che non lo veda tra i protagonisti (ipotesi considerata impossibile per il conflitto bipolare). Sempre nella terza sequenza, una serie di politiche più o meno clandestine o coperte tese a contrastare il nemico interno comunista, le voci ricorrenti di imminenti colpi di Stato e cambiamenti di regime, poi l’esplosione del terrorismo politico dal 1969 alla metà degli anni Ottanta, con l’affaire Moro a fare da spartiacque; ancora dopo, dall’inizio degli anni Ottanta, i ripetuti, vani tentativi di riforma costituzionale; nella quarta sequenza, un regime politico ritenuto nuovo, ma non rifondato sul piano delle norme costituzionali, in cui compaiono forme inedite di concentrazione del potere politico, finanziario, mediatico e di sovrapposizione della sfera pubblica con quella privata. E poi il caos attuale, le varie Italie in contrapposizione: leghista, berlusconiana, montiana, grillina, alle prese con quella dei sopravvissuti della ‘prima Repubblica’.
Su questo sfondo politico assai problematico si colloca la ‘tradizione italiana’ della storiografia, dal 1945 in poi. Definire che cosa debba intendersi per storiografia italiana non è semplice. Si potrebbe assumere, in modo arbitrario e per pura comodità, che italiano equivalga a nazionale; l’esposizione riguarderebbe quei lavori storici composti da un punto di vista più comprensivo, non locale né regionale. Ma anche senza richiamare la «calda difesa della storia regionale» (cit. in Sestan, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946, 2° vol., 1950, p. 436) da parte di Croce, oppure – all’estremo opposto di una lunga parabola – la tesi di Edoardo Grendi che l’assenza di una vera storia locale in Italia «abbia significato per la storiografia la rinuncia a un vero e specifico ruolo civico» (Storia di una storia locale: perché in Liguria (e in Italia) non abbiamo avuto una local history?, «Quaderni storici», 1993, 28, 1, pp. 141-97, cit. pp. 143-44), la prima difficoltà, nel caso italiano, è quella di pensare un intero (la nazione) in rapporto netto e definito con le parti che lo costituirebbero. Alla quale difficoltà si aggiunge l’altra, di pensare quell’intero come parte di una più ampia realtà: ecumene, Occidente, Europa o mediterraneo. Scrive Croce a Luigi Russo il 26 marzo 1945: «io, non nazionalista, mi sono sentito sempre italiano ed europeo in uno» (L. Russo, B. Croce, Carteggio 1912-1948, a cura di E. Cutinelli-Rèndina, 2006, p. 578); e l’amico gli risponde, il 15 aprile successivo: «Voi […] avete elaborato un concetto pienamente religioso e morale della libertà, a cui necessariamente corrisponde il concetto di una supernazione […] o comunità europea e mondiale» (p. 582).
In effetti a leggere la Storia d’Europa crociana, come è stato osservato, sembrerebbe che l’essenza italiana risieda come giusto mezzo, appunto europeo, tra le influenze tedesca e francese, e quindi anche al di fuori dei nostri confini ideali, per quanto problematici essi appaiano. E in quello stesso 1945, per Momigliano era il «piano europeo» il banco di prova di una «cultura italiana indipendente, perché salda e seria» (Momigliano, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946, 1° vol., 1950, p. 102), finalmente libera dal nazionalismo culturale imposto dal regime fascista. L’idea di Palmiro Togliatti, che «una cultura socialista in Italia non esiste ancora [ed] è tale per il suo contenuto, ma è nazionale per la forma» (cit. in G. Vacca, Appuntamenti con Gramsci. Introduzione allo studio dei «Quaderni del carcere», 1999, p. 153) estende, complica e traduce in linguaggio comunista e insieme desanctisiano, in modo tipico, la stessa esigenza: è italiano non essere provinciali, ma non è italiano essere soltanto italiani (come per Friedrich Meinecke non era tedesco essere soltanto tedeschi).
In questo nodo di problemi, segnaleticamente richiamati, risiedono le radici tanto dell’adesione imperfetta e sempre rimessa in discussione, da parte degli storici italiani, all’ideologia nazionale, quanto del cosmopolitismo di alcuni di loro – che è un altro modo di esprimere quell’adesione imperfetta, di discutere quel problema –, cosmopolitismo perfettamente inquadrabile in termini gramsciani:
può essere interessante sapere che il Farnese era italiano o Napoleone corso o Rothschild ebreo, ma storicamente la loro attività individuale è stata incorporata nello Stato al cui servizio essi sono stati assunti o nella società in cui hanno operato. […] Si può parlare di tradizione nazionale quando la genialità individuale è incorporata attivamente, cioè politicamente e socialmente, nella nazione da cui l’individuo è uscito […], quando essa trasforma il proprio popolo, gli imprime un movimento che appunto forma la tradizione (A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, 1975, pp. 384-85).
La secolare eredità degli universalismi cattolico e romano, le più recenti dominazione straniera, divisione politica e debolezza statale cospirano per impedire che si realizzi tale movimento e si formi tale tradizione (o almeno per ostacolare o rallentare tale processo). Di diversa natura è dunque la tradizione italiana che ne risulta, sempre più complessa e sfuggente, a mano a mano che ci avviciniamo, dal 1945 al presente.
Difficoltà analoghe si presentano anche se adottiamo altri criteri, come la lingua e lo spazio di diffusione della nostra storiografia. Il saldo di una immaginaria bilancia dei pagamenti storiografici è però negativo: con le traduzioni importiamo molto di più di quanto esportiamo. Benché non esistano in proposito studi analitici, alcuni fenomeni sono evidenti. Come il passaggio, subito dopo la guerra, dalle traduzioni di libri di storia tedeschi (per la Sansoni) a quelle di libri francesi (per la Einaudi): Venturi scrive a Croce il 27 marzo 1946 che «in Italia si è ancora molto, troppo orientati verso la storiografia tedesca»; ma totale è il silenzio del filosofo sull’intenzione di Venturi, manifestatagli l’estate successiva, di «far conoscere e mettere in circolazione le idee degli storici francesi contemporanei» (Carteggio Croce-Venturi, a cura di S. Berti, 2009, pp. LXVIII e 41). Croce preferisce indirizzare il giovane corrispondente verso il Settecento: niente storia sociale francese – ma il programma sarà comunque realizzato da Einaudi, con il concorso di Federico Chabod. Oppure come le pronte traduzioni di libri anglosassoni per il Mulino, dagli anni Cinquanta, o degli storici sovietici per gli Editori riuniti, alla metà degli anni Settanta. Sono solo alcuni esempi di una vicenda che andrebbe indagata, perché non appare di significato univoco. L’abbondanza di traduzioni importate non significa solo che abbiamo bisogno del lavoro storico di studiosi stranieri, perché non ce ne sono di italiani, in patria o all’estero, che coprano quegli argomenti e li discutano in italiano. Un bisogno che spesso gli stranieri non hanno, proprio perché archivi e biblioteche italiani sono pieni di loro connazionali in grado di informarli, nella propria lingua, sulla nostra storia o sui nostri studi: gli Stati da cui provengono svolgono una politica culturale per la presenza all’estero.
Le numerose traduzioni in italiano stanno a indicare, anche, la nostra curiosità storiografica e la ricchezza dei nostri interessi (che si esprimono, spesso, anche in una diffusione tra noi della conoscenza delle lingue straniere, che è raro trovare in altre culture storiche, in eguale misura).
Non è mai esistito, nel campo degli studi storici, un provincialismo italiano (parliamo delle esperienze più ‘salde e serie’, naturalmente). L’esigenza di ‘sprovincializzare’ la nostra cultura storica – si badi che il termine ricorre nel vocabolario di scrittori anche ideologicamente lontani tra loro, come Filippo Tommaso Marinetti e Gramsci – è fatta valere polemicamente, di tanto in tanto, ma senza grande fondamento. Fin dal 1945, ma certo anche in precedenza, il lavoro storico si è svolto in una comunità internazionale, nella quale nessun Paese esaurisce da solo problemi e temi. Esistono invece, come ha osservato acutamente Domenico Musti – a proposito della «decolonizzazione» dai temi tedeschi, proposta da Momigliano nel 1967, ma anche dell’ondata di traduzioni dal francese nel decennio successivo – «un problema di diffusione delle idee» e la necessità della consapevolezza di quello che si importa «dal punto di vista metodologico, teorico, anche ideologico delle opere che entrano in circolazione» (Musti, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989, p. 59).
Alcune condizioni storiche generali permettono di comprendere i caratteri essenziali degli studi italiani di storia (Il potere dei ricordi, «Storiografia», 1998, 2). La prima di esse riguarda il rapporto con il passato, incluso il modo in cui lo si presenta al pubblico. Le condizioni politiche, economiche, religiose, morali, estetiche concorrono in un determinato presente a configurare il passato visibile (uno spazio di conoscibilità). Solo all’interno di tale configurazione sorgono i problemi che muovono al ricordo e alla storia, e le condizioni che decidono il destino delle tracce visibili del passato: su questo punto sarebbero d’accordo alcuni grandi pensatori del secolo scorso, da Croce, per il quale ogni storia è storia contemporanea, a Walter Benjamin, per il quale ciascun presente reca con sé condizioni di conoscibilità peculiari, a Maurice Halbwachs, per il quale i ricordi sono resi possibili da condizioni sociali presenti (i cadres sociaux de la mémoire).
Accade però – per limitarci alla situazione attuale – che le stesse forze storiche che hanno aperto un illimitato spazio di conoscibilità del passato (tutte le storie, di tutti i tempi e luoghi sono interessanti e rilevanti), e avviato un sistema in cui circolano variamente un enorme numero di ricordi, producano elementi e movimenti in grado di contraddire e dissolvere quell’interesse illimitato, in sostanza restringendo al presente lo spazio di conoscibilità. Nella situazione attuale, insomma, agiscono forze che vanno in molte direzioni: non solo a favore della storia e dell’interesse per il passato, dunque, ma anche contro la storia, in particolare contro una considerazione realistica di essa. Non si pensi soltanto al futurismo, all’antistoricismo di cui discutevano Croce e Thomas Mann, allo strutturalismo o alle ricerche logiche di Ludwig Wittgenstein (particolarmente nelle note, del 1931, sul Golden bough di James Frazer) – tutti fenomeni culturali nei quali la storia è intrinsecamente negata.
Ci sono modi più sottili e attuali di annullare il valore del passato. Per es., quello, più recente, di considerarlo un magazzino di forme, un supermercato di stili, un repertorio aperto di segni a cui attingere secondo necessità. Svuotato di ogni carattere puntualmente determinato, il passato si alleggerisce fino a svanire. Non è un caso che la cultura postmodernista, che esalta il reimpiego intensivo delle immagini del passato, sia contemporanea di sviluppi concreti, come la tecnologia digitale, che portano alla dissoluzione del vecchio concetto di traccia visibile del passato. I testi e le immagini digitalizzati sono fluidi e modificabili a volontà, praticamente senza lasciare traccia.
La cultura dopo il 1945 si ricostruisce dalle macerie della catastrofe militare, nazionale, statale, della guerra civile e di liberazione, ma anche continua a svolgersi nel quadro di progetti incompiuti e spazi fisici e culturali riciclati e ridefiniti: l’immagine di Chabod e degli storici accademici al congresso internazionale di Roma nel 1955, che si muovono sui bianchi fondali scenografici della fallita Esposizione universale fascista, riassume una situazione complessa che va tenuta presente. Rovine e progetti falliti ancora in piedi, infatti, non parlano la stessa lingua. Le prime richiedono forme in gran parte nuove per la ricostruzione (la restaurazione democratica); l’influenza dei secondi continua a propagarsi per altri vent’anni, anche in modo sotterraneo, implicito, rimosso – come un universo ideologico sopravvissuto, sottoposto a pressioni molteplici: da una parte le forme nuove, democratiche e di massa, dall’altra le forme elitarie e autoritarie tradizionali, non meno degli effetti profondi del fallimento e del naufragio 1943-45 (con la necessità di salvare qualcosa, riorientare, ridefinire). Quando Norberto Bobbio scrive l’articolo Le colpe dei padri, nel 1974 – e quindi appena dopo l’esaurimento definitivo di quell’universo ideologico sopravvissuto, provocato dalla rivolta dei figli nel Sessantotto –, insiste sulla frattura del 1945, parla di rinascita e di mondo nuovo dopo il fascismo, ma coglie solo un aspetto, polemicamente, della complessa situazione del secondo dopoguerra.
Dall’intreccio di motivi di continuità con il passato, più o meno dichiarati, con mutamenti anche radicali derivano alcune conseguenze, sul piano che stiamo esaminando delle condizioni generali della storiografia. Il rapporto tra intellettuali e potere politico diventa non solo tema di appassionate e interminabili discussioni, ma anche struttura fondamentale del lavoro culturale stesso, che prende a svolgersi nel quadro di istituzioni direttamente o indirettamente politiche, e da tale vincolo politico ricava l’essenziale per la sua autodefinizione. Struttura che resta fondamentale anche se ci si propone di eluderla, rifugiandosi nell’attività scientifica rigorosa, e che si può esprimere ormai in forme varie. Superate quelle tragiche di Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, o dall’altra parte di Gramsci prigioniero della dittatura, costretto a pensare il rapporto tra intellettuali e politica al futuro, si offre innanzitutto la possibilità incarnata da Croce e da Togliatti – intellettuali e insieme capi di partito: possibilità replicata e distorta nella scala ridotta, quasi priva di libertà, dei numerosi intellettuali funzionari, all’opposizione come al governo; poi si presenta l’alternativa vissuta, per es., da Venturi, tra la politica, in linea con l’impegno nella guerra di liberazione, e la storia (alla quale quasi subito approda); e infine la forma, intermedia e neutrale, lacerata da dubbi e contraddizioni interne, dell’impegno scelto e teorizzato da Bobbio in Politica e cultura (1955). Con il paradosso che è proprio qui, in questa zona intermedia e neutrale tra i due campi ideologici contrapposti del dopoguerra italiano, che si concentrano le attività, più o meno occulte, degli strateghi della guerra fredda culturale, sia occidentali sia orientali. Tentativi di influenza o egemonia, di cui proprio la vicenda editoriale e polemica di Politica e cultura, con il contemporaneo coinvolgimento di liberali, azionisti e comunisti è un caso esemplare, e che arrivano a toccare perfino imprese essenzialmente scientifiche, come l’Istituto Croce di Napoli (Attal 2010; Mastrogregori 2007). Non stupisce, di conseguenza, che Niccolò Zapponi individui le principali novità della cultura italiana dopo il 1945 in tre aspetti che s’inseriscono alla perfezione in questo quadro: oltre alla «internazionalizzazione irreversibile», la diffusione del marxismo e della «ideologia americana» (Zapponi 1983). Dopo il Sessantotto, questo quadro di possibilità e di forme si rinnoverà profondamente, come vedremo in seguito, aprendo uno spazio nuovo, non ancora del tutto decifrabile.
Il punto di partenza potrebbe essere la diagnosi che Aldo Garosci – storico, giornalista, direttore de «L’Umanità», di matrice politica antifascista e azionista, passato poi nella galassia socialista su posizioni anticomuniste – affida a una lettera del 26 giugno 1955, in risposta a un questionario elaborato dallo studioso americano Charles F. Delzell, che preparava uno studio sulla storiografia italiana del dopoguerra, poi apparso nel 1956 nel «Journal of modern history». A proposito delle condizioni materiali, in cui si era svolto il lavoro storico italiano nel decennio appena trascorso, Garosci scriveva:
è impossibile che pressioni politiche, sociali, economiche non ci siano, altrimenti uno storico non scriverebbe, perché si troverebbe nel vuoto. Ma non mi pare che siano determinanti per lo storico in particolare. Cominciamo dalle pressioni sociali e economiche. Certo lo storico italiano non guadagna molto (dalle cento alle duecentomila lire di stipendio mensili, se professore universitario; ma qualcosa guadagna anche con i diritti delle opere e molto se scrive opere per le scuole medie), ma è in una situazione privilegiata in un paese povero come l’Italia, dato che appartiene alla classe dei ‘mandarini’, e ha molto tempo a disposizione. Per il lavoro che fa, ritengo che sia ben pagato. Anche non è difficile trovare editori. Pressioni politiche? Certo, anche nel campo della professione storica, appartenere a uno dei grandi partiti (democristiano e comunista) può essere utile per i concorsi, e dare un leggero vantaggio; maggior vantaggio, naturalmente, dà appartenere a un ‘clan’ di allievi riconosciuti di qualche maestro, ma insomma, in questo campo universitario particolare gli spiriti liberali sono ancora la maggioranza. Dunque non mi sembra ci siano ‘pressioni’ particolari. Questo è tutto quel che saprei dire (lettera a Delzell, in Delzell Charles F. sostenitore dei nostri studi in Usa, Torino, Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea Giorgio Agosti, Fondo Aldo Garosci, Corrispondenza, busta C AG 15, fasc. 356).
Al di là dei giudizi particolari, la diagnosi di Garosci è utile perché fotografa nitidamente un certo paesaggio, una certa configurazione delle condizioni materiali degli studi di storia, i cui elementi rilevanti sono il sistema universitario, gli editori di libri e di riviste, i grandi partiti e movimenti politici, le scuole accademiche. Per prima l’università, naturalmente; e per la sua importanza storica converrà su questo punto allargare l’inquadratura, tornando anche un poco indietro nel tempo, prima di concentrarci sui movimenti, anche vistosi dal 1945 a oggi, che hanno interessato, in modo specifico, la classe dei professori universitari di storia.
La versione dei fatti diffusa nel dopoguerra, che l’università italiana sia stata essenzialmente indipendente durante il regime fascista, al di là dell’accettazione puramente formale del giuramento del 1931, è largamente inesatta. Per una serie di motivi, la situazione normale fu piuttosto il conformismo, l’obbedienza, l’adesione all’ideologia del regime, la ‘collaborazione naturale’ degli intellettuali-funzionari. A parte l’espulsione dei professori ebrei nel 1938, non si verificò un’epurazione né un’emigrazione degli studiosi. I professori italiani erano, in maggioranza, antiliberali e antidemocratici. Ne derivò una «bassa pericolosità dell’università» (Montroni 2010, p. 245) e una contiguità, o almeno una vicinanza al regime, alle quali vanno aggiunti l’universalismo cattolico e un’ideologia autoritaria molto diffusi. La svolta imperialista e razzista fu accettata nel suo complesso, come una sorta di conseguenza naturale delle cose. L’antifascismo di molti docenti data per lo più dalla fine del 1942: è la sconfitta militare che fa aprire gli occhi. Non sorprende, quindi, che la transizione alla Repubblica costituzionale si sia prodotta sotto il segno della continuità. Per l’essenziale è adottata la legislazione del ventennio. I cinquantasei professori ordinari, reclutati senza concorso per meriti fascisti, vengono confermati dal ministro Guido Gonella mentre per i docenti ebrei espulsi nel 1938 il rientro non è certo automatico (Il difficile rientro, 2004).
Emendato dei suoi aspetti estremi, imperialisti razzisti e guerrafondai, l’universo ideologico della maggior parte dei professori italiani è investito da una serie di fenomeni importanti: le conseguenze del crollo dello Stato italiano nel settembre 1943 e della ‘morte della patria’; la restaurazione di un ordine democratico, a cui molti non credevano già all’inizio degli anni Venti; la leadership imprevista, politica e culturale, dei cattolici (per es., la direzione dell’Enciclopedia Italiana passa nelle loro mani); la forza politica e culturale del Partito comunista, i cui militanti sono, almeno in parte, antagonisti dell’universo ideologico autoritario a cui ci riferiamo. Nel tempo, esso si modifica lentamente, ma è l’università di massa a cambiare realmente i dati della questione.
Tra il 1950 e il 1980, per avere un’idea della grandezza della trasformazione, bisogna moltiplicare gli studenti per cinque, i laureati per tre, i professori per quattro, il bilancio dell’università in rapporto a quello dell’istruzione pubblica per due, le borse di studio per diciannove (tra il 1962 e il 1970). Le relazioni tra società, politica e università assumono una forma nuova: già alla fine degli anni Sessanta è quasi scomparsa l’università elitaria. Tutto è da ripensare: autonomia, libertà scientifica, autorità. Il ‘politico’ fa irruzione nella città universitaria, ne diviene elemento essenziale, declinato in vari modi: partiti, sindacati, organizzazioni di massa degli studenti e dei professori incaricati. Con il Sessantotto la distruzione dell’autorità autoritaria si compie rapidamente, è la fine di una lunga tradizione sopravvissuta al fascismo, l’interruzione di una continuità ideologica – rottura che respinge in un passato preistorico tutto quel che non appartiene al presente della rivolta (e al suo futuro). Nel mondo appartato dell’università fanno irruzione la società (e la polizia). Le conseguenze sulla storia sociale italiana saranno notevoli. Rosario Romeo parla di un «modello» di contestazione violenta e minoritaria che si propaga, velocemente, dalle città universitarie a tutti i luoghi in cui sia in corso un conflitto, «fabbriche, uffici pubblici, banche, aeroporti» (Scritti politici, 1990, pp. 30-32). A giudicare dalle reazioni dei grandi intellettuali, come Nicola Chiaromonte, Bobbio, Italo Calvino o Giulio Einaudi, sembra che la contestazione avesse in quel momento serie possibilità di raggiungere i suoi obiettivi, malgrado la radicalità dei programmi; contro un clima troppo favorevole ai contestatori in casa editrice, Venturi e Carlo Dionisotti si dimettono per qualche tempo dalla Einaudi. I Documenti della rivolta universitaria (1968) ci informano su quali fossero i progetti degli studenti: la distruzione del sapere autoritario, legato al capitalismo; la conquista del potere nell’università, non una partecipazione, una percentuale di posti, una cogestione – tutto il potere: non sorprende che il rettore torinese sia descritto, nel resoconto di un’assemblea universitaria, come un fantasma pallido e tremante. Sul piano delle pratiche, gli studenti vorrebbero eliminare lezioni ed esami, lasciando solo seminari aperti, ai quali i professori parteciperanno come esperti, ma i cui argomenti e contenuti sono decisi dagli studenti (i contro-corsi sul Vietnam, la psicoanalisi, l’America Latina, Mao Tse-Tung). A Torino si sostiene che bisogna farla finita con i libri: si studieranno gli appunti, scritti dagli studenti, le opere inaffidabili e autoritarie saranno sostituite da schede di lettura che facciano da filtro. Quando la polizia ristabilisce l’ordine nelle aule dopo le occupazioni, cambia la tattica: le lezioni sono interrotte all’improvviso, e i professori ‘processati’ sommariamente (occupazioni bianche, guerriglia culturale).
Dopo circa un decennio di agitazioni, la calma si ristabilisce, ma il paesaggio culturale non è più lo stesso. Nel campo specifico degli studi universitari di storia, i mutamenti anche vistosi che si producono dal 1945 a oggi si inquadrano comunque all’interno di una più profonda continuità. L’unico tentativo di provocare un cambiamento strutturale dell’organizzazione degli studi e degli insegnamenti fu quello di creare una facoltà di Scienze storiche, basata sulla collaborazione della storia con la geografia e le scienze sociali. Il progetto, elaborato nel settembre 1962 – e quindi nel clima della prima fase, innovativa, del centro-sinistra – nell’ambito della nascente Società degli storici italiani, da Lucio Gambi e Giorgio Spini, incontrò molte resistenze e fu convertito nell’altro, molto più conservatore e tradizionale, di istituire corsi di laurea in storia presso le facoltà di Lettere, attivati infine nel 1978 (Zazzara 2005). Così l’aumento impetuoso di cattedre insegnamenti e discipline fu nella misura del possibile ricondotto su binari consueti.
I dati disponibili, che non sempre sono omogenei, né di facile interpretazione, mostrano però chiaramente che il numero di storici universitari aumenta progressivamente dai primi anni Cinquanta alla metà del primo decennio del nuovo secolo, poi conosce una diminuzione, fino a oggi, di circa il venti per cento. L’aumento è progressivo, con due momenti di svolta: il primo tra il 1971 e il 1983, in cui tale numero è moltiplicato per tre (Moretti 1985), il secondo tra il 2000 e il 2001, quando, a causa di una nuova legge sul reclutamento, si registra una crescita spettacolare di tredici volte, secondo i dati ufficiali ministeriali. Ancora maggiore, in proporzione, è l’aumento delle donne che occupano un posto di ricerca o insegnamento: il numero cresce trenta volte tra il 1955 e il 1980, e di altre dieci volte tra il 1980 e il 2005. In termini assoluti, gli storici di ruolo, pagati da istituzioni pubbliche passano dai 93 del 1955, ai 2078 del 2005 (Atlas of European historiography, 2010, p. 118). Anche il numero degli insegnamenti storici e la specializzazione disciplinare – individuati secondo criteri empirici e in larga parte arbitrari – crescono progressivamente e solo recentemente subiscono un ridimensionamento. Nel periodo 1950-83, gli insegnamenti attivati di storia moderna crescono cinque volte (il che corrisponde alla crescita media di tutti gli insegnamenti universitari), quelli di storia antica tre volte, quelli di storia medievale dieci volte e quelli di storia contemporanea quattordici volte. Le trentacinque materie insegnate nel 1950 diventano centoventi nel 1970 e duecentosedici nel 1983. Su cento storici universitari, sessantasei insegnano presso le facoltà di Lettere, Magistero e Lingue, diciotto a Scienze politiche, nove a Giurisprudenza (la storia del diritto), sette a Economia (la storia dell’economia). Questo dato subirà nei decenni successivi dei mutamenti, ma fotografa bene, in quel momento (1983), la continuità tradizionale nell’insegnamento della storia ‘generale’, concentrato per lo più nelle facoltà di Lettere, insidiato solo da quello impartito, con stile e curriculum istituzionale talora assai diverso, a Scienze politiche, mentre le storie ‘speciali’ del diritto e dell’economia sono confinate nelle rispettive facoltà (Scardozzi 1985). Anche le limitate, ma non indifferenti, risorse ministeriali, per il finanziamento della ricerca universitaria e dell’editoria di elevato valore culturale, sono distribuite secondo le linee direttive che abbiamo tracciato.
Nella diagnosi di Garosci, dalla quale siamo partiti, restavano in ombra le istituzioni non universitarie, che pure hanno giocato un ruolo importante nell’intero periodo che ci interessa e solo negli ultimi vent’anni hanno conosciuto una diminuzione progressiva di efficacia e prestigio quanto alla promozione degli studi di storia. All’indomani della guerra il centralismo fascista è smantellato, il quadro normativo delle deputazioni e società di storia patria torna nel 1947 alla situazione del 1922, gli Istituti storici romani (per il Medioevo, per l’Età moderna e contemporanea, per il Risorgimento) continuano la loro attività senza legami con le società locali, e alla Giunta centrale per gli studi storici è attribuita una sfera di competenza assai limitata: la Bibliografia storica nazionale, che riprende le pubblicazioni a stampa sotto la guida di Gaetano De Sanctis dall’aprile 1946 (fino al 2001, prosegue ora come base di dati), e la partecipazione italiana alla International bibliography of historical sciences (dal 1947 al 1996) e ai congressi internazionali di scienze storiche. Nel paesaggio delle ‘istituzioni’ storiche non universitarie, la cui ricchezza e dinamicità è senz’altro un carattere specifico della situazione italiana, vanno considerate anche le regioni, dal 1970, oppure il Consiglio nazionale delle ricerche, che per più di vent’anni, dal 1963, ha sostenuto la ricerca storica con finanziamenti a progetti, riviste, convegni, e da cui dipendono alcuni istituti storici; spiccano, poi, imprese collettive prestigiose e influenti come l’Enciclopedia Italiana e il Dizionario biografico degli Italiani (a partire dal crollo dell’impero romano; primo volume pubblicato nel 1960), oppure centri privati (ma non di rado sovvenzionati anche con fondi pubblici) di insegnamento e ricerca, come l’Istituto italiano per gli studi storici, fondato da Croce (dal 1946), gli istituti per la storia della Resistenza (1947-49), e centri di ricerca molto attivi, dotati di propri archivi, biblioteche, personale scientifico e legati a figure di intellettuali e a partiti (tra il 1949 e il 1964, Fondazione Istituto Gramsci, Biblioteca e Fondazione Feltrinelli, Istituto Sturzo, Istituto per le scienze religiose di Bologna, Fondazione Einaudi, per citarne solo alcuni).
Quanto agli editori, l’osservazione di Garosci che per gli storici, in Italia, non è difficile trovarne conserva la sua validità, anzi è oggi ancora più vera che nel 1956: il nostro è un Paese, come ha osservato Dionisotti, in cui le persone che scrivono e pubblicano sono più di quelle che leggono. Il campo della storia non smentisce quell’aurea constatazione. Lasciamo da parte gli oltre 160 manuali adottati sia nei licei sia nelle università (l’ottanta per cento dei quali compare dopo il 1970). Senza entrare in un’analisi del mercato dei libri di storia, si può osservare che ricchissima è stata, dal 1945 a oggi, la produzione in questo campo di editori grandi, piccoli e medi, commerciali o sovvenzionati – ma quest’ultima distinzione è assai difficile da tracciare nel nostro Paese, dove esistono molte forme di contributi indiretti all’editoria. A fronte di un andamento costante di tirature e vendite medie o basse, interrotto solo da alcuni fortunati casi editoriali, va registrato un boom della saggistica storica (ma non solo storica), tra il 1968 e il 1975 – contemporaneo dunque dell’animata stagione politica che segue al fallimento del centro-sinistra –, seguito dal ritorno a ritmi commerciali consueti. In quel periodo i volumi della Storia d’Italia della Einaudi toccano le 185.000 copie annuali e si vendono meglio delle edizioni tascabili; nel solo 1975, la biografia di Benito Mussolini, scritta da Renzo De Felice, raggiunge le 25.000 copie, e la storia del Partito comunista italiano di Paolo Spriano le 68.000 (Caracciolo 1979). Ricchissimo è anche il panorama delle riviste scientifiche, normalmente sovvenzionate, il cui numero è aumentato progressivamente, fino a raggiungere la cifra attuale di oltre 450, di cui circa un terzo di storia locale (Bartoli Langeli 1983; Visceglia 2012).
Si suggerisce da varie parti, anche fuori dai nostri confini, che sul piano delle idee e dei modelli di storia le proposte specificamente italiane più immediatamente riconoscibili siano state lo storicismo e la microstoria (sono le due uniche voci intitolate in italiano della Encyclopaedia universalis, 2005). La realtà è certo più complicata. Un’esposizione dei principali problemi al riguardo ci permetterà di avvicinarci, dopo la presentazione delle coordinate generali della storiografia italiana, agli oggetti e alle tendenze dei nostri studi storici.
Il ‘sistema’ dello storicismo di Croce si basava su un’idea della filosofia come negazione dei ‘grandi problemi’ supremi della metafisica tradizionale. Il filosofo si pone solo problemi particolari, inesauribili e infiniti, perché nascono dal moto della storia. La filosofia coincide così con la ricerca storica, concreta e vitale, che può nascere solo da problemi del presente, che mira a risolvere con la luce del pensiero (per cui «ogni storia è storia contemporanea»). Non vi è verità oltre la storia. Non vi è realtà, se non nella concretezza e profondità dei fatti indagati e pensati dal filosofo-storico. La realtà è «storia e nient’altro che storia» (La storia come pensiero e come azione, 1938) e la «storia raccontata con verità» è la vera filosofia.
Una peculiare visione del mondo accompagnava, nel pensiero di Croce, l’abbandono della metafisica: nella storia, tutto è giustificato e necessario, compresi il male e l’errore. Come la Provvidenza cristiana, la storia resta, almeno in parte, una realtà trascendente, superiore all’individuo. Tale visione, ereditata da Giambattista Vico e da Georg Wilhelm Friedrich Hegel, separa lo storicismo di Croce dall’Historismus dei neokantiani e di Meinecke (Die Entstehung des Historismus, 1936). A quest’ultimo – che aveva ammesso la presenza dell’irrazionale nella storia e proiettato i destini individuali umani su un fondo di mistero religioso – Croce obietta che il vero storicismo rende conto dell’irrazionale, grazie a una razionalità più profonda. Lo stesso argomento Croce adoperava di fronte all’Illuminismo: ne derivava non il disprezzo o il rifiuto, ma una valutazione positiva e appassionata dei miti e delle illusioni, delle credenze e delle superstizioni. Lo storicismo diveniva così «l’ultima religione».
Premuto dalle necessità del presente e dai motivi dell’azione pratica e perfino politica, il filosofo-storico affronta una pluralità di esperienze. Questo è vero per Croce stesso, che unì alla riflessione filosofica l’esercizio della critica (della letteratura, delle arti, della storiografia, specialmente nella rivista «La critica», che scrisse quasi da solo dal 1903 al 1951), una multiforme opera di storico (dell’Italia contemporanea, dell’Europa nel 19° sec., dell’età barocca, del Regno di Napoli) e la fondazione e direzione di un’istituzione di ricerca e insegnamento della storia (Istituto italiano di studi storici di Napoli). Ma è anche vero per una serie di studiosi che presero lo storicismo di Croce come modello, o punto di riferimento, da cui partire per una revisione che sarà molto intensa e varia quanto ai suoi esiti, fino agli anni Cinquanta.
Tale trasformazione dello storicismo di Croce in uno storicismo realistico, più storico, o comunque diverso – quel tentativo di andare oltre Croce senza essere contro di lui, uno dei fenomeni centrali della cultura italiana tra il 1920 e il 1960, più o meno (Contini 1972) – fu tutt’altro che pacifica. Il modello disegnato dal filosofo restava presente e in gioco, ma nello stesso tempo se ne progettava l’abbandono, totale o parziale, o addirittura la sostituzione polemica. Nel 1952, poco prima della morte del pensatore, compaiono presso Einaudi e Laterza due nuove edizioni delle opere di Francesco De Sanctis, entrambe curate da studiosi che si erano allontanati dal magistero crociano per raggiungere il Partito comunista (Carlo Muscetta e Russo, il quale con la rivista «Belfagor» aveva avviato dal 1946 una sorta di storicismo eretico dalla lunghissima durata, proprio di una sinistra antigovernativa, radicale e non conformista). In una ‘scuola’ che teorizzava l’unione di passato e presente, si faceva sentire duramente l’urto dei motivi politici: cresceva l’opposizione, da vari fronti, al conservatorismo politico di Croce presidente del Partito liberale e alla sua ‘politica dei non politici’. Togliatti riprese, fin dal 1944, la lunga tradizione della polemica anticrociana, per la quale si è parlato, non a torto, di allergia, rigetto, negazione passionale e pregiudiziale (Galasso 2008, p. 120; Giammattei 2009, p. 17). Gramsci, nel carcere in cui l’aveva gettato la dittatura fascista, si era nutrito de «La critica» e dei libri di Croce, ma con l’obiettivo di scrivere un ‘Anti-Croce’, una sistemazione originale e rivoluzionaria del problema degli intellettuali in Italia e del loro rapporto con il potere (Quaderni del carcere, 1948-1951).
Il dirigente comunista rifiutava la distinzione di Croce tra pensiero e azione, sostenendo che la chiave della questione dello storicismo consiste nel comprendere come si possa, nello stesso tempo, essere critici e uomini d’azione. Avere coscienza del passato per superarlo significa dare alla critica un valore non solo teorico, ma anche politico. Per entrambi i pensatori i documenti storici non sono indispensabili, ma per motivi diversi. Per Croce, perché li ritroviamo in noi stessi e del passato conosciamo tutto ciò che ci importa conoscere. Per Gramsci, perché il presente è, come per Karl Marx, documento vivente di ciò che è accaduto in passato, fonte visibile, perfino privilegiata, per la comprensione della storia.
Altri esempi della complessa trasformazione dello storicismo: Ernesto De Martino, partito da un dialogo con Croce, che nutre la sua critica degli studi di etnologia (Naturalismo e storicismo nell’etnologia, 1941), si propone di sovvertire il ‘sistema’ filosofico del maestro con una nuova riflessione sulle categorie con cui si pensa la storia (Il mondo magico, 1948). Carlo Antoni (1896-1959), forse il più fedele degli allievi di Croce, mette in discussione l’interpretazione di Hegel, ma soprattutto rivaluta, contro il maestro, l’idea del diritto naturale (La restaurazione del diritto di natura, 1959). Momigliano, nel campo della storia antica, apre il suo laboratorio ai nuovi metodi scientifici, sociologici, antropologici e psicologici, come pure alle esperienze francesi delle «Annales», ma assegna un’importanza fondamentale allo studio dei problemi storici del passato (Contributi alla storia degli studi classici e del mondo antico, 1954-2012). Chabod, il primo direttore dell’Istituto italiano per gli studi storici, critica a fondo il ‘provvidenzialismo’ di Croce in un saggio del 1952, Croce storico, invita a Napoli Fernand Braudel, invia a Parigi Giuliano Procacci e Ruggiero Romano, ma, nello stesso tempo, non cessa di riconoscere la grandezza del Croce indagatore di problemi particolari. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Il nuovo storicismo che si afferma grazie a questi ‘allievi infedeli’ lascia dunque da parte il ‘sistema’ di Croce, ma accoglie due punti essenziali: il nesso tra pensiero e azione politica, e la stretta relazione tra filologia – come accertamento della concreta individualità, anche linguistica letteraria figurativa, di vicende, documenti e tradizioni – e indagine storico-filosofica (la filosofia intesa come controllo critico dei problemi che l’indagine storica si propone). C’era, in questo accoglimento, e forse anche in quell’abbandono, una più profonda fedeltà. La migliore storiografia italiana acquista per questa via una forte impronta civile e politica. L’unione di filologia e indagine storico-filosofica fa anch’essa parte dello stile dello storicismo, e agisce in profondità nella critica e storia letteraria. Qui, la lezione di Croce è recuperata attraverso gli esempi stranieri di Leo Spitzer, Karl Vossler ed Erich Auerbach, e di quelli, non meno prestigiosi, dei maestri italiani Gianfranco Contini – che sviluppa in modo originale e profondo la ‘critica delle varianti’ – e Carlo Dionisotti, acuto interprete della tradizione italiana dello storicismo, mentre nel campo della storia della filosofia, Eugenio Garin innesta le riflessioni di Gramsci sul tronco dello storicismo di Croce (Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, 1955; La filosofia come sapere storico, 1959). Con gli anni Sessanta, in un’atmosfera sociale, politica e culturale, italiana e internazionale, assai diversa – lo vedremo subito –, lo storicismo cessa di essere un modello e diventa una tradizione, variamente ripresa, celebrata o denigrata. Una semplice continuazione si rivela impossibile, almeno quanto seguire tutte le direzioni dello sviluppo centrifugo che si produce, pur all’interno di un universo ideologico che per alcuni tratti, come il senso aristocratico o l’elitismo degli studi, resta comune e condiviso fino all’esplosione del Sessantotto.
Per accennare solo ad alcune di tali direzioni, il marxismo italiano è in parte considerato una variante dello storicismo, nonostante l’accanimento polemico anticrociano, a base di impegno politico esibito, di molti suoi cultori; nel 1961, Momigliano riassume la tendenza fondamentale della storiografia italiana nell’immagine dell’«innesto delle Annales sulla Critica», concretizzatosi dalla metà degli anni Sessanta sia con la collaborazione di Maurice Aymard, allievo di Braudel, con Giuseppe Giarrizzo, sia con l’ibridazione, alla ‘scuola’ di Pasquale Villani, tra Gramsci e la nuova storiografia francese (Coco 2004, p. 25), vivo dialogo che si riproduce anche nell’impresa della Storia d’Italia Einaudi, sotto il segno, però, di una più marcata affermazione, da parte dei coordinatori Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, di antistoricismo crociano.
In tutt’altra direzione, si mette radicalmente in discussione che si debba pagare il «prezzo altissimo» della filosofia di Croce, la quale «confisca il negativo, uccide gli antefatti esistenziali, recide il prima di ogni forma compiuta. Fa brillare l’io solo come ‘opera’. Uccide e sommerge le varianti, le popolazioni disperse, i vinti, siano essi lo scartafaccio di una prima redazione di un testo a stampa o le tribù inadattabili dei Sioux o dei Comanche» (Garboli 1999, p. 699). Alla critica delle varianti si è già accennato, ma si consideri anche la presenza culturale, grazie alla ristampa del 1952, della Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali. Trasportato in altri ambiti, tale riscatto del negativo conduce all’analisi e alla revisione dei concetti di ‘koinè culturale’, di ‘marginale’ e di ‘sostrato’, importanti nell’opera di Giacomo Devoto, di nuovo di Pasquali, e Santo Mazzarino, in direzione di una «storia filologica, che legge il passato come palinsesto», che è ricollegabile allo stesso concetto gramsciano di egemonia (Giarrizzo 2003, pp. 86-87).
La visione «ottimista» di Croce s’inabissa definitivamente nel corso del tragico 20° sec. e la sua scoperta che «ogni storia è storia contemporanea» diventa un luogo comune. Resta però un’eredità spirituale ben precisa e la consapevolezza di una frontiera superata per sempre. Al di qua dello storicismo, si trova la tentazione positivista del culto dei puri fatti, per combattere la quale lo storicismo era nato. Tale tendenza esiste ancora nel mondo degli studi storici, soprattutto anglosassoni, e rappresenta un po’ ovunque una via d’uscita empirica dai problemi della conoscenza storica. D’altra parte, il paesaggio definito dall’incontro della storia con le scienze sociali, nel quale si muovono molte correnti storiografiche attuali, risulta estraneo al mondo intellettuale dello storicismo, ma non necessariamente incompatibile con esso.
Le vicende delle tradizioni ‘storiciste’ non esauriscono il paesaggio delle forze operanti nella cultura storica italiana, alcune delle quali quasi completamente estranee a essa. In un editoriale intitolato Cultura antifascista («Politecnico», dicembre 1947), Felice Balbo sostenne che solo un recupero dei motivi e dei gusti di Gramsci, Gobetti e Dorso avrebbe potuto sconfiggere il «fascismo culturale», ancora vivo in un’Italia definitivamente inquadrata nel «fascismo internazionale dell’imperialismo unificato» – fascismo culturale a cui apparterrebbero, con Croce e Gentile, molti intellettuali tradizionali, il cui substrato è «papiniano» e «prezzoliniano», e che formerebbe una specie di struttura culturale inossidabile da abbattere: «Le categorie di giudizio, sia culturale, sia politico, si muovono ancora spessissimo su di un terreno che va da quello del Mussolini tipico a quello teocratico della “Civiltà cattolica”, a quello del più stracco ‘spiritualismo cattolico’ di importazione francese e di un esistenzialismo libresco ed estrinseco, mescolati spesso l’uno e l’altro a scientismi tardivi e contraddittori» (Santarelli 1992, p. 305). Posizione autonoma, come si vede, irriducibile a quella storicista: anche gli «spettrali cattocomunisti» (C. Dionisotti), che entrano nel gioco di don Giuseppe De Luca, esprimevano una linea culturale, alternativa allo storicismo, che va tenuta in conto (De Rosa 2000 e 2001). Alla fine della guerra fredda, Gabriele De Rosa (1992) commenta la «fine del progetto ideologico-istituzionale di Gramsci […] insieme con tutto il mondo del socialismo reale» (p. 41): «La riduzione della storia civile del nostro paese al confronto fra due egemonie, la marxista e l'idealista, non mi ha mai convinto; questo confronto mi è sempre sembrato come una grande lite in famiglia, con l’ospite incomodo, ma più importante storicamente e politicamente, sull’uscio, in attesa del permesso di entrare» (p. 43).
La presenza dello storicismo come nucleo tradizionale della storiografia italiana assicura comunque una continuità di modelli e riferimenti, al di là della crisi provocata dalla guerra, nel mondo nuovo che si disegna dopo il 1945. Si produce anche una continuità tra storicismo e marxismo, sul terreno realistico della concretezza storica. Sul piano anche simbolico dei riferimenti ideali, come ha osservato Remo Bodei, la linea circolare Spaventa-Gentile (dalla filosofia italiana del Rinascimento, all’idealismo tedesco, al neoidealismo italiano) diventa una linea retta De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci.
La chiave è in un intreccio tra storia e utopia, tra il «valore quasi neorealistico della concretezza del vissuto» storico e una logica di emancipazione e liberazione interna alla storia. Poi, nel corso degli anni Sessanta e sempre più velocemente dopo il Sessantotto – in coincidenza con i cambiamenti epocali che investono la struttura sociale ed economica italiana –, entra in crisi «la volontà di ancorarsi a una realtà di cui occorre analizzare attentamente i vincoli e le possibilità», e tramonta lo storicismo, inteso come «fede in una logica della storia tutta interna agli eventi, che servirebbe da faro all’agire morale e politico», o come evoluzione e sviluppo, o progresso (Bodei 1998, rispettivamente pp. 70, 78 e 113).
Si verifica una vera e propria mutazione dei presupposti culturali e filosofici. Dopo una breve ondata strutturalista, tornano le grandi domande della metafisica, si rileggono autori irrazionalisti e reazionari (Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche, con l’edizione diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari dal 1964, e poi Carl Schmitt, Martin Heidegger). A quello della realtà, si preferiscono i mondi dell’apparenza e dei simboli e la «crisi della ragione» è considerata «più come fattore di opportunità che di decadenza» (Bodei 1998, cap. VII). Tra il 1959 e il 1963 Claudio Magris percorre lo spazio mitteleuropeo dopo la catastrofe del 1918 (Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, 1963). I suoi autori – Hugo von Hofmannsthal, Robert Musil, Franz Kafka, Arthur Schnitzler, Rainer Maria Rilke, Italo Svevo, Elias Canetti e altri – «oppongono strenuamente alla tirannide della realtà e all’irrigidimento della scelta la libertà del possibile e la mobilità dell’irresolutezza» ed esprimono «con eccezionale intensità […] la disgregazione della totalità, la perdita del significato delle cose e del volto unitario del mondo, la frantumazione dell’unità e l’eclissi del senso» (Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, rist. anast. 1976, pp. 332-33). Simbolicamente, il processo di perdita della realtà si compie con l’assassinio di Pier Paolo Pasolini a Ostia, il 2 novembre 1975.
Come risposta propriamente storica a queste posizioni, e nello stesso contesto specifico, si sviluppa la microstoria italiana, una costellazione abbastanza varia di autori e di opere. Tra i primi ricordiamo Grendi (1932-1999, cfr. Micro-analisi e storia sociale, «Quaderni storici», 1977, 35, pp. 506-20), Carlo Ginzburg (n. 1939, cfr. Il filo e le tracce, 2006) e Giovanni Levi (n. 1939), tra le seconde la collana Microstorie di Einaudi (ventuno titoli, dal 1981 al 1991), numerosi articoli nei «Quaderni storici» e un corpus nutrito di scritti teorici.
Gli autori della microstoria fanno proprie le domande e lo stile di pensiero di una mutata atmosfera culturale; volendo segnare un discrimine netto nei confronti dello storicismo, propongono un nuovo modello di conoscenza storica, basato innanzitutto sulla riduzione della ‘scala di osservazione’ dei fenomeni storici, rivendicato come sostanzialmente autonomo anche rispetto all’esperienza delle «Annales», richiamata molto vagamente (per non parlare di quelle gramsciana e cattolica). In realtà, molteplici fili sotterranei legano questi autori a molte delle esperienze precedenti, non solo per le vie della negazione e del superamento. Grendi elabora il suo complesso metodo ‘morfologico’ e ‘cartografico’ o ‘topografico’ attraverso un lungo percorso, dalle letture londinesi di antropologia sociale alla fine degli anni Cinquanta, agli studi sulla storia del movimento operaio inglese (in cui si avverte l’ispirazione della sinistra non conformista di Gino Bianco), alle ricerche d’archivio sulla storia di Genova. Da una matrice letteraria e storicista – se non altro per motivi strettamente familiari – proviene anche, attraverso un articolato e vario percorso di negazioni e mediazioni, la ricerca morfologica e comparativa di Ginzburg (Storia notturna, 1989).
Nel caso di Giovanni Levi, l’esperienza storica punta i suoi strumenti di osservazione sul funzionamento di strutture dinamiche, come la società contadina di antico regime studiata ne L’eredità immateriale (1985). Al centro del libro c’è l’analisi strutturale di due aspetti basilari della stratificazione sociale, le strategie familiari e il mercato della terra. Le famiglie contadine realizzano una «strategia attiva di protezione contro l’incertezza, una politica delle relazioni che dia frutti permanenti di sicurezza relativa», e il mercato della terra più che una compravendita obbediente a principi economici classici vede uno scambio di immobili a prezzi sempre alterati. Con una certa soddisfazione nel capovolgere il giudizio di Marx, Levi mostra la «dipendenza della realtà economica dal mondo sociale»: «le scelte economiche sono subordinate alle relazioni», viste come garanzia nella strategia di controllo sull’avvenire.
L’analisi delle strategie familiari ed economiche delle famiglie contadine evidenzia alcuni tratti della struttura sociale di quel villaggio. Ma la struttura, sostiene Levi, «non dà spiegazioni dei comportamenti e degli avvenimenti». L’autore descrive «il processo politico che genera il mutamento, l’‘incapsulamento’, come è stato definito, di una comunità contadina in uno stato moderno in formazione, ma anche le direzioni imprevedibili di tale mutamento, frutto dell’incontro di protagonisti attivi». La scala microscopica dell’osservazione fa emergere le capacità interpretative degli attori, ciascuno dei quali, secondo la lezione dell’antropologo norvegese Fredrik Barth, ha un proprio «spazio di esperienza sociale», che forma con quello degli altri una rete. L’osservazione storica mira a definire la scala, ovvero l’estensione, di tale esperienza.
La predilezione per i frammenti, la riduzione di scala, la discontinuità della realtà sono tratti distintivi della cultura postmoderna; accanto a tante altre espressioni italiane della postmodernità – architettura, arredamento, design, moda, costume, pittura, illustrazione, fumetto – si potrebbe a buon diritto collocare, come una variante scientifica, anche la microstoria. Ma è difficile che si formi un consenso su questo punto: «gli storici italiani […] non vogliono avere a che fare con la postmodernità, che temono e disprezzano, anche se ci vivono dentro» (Ceserani 1997, p. 148).
Per uno storico esplorare il nuovo paesaggio metafisico e irrazionale, costellato di simboli apparenze ed eventi accidentali e dominato dal pensiero negativo e debole è come aggirarsi in uno scenario di fantascienza. Si può immaginare che dalla metà degli anni Settanta anche il semplice esercizio del mestiere di storico sia divenuto piuttosto problematico, per non dire inattuale. Entrati in crisi i modelli tradizionali di storia, all’inizio degli anni Ottanta definire quali siano le discipline storiche è considerato «un interrogativo insolubile» (Moretti 1985, p. 891). Una larga maggioranza degli storici di mestiere preferisce affrontare solo problemi specifici, propri delle tradizioni disciplinari, anche se resta forte nel nostro Paese l’interesse per la storia della storiografia, disciplina così vivace in Italia, da poter quasi vantare «una primogenitura nazionale in materia» (G. Arnaldi, Unità e divisioni italiane, «Nuova antologia», aprile-giugno 1994, 572, pp. 138-50, cit. p. 140), se questo avesse un significato in una ricerca sempre più internazionale. Volenti o nolenti, gli storici hanno abbandonato lo spazio in cui si definisce il rapporto con il passato e quasi mai adottano ‘codici’ di presentazione storica nuovi, rispetto a quelli letterari del realismo ottocentesco, ereditati dai loro maestri. Sulla scena pubblica si diffondono – accanto a innumerevoli prodotti d’immaginazione – voci, rumores e tradizioni sul passato ‘non controllate’. Invano l’‘industria della memoria’ cerca di offrirne un panorama ordinato, razionalizzato o comprensibile (cfr. G.D. Rosenfeld, A looming crash or a soft landing? Forecasting the future of the memory industry, «Journal of modern history», 2009, 2, pp. 122-58). Per sfuggire all’irrilevanza, la storia è più o meno costretta a rientrare in quello spazio come strumento politico, propaganda mediatica, o perizia giudiziaria. E cerca di sopravvivere in un ambiente ostile, senza rinnegare la sua dimensione essenziale di critica del potere.
Sul piano del lavoro storiografico concreto, indicare fenomeni e tratti distintivi qualitativamente italiani è assai difficile in quanto la ricerca storica scientifica e professionale è sempre vissuta di contatti e scambi in un ambito internazionale e questo carattere si è fortemente accentuato dal 1945 in poi. La fisionomia della ‘tradizione italiana’ deriva da specifiche combinazioni dei tratti comuni più che da un’introvabile autarchia storiografica.
Al centro di una possibile mappa dei problemi e oggetti di studio affrontati dalla storiografia italiana ci sarebbe indubbiamente l’Italia, come nazione (e nazione culturale), Paese, territorio, Stato, nei diversi tempi e luoghi. Che cosa poi sia, concretamente, il legame sociale che chiamiamo nazionale nessuno sembra saperlo: inutile chiedere definizioni precise, in questo groviglio o intreccio di fenomeni diversi. Nondimeno la preferenza degli storici professionali per la storia del proprio Paese è una delle strutture portanti della lingua comune e la si può osservare facilmente dovunque, in Europa e altrove (Atlas of European historiography, 2010). Non c’è dubbio, però, che in Italia la «questione della nazione», nei suoi aspetti multiformi, abbia assunto una configurazione del tutto specifica, e che sia stata affrontata in modi diversi dalle varie generazioni di studiosi che si sono succedute, sovrapposte, intrecciate: partendo da quelle più lontane dei Croce, Gaetano Salvemini e Volpe (che pure furono attivi dopo il 1945), a quella di coloro che nel 1922, all’avvento del fascismo, erano trentenni e avevano avuto esperienza della Prima guerra mondiale (come Adolfo Omodeo, Gramsci, Antoni, Russo), a quella di Chabod, Walter Maturi, Delio Cantimori e Carlo Morandi, formatisi dopo la Prima guerra e in pieno fascismo, a quella di Momigliano e Venturi, Giorgio Spini e Gabriele De Rosa, scampati alla Seconda guerra mondiale e passati per la Resistenza, a quella dei nati negli anni Venti, Romano, Romeo, Giuliano Procacci, Ernesto Ragionieri, Giarrizzo, Giuseppe Galasso, Renzo De Felice, formatisi nel dopoguerra e nel clima della guerra fredda, per finire con quelle più recenti che hanno conosciuto la maturità dopo il Sessantotto, dopo il delitto Moro, o durante la «transizione verso l’ignoto» iniziata negli anni Novanta, secondo l’amara formula di Girolamo Arnaldi.
Particolare attenzione va riservata al momento iniziale del nostro periodo. Roberto Vivarelli, in varie occasioni recenti, si è concentrato, in modo sofferto e acuto, sulle manifestazioni e implicazioni del problema della nazione italiana, e ha insistito sulle necessarie distinzioni tra le posizioni nei tempi difficili 1943-45, al di là delle ricostruzioni successive, convenzionali o politiche. Egli ritiene che in senso moderno la nazione sia la comunità dei cittadini: dissoltasi con il dissolversi dello Stato – che è quanto avvenne in Italia l’8 settembre 1943 – essa si ricostituì dopo il 1945. E ha invitato a guardare con attenzione a quanto accadde tra quelle due date.
Si creò allora – nel convergere di cambiamenti mondiali e di eventi nazionali – una sorta di vuoto: con un’immagine, la si potrebbe chiamare l’eclissi della nazione. Tale vuoto investì una serie di elementi culturali decisivi nella strutturazione dei legami sociali nazionali: per es., alcuni particolari giudizi storici su ciò che era accaduto, nel passato recente e meno recente; ma anche, più in generale, il modo stesso di guardare al mondo e alla storia. Fu un ‘silenzioso terremoto’, la cui drammaticità fu presto dissimulata: bisognava tornare al lavoro, ricostruire. Di tale vuoto, presto occultato e riempito di contenuti nuovi – e perciò scarsamente visibile – è bene, però, tener conto, per capire come si formò il nuovo legame nazionale, la nuova comunità di cittadini.
Molte cose cambiano, in effetti, dopo il 1945 e anche gli studiosi di storia entrano nel mondo nuovo, come si vedrà, profondamente cambiati, perfino lacerati. La perdita momentanea della scala nazionale produce, in un primo tempo, due tendenze divergenti: verso ricerche limitate ad ambiti molto ristretti, e verso progetti di storia universale. Per la prima tendenza, vale l’osservazione di Vivanti: «nessuno [nei primi anni del secondo dopoguerra] pensava di potersi dedicare a un lavoro su scala nonché nazionale, anche solo più vasta di una provincia o di una regione» (La prima serie del «Bollettino storico mantovano», «Bollettino storico mantovano», 2002, 1, p. 13). Come esempio della seconda, è importante il progetto di storia universale affidato a Chabod e Momigliano dall’editore Einaudi, subito dopo la guerra. Alla base del progetto c’è la visione elaborata da Chabod già negli anni Trenta:
l’unica storia non strettamente nazionale che possa essere pensata e scritta, almeno sino al secolo XIX, è la storia europea, in quanto il nostro stesso modo di giudicare, la nostra mentalità storica, i punti di vista da cui ci poniamo nel valutare i fatti […] sono strettamente connessi con quei valori che è vanto peculiare della civiltà europea l’aver creato (cit. in Tortarolo, in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, 2002, pp. 289-90).
In una lettera del 1949, Momigliano approfondisce la crisi della ‘scala nazionale’, risolta in chiave europea da Chabod (sulle orme del Croce della Storia d’Europa): anche i valori europei pongono qualche problema:
Storia universale. […] Grecia e Roma ci interessano perché ci hanno comunicato elementi essenziali della nostra civiltà; ma Cina e Giappone ci interessano perché, grazie alla nostra [civiltà], noi vi riconosciamo valori di umanità. […] Ora, come tu intendi organizzare questi due aspetti di una storia universale /storia della nostra civiltà? /storia della nostra umanità? (cit. in Tortarolo, in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, 2002, pp. 289-90).
Il progetto einaudiano di storia universale, dopo vari tentativi di rilancio negli anni Cinquanta, venne affidato nel 1964 a Vivanti, e naufragò definitivamente; per convertirsi però, nel 1966, nell’embrione della Storia d’Italia (riaffiorava in tal modo, in un contesto mutato, la ‘scala’ nazionale).
La fine del fascismo, la crisi della nazione italiana, il crollo dello Stato nazionale e poi la scomparsa della monarchia, la crisi morale della patria, la fine di un mondo intero avevano insomma provocato un gran naufragio. Il fatto che la vita fosse continuata, che le cose fossero tornate a posto – almeno, così era sembrato – non voleva dire che quel naufragio non ci fosse stato. Ci fu, in molti casi, una ricostruzione convenzionale degli avvenimenti, ex post. Gli storici si inserirono in uno spazio politico nuovo, talora a prezzo di sacrifici silenziosi.
Va misurato l’impatto di tale ‘silenzioso terremoto’ sul modo in cui alcuni studiosi di storia pensano lo Stato-nazione. Il primo esempio è quello di Croce. Nella polemica con Ferruccio Parri alla Consulta del settembre 1945 la ‘vecchia Italia’ a lui cara è l’Italia reale, democratica, contrapposta all’Italietta denigrata dai fascisti. Nel discorso del marzo 1947 sul progetto di Costituzione, Croce argomenta contro le autonomie locali e le regioni, per l’unità statale del popolo italiano. Infine, il discorso del 24 luglio 1947 sul trattato di pace è tutta una difesa della dignità nazionale, dell’Italia che non muore. La guerra l’abbiamo perduta tutti, sostiene Croce acrobaticamente, ma della comune Madre non fa parte il regime che l’ha dichiarata: «cosa affatto estranea alla costante sua tradizione è stata la parentesi fascistica […] imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui», provocata dalla Grande guerra. Croce si aggrappa qui a una nazione senza corpo, puramente spirituale, quasi un fantasma. Restano fuori gran parte della storia italiana dall’entrata in guerra nel 1915 in poi, e gli sviluppi più recenti, la nuova Costituzione, l’accettazione del trattato di pace, la nuova situazione internazionale che si sta creando. Restano fuori gli altri: i nazionalisti, i fascisti. Ma anche loro predicavano l’unità della nazione.
Tutti è la parola chiave dell’articolo Ricostruire di Giovanni Gentile, pubblicato nel «Corriere della sera» del 28 dicembre 1943. È un’illusione, sostiene Gentile, separare le sorti dello Stato da quelle della nazione e dei suoi singoli componenti: in gioco – quando «la Patria è disfatta» – è «la vita stessa di ogni individuo». Non c’è spazio vuoto, non c’è distanza tra l’individuo e «il tutto», che è la nazione-Stato. L’annientamento del Paese implica la rovina individuale. Forse è da questo ordine di pensieri che deriva, in ultima analisi, la scomparsa del filosofo. Certo, solo a uno dei gemelli siamesi idealisti – Croce e Gentile, che il governo fascista aveva separato – riesce di rappresentare con la propria persona l’unità della nazione: l’altro scompare, annullato anche fisicamente. Nazione e Stato coincidono, per Gentile, in un senso preciso. Dopo la caduta del fascismo, ma prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943, il filosofo riprende per la pubblicazione un gruppo di lezioni romane del 1942-43: ne deriva Genesi e struttura della società, pubblicato postumo, finito di stampare nel dicembre 1945. «La nazione – si legge nel capitolo VI, par. 2, Nazione e Stato – non è data dal suolo, né dalla vita comune e conseguente comunanza di tradizioni, di costumi, linguaggio, religione, ecc. Tutto ciò è la materia della nazione. […] Non è la nazionalità che crea lo Stato; ma lo Stato crea (suggella e fa essere) la nazionalità». Vi è qui l’idea, assai diffusa nel mondo nuovo che nasce dalla Grande guerra, che le rivoluzioni conservatrici realizzano la nazione meglio di qualsiasi altro sistema politico. Solo le rivoluzioni totalitarie ultranazionaliste – come quelle fascista e nazista – fanno crescere le nazioni.
I casi di Morandi e Chabod ci aiutano a capire a quali complesse metamorfosi vadano incontro, durante la guerra e subito dopo, queste premesse ideologico-politiche. Morandi (1904-1950) fu uno dei principali esperti-ideologi del regime fascista, stretto collaboratore del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, attivo pubblicista nel campo del revisionismo, tra le due guerre, e successivamente impegnato, come intellettuale, nel «nuovo irredentismo mediterraneo». Più si avvicinava alla guerra, più gli interessi di Morandi si spostavano dalla storia moderna a quella recente delle relazioni internazionali, con esplicito uso politico della storia. Nel tempo della mobilitazione e della propaganda di guerra, Morandi avverte che è finita un’epoca, quella del principio nazionale, e sostiene con i suoi scritti i progetti di «nuovo ordine mediterraneo» e «nuova Europa». Morandi giudica superato, dopo la Grande guerra, il contesto delle singole nazioni astrattamente uguali. È l’Europa la «grande nazione» che può agire nello scenario nel mondo nuovo. Fino alle prime sconfitte militari, Morandi pensa che l’alleato nazista vada contenuto, non rifiutato (l’obiettivo è riservare all’Italia il Mediterraneo).
Poi inizia la sequenza che condurrà alla ricomparsa della nazione: sconfitte militari, crisi e caduta del regime fascista, armistizio e scomparsa dello Stato, crisi morale nazionale, occupazione tedesca, guerra civile e di liberazione, fine della guerra, occupazione alleata, ricomposizione dei poteri in un quadro nazionale, restaurazione democratica in un ordine internazionale nuovo. Non è semplice misurare l’impatto di tali vicende sulla visione delle cose di Morandi (che trascorre in campagna a Barga, presso un collega, il periodo dal 30 settembre 1943 all’ottobre 1944). Più chiara, forse, è la sua interpretazione del nuovo quadro internazionale. Al centro c’è sempre la crisi del principio di nazionalità (il nuovo protagonismo degli Stati nazionali gli sembra anacronistico). Ma invece dell’impero mediterraneo e dell’eurofascismo, della «comunità rivoluzionaria di idee e popoli», che corona il «Risorgimento mediterraneo» (idea che si ritrova anche in Chabod, come ha osservato Massimo Baioni, 2006, p. 258), invece dell’«assorbimento dell’attività nazionale nella dimensione imperiale dell’Italia fascista» c’è ora un’adesione, a tratti perplessa, al Movimento federalista europeo, che cerca nei primi anni dopo la guerra un suo collocamento tra i due blocchi (Morandi guarda con simpatia alle forze, come «Europa socialista» di Ignazio Silone, che tentano di sottrarsi allo schieramento bipolare; cfr. Carrattieri 2006).
Inquadrati nei nuovi partiti nazionali, di massa e minori, nei movimenti e nelle associazioni transnazionali, sostenuti dagli alleati e dai loro apparati, dai comunisti o dalla Chiesa, i naufraghi come Morandi, Antoni, Cantimori o Chabod sembrano comunque capaci di un ‘riadattamento operativo’, sul piano dell’impegno pubblico: non sono certo privi di risorse. Il disagio, di cui stiamo parlando, agisce a un livello più profondo.
Così, quando Chabod scrive a Ernesto Sestan, nel febbraio del 1944, che non vuole aver più niente a che fare con Gentile, i suoi istituti e le sue attività editoriali, si può osservare che forse tale distacco era possibile solo in parte e su un piano superficiale. Negli scritti chabodiani sulla nazione restano presupposti teorici gentiliani (Zunino, in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, 2002, p. 136); impliciti, aggiungerei, e quasi occultati nelle lezioni dell’inverno 1943-44, su nazione ed Europa.
L’impostazione del suo corso universitario va osservata attentamente. Chabod parla dell’idea, del senso, del principio della nazione; parla della ‘nazionalità’. La prima parte è una specie di commento-riassunto delle tesi della Lotta contro la ragione (1942) di Antoni, libro pubblicato con la gentiliana Sansoni, non con la crociana Laterza (eppure Croce gliel’aveva chiesto): «Dire senso di nazionalità», dice Chabod, «significa dire senso di individualità storica […] la nazione è […] anima, spirito, e soltanto assai in subordine materia corporea; è ‘individualità’ spirituale, prima di essere entità politica, Stato alla Machiavelli, e più assai che non entità geografico-climatica-etnografica, secondo le formule dei cinquecentisti» (L’idea di nazione, 19743, pp. 17, 25-26). Anima, spirito, prima di corpo, Stato: tentativo di ribaltamento della tesi gentiliana che è lo Stato che crea la nazione, che lo ha voluto, come si è detto. È la dimensione statale, non la nazione, che qui si eclissa; restano le idee e i sentimenti, spariscono le cose e gli uomini in carne e ossa – che in quell’inverno, in cui Chabod parlava a Milano, già combattevano inquadrati in due Stati diversi, divisi ulteriormente secondo linee politiche meno nette. Forse l’occultamento dei presupposti gentiliani sta proprio in questo ribaltamento vistoso che Chabod propone. Ma vediamo come prosegue il suo discorso. Poco dopo parla della «Libertà: […] la gran parola che […] accompagnerà, presso che sempre, la nazione». Per gli italiani si è trattato di una libertà da creare, nuova; non antica, da restaurare, come per gli svizzeri (p. 32). Poi Chabod lascia Antoni e prosegue da solo. Con la trattazione di Jean-Jacques Rousseau si presenta il problema dello Stato, della volontà generale: «Dalla constatazione di un fatto, creato soprattuto dal passato, la nazione, si comincia a trascorrere alla ‘volontà’ di ‘creare’ un nuovo fatto, vale a dire uno Stato fondato sulla sovranità popolare, e quindi – il trapasso è inevitabile – ad uno ‘Stato nazionale’. Novità di straordinaria importanza. Per essa, all’atto conoscitivo […] si unisce un atto di volontà, prima assente» (pp. 55-56). Libertà politica, volontà: la nazione è «piena coscienza, in un popolo, di quel che vuole» (p. 75). I problemi, prosegue Chabod, si pongono quando si tratta di «trasformare la nazione culturale in nazione territoriale», trasformazione comune a Italia e Germania nel 19° secolo. Ma tra i due movimenti «c’è assoluta diversità, quando non addirittura opposizione»: quello italiano è volontaristico, la nazione «si manifesta al di fuori» di essa nel rispetto quasi religioso della «trinità composta con libertà e umanità», e nel quadro europeo; il movimento tedesco è invece naturalistico, grazie all’idea di missione e di primato si è allontanato dal «sentimento europeo-umanitario» (pp. 67-68 e 9).
Diventa chiaro, ora, che la parte del corso che riguarda la nazione – definita come libertà e volontà, come sentimento e idea, non come fatto storico: Chabod, lo storico dell’equilibrio delle potenze, dello Stato, degli imperi, qui si tiene bene alla larga dalle cose – è solo un’introduzione, assai orientata, alla parte sull’Europa, come nazione futura, quintessenza della nazione: tutta volontà, e niente Stato. Si tratta infatti di vedere, dice Chabod, come l’Europa «da mero acquisto dell’intelletto» è divenuta un «fattore sentimentale e volitivo» (p. 8). A tale scopo disegna la «storia dei ‘pensieri’ sull’Europa». Qui l’Europa è la nazione sperata, la nazione come dovrebbe essere. Il discorso di Chabod si è allontanato sempre di più dagli Stati-nazione, che in quel momento si stavano combattendo sanguinosamente tra di loro (e al loro interno). Qualcosa filtra, nelle lezioni di Chabod, di questa dura realtà delle cose. Nella seconda metà del 19° e all’inizio del 20° sec., egli sostiene, «poteva sembrare […] che gli Europei dovessero sentirsi sempre più Europei» – cioè progrediti, cristiani, come un «corpo equilibrato» – ma «in realtà non fu così» (pp. 163-64). La realtà fu un allontanamento dall’Europa, la tecnica si trasferì oltre oceano, il sistema politico divenne mondiale, il nazionalismo si volse alla conquista.
Insomma il corso sulla nazione e l’Europa non è solo un’operazione scientifica e conoscitiva. È la costruzione di una genealogia nazionale virtuosa: l’Europa è una nazione ideale, priva di contenuti naturalistici e statali. Chabod lascia da parte la dimensione dello Stato nazionale che si espande in impero a scapito degli altri, lo trasforma da fatto in pericolo e in tradizione negativa, in antivalore estraneo alla trinità Italia-Europa-Umanità. La pubblicazione del corso in due parti separate, sulla nazione e sull’Europa, a opera di Sestan e Armando Saitta, non giova alla comprensione di questa linea assai chiara: nel momento più acuto della crisi morale e statale della nazione, Chabod opera una dissolvenza della dimensione politica, del potere della nazione.
Quanto tale occultamento fosse un’operazione di politica culturale, per quanto virtuosa, si vede bene osservando l’impegno politico di Chabod dopo l’inverno 1943-44. Ora venivano messe alla prova le idee di Chabod sul senso tedesco, naturalistico, e quello franco-italiano, liberale, della nazione – in un contesto concreto, al confine valdostano con la Francia. Chabod s’impegna nella Resistenza in Val d’Aosta a partire dal 1944; nel 1946 sarà il primo presidente del Consiglio regionale (cfr. S. Soave, Federico Chabod politico, 1989). Il senso del suo impegno – al di là del progetto politico autonomistico – è la lotta per conservare all’Italia la sua regione, contro i tentativi separatisti valdostani e contro le mire francesi di annessione della Val d’Aosta alla Francia; e questo fin dall’agosto 1944, anzi fin dalla dichiarazione di Chivasso del dicembre 1943. Questo è un punto cruciale. Per lo Chabod storico delle idee, la nazione, intesa in senso liberale (italiano e francese!), è un fatto di libera scelta delle popolazioni, il plebiscito quotidiano di cui parlava Ernest Renan. Per il politico Chabod, invece, la nazione a cui la Val d’Aosta deve appartenere è l’Italia, il plebiscito decisivo – richiesto dai valdostani filofrancesi, che sentono, a torto o a ragione, di essere maggioranza o di poterla conseguire grazie ai guasti del malgoverno fascista nel ventennio e all’appoggio francese – è impedito da un divieto armato (e nel marzo 1946 il presidente Chabod rischierà per questo di essere defenestrato dai manifestanti).
Chabod pensa nella Milano repubblichina la nazione come libertà, ma attua sul confine italiano, dopo la liberazione, la nazione come forza (e come Stato) – di fronte ai francesi che fanno lo stesso (cercano l’espansione territoriale alla vecchia maniera). Il pieno recupero di una dimensione pubblica avveniva, come si vede, anche per Chabod, in un contesto ideologico intimamente contraddittorio e irrisolto. Non per questo tale recupero era meno pieno. A gennaio del 1946 Chabod accetta di scrivere una storia del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e della lotta di liberazione nel Nord, incaricato da uomini come Sandro Pertini, Luigi Longo, Parri, Leo Valiani, Cesare Merzagora. Assai interessante è la procedura, tutta politica, che avrebbe dovuto seguire nel suo lavoro: ‘dosaggio’ dei testimoni da intervistare, delle persone che avranno accesso ai documenti raccolti, verifica finale collegiale del lavoro – da consegnare entro aprile 1946, per essere ‘usato’ nelle trattative per la pace. Altro esempio parlante del suo riorientamento, anche politico, nella nuova situazione, è infine la missione a Parigi nel 1948, insieme con Morandi, per trattare la restituzione dei documenti diplomatici italiani sottratti dagli alleati.
Alcune di queste contraddizioni restano aperte, come risulta dai rapporti di questi studiosi con Volpe. Il quale scrive a Chabod, in una lettera senza data, ma dei primi mesi del 1944:
Ringrazio Iddio che il gusto del lavorare non se ne è andato, non ostante il senso come di fallimento dell’opera mia (le generazioni che sono ora fra i trenta e i settanta debbono considerarsi un po’ fallite, dopo questo crollo che non è solo militare!), non ostante la quasi assenza di quegli obiettivi civili che sono sempre al fondo del nostro lavoro e che presuppongono l’esistenza di una patria, di una società nazionale, di uno stato, tutte cose ora scomparse o appena evanescenti, vive se mai nel ricordo del passato e nella speranza dell’avvenire, più che nel concreto presente (cit. in Frangioni 2002, pp. 112-13).
Perdita degli obiettivi civili, che sono i motivi del lavoro storico: la diagnosi di Volpe definisce limpidamente lo smarrimento autentico degli studiosi-naufraghi, di cui stiamo parlando. Con intuito sicuro, Volpe tendeva a estendere l’area del fallimento che registrava in se stesso (Pescosolido 2000, p. 119). Al contrario dei suoi allievi Chabod e Morandi, egli non riuscirà a recuperare una dimensione pubblica come studioso, e il suo caso è esemplare proprio per questo. Aveva studiato nel Medioevo le origini nazionali percorrendo a ritroso quello che gli sembrava un «ordine naturale delle cose» – la lenta formazione delle nazioni europee. Poi era fuggito dal Medioevo, e aveva assegnato alla storiografia una funzione nazionale, come educazione politica della nuova Italia, più o meno a partire dalla guerra di Libia. Durante la Grande guerra e subito dopo aveva usato la storia come un’arma di combattimento nei servizi di propaganda dell’esercito, e con l’avvento del fascismo era riuscito a mantenere un margine di distanza ideologica rispetto al regime-governo totalitario, che pure servì con grande impegno. I presupposti di fondo del suo lavoro scientifico – in particolare quello sulle relazioni internazionali – erano l’identificazione della società con la nazione, la visione di confini ideali (e territoriali) della nazione destinati a estendersi, la trasformazione dello Stato-nazione in impero.
Tutti questi motivi sono travolti dagli eventi del 1943-45. Giudicato «indegno di servire lo Stato» nel luglio 1944, dispensato dal servizio e poi collocato a riposo, come un sopravvissuto Volpe riuscirà a terminare l’Italia moderna (3 voll., 1943-1952: «mi sembra», osserverà, «di portare in giro un cadavere», il suo e quello dell’Italia, probabilmente). In un certo senso, cercando senza molta convinzione e a più riprese, di reintrodurre Volpe nel circuito dell’insegnamento e degli studi, Chabod e gli altri vecchi allievi della scuola romana di storia tentavano una blanda rianimazione del cadavere del loro stesso passato – che però non viene sdoganato e resta nell’oltretomba, cui una storia assai difficile da accettare lo aveva destinato. La nazione, a cui Volpe continuava a essere fedele, risultava ormai introvabile. Scriveva Volpe a Romeo, il 17 gennaio 1960:
Saitta […] ritornava sul tema del mio ‘nazionalismo’ che negli ultimi tempi avrebbe infiziato la mia attività di storico. Vorrei che qualcuno dicesse che cosa è questo mio ‘nazionalismo’. È semplicemente prendere ad oggetto della recente storia d’Italia lo Stato, la nazione italiana; lo Stato in quanto attività complessiva della nazione, sia essa politica, sia essa economica e sociale, sia anche culturale, per quel tanto che la cultura risente della politica, ed influisce sulla politica. E quale deve essere il compito di uno storico che prenda ad oggetto un paese nel suo insieme, in una determinata epoca? È da ‘nazionalista’ aver seguito con simpatia l’ascesa dell’Italia, la sua volontà di essere qualcuno nel mondo, il consolidarsi della sua coscienza nazionale? Io non so cosa vogliano questi giovincelli. Dovevo solo occuparmi delle classi e loro lotte e problemi operai? Avrei mal servito e le classi e l’Italia e la storia (cit. in Di Rienzo 2004, pp. 317-18).
Malgrado le difficilissime condizioni in cui furono scritti, dal 1929 in poi, e la natura stilisticamente frammentaria delle note, i Quaderni del carcere gramsciani contengono una visione unitaria della storia d’Italia, – come ‘nazione-popolo’ e come ‘nazione-retorica’ – «in quanto essa spiega il presente» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., q. 3, par. 82 e q. 14, par. 63). Essa si diffuse rapidamente e in profondità a partire dal 1947-48: si avverava, quindi, la profezia formulata da Gramsci stesso, di una «inaudita espansione del materialismo storico» (q. 3, par. 34). I grandi temi storici dei Quaderni – gli intellettuali, la burocrazia, i Comuni, la Riforma, il Rinascimento, il Risorgimento, la tradizione di Roma, l’universalismo della Chiesa, l’influenza della Francia – sono discussi dal punto di vista di uno «storicismo realistico» (q. 10, par. 11). Al contrario di Croce, Gramsci insiste però sulla discontinuità delle «grandi fasi storiche», come il Medioevo e il mondo moderno: la «connessione genetica» tra Dante e Niccolò Machiavelli (il cuore del ‘canone’ italiano) è «appunto la retorica nazionale» (q. 6, par. 85). Certo, quello di Gramsci è più un metodo, uno stile di pensiero, che non una visione nitida, propriamente storica (anche se ne presenta gli elementi: cfr. Burgio 2003). Però è un pensiero storico particolarmente suggestivo ed efficace, forse proprio per la sua frammentarietà. Diffuso prima cautamente, per temi (1948-1951), poi in un’edizione critica (1975) deve la sua esistenza, nel bene e nel male, alle scelte culturali di Togliatti (il quale su alcuni punti particolari ebbe posizioni diverse da Gramsci, per es. su Giolitti) e in generale del Partito comunista e dei suoi efficaci apparati, fino a conoscere una notevole fortuna, negli ultimi decenni anche internazionale.
La visione gramsciana, storica e politica insieme, non si concretizza subito in una storia generale d’Italia (al periodo dal Settecento in poi sarà dedicata la Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro, 1956-1986). La prima storia di questa natura proviene invece dall’area laica, da un ‘gruppo di amici’ – tra i quali Arnaldi, Franco Catalano, Emilio Cristiani, Vittorio de Caprariis, Guido Quazza, Gennaro Sasso, Giuseppe Talamo, Leo Valiani, Cinzio Violante – i quali pubblicano per la UTET nel 1959 una Storia d’Italia in cinque volumi, sotto la direzione di Nino Valeri (nel 1965-1967 ne uscirà un’edizione riveduta). Nata da un lavoro collettivo, condotto in équipe attraverso «vibranti discussioni», si propone di ricostruire «la storia della moderna Italia», cioè i «precedenti prossimi e remoti del nostro attuale assetto politico e sociale», dedicando maggiore spazio agli ultimi due secoli (arriva dal Medioevo fino al 1946). È dunque il primo tentativo di questo tipo nell’Italia repubblicana (e ha resistito bene al passare del tempo). Al centro, un classico interrogativo etico-politico: «qual è il significato del pauroso sbandamento seguito alla seconda guerra mondiale? […] Ancora oggi, che i fili di quell’Italia scucita, lacerata, divisa, umiliata sono stati ricollegati, il problema della nostra formazione a stato moderno rimane» ed è la «comune temperie» dei vari contributi.
Nel contesto politico, molto mutato, della crisi del centro-sinistra, della ricerca di equilibri più avanzati e dell’attesa della fine del regime democristiano prende forma un’altra storia generale d’Italia, quella coordinata da Romano e Vivanti per l’Einaudi (Storia d’Italia, 6 voll., 1972-1976), nella quale l’ispirazione gramsciana è ripresa in modo originale e fatta reagire con i motivi della storiografia economica e sociale francese delle «Annales». Vasta impresa collettiva, alla quale partecipano anche storici stranieri, o di impostazione diversa come Venturi o Galasso, è più un cantiere storiografico innovativo, sempre aperto e inevitabilmente mutevole nei suoi presupposti, che un’operazione editoriale: ai sei volumi della Storia, seguono – con una tendenza marcata verso il periodo dall’Unità a oggi – i ventisei volumi monografici degli Annali (1978-2011) e poi, dal 1984, i diciassette volumi dedicati alle regioni (1984-2002; mancano Molise, Basilicata e Trentino-Alto Adige). All’inizio c’è, indubbiamente, il proposito polemico di superare la storia etico-politica tradizionale, condannata in un saggio di Romano (La storiografia italiana oggi, 1978) e l’opera suscita molte discussioni, mentre ottiene il successo di cui si è già detto. Poi, con il passare del tempo, questo carattere antagonistico si attenua.
Accomunati dalla formazione parigina presso Braudel, i due coordinatori avevano per altro stili e interessi diversi. Più vicino al canone storiografico italiano era Vivanti, curatore di Machiavelli (Opere, 3 voll., 1997-2005) e di Gramsci (Risorgimento italiano, 1977), oltre che studioso della storia politica francese del Cinquecento (Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, 1963). Più netta l’opzione di Romano per la storia economica – associata, negli studi sull’Italia, alla storia culturale (anche della cultura materiale) – tradotta, per quel che riguarda la visione generale della storia d’Italia, in una messa tra parentesi della questione della nazione, della «costruzione della nazione» e soprattutto del ruolo delle classi dirigenti e dello Stato. L’idea del «paese» contrapposto alla «nazione» (Paese Italia, 1994) gli serve come via alternativa, per non percorrere quella, forse per lui dolorosa, del rapporto tra classi dirigenti, formazione della nazione e Stato nazionale. È chiaro che in questo problema si rivela il rapporto non pacificato tra le due tradizioni, storicistica e annalistica. In questo senso, è giusto dire che Romano è una specie di anti-Romeo, in una posizione che obiettivamente è incompatibile con la storiografia come genealogia della nazione e storia delle classi dirigenti (R. Romeo, Cavour e il suo tempo, 1969-1984). Questo in realtà non riguarda solo la vicenda italiana. Romano era un nemico della storiografia nazionale, come creatrice, o fiancheggiatrice, del mito nazionale. E considerava, forse non a torto, la questione della nazione come un «episodio cronologicamente ristretto», confinato tra un prima in cui la nazione non c’è ancora, e un dopo – che poi sarebbe il nostro presente – nel quale, a quanto pare, non c’è più. Nella prefazione di Paese Italia, in un momento di transizione – l’incertezza riguarda l’esito della crisi italiana iniziata nel 1992 e il problema è la Lega – Romano interviene contro le pretese pseudo-storiche leghiste, giustificazioni del progetto di frantumare l’unità nazionale italiana. Silvio Berlusconi non è ancora all’orizzonte, ha appena eseguito la sua discesa in campo. Però quella di Romano è ancora una volta una risposta senza Stato, alla Lega che è una specie di anti-Stato: «la storia d’Italia è soprattutto l’intreccio delle varie storie locali». Il collante per questa operazione è il «Paese», non lo Stato o la nazione.
Abbiamo accennato alla storiografia etico-politica tradizionale e al ‘canone’ italiano: è in questo ambito che matura un’altra storia generale d’Italia di grande respiro, come implicita risposta a quella gramsciana e annalistica della Einaudi. Diretta per la UTET da Giuseppe Galasso – autore anche di un esame critico preliminare della possibilità stessa di scrivere una storia generale d’Italia (L’Italia come problema storiografico, 1978) –, l’opera (Storia d’Italia, 1980-1995), in ventiquattro volumi (dal regno longobardo al 1992) inverte la tendenza, comune alle imprese precedenti, per cui maggiore spazio è dedicato al 19° e al 20° secolo. Tratta analiticamente, con una serie di ampie monografie, la storia medievale e degli antichi Stati italiani, nella fondata convinzione che quella italiana prima dell’Unità sia «una molteplicità di storie cittadine, regionali ed interregionali, parallele ed interferenti fra loro» (L’Italia come problema storiografico, cit., p. 177): l’ultima, paradossale indicazione geometrica concede al lettore il dubbio che non si tratti pienamente di una vicenda unitaria (del resto il saggio teorico non si chiudeva su una decisa affermazione positiva, tutt’altro).
Quasi contemporaneo a quest’ultima impresa è un altro tentativo complessivo, assai articolato, di abbracciare l’intera storia italiana, da un punto di vista marxista, sociale e ‘strutturale’ (Storia della società italiana, diretta da G. Cherubini, F. Della Peruta, E. Lepore, G. Mori, G. Procacci, R. Villari, 25 voll., 1981-1999). La distribuzione della materia indica chiaramente che vi è una sorta di spazio privilegiato della contemporaneità: quattro volumi sono dedicati all’Italia antica (esclusa dalle due storie ‘tradizionali’ della UTET), tre rispettivamente alla società comunale, a quella rinascimentale e al periodo dalla Controriforma a Napoleone, dodici ai secoli 19° e 20° (fino alla fine degli anni Ottanta).
Nel complesso in queste storie generali, tutte strutturate attorno a monografie di specialisti, troviamo alcuni tra i prodotti migliori della storiografia italiana (e non è raro, infatti, che il mercato editoriale abbia riproposto singoli saggi, o intere serie, proprio in veste monografica estratta dalle grandi opere). È un fatto, infine, che nessun progetto di storia d’Italia complessiva, di questo respiro e di questo impegno, sia stato realizzato dopo i primi anni Ottanta. Dopo il 1945, si può pensare in grande la storia d’Italia (e realizzarla) solo nel periodo che va dalla crisi del centrismo alla fine della solidarietà nazionale, oppure, da un altro punto di vista, finché durano gli storicismi e l’entusiasmo per la storia economico-sociale e strutturale delle «Annales».
Una variante culturale – letteraria, filosofica, artistica – del tentativo di presentare la storia generale d’Italia sono gli studi sul ‘canone’ della nazione culturale. Per fare solo qualche esempio, le ricerche e le pubblicazioni su Dante (Enciclopedia dantesca, 1970-1978), Machiavelli (G. Sasso, Niccolò Machiavelli: storia del suo pensiero politico, 1958; C. Dionisotti, Machiavellerie, 1980) o Vico (la collana Studi vichiani, dal 1969, fondata da Pietro Piovani, diretta da Fulvio Tessitore e Giuseppe Cacciatore), oppure quelle sui nostri grandi artisti (R. Longhi, Opere complete, 1956-1991; G.C. Argan, Storia dell’arte italiana, 1968), la tradizione dell’antico (Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di S. Settis, 3 voll., 1984-1986), il patrimonio culturale, il paesaggio italiano sono legate da un filo invisibile: l’idea dell’Italia come tradizione di valori culturali (oggi verificata di preferenza, anche criticamente, su testi manufatti monumenti concreti).
Il problema della nazione italiana investe – anche se non sempre in forma immediatamente visibile – anche ricerche specifiche sui vari tempi e luoghi della storia italiana, dal Medioevo all’età contemporanea. Alcune osservazioni su questa problematica ci daranno l’occasione di segnalare esperienze di ricerca e libri significativi, senza nessuna pretesa di completezza o organicità.
Per quanto riguarda il Medioevo, occorrerebbe fare a ritroso il percorso che conduce alla conclusione che «il Medioevo non c’è mai stato» (G. Arnaldi, Cosa si intende oggi per Medioevo?, in Treccani Storia, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., 2010, p. 505). È esistita, invece, una «tribù di medievisti», divisa al suo interno anche per linee ideologiche, che ha lavorato intensamente per dissolvere l’idea di un Medioevo unitario (e anche quella di un Medioevo italiano). All’inizio c’è il rapporto contraddittorio con il pensiero di Croce. Ha scritto Ovidio Capitani che «a Croce non interessava tanto il medioevo come ‘storicità’, in quanto al di sopra di essa ciò che contava era il ‘senso’ unitario della nazione italiana» (Capitani 1995, p. 288). Si può aggiungere che non si trattava, in Croce, solo del senso della nazione italiana, ma anche di quello, connesso, dell’Europa, dell’Occidente o dell’umanità: visione unitaria, già incrinata tra le due guerre, e che entra profondamente in crisi dopo il 1945.
Così le maggiori esperienze della medievistica derivano da un’apertura e da un ripensamento dei confini disciplinari, cronologici, ideologici (apertura e ripensamento considerati dai più pessimisti come una crisi permanente e da molti altri come un’opportunità). Il lavoro sul campo, di conseguenza, non sembra direttamente riconducibile alle premesse ideali, o politiche, nel tempo variamente aggiornate. Questo vale per il Centro italiano di studi sull’alto Medioevo di Spoleto, fondato nel 1952, nel quale si produce un arretramento cronologico rispetto alla medievistica romantica, si ricercano i nessi tra Medioevo italiano ed europeo e tra alto Medioevo e tardoantico, in un quadro di discussione internazionale di alto livello sui dati concreti (per es., su organizzazione e sfruttamento del territorio, poteri ecclesiastici, storia agraria, ma anche storia politica e fonti narrative, Chiese e società, arabi ed ebrei). Importante in questo ambito anche l’informazione offerta dal repertorio Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea da Boezio a Erasmo (dal 1980).
Si pensi anche alla fondazione in Italia, e al successivo sviluppo, dell’archeologia medievale, nelle sue due varianti originali: l’indagine iconografica sugli affreschi di Castelseprio, iniziata da Gian Piero Bognetti (S. Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, 1948) e l’analisi archeologica stratigrafica dei resti della cultura materiale, promossa da Nino Lamboglia e Tiziano Mannoni in Liguria e poi variamente ridefinita attraverso il dialogo con la geografia storica, lo scavo archivistico e la storia degli insediamenti (Delogu, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989). Oppure si consideri la paleografia di Armando Petrucci, come disciplina storica ‘marxiana’, che studia le pratiche di scrittura e i processi di produzione delle testimonianze manoscritte, da quelle antiche, fino alla soglia dell’attuale quasi scomparsa (Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, 2008; cfr. anche Petrucci, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989). Entrambe le esperienze, animate da studiosi di diversa estrazione ideologica, sono ormai irriducibili a qualsiasi visione unitaria e nazionale della storia medievale. Quindi molteplicità di oggetti e metodi: nella stessa direzione vanno le ricerche sulla religiosità cristiana collegate con l’insegnamento romano di Raffaello Morghen (Medioevo cristiano, 1951), lo studio dei movimenti ereticali di Raoul Manselli (Studi sulle eresie del secolo XII, 1953), l’approccio biografico di Arsenio Frugoni (Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, 1954), l’esame dello svolgimento della riforma della Chiesa di Ovidio Capitani (Immunità vescovile ed ecclesiologia in età pregregoriana e gregoriana: l’avvio alla restaurazione, 1966), quello della «penetrazione degli istituti ecclesiastici nelle campagne» altomedievali, legato alle ricerche di Cinzio Violante (La società milanese nell’età precomunale, 1953), le ricerche di Vito Fumagalli sui ceti rurali e la nobiltà altomedievale (Terra e società nell’Italia padana: i secoli IX e X, 1976), il lavoro sulle «situazioni di governo degli uomini», la storia del potere, i suoi modelli e la sua base economica della scuola torinese di Giovanni Tabacco (I liberi del re nell’Italia carolingia e post-carolingia, 1966; Dai re ai signori. Forme di trasmissione del potere nel medioevo, 2000; Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, 2000), infine gli studi sul Meridione medievale (M. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della corona aragonese nel secolo XV, 1967; N. Cilento, Italia meridionale longobarda, 1966). Vale lo stesso discorso anche in vari altri ambiti: per la storia comunale (E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa: dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, 1962; G. Milani, I comuni italiani: secoli XII-XIV, 2005), per l’opera incompiuta di Elio Conti sulla società fiorentina del Quattrocento (Le campagne nell’età precomunale, 1965), per i lavori di Arnaldi sulla storiografia (Studi sui cronisti della Marca Trevigiana nell’età di Ezzelino da Romano, 1963; Conoscenza storica e mestiere di storico, 2010), per la «storia e geografia» delle fonti scritte di Paolo Cammarosano (Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, 1991). È vero, insomma, che i nostri medievisti hanno continuato a occuparsi prevalentemente di cose italiane, ma non dal punto di vista della genealogia della nazione.
Anche per gli studi sull’età moderna occorrerebbe seguire le tracce che conducono alla conclusione che la concezione tradizionale della storia moderna «non ha più alcun senso scientifico» (Prodi 2012). Anche in quest’ambito oggetti storici e problemi si moltiplicano, mentre l’unità dei processi storici, propria delle visioni storicistiche, progressivamente si scompone in parti e si disarticola (processo che si può leggere anche come una liberazione, senza che la sostanza cambi). Per Chabod, che nel 1950 reagisce al crollo del suo Paese, è chiaro che il sentimento nazionale italiano nel Rinascimento è, come quello europeo dopo la Seconda guerra mondiale, un dato culturale, non revocabile, per così dire, da parte di alcuna egemonia politica (si tratti di Napoleone o di Adolf Hitler); allo stesso modo è chiaro che ciò che distingue la crisi degli Stati italiani nel Quattrocento dalla loro unificazione nell’Ottocento è la «potente passione nazionale», la «fede nella libertà e nella santità della nazione-patria», vissuta da un nuovo ceto dirigente liberale, combinata con la «pura forza» del Piemonte e con l’aiuto straniero: c’è un rapporto, anche se negativo, tra Rinascimento e Risorgimento, e il filo conduttore delle ricerche storiche – sulla cultura e la politica italiane nell’età moderna, in apparenza tra loro slegate, sconnesse e indifferenti – è la questione delle origini dello spirito moderno, cercate nel Rinascimento (o in una sua ideale prosecuzione: gli eretici italiani di Cantimori), anziché nella Riforma, come in Hegel. La Riforma in Italia, dice Chabod citando Vincenzo Cuoco, è stata una «rivoluzione passiva» – ha già letto Gramsci? – e la Controriforma chiude l’età del Rinascimento (Chabod, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946, 1950). Quindi continuità, nessi, legami tra i momenti di una genealogia nazionale-culturale. Ne derivano discussioni sulla periodizzazione dell’età moderna (D. Cantimori, La periodizzazione dell’età del Rinascimento, 1955, e Il problema rinascimentale proposto da Armando Sapori, 1957; A. Sapori, Medioevo e Rinascimento: proposta di una nuova periodizzazione, 1964).
Alla metà degli anni Sessanta il punto di vista di Marino Berengo è diverso: importa «disancorare il discorso sul Cinquecento italiano da quello sulle origini dell’età moderna» e vedere in concreto «fatti e problemi» (Berengo, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 1° vol., 1970, p. 484). Si registra, insomma, in questo momento – e prima che il Sessantotto venga a concludere la trasformazione – l’esaurimento del clima ‘idealstoricistico’, nel quale erano maturati sia il riorientamento della storiografia etico-politica, sia l’espansione di quella marxista (con Cantimori al crocevia dei due processi). Impossibile descrivere il paesaggio multiforme che ne deriva. Il denominatore comune delle ricerche sull’età moderna sembrerebbe una netta opzione per le vicende sociali (G. Procacci, Classi sociali e monarchia assoluta nella Francia della prima meta del secolo XVI, 1955; M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, 1965, e L’ Europa delle città: il volto della società urbana europea tra Medioevo ed età moderna, 1999; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli: le origini, 1585-1647, 1967) ed economiche (G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, 1967; R. Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, 1971), mentre emergono studi sulle credenze popolari (C. Ginzburg, I Benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, 1966) e si rinnovano profondamente quelli letterari (C. Dionisotti, Chierici e laici nella letteratura italiana del primo Cinquecento, 1960).
La discussione del 1959 sul percorso intellettuale di Carlo Antoni, tra Chabod e Momigliano, fotografa un momento di svolta all’interno della storiografia etico-politica (quasi contemporanea alla successione di Venturi a Chabod, nella direzione della «Rivista storica italiana»: cfr. Viarengo 2004). Rivelatrice è la posizione assunta dai due nei confronti dell’Illuminismo. Emergono due distinte genealogie – romantica e anti-romantica – della civiltà europea. Per Chabod, c’è una continuità tra i motivi culturali dell’Illuminismo, della restaurazione, fino al 1830 e allo sviluppo dello storicismo, nell’Europa delle nazioni, Germania inclusa: posizione faticosamente raggiunta attraverso la revisione di posizioni precedenti, soprattutto tedesche, e proprio attraverso la critica della «nazione germanica» (anche con il concorso di Croce, dello stesso Antoni e di Omodeo). Per Momigliano, e Venturi, l’Illuminismo non è all’origine del nazionalismo romantico, né dello storicismo e la Germania si ritrova al margine della civiltà europea, sul valore della quale si addensano dubbi non trascurabili e che si considera tagliata in due, interrotta dall’Olocausto. Di qui il recupero dell’Illuminismo e la predilezione per le storie sociali francesi, anziché culturali tedesche (Imbruglia 2003). Restano al margine di questo dibattito i marxisti, il cui atteggiamento di fronte all’Illuminismo è diviso e incerto: si tratta pur sempre di una cultura borghese (G. Giarrizzo, Cultura illuministica e mondo settecentesco, «Itinerari», 1956, 22-24, pp. 514-33).
Per quel che riguarda la storia d’Italia, si ribaltava la prospettiva della ‘autoctonia’ del Risorgimento: prima dell’Italia nazionale dell’Ottocento, c’era stata quella cosmopolita del Settecento. Si indaga a fondo il nesso tra le due, studiando i problemi delle riforme (F. Venturi, La circolazione delle idee, 1953) e del «giacobinismo italiano». Poi tutto questo finisce, con il «chiudersi degli spazi riformistici» dovuto al fallimento del centro-sinistra: del folto drappello di storici settecentisti, solo Venturi continuerà a tenere aperto il suo cantiere (Utopia e riforma dell’illuminismo, 1970, e il già citato Settecento riformatore). Accanto a questo lavoro sull’Illuminismo, se ne avvia a metà degli anni Sessanta un altro sulla «moderna filosofia» di un Antonio Magliabechi e di un Ludovico Antonio Muratori: lavoro collettivo di storici della filosofia, della scienza, del diritto, della letteratura, del pensiero politico e senza aggettivi, che fonderà una tradizione vivacissima di storia della scienza (cfr. V. Ferrone, Newton in Italia, 1982). Dopo l’esaurimento della prospettiva storicistica, di colpo diventano inattuali e datati anche libri di rara solidità, come le Cronache di Garin: si pensi a quanto è diversa – per es. nella valutazione di Vico – la storia ‘esterna’ della scienza di Paolo Rossi, che pure proveniva dalla scuola di Garin.
Nel campo della storia antica, lo stesso cambiamento di rotta all’interno della storiografia etico-politica si esprime nella volontà di ‘decolonizzare’ gli studi dai temi e problemi della Altertumswissenschaft tedesca (Momigliano, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 1970). In una rassegna scritta da Momigliano nel 1945, per gli studi in onore di Croce, il tema è impostato: dall’adozione dei problemi tedeschi derivano «disarmonie», visibili per es. in Gaetano De Sanctis storico politico della nazione antica (in prospettiva anti-imperialista), mentre la posizione di Croce potrebbe essere una via per «risolvere il dissidio» tra «la nostra tradizione umanistica» – le «nostre idee di libertà, pace, scienza, chiesa, giustizia economica, universalità politica» – e i problemi importati dalla Germania insieme con i sani metodi di ricerca (un’alternativa a Croce è qui già intravista nell’opera di Giorgio Pasquali, storico e non solo filologo; cfr. Momigliano, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946, 1950). Su questa linea, la «prospettiva 1967» è molto più esplicita: la «crisi del pensiero e della vita tedesca che si chiama Nazismo» ha reso inevitabile, nel ventennio dopo il 1945, la «decolonizzazione dall’assoluto predominio della scienza tedesca dell’antichità classica». Quel che si è imparato dai colonizzatori resta valido (il metodo). Va invece abbandonato il repertorio di temi e problemi, riassunto da Momigliano in nove punti (tra i quali la separazione tra mondo greco e orientale, l’identificazione di storia greca ed ellenismo che taglia fuori il cristianesimo, la polarizzazione Sparta-Atene, la continuità ideale tra greci e tedeschi; cfr. Momigliano, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 1970). Nello stesso momento, Santo Mazzarino esplicitava la sua prospettiva anti-classicistica:
considerando l’interesse destato dall’epoca delle origini romane e da quella (all’altro estremo della storia romana) del basso impero, si può dire, forse, che il nostro tempo ha una notevole sensibilità per le epoche cruciali, quelle in cui una cultura si crea, e quelle in cui una cultura sembra sfaldarsi (o rinnovarsi radicalmente) (in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 1° vol., 1970, p. 32).
Nelle due posizioni contemporanee, si trovava il programma di un’intera biblioteca di altissimo livello, scritta da loro stessi o da altri autori (S. Calderone, Costantino e il cattolicesimo, 1962; L. Cracco Ruggini, Economia e società nell’“Italia annonaria”: rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d.C., 1961; M. Sordi, Impero romano e cristianesimo, 2006).
Alla dissoluzione dei grandi quadri unitari – Medioevo, moderno, classicità – non si arriva solo attraverso l’accantonamento dei modelli storicistici (sia etico-politici, sia marxisti-materialisti), ma anche, attraverso la loro revisione e ibridazione, con la ricerca internazionale. I due fenomeni, non di rado concomitanti o intrecciati, producono un’infinità di ricerche su oggetti e problemi diversi (fino all’attuale confluenza della ricerca italiana nella lingua comune occidentale-globale). Un elenco articolato e organico sarebbe fuori luogo. Però si può fare qualche esempio, cominciando con gli ambiti meno inquadrabili in una ‘genealogia occidentale’. Lo studio dell’Oriente antico si svolge dapprima ricercandone i legami con la storia greca e con il mondo mediterraneo (Pugliese Carratelli, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 1970) e poi, dagli anni Settanta, secondo una pluralità di linee (semitistica, studi egeo-anatolici, studi antico-testamentari; cfr. Liverani, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989). Lo studio del mondo bizantino, confinato per tradizione al margine della storia europea o al più compiuto in relazione alla sua dissoluzione politica, nel 1453, o con le vicende delle regioni italiane dominate da quell’impero (Pertusi, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 1970) è stato ripensato come vicenda di scambi e di irradiazioni, a contatto con la storia del diritto o del mondo tardoantico e «nei rapporti fra oriente greco, poi turco e occidente latino», per es., visti da Venezia (Carile, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989). Una volta decolonizzata dai temi tedeschi (cfr. i saggi di Musti, Mazza e Lepore, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989) – si pensi solo alle traduzioni, dal 1956 al 1985, delle opere di Moses Finley e di Jean-Pierre Vernant – la storia antica ritorna, anche grazie all’impatto del Sessantotto, all’interno del dibattito storico-culturale (riviste di storia generale e grande editoria) dal quale l’egemonia classicistica l’aveva esclusa (Giardina 2012). Con gli anni Settanta le ricerche degli antichisti dell’Istituto Gramsci mettono il rapporto tra marxismo e storia antica al centro del dibattito disciplinare (Società romana e produzione schiavistica, 3 voll., 1981), mentre le ‘ideologie del classicismo’ finiscono sotto accusa («Quaderni di storia», diretti da L. Canfora, dal 1975) e la tendenza anticlassica di Mazzarino si traduce in una «esplosione del tardoantico», verso il quale sono comunque attratti anche gli allievi di Momigliano. Del tutto rinnovata, su basi solide, è anche la ricerca sulla storia romana in età repubblicana (E. Gabba, Esercito e società nella tarda repubblica romana, 1973) e quella greca, in particolare sulla democrazia ateniese (D. Musti, Demokratía: origini di un’idea, 1995, e Storia greca, 1990).
La storia del diritto, distaccatasi con Francesco Calasso dal «mondo della dogmatica giuridica» per inserire il «fatto tecnico», per quanto astratto, nel mondo della storia (Medioevo del diritto, 1954) si sposta, all’inizio degli anni Settanta, su un ‘terreno di incontro’ con i giuristi e con gli storici tout court (cresce intanto l’attrazione per i temi moderni): ma nel frattempo vi era stata, anche qui, una revisione della tradizione, non solo tedesca, che aveva avuto tra i suoi risultati anche l’eliminazione di ogni riferimento al problema, di ascendenza romantica, della nazione (Cortese 1982; Conte 2006). Nel campo della storia religiosa, con la fine del clima idealistico e gli anni Sessanta, il Concilio Vaticano II esercita una forte pressione per lo sviluppo degli studi («Cristianesimo nella storia», diretta da Giuseppe Alberigo, dal 1970), acceleratosi più recentemente in un vero e proprio boom disciplinare (si contano oggi oltre trenta riviste specialistiche in quest’ambito; cfr. Pincherle, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 1970; Jossa, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989; L’«officina bolognese» 1953-2003, 2004).
Anche la modernistica italiana, con gli anni Settanta, abbandona le divisioni ideologiche: almeno così tende a rappresentarsi ora (Visceglia 2012). Forse sarebbe più rispondente alla realtà una datazione agli anni Novanta del ‘distanziamento’ dalla politica e della convergenza tematica tra le principali riviste italiane – prevalentemente animate da modernisti: «Rivista storica italiana», «Studi storici», «Quaderni storici», «Società e storia». L’entusiasmo italiano per le «Annales» è stato anche un’opzione politica, specialmente negli anni Settanta (cfr. i saggi di Bertelli, Giarrizzo, Ricuperati e Villani, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989; Salvati 2008).
Per gli studi di storia contemporanea non si può realmente parlare di distanziamento dalla politica (la parziale sovrapposizione dello spazio storico con quello politico-mediatico sembra al contrario un tratto distintivo specifico). In un modo o nell’altro, i problemi della nazione e dello Stato restano al centro dell’attenzione – discussi prevalentemente non sul tempo lungo, ma su alcuni temi recenti ben precisi (il giudizio sul Risorgimento, sull’età liberale, poi su Giolitti, poi sul fascismo, infine sull’antifascismo, la Resistenza e la prima Repubblica; cfr. Zunino 2003; Vivarelli 1999). Come disciplina accademica la storia contemporanea si sviluppa dagli anni Settanta, come abbiamo visto, con una produzione di opere ricca e intensa (Zazzara 2011). Costante è una sorta di incomunicabilità con la modernistica (soprattutto con quella ‘sociale’; cfr. Rapone 2012). Oggetti e problemi italiani dominano il panorama delle ricerche – in misura minore nell’ultimo decennio – per molti motivi (tra cui anche la guerra fredda e «l’estraneità alla riflessione che ha accompagnato il passaggio dal colonialismo alla decolonizzazione», Il mondo visto dall’Italia, 2004, p. 18). Resta di grande interesse valutare gli apporti, pur minoritari, dei contemporaneisti alla ricerca sul mondo tedesco (Corni, in Il mondo visto dall’Italia, 2004), per es., o russo (i saggi di Venturi e Salomoni, in Il mondo visto dall’Italia, 2004). Grazie a un’indagine svolta sui dati della International bibliography of historical sciences, è possibile vedere a quali temi e periodi si sia rivolta, di preferenza, la contemporaneistica italiana, negli ultimi tre decenni. Quale che sia la periodizzazione adottata per definire l’età contemporanea, è evidente che rispetto all’Ottocento (Scirocco, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, 1989) le ricerche si concentrano sempre di più sul Novecento; all’interno del Novecento, prevalgono nettamente gli studi sul fascismo e la Seconda guerra mondiale; tra i movimenti e i partiti, sono più studiati quelli socialista e comunista, mentre dall’inizio degli anni Novanta sta crescendo il tema dei rapporti tra cattolici e politica; infine, molto evidente l’esplosione negli anni Novanta degli studi sull’Italia repubblicana e la nazione italiana (e sul Mezzogiorno, specie Campania e Sicilia), seguita da un calo nel decennio successivo. Quindi fascismo, comunisti e socialisti, cattolici e politica, senso della storia repubblicana: attorno a questi grandi nuclei tematici si organizza la discussione del problema della nazione e dello Stato italiani, a partire dal quale abbiamo provato a presentare la ‘tradizione italiana’ della storiografia.
Non esistono opere monografiche complessive di largo respiro sulla storiografia italiana dal 1945 a oggi. Per un primo orientamento critico, si vedano:
R. Pertici, Storici italiani del Novecento, «Storiografia», 1999, 3, pp. 7-53, in partic. pp. 23-50.
G. Galasso, Lo stato della ricerca storica in Italia e La storiografia italiana dopo Chabod, in Id., Storici italiani del Novecento, Bologna 2008, pp. 17-34 e 115-34.
S. Woolf, Italian historical writing, in The Oxford history of historical writing, 5° vol., Historical writing since 1945, ed. A. Schneider, D. Woolf, Oxford 2011, pp. 333-52.
Restano utili le rassegne:
Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni, R. Mattioli, 2 voll., Napoli 1950 (in partic. A. Momigliano, Gli studi italiani di storia greca e romana dal 1895 al 1939, 1° vol., pp. 83-106; F. Chabod, Gli studi di storia del Rinascimento, 1° vol., pp. 125-207; E. Sestan, L’erudizione storica in Italia, 2° vol., pp. 423-53) .
La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, a cura di F. Valsecchi, G. Martini, 2 voll., Milano 1970 (in partic. A. Momigliano, Storia greca, 1° vol., pp. 3-17; S. Mazzarino, Storia romana, 1° vol., pp. 19-34; G. Pugliese Carratelli, Oriente classico, 1° vol., pp. 35-43; M. Berengo, Il Cinquecento, 1° vol., pp. 483-518; A. Pertusi, Storia bizantina e storiografia italiana, 2° vol., pp. 929-85; A. Pincherle, Storia religiosa: Evo antico, 2° vol., pp. 1161-72).
La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, a cura di L. De Rosa, 3 voll., Roma-Bari 1989 (in partic. M. Liverani, L’Oriente antico, 1° vol., pp. 3-34; D. Musti, La storia greca, 1° vol., pp. 35-66; M. Mazza, La storia romana, 1° vol., pp. 67-125; G. Jossa, La storia della Chiesa antica, 1° vol., pp. 127-65; E. Lepore, La storia economica del mondo antico, 1° vol., pp. 167-84; A. Carile, La storia bizantina, 1° vol., pp. 261-76; P. Delogu, Archeologia medievale, 1° vol., pp. 311-32; A. Petrucci, Paleografia, diplomatica, codicologia, 1° vol., pp. 363-82; S. Bertelli, Il Cinquecento, 2° vol., pp. 3-62; G. Giarrizzo, Il Seicento, 2° vol., pp. 63-84; G. Ricuperati, Il Settecento, 2° vol., pp. 97-161; P. Villani, L’età rivoluzionaria e napoleonica, 2° vol., pp. 163-207; A. Scirocco, Il periodo 1815-1870, 3° vol., pp. 3-33).
Si vedano anche:
La storiografia sull’Italia contemporanea. Atti del Convegno in onore di Giorgio Candeloro, a cura di C. Cassina, Pisa 1991.
E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze 2004.
Y. Gouesbier, La maison de sable. Histoire et politique en Italie, de Benedetto Croce à Renzo De Felice, Rome 2007.
Studi specifici richiamati nel testo:
G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino 1972.
A. Caracciolo, Il mercato dei libri di storia, 1968-1978. Elementi per una analisi, «Quaderni storici», 1979, 41, 2, pp. 765-77.
A. Momigliano, Storiografia, in Enciclopedia italiana. Quarta appendice, 1961-1978, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem.
E. Cortese, Esperienza scientifica. Storia del diritto italiano, in Cinquant’anni di esperienza giuridica in Italia, Milano 1982, pp. 785-858.
A. Bartoli Langeli, Le riviste storiche locali, 1947-1978 (dalla «Bibliografia storica nazionale»), «Quaderni storici», 1983, 54, 3, pp. 1069-82.
N. Zapponi, I miti e le ideologie, in Storia dell’Italia contemporanea, diretta da R. De Felice, 7° vol., Cultura e società, 1870-1975, Napoli 1983, pp. 213-44.
M. Moretti, Qualche notizia su cattedre e discipline storiche nelle Università italiane (1951-1983), «Quaderni storici», 1985, 60, 3, pp. 891-906.
M. Scardozzi, Gli insegnamenti di storia nell’università italiana (1951-1983): tra immobilismo e frammentazione, «Quaderni storici», 1985, 59, 2, pp. 619-34.
G. De Rosa, La “Bibliografia gramsciana” di John M. Cammett: un intervento, «Istituto Gramsci informazioni», 1992, 1, pp. 39-44.
E. Santarelli, Gramsci ritrovato, 1937-1947, Catanzaro 1992.
O. Capitani, Storiografia. Medioevo, in Enciclopedia Italiana. Quinta appendice, 1979-1992, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1995, ad vocem.
G. Giarrizzo, Storiografia. Età moderna e contemporanea, in Enciclopedia Italiana. Quinta appendice, 1979-1992, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1995, ad vocem.
R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino 1997.
R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Torino 1998.
Il potere dei ricordi. Studi sulla tradizione come problema di storia, a cura di M. Mastrogregori, «Storiografia», 1998, 2.
C. Garboli, La realtà come valore, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, Napoli 1999, pp. 695-702.
R. Vivarelli, A neglected question. Historians and the Italian national state (1945-1995), in Writing national histories. Western Europe since 1800, ed. S. Berger, M. Donovan, K. Passmore, London-New York 1999, pp. 230-35.
G. De Rosa, Papa Roncalli e Giuseppe De Luca fra erudizione e pietà, «Archivio italiano per la storia della pietà», 2000, 13, pp. 21-46.
G. Pescosolido, Volpe e Romeo: il maestro e l’allievo, «Nuova storia contemporanea», 2000, 4, pp. 97-120.
G. De Rosa, L’avventura politica dello «Spettatore italiano», «Studium», 2001, 4, pp. 575-90.
A. Frangioni, Volpe e Chabod, una lunga storia (con il carteggio Volpe-Chabod), «Nuova storia contemporanea», 2002, 6, pp. 91-130.
Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, a cura di M. Herling, P. Zunino, Firenze 2002 (in partic. P. Zunino, Tra stato autoritario e coscienza nazionale. Chabod e il contesto della sua opera, pp. 107-40; E. Tortarolo, Chabod e Venturi. Dal Partito d’azione alla «Rivista storica italiana», pp. 283-97).
A. Burgio, Gramsci storico. Una lettura dei «Quaderni del carcere», Roma-Bari 2003.
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G. Imbruglia, Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana, Napoli 2003.
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E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze 2004.
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Il difficile rientro: il ritorno dei docenti ebrei nell’università del dopoguerra, a cura di D. Gagliani, Bologna 2004.
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M.A. Visceglia, La recente storiografia italiana attraverso le riviste. L’età moderna, «Studi storici», 2012, 2, pp. 279-316.
«Ricerche storiche», 2012, 2, nr. monografico: Centocinquanta: una storia d’Italia à la carte, a cura di F. Catastini, F. Mineccia, C. Spagnolo.