L'Italia romana delle Regiones. Introduzione
I gravi disagi che la trasformazione della società romano-italica provocò, nel momento del passaggio decisivo tra la repubblica e l’Impero, non vennero assorbiti senza conseguenze nella struttura socio-politica. I motivi erano molteplici, ciascuno insieme causa ed effetto di una crisi: innanzitutto il contrasto politico che si era acceso a Roma, almeno a partire dal II sec. a.C. e che ebbe culmine nelle guerre civili, ma anche l’inadeguatezza delle strutture politiche di fronte alle accresciute esigenze provocate dall’allargamento territoriale dello stato. Sintetizzando, si potrebbe affermare che all’ampliamento e alla dispersione geografica del corpo civico fossero seguiti il declino dello spirito cittadino e la decadenza dei modi tradizionali della partecipazione politica. La politica prima di Silla e poi di Pompeo e di Cesare contribuì a rendere ancora più evidente la necessità di ridiscutere i rapporti tra il centro del potere, e più in generale l’Italia, e le province, a partire naturalmente dalla loro amministrazione, favorendo la ristrutturazione di quest’ultima e la riorganizzazione del potere decisionale centrale.
A incaricarsi di questi compiti fu Ottaviano, uscito vittorioso dalle guerre civili. Dopo la vittoria in Sicilia contro Sesto Pompeo, risultavano fondamentali da un lato la pacificazione e dall’altro la sicurezza dell’Italia (App., Bell. civ., V, 540, 546; Vell., II, 89, 1-3). Proprio contando sull’esasperazione della maggior parte delle masse italiche, provocata dalle proscrizioni triumvirali, dalle confische e dai gravi disagi causati dal blocco di Sesto Pompeo all’Italia, Ottaviano poté presentarsi come restauratore dell’ordine sociale e politico all’epoca dello scontro decisivo con Antonio nel 32 a.C., al momento della coniuratio Italiae, raggiungendo il consensus universorum ricordato dalle Res Gestae con la restituzione al senato e al popolo della res publica, preceduto nel 28 a.C. dall’annullamento delle illegalità triumvirali (Tac., Ann., III, 28, 2; Cass. Dio, LIII, 2, 5).
Uno dei canali attraverso i quali è possibile valutare come la propaganda augustea si sviluppò è senz’altro quello della diffusione in ambito italico dei diversi ritratti del princeps, cronologicamente differenziati, e di alcuni riferibili al suo entourage e alla famiglia. Tra le diverse aree che hanno restituito più esemplari di ritratti (ad es., i due ritratti giovanili, di marmo greco, di Ottaviano, precedenti quello ufficiale tipo Azio, da Aquileia e Verona), oltre ad alcuni di personaggi della sua famiglia (quelli femminili da Padova e Bologna, forse Livia e Ottavia) e a uno dei rari ritratti di Agrippa (di bronzo, da Susa), tutti precedenti l’ultimo decennio del I sec. a.C., figura la Cisalpina. Particolarmente significativa della politica augustea appare la presenza proprio in quest’area dei più antichi ritratti del princeps, letta nell’ottica della diffidenza di queste popolazioni nei confronti dell’accelerato processo di romanizzazione.
Agli ultimi decenni del I sec. a.C. o ai primi anni del secolo seguente, quando ormai la propaganda politica aveva in qualche modo già codificato le forme della celebrazione imperiale, si riferiscono quei ritratti che ripropongono il tipo di Prima Porta (ad es., l’Augusto velato da Como). Non differentemente, ritratti di Augusto o di esponenti della famiglia imperiale sono variamente noti in diverse parti della penisola, anche se, al momento, una loro minore concentrazione si rileva nel settore meridionale, con significative attestazioni nel Piceno (Iesi, Urbisaglia, Ancona, Falerio, Fermo, Suasa), oltre che, naturalmente, nel Lazio e in Campania.
Il raggiungimento della pace comportò l’instaurazione di un nuovo ordine. Prescindendo dagli aspetti più specificamente costituzionali del complesso svolgimento che condusse alla definizione dei poteri del principe, è indubbio che caposaldo del programma di restaurazione e riorganizzazione statale avrebbe dovuto essere il riassetto territoriale e amministrativo. In questo contesto trovano giustificazione le complesse operazioni di organizzazione politico-amministrativa, come, ad esempio, la ristrutturazione e la nuova dislocazione delle forze armate, la trasformazione urbanistica di Roma, la realizzazione di grandi infrastrutture come le reti viarie e gli impianti portuali e, connesso a queste, il tentativo di creazione di un sistema fiscale che ne rendesse possibile la realizzazione e la manutenzione e infine la nuova organizzazione delle province. Relativamente alla rifondazione dello Stato, come lo stesso imperatore dichiarava nelle Res Gestae (VIII, 5), la sua opera consisteva nell’aver ripreso con leggi innovative, proposte da lui, molti provvedimenti già adottati dagli antenati, ormai non più seguiti, e di aver lasciato egli stesso ai posteri da imitare l’esempio di molti altri provvedimenti.
Alla ripartizione territoriale di Roma in 14 regioni, a loro volta suddivise in un certo numero di vici, con la conseguente obliterazione della differenziazione tra tribù urbane e tribù rustiche, può corrispondere la suddivisione del territorio d’Italia in 11 regioni, presumibilmente descritta in un’opera geografica alla quale attinse anche Plinio per la composizione dei capitoli del III libro della Naturalis historia riguardanti l’Italia. Accanto alla suddivisione in regioni vennero creati distretti diversi come ambiti territoriali di competenza di una serie di funzionari: è il caso, ad esempio, dei senatori designati dal princeps (Suet., Aug., 37, 1; Dio Cass., LIV, 4, 8, 4) ma nominati mediante senatoconsulto (Front., Aq., 100; ILS, 104-105) e successivamente dei pretori, più di rado anche dei cavalieri, ai quali venne affidata la cura viarum, dopo che Augusto aveva provveduto alla ricostruzione delle strade distrutte nel corso delle guerre civili.
I criteri utilizzati da Augusto per la ripartizione del territorio in regiones sembra plausibile fossero di ordine etnico e politico, ricercando la valorizzazione di tradizioni storiche e culturali (cfr. tuttavia i casi della I e della IX regio). Parallela alla ripartizione in regioni è la valorizzazione dell’etnografia italica o romano-italica, che è possibile cogliere nella letteratura di quell’età, nel più antico tema delle laudes Italiae (ad es., Hor., I, 7; Prop., III, 22; Verg., Georg., II, 136-76), in qualche modo calibrato sulle esigenze dell’epoca. Tuttavia maggiori incertezze sembrano esistere sulla sua finalità: in ogni caso non sembrano sussistere dubbi sulla necessità per Augusto di creare circoscrizioni, quindi catastazioni, utili per la realizzazione del census, operazione sussidiaria al suo progetto di modifica del sistema di tassazione.
Riferimenti espliciti all’esistenza del termine regiones, utilizzato da Livio (XLV, 18, 5) per la suddivisione in quattro parti del regno di Macedonia, a seguito della vittoria romana (167 a.C.), sono rintracciabili nell’allusione di Svetonio a proposito delle ispezioni fatte dall’imperatore nelle regioni (Suet., Aug., 46, 2), nel discorso di Mecenate riportato da Dione (LII, 22, 6), nella menzione fortuita di Flegonte di Tralles (FGrHist, 257; Plin., Nat. hist., VII, 162-164), in quella dei libri regionum ricordati dai gromatici, in alcuni documenti epigrafici (ad es., AE 1968, 145) e, soprattutto, nel testo di Plinio. Per la comprensione e la conoscenza delle diverse regiones, in ogni caso, non può prescindersi dalle testimonianze dei geografi (sia Strabone che Tolemeo) i quali preferiscono utilizzare dei termini propriamente geografici (ad es., το πεδίον per la Cisalpina, in Strab., V, 1, 4); in ogni caso le loro descrizioni sono interamente organizzate in funzione dei popoli e le regioni distinte dal loro etnico (ad es., Strab., V, 2, 1) o da un nome derivato da quello dei suoi abitanti (Strab., V, 1, 4). Per Plinio estremamente significativa appare la premessa nella quale vengono esposte fonti e modalità utilizzate per la descrizione: dopo aver dichiarato la sua dipendenza dall’opera di Augusto, rivela come se ne differenzierà nella trattazione, non seguendo la sua numerazione bensì, in maniera analoga a Strabone e Tolemeo, l’ordine in cui le singole regioni si presentano a chi segue la costa, dal Mar Ligure fino all’Istria (qui litorum tractu fiet). Relativamente alle città, fatta eccezione per quelle litoranee, non essendo possibile mantenere inalterati i rapporti di vicinanza realmente esistenti, si sarebbe attenuto, almeno per le città poste all’interno (interiore parte), all’elencazione per ordine alfabetico (digestionem in litteras) fatta dallo stesso Augusto, segnalando le varie colonie (coloniarum mentione signata).
Le regioni in Plinio, inoltre, si caratterizzano oltre che dal numero e dal nome a esse assegnato dalla riforma augustea (Nat. hist., III, 49: IX. Liguria; III, 50: VII. Etruria; III, 62: I. Latium et Campania; III, 97: III. Lucania et Bruttii; III, 99: II. Apulia et Calabria; III, 106: IV. Samnium et Sabina; III, 110: V. Picenum; III, 112: VI. Umbria; III,115: VIII. Aemilia; III, 123: XI. Transpadana; III, 126: X. Venetia et Histria), in alcuni casi da un nome collettivo di popoli, in altri da una serie di nomi. I limiti, a parte alcuni casi particolari nei quali sono costituiti da elementi di geografia fisica (è il caso dei fiumi Varo e Magra, confini della Liguria, in III, 49; del Tevere e del Liri, confini del Lazio, in III, 56), sono rappresentati dai territori delle città comprese all’interno delle singole regioni (ad es., per la III regio quello di Metaponto, Plin., Nat. hist., III, 97 e per l’VIII quelli di Rimini e Padova, Plin., Nat. hist., III, 115). Sono piuttosto vicini alle indicazioni fornite da Plinio da un lato certe liste contenute nei testi gromatici e dall’altro alcuni documenti censitari.
In ogni caso, nonostante la presenza di alcune omissioni ed errori (ad es., l’inclusione nella I regio, invece che nella V, di Auximum e Cingulum, in Plin., Nat. hist., III, 63-64), le opere di Strabone e di Plinio risultano di estrema utilità per la conoscenza della poleografia del tempo. Interessanti si dimostrano gli accenni in Plinio alle caratteristiche morfologiche e idrografiche (nella VII regio Pisa, situata fra i fiumi Auser e Arno, III, 50; in Magna Grecia, Thurii, posta tra i due fiumi Crati e Sibari, III, 96; nel Piceno, Pesaro col fiume omonimo, III, 112), all’esistenza di attrezzature portuali (Luni in Etruria, III, 50; quelle di Baia in Campania, III, 61 e di Taranto e Brindisi in Magna Grecia, III, 101) o più generalmente di approdi non di rado alla foce di corsi d’acqua navigabili (nella regio II, il fiume Fortore portuosum, III, 103; nella IV, il fiume Trigno anch’esso portuosum, III, 106), ma anche a centri scomparsi (le 24 città che “un tempo” popolavano la palude pontina, III, 59; Taurasia, in Campania, III, 70; una città dei Vidicini nel Piceno, III, 108, oltre ai centri di Acerra Vafria e Turocelo Vettiolo, Crinivolo, III, 114; Apina e Trica nella II regio, III, 104- 105) e a quelli dei quali rimangono alcuni resti (Casilinum, in Campania, III, 70; Caulonia in Magna Grecia, III, 95).
Strabone, dopo aver dato uno sguardo d’insieme all’Italia, soffermandosi sulle sue misure, sui confini, sulla rappresentazione geometrica, passa alla descrizione di ogni regione fornendo notizie sulla struttura fisica del territorio, sui popoli e sulle loro caratteristiche, sulle città con il loro passato mitico e storico. Un posto particolare nella descrizione è riservato ai centri, utilizzando le strade come punto di riferimento principale (per l’Umbria, la via Flaminia, V, 2, 10 e, specialmente per il Lazio, le vie Appia, Latina, Valeria, V, 3, 6, 9), soffermandosi ora sul loro nome, ora sulla loro consistenza, ora sulla realtà fisica, ora sulla topografia, sui loro abitanti e sulle attività prevalenti, sulle tradizioni religiose e gli ordinamenti politici e legislativi. Un’attenzione particolare è rivolta anche alle condizioni economiche delle diverse regioni: dalla fertilità della terra, alla bontà dei porti (quelli di Luni e Taranto, V, 2, 5 e VI, 3, 1; quelli originariamente naturali di Brindisi e di Ancona, VI, 3, 5-8 e V, 4, 2), alla posizione più o meno felice di una zona o di una città, all’idrografia con i suoi risvolti economici e commerciali.
Già al momento della sua applicazione il programma di ripartizione augusteo fu diversamente assorbito e attuato nel territorio italiano, in stretta relazione con il retroterra storico e culturale delle diverse popolazioni e non meno con la realtà geografica dei diversi luoghi. Più lento e difficile risulta il processo di romanizzazione nell’Italia settentrionale, a partire dalla Lex Pompeia, che determinò un cambiamento giuridico-istituzionale nelle regioni a nord del Po nell’89 a.C., attraverso la concessione della cittadinanza romana alla Cisalpina nel 49 a.C. e l’estensione anche giuridico-istituzionale dell’Italia fino ai piedi delle Alpi, tra il 42 e il 41 a.C.
Relativamente alle aree alpine, la cui conquista si sviluppò tra il 35 e il 7 a.C., episodi di estrema importanza risultano: la campagna del 25 a.C. di Terenzio Varrone contro i Salassi, quella del 17 o 16 a.C. di P. Silio Nerva intesa a domare le popolazioni del settore compreso tra Comum e la Valle dell’Adige e infine la grande manovra combinata del 15 a.C. di Tiberio e Druso Maggiore che riuscirono a sottomettere la zona centrale delle Alpi. Documenti significativi risultano al proposito da un lato il Trofeo delle Alpi e dall’altro la menzione che Augusto stesso fa della conquista dell’area alpina nelle Res Gestae. Il Trofeo, del 7 a.C., ai piedi della catena alpina, al bordo della strada costiera che collegava l’Italia alle province dell’Occidente, con la grande iscrizione (CIL V, 7817; Plin., Nat. hist., III, 136-137), se da un lato, analogamente al trofeo pompeiano per le conquiste di Spagna al piede dei Pirenei (Strab., IV, 1, 3), risponde a un’esigenza di glorificazione, dall’altro sottolinea la pacificazione delle Alpi dal Mare Adriatico al Tirreno e soprattutto ribadisce una norma della propaganda augustea: quella del bellum iustum.
Relativamente alla Cisalpina, documenti di estrema importanza per la comprensione delle diverse caratteristiche dell’area sono forniti dalla celebre descrizione di Polibio (II, 17, 8-12): gli elementi messi in risalto, fra gli altri, sono la mancanza di centri urbani (tranne Mediolanum) e la ricchezza del territorio. Differenze nel processo di romanizzazione sembra esistano anche tra la zona a nord e a sud del Po: mentre nella prima, nonostante il fatto che già agli inizi del II sec. a.C. i Romani arrivarono a Mediolanum (Milano) e a Comum (Como), fino alla fine del secolo non esistettero che le colonie di Cremona (218 a.C.) e di Aquileia (181 a.C.), nella seconda il processo sembra essersi svolto con eccezionale rapidità lungo la linea di penetrazione rappresentata dalla via Aemilia. Anche le modalità con le quali la romanizzazione si attuò furono differenti: ad esempio si ricorse a trattati con le tribù-stato galliche, delle quali quella degli Insubri era la più importante, a nord del Po; non di rado si ricorse all’eliminazione degli elementi indigeni: si pensi, ad esempio, in Emilia, alla distruzione dei Senoni prima e dei Boi poi. Estremamente importante, inoltre, è il fatto che non sono note confische e assegnazioni ai veterani augustei in Transpadana (mentre lo sono nella zona a nord del Po). È senz’altro collegabile a questi mutamenti il fatto che a partire dall’età augustea l’Italia settentrionale va acquistando una dimensione economica e un’importanza politica primaria.
Un caso particolare è costituito dalle regioni meridionali dove, generalmente, le città romane, pure abbastanza numerose, non raggiungono il numero di quelle della fase greca: è il caso del Bruttium dove soltanto Thurii-Copia, Vibo Valentia, Rhegium (Reggio Calabria), Crotone, Scolacium (Squillace) e Locri sembrano avere qualche importanza. Tra le future regiones d’Italia nelle quali il processo di romanizzazione risultò in stato più avanzato quando, tra il 90 e l’89 a.C. (dopo una breve partecipazione alla insurrezione contro Roma; App., Bell. civ., I, 211), ricevettero la cittadinanza romana, figura l’Umbria. Questa situazione, determinata dalla presenza di importanti colonie latine come Narnia (Narni, 299 a.C.) e Spoletium (Spoleto, 241 a.C.), da larghi insediamenti di cittadini romani e dallo sviluppo della rete viaria, venne facilitata dai massicci reclutamenti che si fecero nella regione. Le confische e assegnazioni sillane non sembra incisero sulla regione: le uniche notizie in proposito, riguardanti le confische di terreni nei territori di Todi e di Amelia, peraltro presumibilmente non riguardanti le intere comunità ma singoli personaggi, e la presenza di Spoletium tra i municipia Italiae splendidissima, che per ordine di Silla sarebbero stati messi all’asta (Flor., II, 9, 27-28), risulterebbero da ridimensionare; infine, la presenza di un sostenitore di Catilina a Camerino (Cic., Sull., 53), appare un elemento troppo labile per ipotizzare un movimento analogo a quello, ad esempio, della vicina Etruria. Differente fu il coinvolgimento della regione nella guerra triumvirale.
Un momento cruciale della politica romana, che incise profondamente anche sulla poleografia e soprattutto sull’assetto territoriale della penisola, è quello degli anni Quaranta del I sec. a.C. Le distribuzioni ai veterani affidate a Ottaviano dopo Filippi, come ricordato da Appiano, coinvolgevano i territori di 18 città “che spiccassero sulle altre per ricchezza, feracità della terra e bellezza di edifici” (Bell. civ., IV, 3, 10-11). A prescindere dalla confusione spesso ingenerata dalla notizia delle deduzioni proposte con la Lex Antonia de coloniis deducendis del 44 a.C., ma che a seguito dell’abrogazione della legge non ebbero luogo, il problema, come noto, riguarda l’identificazione delle colonie “antoniane” (Bell. civ., V, 19, 77) – in talune circostanze, ad esempio Benevento (CIL X, 6087) e Cremona (Verg., Ecl., IV; IX, 28), ancorata a indicazioni delle fonti letterarie ed epigrafiche –, dal momento che solo Capua, Reggio, Venosa, Benevento, Nocera, Rimini e Vibo Valentia vengono ricordate (App., Bell. civ., IV, 11; IV, 86, 362).
Relativamente all’urbanistica, è naturale che, nonostante le Res Gestae (XXI, 3) descrivano l’Italia come una terra di municipi e colonie, esistessero ancora difformità. È noto come ancora nel II sec. a.C. parti cospicue dell’Italia fossero caratterizzate da insediamenti dispersi nei pagi, come, secondo la descrizione straboniana nell’Italia centrale, nel territorio dei Vestini, Marrucini, Peligni e Frentani, i quali vivevano κωμηδόν sebbene nei loro territori vi fossero alcune poleis (Strab., V, 4, 2), ma anche in quello dei Picenti (V, 4, 3). A essi vanno poi aggiunte le città decadute a villaggi in età antica (V, 3, 1) oppure dopo le distruzioni provocate dalla guerra annibalica o dopo quelle della guerra sociale, come nel Sannio (V, 4, 11) e forse nella Iapigia (VI, 3, 5).
Se è probabile che in certe aree alcuni vici abbiano iniziato ad assumere connotazione urbana già alla fine del II sec. a.C., è soltanto con il I sec. a.C., in coincidenza con fattori di ordine storico-politico, che il processo urbano assume carattere generale, pur mantenendosi in alcune zone l’assetto precedente. Determinanti a tal fine appaiono sia la guerra sociale, la quale risponde al desiderio da parte degli alleati di ottenere lo ius suffragii, raggiunto dopo l’89 a.C. (confermato da Silla nell’83 a.C.: Liv., Per., 86; App., Bell. civ., I, 393), e di avere parte diretta nell’amministrazione, sia il processo di municipalizzazione, sviluppatosi tra l’età posteriore alla guerra sociale fino oltre l’età di Cesare. Connessa con il realizzarsi di questo processo risulta la Lex Iulia de civitate del 90 a.C., nella quale erano contenute norme di carattere indicativo per la strutturazione delle comunità alleate che accettavano di ricevere la cittadinanza romana (municipia constituere secondo la formula ufficiale) e sulla cui base dovettero redigersi gli statuti dei singoli municipi (Lex Municipii Tarentini e Lex Osca Tabulae Bantinae).
In particolare risulta importante la clausola – da riferirsi alla costruzione o all’ampliamento dell’impianto urbano – presente con lievi varianti tanto nella Lex Municipii Tarentini quanto nella Lex Coloniae Iuliae Genetivae, che prevede la possibilità che un magistrato intenda costruire vias, fossas, cloacas (Liv., XLI, 27, 12 e l’iscrizione dei quattuorviri di Verona: CIL V, 3434).
In questo ambito rivestono importanza le norme relative alla demolizione di edifici negli insediamenti urbani del territorio municipale o coloniario contenute nella legge di Taranto, nella Lex Coloniae Iuliae Genetivae e nella carta flavia di Malaca, con lo scopo di evitare speculazioni nelle aree urbane danneggiate dagli eventi bellici. Sempre all’interno di questi medesimi statuti municipali è possibile rintracciare accenni all’esistenza di incentivi all’edilizia monumentale pubblica: anche in questo caso il riferimento più immediato è alla legge di Taranto nella quale viene indicata la possibilità che le multe pagate dai contravventori alle norme edilizie sulle demolizioni fossero devolute per la metà all’erario pubblico e per l’altra metà impiegate nei ludi publici che il magistrato era tenuto a dare, oppure impiegate nella costruzione di un monumentum da lui offerto e costruito su suolo pubblico.
Dopo l’età sillana si dovettero dunque affrontare in Italia due compiti: la ricostruzione delle città andate distrutte o danneggiate dagli eventi bellici e il problema della municipalizzazione. L’organizzazione in comunità amministrativamente autonome degli ex alleati Italici e delle zone dell’antico ager Romanus comportò una strutturazione in senso urbano delle nuove comunità che si venivano organizzando. Questa nuova fase di urbanizzazione, originata dalla concreta necessità di creare comunità di cittadini romani, alla quale in precedenza si era risposto con la fondazione delle colonie e dei fora, andò dispiegandosi con modalità che è possibile rintracciare nel celebre passo di Cesare (Bell. civ., I, 15, 2) riferito a Cingoli, quod oppidum Labienus constituerat suaque pecunia exaedificaverat, il quale se da un lato informa sulla presenza anche di un programma di costruzioni urbane, dall’altro costituisce una prova del coinvolgimento nel processo di urbanizzazione dei patroni locali.
La municipalizzazione comportò anche la determinazione dell’ambito territoriale delle nuove comunità e la relativa confinazione. A tale fine vennero smembrati e risuddivisi nuclei e comunità tribali precedentemente uniti, seguendo ragioni politiche e storiche, generali e locali. Naturalmente questo fenomeno innescò un imponente processo di urbanizzazione e di adeguamento sia nell’edilizia pubblica che in quella sacra e profana, per l’attuazione pratica di tutte le funzioni inerenti al godimento effettivo e all’esercizio della cittadinanza romana. Un riflesso di questa politica di municipalizzazione tesa ad avvicinare gli Italici a Roma sul piano religioso si può osservare ad esempio nella chiusura di alcuni santuari federali, come è il caso di quello di Pietrabbondante fra i Sanniti Pentri, e nel diffondersi, dopo la guerra sociale, dei capitolia. Tuttavia, contemporaneamente, si ha anche il caso di santuari che passarono indenni attraverso la guerra sociale, come quelli di Hercules Curinus presso Sulmona, quello di Mefite presso Rossano di Vaglio, in Lucania, e di luoghi di culto come quello che si incentra sull’eminenza detta della Rupe Sacra, non lontano dall’attuale ospizio del Gran San Bernardo, in Piemonte, e di centri municipali sorti attorno a un precedente centro religioso come nel caso del Lucus Angitiae tra i Marsi.
Svolto secondo linee direttrici comuni, il fenomeno della municipalizzazione si sviluppò in maniera diversa a seconda delle differenti situazioni politiche, storiche e di geografia fisica. L’esempio più imponente è costituito dalla Cisalpina, dove nel corso del I sec. a.C., dopo gli imponenti lavori idraulici del secolo precedente (Strab., V, 1, 11), fu completamente trasformato l’assetto del territorio. Il processo di urbanizzazione prese avvio dalla Lex Pompeia dell’89 a.C., che concedeva il diritto latino alle comunità alleate della Transpadana: praticamente il provvedimento comportava la trasformazione in colonie latine, con un loro completo rinnovamento urbanistico, dei precedenti insediamenti e la centuriazione dei territori delle varie comunità (così per Brescia e Bergamo, entrambe sorte nel luogo di un precedente insediamento o, in Transpadana, per Padova e Vicenza, interessate soltanto da un rinnovamento urbanistico, o ancora in Cispadana, per Sarsina). Il fenomeno dell’urbanizzazione è presente anche nell’Italia centrale e meridionale, dove si manifestò come rinnovamento edilizio e urbanistico in molte località già organizzate ma gravemente danneggiate dalle guerre civili (App., Bell. civ., I, 483 e Plut., Sull., XXXIII, 2 sull’abbattimento di mura in città nemiche); in altri casi, rappresentando il segno manifesto del processo di progressiva autonomia delle zone di ager Romanus prima dipendenti da Roma, come passaggio alla fase cittadina di precedenti comunità tribali. Nei settori centrale e meridionale furono le singole comunità a intraprendere lavori edilizi, grazie all’evergetismo di personalità locali di rilievo o che avevano fatto carriera a Roma. Si tratta della teoria ciceroniana delle due patrie, la propria e Roma, alla quale ogni cittadino appartiene (Cic., Leg., 2, 5).
La creazione del sistema municipale fu dunque un fatto storico lungo e complesso che terminerà solo con Augusto, quando all’immagine dell’Italia delle campagne si affiancò quella delle città nelle laudes virgiliane (Georg., II, 155-157) e con la personificazione dell’Italia turrita rappresentata nella cosiddetta Gemma Augustea. Esso è quindi contemporaneo, almeno in parte, alla fondazione delle colonie augustee in Italia. Le Res Gestae (28), ribadendo la notizia di Svetonio (Aug., XLVI) e quella più generica di Igino Gromatico (177 Lachmann = 142 Thulin), ricordano come durante il principato augusteo siano state dedotte 28 colonie. La loro identificazione si è appoggiata, oltre ai centri dove la documentazione archeologica ed epigrafica ne suggerisce l’attribuzione e a quelli dove il Corpus agrimensorum ricorda sistemazioni centuriali lege Iulia, sulla presenza del titolo di Iuliae o Iuliae Augustae, su quello di coloniae Augustae e sulla loro menzione tra le colonie nella descriptio pliniana (Nat. hist., III, 46). All’interno dell’elenco delle città redatto secondo questi criteri, considerate talune perplessità e incertezze (Avellino, Ancona, Benevento, Brescello, Brescia, Capua, Cremona, Falerio, Nola, Paestum, Perugia, Piacenza, Pesaro, Sutri), quelle che sulla base della documentazione archeologica disponibile offrono maggiori elementi, al momento, risultano essere: Rimini, Este, Aosta, Torino, Bologna, Tortona, Fano, Lucera, Lucus Feroniae, Minturno, Parma, Pisa, Pozzuoli, Sessa Aurunca, Urbisaglia, Venafro.
Tra le città che raggiungono vera dignità civica solo in epoca augustea si può rintracciare: un primo gruppo che beneficia del riassetto della via Flaminia (27 a.C.) e dei collegamenti di raccordo (ad es., Fano, Spello, Carsulae); un secondo che rientra nel vasto fenomeno dell’urbanizzazione centro-italica e che a partire dagli anni centrali del I sec. a.C. si definisce sia in relazione all’aspetto monumentale che a quello funzionale (ad es., Peltuinum, Sepino, Amiterno, Chieti, Marruvium e Venafro); infine un terzo gruppo nel quale rientrano quei centri, con specifiche funzioni militari o commerciali, che debbono il loro sviluppo alla posizione strategica (sbocchi delle vallate alpine, crocevia padani: ad es., Aosta, Torino, Trento, Libarna, Este, Concordia e Padova).
Come è noto, il programma, qui attuato con il contributo di Agrippa, investe naturalmente anche Roma, articolato su linee ben precise e incidendo profondamente sull’assetto della città (Suet., Aug., VIII, 5). Allo stesso modo esso si sviluppa in Italia dove, pur nell’unitarietà dei fini, prevedeva l’utilizzo di strumenti differenti a seconda degli ambiti geografici. Il programma, articolandosi secondo le necessità, ora nel probabile piano di una città, ora nella riqualificazione di singole aree, ora nella realizzazione di infrastrutture sia di grande impegno che di minore rilevanza, ma anche in quella di edifici meno impegnativi, evidenzia la vastità degli interventi e la poliedricità delle imprese edilizie. Un ausilio alla realizzazione pratica sul terreno dei progetti di pianificazione urbana in questa fase storica dovette venire dalle prescrizioni di Vitruvio (I, 4, 7 ss.), sulla scelta dei siti per l’impianto cittadino, sugli edifici pubblici, sacri e civili.
Numerosi, tra gli altri, gli interventi qualificanti, ad esempio in Umbria. Proprio all’età augustea vanno riferiti a Spello interventi specifici sia di adeguamento infrastrutturale che, soprattutto, di qualificazione in chiave monumentale, come indicano l’edificazione delle mura, la riprogettazione del foro con l’erezione del tempio, la sistemazione monumentale del santuario suburbano a cui si affianca il teatro. A Todi, invece, vengono organizzati quartieri abitativi e realizzate sostruzioni di opera vittata, intermedie ai terrazzamenti riferibili alla fase di metà del I sec. a.C. Anche per Carsulae la fase augustea (o giulio-claudia) è caratterizzata dalla costruzione di edifici pubblici, in questo caso forensi. Allargamenti degli abitati sono documentati, ad esempio, nel Piceno, ad Ancona nella vallata situata tra il promontorio del Guasco e il colle dell’Astagno e, nel Lazio, a Minturno.
Una delle tipologie monumentali che con maggiore frequenza ricorrono nelle deduzioni augustee, al punto da divenirne uno degli elementi costitutivi, sono le cinte murarie, sia nel percorso delle mura vere e proprie sia nelle imponenti porte di accesso. Alla realizzazione delle mura, generalmente di opera vittata con alternanza anche in opera laterizia e incerta, contribuirono motivi ideologici e, in misura minore, pratici. Tra gli esempi conservati spiccano per l’imponenza, nella regio XI, quelle di Aosta e di Torino, rispettivamente in bugnato rustico e in listato; un numero abbastanza cospicuo è noto nella regio IV, a partire da quelle di Fano. Qui l’iscrizione monumentale sulla porta principale della città (CIL XI, 6218-6219) ricorda la costruzione del perimetro difensivo per diretto intervento di Augusto, iniziata a seguito della deduzione coloniale (tra il 31 e il 27 a.C.) e terminata tra il 9 e il 10 d.C. All’interno della stessa regio, mura riferibili a età augustea, perlopiù sulla base di considerazioni sulla tecnica costruttiva (opera vittata), a parte quelle di Sentino, sono quelle di Bevagna, di Spello e di Trevi. Nella V regio si conservano le mura di Urbisaglia, in laterizi a parete piena. Tra i recinti fortificati, di opera vittata, di quei centri che, pur non rientrando tra le deduzioni coloniarie di Augusto è possibile riferire ad età augustea, figurano quello di Cingoli e forse quello di Cupra Marittima.
Al vertice di questa operazione urbanistica e monumentale erano le porte urbiche, con porta e controporta a più fornici con facciate a uno o due piani, talora fino a tre nei cavedi delle controporte: così la Porta Palatina di Torino, in laterizio, con facciata a due ordini di aperture inquadrate da lesene e due fornici d’ingresso per il traffico veicolare e due per quello pedonale; all’interno una controporta con altrettanti ingressi comportava la presenza di un grande cavedio a corte centrale, mentre all’esterno le torri poligonali a 16 lati su zoccolo piramidale avevano uno sviluppo in altezza di 4 piani. A questo unico sistema di monumentalizzazione vanno senz’altro riferiti anche gli archi onorari (ad es., l’arco di Susa, CIL V, 7231).
Nell’ambito della medesima politica augustea deve leggersi l’interesse di Augusto per il restauro delle strade, genericamente ricordato sia da Svetonio (Aug., 30) a proposito di quelle più importanti, che da Dione Cassio (LIII, 22, 1-2) relativamente a quelle che presentavano maggiori difficoltà di attraversamento. Per la Flaminia è nota (Res Gest., IV, 19-20; VI, 6-9; CIL XI, 1365) la ristrutturazione del 27 a.C. e in particolare la costruzione tra Roma e Rimini di tutti i ponti tranne il Milvio e il Minucio. L’intervento augusteo dovette interessare un gruppo di opere situate a est degli Appennini, nella maggior parte dei casi nelle gole del Burano e del Furlo. Si tratta in genere di strutture in opera quadrata, di blocchi di dimensioni differenti non rifiniti di pietra corniola. È il caso, ad esempio, del ponte Voragine; del ponte Grosso di Pontericcioli, sul fosso della Scheggia; del ponte Grosso delle Foci di Cagli, sul torrente Burano; del ponte Alto delle Foci di Cagli, a nord del precedente; del ponte Manlio (o Mallio) di Cagli, sul torrente Bosso; del viadotto dell’Abbazia di S. Vincenzo al Furlo, presso l’imboccatura ovest della gola del Furlo; delle sostruzioni, realizzate per rendere la strada percorribile nel punto più difficoltoso per l’attraversamento della gola del Furlo. Augusto provvide a ristrutturare anche la via Aemilia da Rimini al fiume Trebbia, come è ricordato in due cippi stradali del 2 a.C. e dalla costruzione del ponte sul Marecchia a Rimini, terminato da Tiberio (CIL XI, 367).
Consistente è anche la serie di opere a ovest degli Appennini, attribuita ad Augusto: è il caso del celebre ponte di Narni e di quelli Calamone, Cardaro, Toro, di quello sul quale è stata realizzata la chiesa di S. Giovanni de’ Butris, a nord di Acquasparta, e di quello di Spoleto. Ascrivibile a età augustea, per le caratteristiche tecnico-costruttive generali e per i confronti tipologici, è la sistemazione globale della strada (via publica) che si snodava attraverso il territorio della Valle d’Aosta. La sua importanza, sottolineata anche da Strabone (IV, 6, 11), giustifica la grandiosità progettuale delle opere, che richiesero il taglio di speroni di roccia, la realizzazione di grandiose sostruzioni in punti particolarmente impervi, il superamento di avvallamenti e lo scavo di trincee. Da Ammiano Marcellino (XV, 10, 2) siamo informati sul miglioramento della rete viaria nelle aree montane da parte di Cozio, all’indomani dell’accordo, nel 13 a.C., con Augusto.
Recentemente è stato ipotizzato che anche i ponti liguri della Val Ponci, della Val Quazzola e i due di Loano, posti lungo la via Iulia Augusta, generalmente riferiti ai primi decenni del II sec. d.C. in base alla tecnica costruttiva utilizzata (a blocchetti squadrati di pietra) e della notizia riportata su alcuni miliari circa la realizzazione tra il 124 e il 125 d.C. di importanti opere di restauro alla strada da parte dell’imperatore Adriano, possano rientrare tra gli interventi augustei. Un intervento augusteo sarebbe ugualmente ipotizzabile lungo la via Ostiense, conformemente all’interesse mostrato da Augusto per Ostia, come sembrano alludere le caratteristiche sia del Ponte di Mezzocammino che di quello sul fosso di Grotta Perfetta. A questi interventi su grandi viabilità interregionali o regionali è necessario aggiungerne alcuni sulla viabilità urbana: certamente a Rimini, come può desumersi dalla notizia circa l’intervento di pavimentazione di tutte le strade urbane della città, attuato da Augusto a nome di C. Cesare nell’1 a.C. (CIL XI, 1, 366). In relazione con la costruzione delle strade e più in generale con il riassetto urbano di alcuni centri è la realizzazione, seguendo la maglia ortogonale dei cardini e dei decumani, di alcune infrastrutture, come, ad esempio la rete fognaria (Aosta, Torino, Brescia, Fano).
Un naturale interesse sollecitato da motivi di carattere politico e strategico verso la realizzazione di porti e di opere idrauliche a esso funzionali è altresì documentato dalle fonti letterarie e da quelle archeologiche. Nel campo degli impianti portuali sono da richiamarsi, oltre a quello commerciale di Pozzuoli, quelli di Ravenna e del Portus Iulius costruito da Agrippa nel 37 a.C. nell’ambito della strategia navale contro Sesto Pompeo (Plin., Nat. hist., XXXVI, 125; Verg., Georg., II, 161; Strab., V, 4, 6), successivamente sostituito da quello di Miseno.
Dal punto di vista urbanistico e architettonico, inoltre, la felice stagione augustea, in molti centri, a parte il blocco di Tiberio nel campo dei lavori pubblici (Suet., Tib., 46), fu seguita da interventi anche di notevole portata, in particolare riguardanti specifiche tipologie monumentali, quali anfiteatri e teatri, la cui dislocazione topografica non sembra casuale. Questa rivela la costante attenzione agli aspetti funzionali, sia in aree urbane che immediatamente suburbane, in alcuni casi già previste in età augustea (ad es., Aosta – con restauri documentati ancora nella seconda metà del IV sec. – o Velletri); in aree centrali ma anche in punti contigui alle mura, utilizzate addirittura, anche se più raramente, di supporto alla cavea (ad es., Sepino, Formia); o infine, le terme; tali interventi sono documentati già sul finire del I secolo ma diffusi a partire dal secolo successivo.
La riforma amministrativa augustea ebbe nel tempo necessità di aggiustamenti in accordo con il mutare delle caratteristiche socio-economiche e politiche dell’Impero. Mancando di un anello di congiunzione tra il potere di Roma e quello delle province (situazione questa “aggravata” nel corso dell’impero di Claudio, quando vengono meno quei magistrati, come ad esempio i quaestores, che in età repubblicana svolgevano i loro compiti in Italia; Dio Cass., LX, 24, 3; Suet. Claud., 24, 2), dovette mostrarsi inadeguata alle nuove esigenze fin dagli inizi. A parte i vincoli di patronato, in non pochi casi esistenti tra i singoli esponenti dell’élite senatorio-equestre e i rispettivi territori di origine, la vita delle città procede infatti in maniera perlopiù autonoma rispetto a Roma e dunque agli organismi locali sono affidati sia compiti amministrativi che, in larga misura, quelli giurisdizionali. Questa ripartizione, proprio a causa della sua autonomia e della mancanza di un coordinamento tra municipalità e governo centrale, dovette dunque entrare in crisi rendendo necessaria a partire dal II sec. d.C. la creazione di nuovi distretti amministrativi che prefigurano la provincializzazione dioclezianea.
Adriano introdusse nuovi funzionari senatoriali, incaricati della giustizia. Tutta la penisola fu suddivisa in quattro distretti affidati a dei consulares: la Transpadana, comprendente la X e l’XI regio, il territorio di Apulia, Calabria, Lucania e Bruttii, comprendente la II, la III e la IV regio, e due territori centrali, che si può supporre disposti da una parte e dall’altra della dorsale appenninica. Una prima risuddivisione realizzata da Marco Aurelio, attraverso successivi cambiamenti che portarono alla creazione di cinque circoscrizioni, restò immutata fino alla fine del suo regno. La diocesi urbana comprese un territorio di 100 miglia attorno all’urbe, sotto la giurisdizione dei magistrati romani, e quattro distretti affidati ai iuridici: Transpadana; Aemilia, Liguria e Flaminia; Etruria, Umbria e Picenum; Apulia, Calabria, Lucania e Bruttium.
Presumibilmente già verso la fine del regno di Marco Aurelio dovettero verificarsi cambiamenti nelle ripartizioni territoriali, a parte la Transpadana, la diocesi urbana e quella che includeva gran parte dell’Italia meridionale (Apulia, Lucania e Bruttium), che riguardarono: la Flaminia che andò a far parte della Liguria e dell’Aemilia, da cui si staccò la Tuscia che andò a unirsi a Umbria e al Picenum. Sotto Settimio Severo sarebbe stato introdotto un nuovo sistema, rimasto in vigore fino alla metà del III secolo (almeno fino al 240 d.C.), imperniato su cinque circoscrizioni giudiziarie. Una riforma è attestata anche per l’inizio del regno di Caracalla: l’Apulia unita al Picenum, distaccatosi da Flaminia e Umbria. Nella metà del III secolo sarebbe avvenuta una nuova riforma la quale non intervenne sul numero delle circoscrizioni, bensì sui loro territori: a parte la diocesi urbana e la Transpadana, che rimasero immutate, l’Etruria si staccò dall’Aemilia e dalla Liguria, andando a unirsi con l’Umbria; la Flaminia e il Picenum furono accorpati all’Apulia e alla Calabria, distaccatesi dalla Lucania e dal Bruttium.
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Si rinvia a:
L'Italia romana delle Regiones. Regio I Latium et Campania: Campania
L'Italia romana delle Regiones. Regio I Latium et Campania: Latium
L'Italia romana delle Regiones. Regio II Apulia et Calabria
L'Italia romana delle Regiones. Regio III Lucania et Bruttii
L'Italia romana delle Regiones. Regio IV Sabina et Samnium
L'Italia romana delle Regiones. Regio V Picenum
L'Italia romana delle Regiones. Regio VI Umbria
L'Italia romana delle Regiones. Regio VII Etruria
L'Italia romana delle Regiones. Regio VIII Aemilia
L'Italia romana delle Regiones. Regio IX Liguria
L'Italia romana delle Regiones. Regio X Venetia et Histria
L'Italia romana delle Regiones. Regio XI Transpadana