L'Italia romana delle Regiones. Regio I Latium et Campania: Roma. Storia degli studi
Si fa risalire comunemente alla metà circa del Quattrocento il momento della nascita degli studi sulla topografia di R. antica. Si intendono, naturalmente, i primi studi sistematico-filologici sulla città e sui suoi monumenti di contro al complesso di miti e di idee formatosi attorno all’eredità, politica e simbolica, della civitas per antonomasia: un fenomeno quest’ultimo che non è mai stato spento nella cultura occidentale. È nell’ambiente degli umanisti attivi nella Curia nuovamente insediata a R. e nell’impulso alla rinascita anche monumentale della città, che maturano quelle che sono considerate le prime opere moderne di topografia romana: la Roma instaurata di Biondo Flavio (1444-46 e, più tardi, la Roma triumphans) e la parte dedicata ai resti antichi del De fortunae varietate urbis Romae et de ruina eiusdem descriptio (1448) di Poggio Bracciolini.
Con l’eredità dell’umanesimo letterario di Petrarca e di quello, pieno di fervore archeologico, ma rivolto alla politica, di Cola di Rienzo, gli studi filologici ed epigrafici avevano dimostrato quanto fosse carente il sapere tradizionale sulla città antica, che si era fondato sino a quel momento quasi esclusivamente su una composizione letteraria che andava sotto il titolo di Mirabilia urbis Romae. La prima trascrizione, databile in base a riferimenti interni intorno al 1140, è attribuita generalmente a Benedetto Canonico di S. Pietro, autore dell’Ordo Romanus Benedicti. I Mirabilia presentano la topografia storica e sacra della città, fondata su narrazioni spesso fantastiche, alternando leggende popolari a fonti più attendibili, il cui filo conduttore è soprattutto quello della continuità e sovrapposizione fisica e ideale tra città antica e capitale cristiana. A questo testo, molto diffuso dalla metà del XII secolo, con nuove versioni, adattamenti e nuovi dati (ad es., la Graphia Aureae Urbis, del XIII sec.), e ad altre opere affini appaiono legate, nella struttura e nei contenuti, le conoscenze su R. antica ancora allo scorcio del XV secolo. Un’opera in certo modo di transizione, che rivela rudimenti di conoscenze epigrafiche e respinge diversi elementi fantastici dei Mirabilia, è il Tractatus de rebus antiquis et situ urbis Romae (noto come Anonimo Magliabechiano).
L’opera di Biondo abbandona dunque l’impostazione periegetica caratteristica dei Mirabilia a favore di una trattazione sistematica della città. La Roma instaurata, divisa in tre libri, segue nella prima parte un ordine topografico e tipologico (porte, colli, terme, ecc.), nella seconda le istituzioni (religione, governo, spettacoli); nella terza analisi di singoli monumenti. Più che le reali acquisizioni, pure notevoli, è soprattutto la modernità del metodo di Biondo a valergli il titolo indiscusso di fondatore degli studi topografici, per aver applicato ai monumenti di R. antica quella tendenza a sistematizzare e periodizzare, caratteristica delle sue opere di storico.
La restituzione della città antica non è invece l’interesse primario di Bracciolini, che parte dalla contemplazione della rovina e da una riflessione sul Campidoglio che anticipa di secoli la celebre meditazione di E. Gibbon. Sono i rovesci della fortuna e la sorte di R. a interessare il grande umanista, più che la ricostruzione e l’identificazione dei suoi monumenti; tuttavia, proprio in questa parte descrittiva, Bracciolini rivela capacità archeologiche e analitiche per alcuni versi superiori a quelle di Biondo. Egli comprende che la cinta di Aureliano non può essere quella serviana in opera quadrata nota da Livio, distinguendo per la prima volta tra mura repubblicane e cinta imperiale. Delle mura aureliane osserva le tecniche costruttive, distingue diverse fasi, osserva la cortina, individua alcuni dei monumenti inglobati. È perfettamente cosciente, più di Biondo, di come l’epigrafia sia strumento principale per lo studio dei monumenti; distingue nel tratto grafico i testi letti personalmente e quelli riportati da altre sillogi e non risparmia neppure Petrarca, per aver accettato l’identificazione vulgata della piramide di C. Cestio con il sepolcro di Remo.
Il paesaggio antico della città andava così faticosamente ricomponendosi, con importanti acquisizioni e non pochi abbagli che, essendo abbagli di grande dottrina, erano destinati a durare nel tempo: è il caso, ad esempio, della Curia Hostilia localizzata sul Celio e identificata con le rovine del tempio del Divo Claudio (in base a Liv., I, 30, 1-2). Di pari passo si faceva sentire la necessità di rappresentare anche graficamente le nuove acquisizioni entro lo spazio fisico della città: la pianta Strozzi (1471, basata su un prototipo del 1450 ca.), che risente in parte delle premesse teoriche di Leon Battista Alberti (Descriptio urbis Romae, 1443-45 o 1452-53), documenta quanto l’opera di Biondo fosse accreditata e seguita nel tardo Quattrocento.
Più che dalla lettura dei classici, il grande salto di qualità negli studi era avvenuto grazie alle prime ricerche epigrafiche e a un’opera che, in mancanza di un termine migliore, viene definita come letteratura tecnica: i Cataloghi Regionari. La redazione dell’opera risale soprattutto all’età dioclezianea, con l’inserimento di ulteriori edifici nel corso del IV sec. d.C; essa fu da allora, ed è tuttora, la principale base di ricerca sistematica di topografia romana. Vi compaiono, in due versioni lievemente diverse (Curiosum e Notitia), vari monumenti urbani distribuiti nelle XIV regioni augustee, scelti con un criterio impossibile da intendere, ma che non sembra avere avuto intenti pratici e gestionali (questi dovevano piuttosto trovarsi nei documenti cui i Regionari attingono).
Pomponio Leto è il primo studioso a comprendere appieno l’importanza dei Cataloghi Regionari negli studi di topografia (utilizzati in parte anche da Bracciolini e da Biondo, che li attribuiva a Sesto Rufo). I Cataloghi restituivano alla città romana una struttura fisica e una griglia, quella delle XIV regioni, entro la quale incasellare luoghi e monumenti, tanto che le redazioni interpolate che risalgono a Leto e alla sua scuola sono il documento più efficace e illuminante, più ancora delle sue lezioni allo Studium Urbis (su Varrone, su Floro) o il postumo De vetustate urbis (1510), dello stato delle conoscenze allo scorcio del XV secolo. La deformazione del testo antico rispondeva comunque al bisogno di sistematizzare i dati sui monumenti romani, con interpolazioni quasi sempre corrette nella sostanza e con una particolare attenzione ai nuovi dati: ad esempio, in corrispondenza delle rispettive regioni sono inseriti i vici della Base Capitolina (CIL VI, 975 = 31218 = ILS 6073), i templi noti dai Fasti Vallensi, le notizie relative ai monumenti romani contenute in Plinio o in Asconio.
Il secolo successivo conoscerà nuove e meno innocenti versioni interpolate dei Cataloghi; il testo rimase tuttavia il principale strumento delle ricerche anche per quanto riguarda la ricostruzione grafica della città antica. Così nella celebre lettera a Leone X, attribuita a Raffaello, un testo (interpolato) dei Cataloghi è riconosciuto come fonte principale “e ben ch’io habbia cavato da molti auctori latini quello ch’io intendo di dimostrare, tra gli altri ho principalmente seguitato P. Vittore il quale (...) vedesi che concorda nel scriver le regioni con alcuni marmi antichi nelli quali medesimamente son descripte”.
Dal progetto di una nuova rappresentazione cartografica di R. antica, interrotto dalla morte di Raffaello, si ritiene derivata l’opera di Fabio Calvo (Antiquae Urbis Romae cum regionibus simulachrum, 1527, 1532). La scarsa considerazione nella quale è stata a lungo tenuta questa curiosa e sintetica rappresentazione dello sviluppo topografico della città è probabilmente giustificata, specialmente considerando le aspettative che il progetto di Raffaello aveva suscitato tra gli eruditi e se messa in confronto con il dossier differente e infinitamente più prezioso lasciato dai grandi architetti che, a partire da questi stessi anni, studiavano e disegnavano i monumenti senza alcun interesse per una ricostruzione globale della città antica (Fra’ Giocondo, Baldassarre Peruzzi, i Sangallo, Andrea Labacco, Antonio da Palladio, ecc.). Studi più recenti hanno tuttavia messo in rilievo come le figure di cui la pianta si compone siano frutto di una attenta analisi delle tipologie monumentali e delle testimonianze numismatiche.
Una nuova pianta di R. antica accompagna la seconda edizione della Topographia antiquae Romae di Bartolomeo Marliano (1534, 1544): si tratta del primo serio tentativo di rappresentazione della città antica concepito scientificamente, con proiezione ortogonale e resa dell’orografia e dell’idrografia (sfruttava probabilmente i rilievi compiuti per l’esecuzione della pianta di R. di Leonardo Bufalini, 1551), così che per la prima volta, anche se in modo sommario, almeno i monumenti principali vengono collocati nel contesto dei rilievi e delle vallate che compongono il profilo della città.
Il testo del Marliano è considerato oggi esemplare per serietà e relativa affidabilità e degno sostituto dell’opera di Biondo, ma si tratta tuttavia di un giudizio relativamente recente, dal momento che il Marliano fu citato nei due secoli successivi soprattutto per essere contraddetto: all’origine del discredito della sua opera topografica fu in massima parte la controversia riguardo l’esatta posizione del Foro Romano. Proprio nei decenni centrali del Cinquecento – i più ricchi di scavi, scoperte (e distruzioni) – la localizzazione del Foro, mai posta prima in discussione, divenne oggetto di una polemica destinata a valicare, soprattutto nei toni, la consueta dialettica accademica. Si impose infatti, a partire dal 1553, una localizzazione del Foro svincolato dalla Via Sacra, collocato tra Campidoglio e Palatino ed esteso in direzione del Velabro.
Protagonista della questione fu una delle figure più importanti e discusse degli studi di topografia urbana dell’epoca, Pirro Ligorio (seguito, almeno per quanto attiene alla questione topografica, dall’ambiente degli antiquari vicini ad Alessandro Farnese, tra i quali soprattutto Onofrio Panvinio). La nuova localizzazione del Foro compare, in forma grafica e molto schematica, nella pianta piccola di R. antica del Ligorio (che precedeva di poco la pubblicazione del Libro (...) delle antichità di Roma, nel quale si tratta de’ Circi, Theatri, et Anfitheatri. Con le paradosse del medesimo autore, quai confutano la commune opinione sopra varii luoghi della città di Roma, 1553), pianta accompagnata da una brevissima presentazione dell’editore che lascia comprendere come la polemica fosse già rovente (hic pleraque contra perversam vetera antiquariorum sententiam nominantur et locantur). Il Marliano, che seguiva invece la tradizione (con il Foro esteso lungo la Via Sacra fino all’Arco di Tito) rispose a tono nello stesso anno, in un saggio contenuto in un’ulteriore edizione dell’opera (De foro Romano contra novam et stultam opinionem cuiusdam Strepsiadis).
È possibile che la controversia, già accesa nel 1553, sia sorta in relazione al luogo di rinvenimento dei Fasti Capitolini (1476); ne sono tuttavia poco chiari i termini e gli stessi fondamenti della tesi ligoriana sono difficili da determinare con sicurezza. Da quanto si apprende in Lucio Fauno (Delle antichità della città di Roma, 1548), si direbbe tuttavia che la discussione si fondasse soprattutto sulle fasi più antiche del Foro e sulle fonti relative all’età monarchica e alla prima età repubblicana (Dion. Hal., II, 41-42, 66 per la posizione tra Campidoglio e Palatino). Un ruolo non secondario nella polemica dovettero avere i Cataloghi Regionari editi dal Panvinio (1558), di tradizione ligoriana (compaiono allora lemmi a dir poco sospetti, come Velia e summa Velia nella X regio, Palatino: la falsificazione era necessaria per superare le fondate obiezioni mosse al Ligorio a proposito del gruppo omogeneo di fonti che indicano invece la Velia come sovrastante il Foro).
Questa teoria sulla posizione del Foro si impose nei secoli successivi con una autorevolezza davvero notevole, tanto che la rivincita di Marliano avvenne solo nel XIX secolo, seguita dalla condanna definitiva di Ligorio come topografo: quae de aedificiis antiquis rebusque topographicis tradit, fide minime dignus est (G. Henzen, in CIL VI, p. LIII). Che questo giudizio sia per certi versi troppo severo è evidente dalle numerose intuizioni e corrette identificazioni che dobbiamo a Ligorio (è il caso dei Castra Praetoria, dei cd. Trofei di Mario, degli innovativi studi tipologici sul circo) e la sostanziale affidabilità delle testimonianze ligoriane è stata di recente sostenuta in diversi singoli casi, a volte forse con troppo ottimismo, specialmente riguardo ricostruzioni che si direbbero invece, almeno in parte, elementi portati a conferma delle sue tesi. Questo è forse il caso della ricostruzione dell’edificio dei Fasti, che gode oggi un credito maggiore rispetto ai tempi in cui fu formulata (la ricostruzione dell’arco come quadrifronte e, di conseguenza, la presenza di un importante asse ovest-est, doveva avvalorare la sua localizzazione del Foro esteso in quella direzione).
Comincia verso la fine del secolo un lungo periodo che H. Jordan definì di “letargo” negli studi, con opere di grande erudizione e dottrina ma sostanzialmente ripetitive, come quella di A. Donati (Roma vetus ac recens, 1638), dedicata a papa Urbano VIII, che è forse più rivelatrice dei fasti della R. barocca che della città antica. Di diverso spessore è l’opera di Famiano Nardini (Roma antica, 1666), il cui acume critico pose finalmente il problema delle diverse versioni dei Cataloghi (“o la prima è in ogni regione tronca, e storpiata, o la seconda è apocrifa, e adulterina”), traendone tuttavia di rado le dovute conseguenze. Di diverso carattere e di grande modernità nella metodologia della ricerca archeologica fu il lavoro di Raffaele Fabretti sugli acquedotti romani.
Più che le analisi sistematiche sulla città antica, sono le opere di erudizione antiquaria a rivelarsi utili per gli studi in questo periodo, con le figure di Pietro Sante Bartoli, Cassiano dal Pozzo, Giovanni Pietro Bellori. Fu il Bellori a recuperare dall’oblio il più prezioso e importante documento iconografico per la topografia romana, la Forma Urbis severiana, i cui frammenti, venuti in luce intorno al 1562, erano ancora sostanzialmente inediti (il Ludus Magnus, unico frammento edito da Fulvio Orsini nel 1570, compare nella pianta del 1574 di Étienne Du Pérac). A più di un secolo dalla scoperta, la pubblicazione del Bellori (Fragmenta vestigii veteris Romae ex lapidibus Farnesianis nunc primum in lucem edita cum notis, 1673) presentava dunque per la prima volta i frammenti farnesiani (del codice Vaticano Latino 3439 di Orsini, forse opera di Giovanni Antonio Dosio) insieme ad altri pezzi disegnati per l’occasione. L’impatto della Forma Urbis negli studi topografici non fu tuttavia immediato, dal momento che imponeva, come strumento di ricerca, la presenza di una base cartografica attendibile e scientifica. Questa si ebbe a R. solo con la Nuova Pianta di Roma di Giovan Battista Nolli (1748), realizzata da un progetto nato nell’ambiente del cardinale Alessandro Albani. La pianta di Nolli fissava in maniera definitiva l’immagine di R., con la rappresentazione zenitale, l’orientamento corretto con il nord in alto, la resa planimetrica di palazzi e isolati. Le finalità anche storicoarcheologiche della pianta (i progetti iniziali prevedevano la campitura in diversi colori, prefigurando la grande pianta di Rodolfo Lanciani) sono evidenti dall’attenzione ai resti antichi che, restituiti per la prima volta su base scientifica, vengono definitivamente inseriti nel tessuto urbano, rivelando allineamenti, continuità, persistenze e suggerendo integrazioni. Sulla base della pianta di Nolli fu redatta la pianta di R. antica di Giovan Battista Piranesi (1756), dove i disegni dei frammenti severiani si accalcano al di fuori del perimetro urbano (saranno invece inseriti nella città, come spunti di ispirazione, in quella incredibile invenzione antiquaria che è la ricostruzione del Campo Marzio).
I frammenti della pianta marmorea sono in ogni caso ancora fonte di ispirazione per la ricostruzione dei monumenti antichi (si confrontino, specialmente per quanto riguarda l’edilizia templare, le vedute ricostruttive di Francesco Bianchini, che pure ebbe interesse per la ricomposizione dei frammenti) e non strumenti di ricerca per lo studio topografico: il primo studioso a comprenderne le potenzialità, a ricercare eventuali accostamenti e a collocare i frammenti nel tessuto urbano e monumentale della città sarà Luigi Canina (Terme di Tito, Teatro di Pompeo). Gli studi del Canina profittarono anche del nuovo, forte impulso alla ricerca dei primi decenni del XIX secolo, che coincise con gli scavi e i primi seri tentativi di restauro avvenuti prima sotto Pio VII e in seguito negli anni dell’occupazione francese. L’attenzione era rivolta soprattutto al centro monumentale: Foro Romano, Foro Boario e area del Colosseo.
A dominare questa stagione di studi fu Carlo Fea, figura importantissima per la legislazione e la tutela dei monumenti, Commissario alle Antichità per oltre un trentennio e, in certo qual modo, ultimo rappresentante di un’antichissima tradizione di studi antiquari. Furono gli studi di questi anni a restituire il quadro di un centro monumentale assai vicino a quello a noi noto, sgombrando il campo da molte errate interpretazioni dei secoli precedenti e stabilendo in maniera definitiva la reale posizione del Foro. Ciò avvenne grazie al contributo di un numero considerevole di grandi studiosi, oltre Fea e Canina, A. Nibby, S. Piale e gli studiosi attivi nell’Istituto di Corrispondenza Archeologica, fondato nel 1829 (C. Bunsen, W.A. Becker, L. Preller, C.L. Urlichs), con polemiche a volte anche molto accese (tra Fea e Nibby, tra Becker e Urlichs). Le acquisizioni di questo periodo troveranno una grande sintesi nell’opera di H. Jordan (completata poi da Ch. Hülsen), cui si deve anche la prima edizione scientifica della Forma Urbis severiana.
Negli ultimi decenni del XIX secolo con gli scavi nel Foro e soprattutto con la stagione di scoperte archeologiche senza precedenti durante la grande attività edilizia di R. capitale, le conoscenze su R. antica incrementarono in modo notevolissimo. Testimone di molti lavori fu il Lanciani; segretario della Commissione Archeologica Comunale a partire dal 1872, egli riuscì a documentare un’enorme mole di dati che sarebbe andata, senza di lui, irrimediabilmente perduta. Oltre a studi analitici e monografici, la summa delle ricerche innovative del Lanciani, analisi dei resti archeologici e sistematica ricerca d’archivio, sono la Forma Urbis Romae (1893-1901) e la monumentale Storia degli Scavi di Roma (I-IV, 1902-12). Non è solo il paragone con altre realizzazioni cartografiche coeve di città antiche (ad es., Atene) a dare la misura della modernità e della ricchezza documentaria della Forma Urbis (46 fogli, scala 1:1000), quanto il fatto che questa costituisce, ancora oggi, uno strumento di ricerca topografica di primaria importanza. La Storia degli Scavi rende accessibile a ogni studioso una messe ricchissima di informazioni (dai documenti grafici del Rinascimento alla miniera di notizie contenute negli archivi privati) sulle scoperte di antichità a R. fino alla morte di Clemente VIII (1605; il progetto originario, recentemente portato a termine, arrivava a comprendere il 1879).
Si registrano negli stessi anni gli insuperabili contributi di Hülsen sulla città antica, per i disegni dall’antico, per il periodo medievale e soprattutto per le straordinarie conoscenze filologiche ed epigrafiche prestate allo studio dei monumenti romani, con studi analitici su singoli monumenti o settori della città, a volte anche in disaccordo con il Lanciani (e raramente a torto). Gli studi topografici del Novecento risentono fortemente dell’influenza di questi due massimi studiosi di topografia romana, con i contributi notevolissimi di Th. Ashby e, più tardi, di G. Lugli, F. Castagnoli, G. Gatti, L. Cozza. Accanto alle indagini sulla Campagna Romana, alle quali il nome di Ashby è indissolubilmente legato, di pari importanza fu il suo contributo riguardo R.: vero erede di Hülsen nello studio della storia della città attraverso le vedute e i disegni dall’Antico, egli fu testimone attento e critico dei grandi scavi del Foro e del Palatino. I contributi misurati su monumenti fondamentali della città sono confluiti nel repertorio alfabetico messo a punto da S.B. Platner, da Ashby completato e migliorato: un’opera che mantiene la sua validità anche a molti decenni di distanza e che il nuovo repertorio collettivo curato da E.M. Steinby (1993-2002) ha inteso aggiornare, ma non interamente sostituire. Ashby fu l’ultimo testimone di una città che andava rapidamente mutando il suo volto, specialmente nel suo centro monumentale, interessato negli anni Trenta dai grandi lavori urbanistici del Governatorato di R. Tra le numerose irreparabili distruzioni, l’unica portata del “lauto banchetto” imbandito agli archeologi dai lavori urbanistici del Ventennio fu lo scavo di parte dei Fori Imperiali: del complesso dove si svilupparono tipologie monumentali destinate a imporsi nel mondo romano veniva restituito, per la prima volta dal Rinascimento, un tentativo di ricostruzione rimasto per decenni canonico, fino a quando studi e recentissimi scavi hanno cominciato a minarne le fondamenta.
Assai più rilevanti per la conoscenza generale del tessuto antico della città furono gli studi relativi alla pianta marmorea severiana che occuparono Gatti a partire dagli anni Quaranta e che confluirono, con nuove importantissime acquisizioni, nell’edizione del 1960 (G. Carettoni, A.M. Colini, Cozza, Gatti). La grande edizione critica della pianta marmorea ha rivoluzionato le conoscenze riguardo molti settori chiave della città (Campo Marzio, area del Testaccio), favorendo e stimolando importanti studi successivi (tra questi la ricostruzione dell’area tra Esquilino e Viminale da parte di E. Rodríguez Almeida). Alla conoscenza sempre più affinata della topografia urbana hanno contribuito nella seconda metà del Novecento gli studi di Castagnoli, caratterizzati dal rigore critico e dall’attenzione per la documentazione che, da Lanciani in poi, continua nella tradizione dell’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma (C.F. Giuliani, P. Sommella). La ricchissima produzione scientifica del Castagnoli, arricchita da interessi di più ampio respiro (gli studi sull’urbanistica e sull’assetto del territorio dell’Italia centro-meridionale, dove fu erede di P. Fraccaro oltre che del Lanciani; le scoperte fondamentali nell’area laziale; gli studi di architettura antica), ha portato a notevoli acquisizioni riguardo lo sviluppo storico della città, soprattutto per periodi di fondamentale importanza (età arcaica e mediorepubblicana), e per la topografia storica di singoli settori (Foro Romano; Campo Marzio, dove la sua interpretazione delle direttrici dello sviluppo urbano fu formulata prima ancora delle ricerche sulla Forma Urbis; Palatino).
Per un altro verso dunque la topografia romana ha negli ultimi decenni conosciuto un ulteriore, importante sviluppo ed è nella prospettiva storica degli studi. Con tutti i limiti di ricostruzioni spesso schematiche, potrebbe oggi dirsi colmata la lacuna tra studi di topografia urbana (e romana in particolare) e le analisi topografiche del territorio, per cui identificare un monumento in un contesto restituisce un quadro storico non diverso da quello reso, ad esempio, da un territorio centuriato. A questo proposito si erano contati scarsi contributi nella storia degli studi, scarsi nel numero e non nell’importanza: a partire dal celebre saggio di Th. Mommsen (1845) sulla posizione del comitium, sono stati soprattutto oggetto di interesse e di studio storico gli spazi destinati alla politica, in primo luogo il Foro. Per il Campo Marzio in particolare, i lavori di Gatti e Cozza hanno fondato le basi delle conoscenze su un altro importantissimo settore della città antica, aprendo nuove prospettive di ricerca, sia per i luoghi destinati ad attività civiche (si veda la ricostruzione dei Saepta da parte di L. Ross Taylor e Cozza), sia per la cultura artistica e monumentale del II sec. a.C. (a seguito della corretta localizzazione del Circo Flaminio).
Il campo delle indagini topografiche appare considerevolmente ampliato, coinvolgendo ormai il tessuto stesso della città antica e dando modo, in diversi casi, di cogliere le dinamiche storiche dello sviluppo urbano. F. Coarelli, lo studioso che negli ultimi decenni più ha contribuito allo sviluppo di questa prospettiva nelle ricerche, è stato protagonista dell’ultimo dibattito topografico sul Foro Romano. Negli anni Ottanta, durante i quali scavi e ricerche hanno nuovamente interessato l’area del Foro, Coarelli ha revocato in dubbio la tradizionale identificazione del percorso della Via Sacra nel periodo precedente l’età neroniana, con una ricostruzione che ha conseguenze sull’identificazione e la localizzazione di numerosi monumenti fondamentali per la storia politica, sociale e religiosa della città nelle fasi arcaica e repubblicana. La questione relativa alla Via Sacra, elemento più eclatante di una serie di studi fondamentali e fortemente innovativi sulle strutture del Foro repubblicano, si direbbe conclusa a favore dell’identificazione tradizionale del tracciato della via, ma ha reso evidenti le potenzialità di una ricerca storico-topografica di ampio respiro.
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