L'Italia romana delle Regiones. Regio I Latium et Campania: Roma
Che il fato di R. fosse evidente già nella sua posizione geografica è idea costante negli autori antichi. Sorta su un fiume che agevolava il commercio ma non direttamente a contatto con un mare pieno di pericoli, morali oltre che strategici, la città era destinata dalle origini a un grande futuro: “In quale altro modo dunque Romolo avrebbe potuto mostrarsi più ispirato nel mettere insieme i vantaggi delle città marittime e nell’evitarne gli svantaggi se non col porre l’abitato lungo la riva di un fiume dal corso costante e dall’ampia foce? (...) così pare a me che fin d’allora egli avesse avuto ben chiaro che un giorno questa città sarebbe stata sede di un grandissimo impero” (Cic., Rep., II, 10). Il Tevere è considerato anche oggi il principale vantaggio geografico della posizione di R., sorta direttamente sul fiume, come molti insediamenti della riva sinistra, presso una grande ansa che rendeva facile l’approdo e in corrispondenza dell’unico punto – prima del mare – dove il guado era agevole: l’Isola Tiberina.
A questa visione ricorrente della scelta felice del luogo si affiancò fin dall’antichità un’altra tradizione che fa riferimento all’inospitalità dell’originario sito di R., che parve a Strabone occupato “più per necessità che per scelta” (V, 229), tradizione che ha evidentemente attraversato i secoli se è presente ancora nelle impressioni di viaggiatori di età moderna e tra questi Goethe (Viaggio in Italia, Milano 19973, trad. E. Castellani, p. 183): “nessuna delle località abitate dai popoli primitivi era mal situata come Roma (...) ci si capacita subito che non fu una popolazione nomade, numerosa e ben guidata a insediarsi qui e a stabilirvi a ragion veduta il centro di un impero (...) quelli che per primi decisero di abitarvi furono pastori e marmaglia”.
La riflessione sulla posizione infelice della città nasce sul Palatino, ma il riferimento è soprattutto alla presenza di aree paludose, sottolineata spesso nelle fonti letterarie (ad es., Plut., Rom., 5, 4; 18, 3; Liv., I, 12, 10) e che sembra avvalorata anche da recenti studi sulla morfologia originaria dell’area centrale. Entro il sistema di alture convergenti dove si sviluppò la città erano ampie aree depresse soggette a variazioni secondo lo stato di piena del fiume: oltre alla pianura del Campo Marzio, extraurbana ancora in età storica, queste caratteristiche riguardano il Velabro, la Vallis Murcia e soprattutto la valle dove si formò il Foro Romano. La presenza di paludi, un elemento non infrequente negli insediamenti più antichi, ma che già era considerato estraneo alla civiltà urbana, costituisce per un altro verso un aspetto non secondario nel dibattito sulla dinamica della formazione della città, sviluppatosi su base archeologica a partire dagli anni Sessanta del Novecento e dominato dalle figure di E. Gjerstad e H. Müller- Karpe. Il dibattito si svolge tuttora intorno alle due opposte ricostruzioni dei due studiosi (v. Il mondo dell’archeologia, I, p. 799 ss.), con modifiche riguardo alla cronologia proposta e all’interpretazione delle testimonianze letterarie (specialmente riguardo Gjerstad) e sulla possibilità di cogliere il formarsi a R., tra la fine del IX e l’VIII sec. a.C., di un centro protourbano sullo schema dei coevi insediamenti in Etruria meridionale, con un processo unitario di sviluppo, o piuttosto la graduale unificazione di distinte unità insediative poste sulle alture, dominate da un insediamento preminente.
È evidente come in questo contesto il dibattito, specialmente tra archeologi di formazione protostorica e storici dell’antichità, verta in ultima analisi sulla definizione della categoria di “protourbano” opposta a “urbano”. Se il modello protourbano in Etruria è caratterizzato dall’occupazione di un vasto pianoro difeso naturalmente, si obietta ai sostenitori dello sviluppo unitario che tale coesione geografica manca di fatto a R., proprio in virtù di una situazione morfologica più complessa e di aree pianeggianti non occupate stabilmente.
A rendere problematica questa, come qualsiasi altra, ricostruzione delle fasi più antiche di R. è in ogni caso l’estrema frammentarietà della documentazione disponibile, sia le testimonianze archeologiche – pure accresciute sensibilmente negli ultimi anni –, sia i dati desumibili dalla tradizione letteraria. La questione del formarsi di tale tradizione è problema storiografico più che archeologico: con elementi antichissimi e numerose varianti, fu elaborata nella forma definitiva tra IV e III sec. a.C. combinando le due saghe leggendarie preminenti, quella eneadica e quella romulea. Sempre nello stesso periodo si impose il calcolo alla metà dell’VIII sec. a.C. della data di fondazione della città, con diverse proposte cronologiche (748/7: Fabio Pittore; 729/8: Cincio Alimento; 752/1: Polibio; è invece più alta, in sincronia con la fondazione di Cartagine, la data di Timeo: 814) tra le quali prevalse, a partire dalla tarda Repubblica, la data varroniana: 754/3.
I dati letterari oggettivi, privi o separabili da interpretazioni posteriori, sono, come si è accennato, scarsissimi e di difficile interpretazione. Oltre a notizie desumibili da festività con origini antichissime (Lupercalia, rito dell’October equus, cerimonia degli Argei), di importanza fondamentale è la lista pliniana (Nat. hist., III, 68-69) dei populi uniti da un rito comune sul Monte Albano, che riprende con probabilità un documento epigrafico arcaico (di seconda mano: la fonte è forse Catone). La lista dei 30 populi Albenses – ma è discusso se Albenses indichi o meno una designazione generale – restituisce una testimonianza preziosa sulla cultura laziale ed è probabile che comprenda anche toponimi, e forse anche etnici, che in età storica designeranno singoli settori di R. Se l’affidabilità generale del documento non è oggi più in discussione, sull’interpretazione dei singoli lemmi la critica moderna è forse troppo ottimista, non solo per la scarsa intelligibilità del rito delle feriae Latinae già in antico (Cic., Planc., 9, 26), ma anche per le deformazioni avvenute nel corso della trasmissione del testo (un confronto tra la lista delle popolazioni nel trofeo di La Tourbie come compare in Plinio – Nat. hist., III, 136 – e quelle che compaiono contestualmente nell’arco di Susa – CIL V, 7231 – dimostra che su sei etnici sovrapponibili, tre sono citati in Plinio in modo diverso). Altro importante “fossile” riguardante una situazione precedente la città compiuta è quello relativo al Septimontium: una festività connessa a diverse comunità di montani (corrispondenti a settori della futura area urbana). Quali e quanti fossero i montes coinvolti era questione che divideva già i più colti antiquari della tarda Repubblica e dell’età augustea, Varrone (Ling., V, 41; VI, 24) e Antistio Labeone (in Fest., pp. 474-476 Lindsay), ai quali dobbiamo la maggior parte delle informazioni sulla festa.
Più numerosi, ma sempre fatalmente lacunosi, sono i dati archeologici. Le prime consistenti scoperte sulla R. protostorica risalgono agli anni finali dell’Ottocento, con i rinvenimenti delle sepolture esquiline durante i convulsi lavori per la nuova capitale, ma i primi dati sistematici si devono, al principio del Novecento, agli scavi nel Foro Romano e sul Palatino da parte di G. Boni e di G. Pinza. Queste scoperte e in particolare le sequenze stratigrafiche nel Foro a opera di Boni sono state a lungo, e sono tuttora, importanti elementi nel dibattito È evidente come in questo contesto il dibattito, specialmente tra archeologi di formazione protostorica e storici dell’antichità, verta in ultima analisi sulla definizione della categoria di “protourbano” opposta a “urbano”. Se il modello protourbano in Etruria è caratterizzato dall’occupazione di un vasto pianoro difeso naturalmente, si obietta ai sostenitori dello sviluppo unitario che tale coesione geografica manca di fatto a R., proprio in virtù di una situazione morfologica più complessa e di aree pianeggianti non occupate stabilmente. A rendere problematica questa, come qualsiasi altra, ricostruzione delle fasi più antiche di R. è in ogni caso l’estrema frammentarietà della documentazione disponibile, sia le testimonianze archeologiche – pure accresciute sensibilmente negli ultimi anni –, sia i dati desumibili dalla tradizione letteraria. La questione del formarsi di tale tradizione è problema storiografico più che archeologico: con elementi antichissimi e numerose varianti, fu elaborata nella forma definitiva tra IV e III sec. a.C. combinando le due saghe leggendarie preminenti, quella eneadica e quella romulea. Sempre nello stesso periodo si impose il calcolo alla metà dell’VIII sec. a.C. della data di fondazione della città, con diverse proposte cronologiche (748/7: Fabio Pittore; 729/8: Cincio Alimento; 752/1: Polibio; è invece più alta, in sincronia con la fondazione di Cartagine, la data di Timeo: 814) tra le quali prevalse, a partire dalla tarda Repubblica, la data varroniana: 754/3. I dati letterari oggettivi, privi o separabili da interpretazioni posteriori, sono, come si è accennato, scarsissimi e di difficile interpretazione. Oltre a notizie desumibili da festività con origini antichissime (Lupercalia, rito dell’October equus, cerimonia degli Argei), di importanza fondamentale è la lista pliniana (Nat. hist., III, 68-69) dei populi uniti da un rito comune sul Monte Albano, che riprende con probabilità un documento epigrafico arcaico (di seconda mano: la fonte è forse Catone). La lista dei 30 populi Albenses – ma è discusso se Albenses indichi o meno una designazione generale – restituisce una testimonianza preziosa sulla cultura laziale ed è probabile che comprenda anche toponimi, e forse anche etnici, che in età storica designeranno singoli settori di R. Se l’affidabilità generale del documento non è oggi più in discussione, sull’interpretazione dei singoli lemmi la critica moderna è forse troppo ottimista, non solo per la scarsa intelligibilità del rito delle feriae Latinae già in antico (Cic., Planc., 9, 26), ma anche per le deformazioni avvenute nel corso della trasmissione del testo (un confronto tra la lista delle popolazioni nel trofeo di La Tourbie come compare in Plinio – Nat. hist., III, 136 – e quelle che compaiono contestualmente nell’arco di Susa – CIL V, 7231 – dimostra che su sei etnici sovrapponibili, tre sono citati in Plinio in modo diverso). Altro importante “fossile” riguardante una situazione precedente la città compiuta è quello relativo al Septimontium: una festività connessa a diverse comunità di montani (corrispondenti a settori della futura area urbana). Quali e quanti fossero i montes coinvolti era questione che divideva già i più colti antiquari della tarda Repubblica e dell’età augustea, Varrone (Ling., V, 41; VI, 24) e Antistio Labeone (in Fest., pp. 474-476 Lindsay), ai quali dobbiamo la maggior parte delle informazioni sulla festa. Più numerosi, ma sempre fatalmente lacunosi, sono i dati archeologici. Le prime consistenti scoperte sulla R. protostorica risalgono agli anni finali dell’Ottocento, con i rinvenimenti delle sepolture esquiline durante i convulsi lavori per la nuova capitale, ma i primi dati sistematici si devono, al principio del Novecento, agli scavi nel Foro Romano e sul Palatino da parte di G. Boni e di G. Pinza. Queste scoperte e in particolare le sequenze stratigrafiche nel Foro a opera di Boni sono state a lungo, e sono tuttora, importanti elementi nel dibattito sulla formazione della città. Il panorama archeologico si è tuttavia incrementato negli ultimi anni e nuovi importanti dati sono stati aggiunti alla discussione scientifica.
Alla tarda età del Bronzo (fase laziale I: per le diverse proposte cronologiche v. tabella) risalgono le sepolture nell’area del Foro Romano (Arco di Augusto), alle quali vanno aggiunte due nuove tombe dagli scavi recenti nel Foro di Cesare (fase laziale I-IIA). Con l’inizio dell’età del Ferro si hanno le prime testimonianze concrete dell’abitato del Palatino (Cermalo: nella fase IIA materiale sporadico e una sepoltura adulta maschile dall’area della Casa di Livia). A partire dalla fase IIB risale un abitato nella zona nel settore sud-ovest del Palatino, presso le Scalae Caci e il tempio di Magna Mater: resti di capanne furono messi in luce nel 1907 e altri da scavi più recenti. Altre testimonianze di abitato si registrano nell’area poi occupata dalla Domus Flavia e nelle pendici settentrionali del colle.
Pertinente all’abitato palatino è considerato il sepolcreto nel Foro Romano (presso il tempio di Antonino e Faustina), che ha inizio nella fase laziale IIA e che cessa di essere utilizzato a partire dalla fase IIB, quando si sviluppa la nuova necropoli sul colle Esquilino (sono tuttavia ancora testimoniate sepolture di adulti entro l’abitato, connesse a esigenze rituali o al particolare status dei defunti). È in questo periodo che sembrerebbe potersi cogliere un salto di qualità nella crescita degli insediamenti e nella distinzione tra l’area di abitato e di necropoli: il nucleo, tradizionalmente considerato preminente, Palatino - Velia - Foro (con necropoli sviluppatasi in corrispondenza dell’asse viario diretto a Gabi e Praeneste) e quello Campidoglio-Quirinale (con necropoli in corrispondenza della futura via Salaria).
Il ruolo egemone del Palatino è avvalorato da una concorde tradizione che attribuisce al colle le memorie più antiche della città. A questa tradizione è stata collegata la scoperta, negli anni Ottanta del Novecento, di un muraglione di schegge di tufo miste a terra, con bastione posto a protezione di un passaggio alle pendici settentrionali del colle, databile nella fase più antica al 730-720 a.C. circa. La posizione di questo muro lineare, alle pendici del colle e non sulla cresta, dunque con funzione simbolica più che difensiva, troverebbe corrispondenza, tra le altre cose, con il tracciato del pomerio romuleo che compare in uno dei rari excursus di Tacito a carattere antiquario (Ann., XII, 24: la fonte potrebbe essere Claudio) e che si ritiene in parte fondato su elementi del muro ancora in vista nel I sec. d.C. Il muro (il pomerio romuleo) segnerebbe il discrimine tra una fase protourbana lunga e cronologicamente molto alta e il conseguente inizio di una fase pienamente urbana a partire dalla prima età regia, un’età romulea, questa, “con proprie caratteristiche” (A. Carandini). La possibilità di cogliere il segno tangibile di un cosciente atto di fondazione e la sostanziale conferma della tradizione ha suscitato insieme entusiasmi e scetticismo: la questione è tutt’altro che risolta, dal momento che sembra andare oltre il problema della valutazione del ruolo delle testimonianze archeologiche e si inserisce, estremizzando il confronto, in un panorama degli studi già fortemente diviso sulla possibilità di ricostruire in base ai dati della tradizione le dinamiche storiche delle fasi più antiche della città.
Se il quadro dello sviluppo del nucleo Palatino - Velia - Foro è considerato, nonostante inevitabili lacune, discretamente documentato (Velienses della lista pliniana, Septimontium), estremamente esigue sono state a lungo le conoscenze del nucleo Campidoglio - Quirinale (sepolture presso il Foro di Augusto, elementi più antichi del deposito votivo presso S. Maria della Vittoria). A colmare in parte questa lacuna sono i recentissimi scavi sul Campidoglio (area del Giardino Romano e del Museo Nuovo), per i quali sono stati resi noti in via preliminare i principali risultati. È confermata l’occupazione del Campidoglio a partire dal Bronzo Medio (1700-1300 ca.), già presumibile per la presenza di frammenti ceramici in giacitura secondaria alla base del colle (area di S. Omobono). Sono stati scoperti, alla sommità, interventi considerevoli di sistemazione del profilo del colle, per i quali è presumibile anche uno scopo difensivo (in corrispondenza della sella di collegamento con l’Arce), inquadrabili nel Bronzo Recente. A un momento più avanzato dello stesso periodo risalgono le testimonianze di un’area di abitato, che perdura nel corso dell’età del Ferro, con attestazioni di attività artigianali legate alla lavorazione del metallo (fasi laziali I e IIA). Il piccolo insediamento capitolino è la testimonianza più antica, strutturata e meglio nota (come estensione di scavo) di abitato sul suolo romano ed è evidente come queste scoperte possano mutare la prospettiva di altre evidenze già note.
A partire dagli ultimi decenni del VII sec. a.C. si può cogliere con certezza il segno di una struttura urbana, secondo il modello della polis imposto in Occidente dalla colonizzazione greca. Da questo periodo si registra infatti la definitiva unificazione della città, dal punto di vista spaziale e funzionale (cinta muraria, attività comiziale nel Foro, culto poliadico, sviluppo dell’edilizia monumentale) e la sua strutturazione sociale e militare (riforma serviana). Si tratta del periodo, poco più lungo di un secolo, ma troppo lungo per i già troppo estesi regni di due (o tre) generazioni degli ultimi tre re di R.: Tarquinio Prisco (616-578), Servio Tullio (578-534) e Tarquinio il Superbo (534-509). Ai due Tarquini, legati all’Etruria, ma che rivendicavano nella tradizione familiare un’origine greca dalla famiglia aristocratica dei Bacchiadi di Corinto, la tradizione attribuisce i grandi lavori urbanistici della città: la bonifica delle valli, la costruzione della Cloaca Maxima, la prima sistemazione del Circo Massimo, i lavori del santuario di Giove Capitolino, la costruzione della cinta muraria, intrapresa da Tarquinio Prisco e ultimata da Servio Tullio.
A quest’ultimo è attribuita soprattutto la riforma fondata sui quadri territoriali composti da quattro tribù, che diedero vita alla città delle quattro regioni (Suburana, Esquilina, Collina, Palatina), con una superficie di circa 285 ha, calcolando solo la parte inserita entro il pomerio (molto più estesa è l’area inclusa nelle mura): la maggiore città del Lazio, più grande delle principali città etrusche del tempo e di non poche della Magna Grecia e della Sicilia. Con un territorio che J. Beloch calcolava (ma sembra in difetto) di circa 820 km2 e una popolazione stimabile tra i 25.000 e i 40.000 individui, sarebbe questa in sostanza la “grande R. dei Tarquinii” di una celebre definizione di G. Pasquali, tanto fortunata quanto discussa, che poneva l’accento sulla straordinaria crescita della R. arcaica insieme con l’impronta culturale degli ultimi re di R.
Il quadro delineato da Pasquali era organico e coerente: l’ordinamento timocratico che presuppone la presenza di una società evoluta e stratificata, una sfera di influenza su un territorio considerevole (primo trattato romano-cartaginese), la riforma centuriata dell’esercito, la forte permeazione di cultura greca, la crescita anche monumentale della città desumibile dalle testimonianze archeologiche. Degli elementi presi in considerazione dal grande filologo molti sono stati analizzati e criticati singolarmente; tra questi anche i dati archeologici sono stati revocati in dubbio, anche se, rispetto alla documentazione disponibile negli anni Trenta del Novecento, le scoperte archeologiche si sono straordinariamente accresciute, per qualità e quantità.
Sono soprattutto le aree del porto tiberino e del Campidoglio a restituire le testimonianze più notevoli. Nel primo caso, gli scavi del santuario arcaico di S. Omobono, situato nel Foro Boario presso l’approdo fluviale, attribuito a Servio Tullio e dedicato a Fortuna e a Mater Matuta, hanno confermato la precoce apertura di R. verso il commercio greco. La decorazione fittile del tempio arcaico, pur nella difficile ricostruzione delle diverse fasi (presenza o meno di frontone chiuso, gruppo di Eracle e Atena acroteriale o singolo donario), restituisce testimonianze notevolissime di un immaginario mitologico assai complesso e di quella cultura figurativa di matrice greca e greco-orientale diffusa nel Lazio e in Etruria che investe anche altri prodotti dell’artigianato artistico.
È soprattutto nell’architettura che R. restituisce, a partire dalla metà del VI sec. a.C., elementi di una cultura artistica originale, con l’elaborazione di nuove tipologie edilizie soprattutto nel campo dell’edilizia templare. La novità si può cogliere proprio nel tempio di Giove Capitolino, la maggiore architettura della R. arcaica, per il quale erano stati chiamati artigiani da ogni parte d’Etruria (mettendo duramente a contributo anche le città del Lazio) e che occupa in posizione dominante la più ampia delle due alture del Campidoglio. L’enormità della fabbrica capitolina è testimoniata dai recenti scavi, che restituiscono un tempio di dimensioni ancora maggiori rispetto a quelle già note: un podio di 74 ™ 54 m, di forma allungata, molto simile a un periptero greco nelle proporzioni, ma con la pars postica occupata da ambienti trasversali. Il tempio comprendeva tre celle contigue in ciascuna delle quali aveva sede una delle divinità della triade, Giove, Giunone e Minerva. L’immagine di Giove, che Plinio (Nat. hist., XXXV, 157) ricorda commissionata da Tarquinio Prisco a Vulca, segna secondo la tradizione l’inizio della produzione artistica di immagini di culto, prima vietate (Varro, Ant., 1, fr. 18 Cardauns). Il lato posteriore era chiuso da un muro continuo, secondo la religiosità romana, che prescriveva che lo spazio inaugurato fosse accessibile dal solo ingresso frontale: è la nascita del tempio che Vitruvio (III, 2,5) definisce periptero sine postico, cioè la forma templare puramente romana che associava l’assialità imposta dal rito romano (alto podio e scala frontale) con la peristasi di matrice greca, limitata alla fronte e ai lati lunghi.
Il tempio, che non ha confronti quanto a dimensioni con nessun’altra struttura templare italica, fu dedicato solo all’avvento della Repubblica, ma rientra pienamente nella grande attività “tirannica” del Superbo, che ha lasciato numerose altre tracce: oltre alle opere di bonifica a lui attribuite, il quadro dei rinvenimenti di terrecotte architettoniche nel Foro (quarta fase della Regia), sul Palatino, sul Campidoglio mostra quanto fosse capillare ed esteso lo sforzo edilizio dell’ultima età regia.
La fine della monarchia, nel 509 a.C., non segna una cesura immediata nell’attività monumentale, che continua nei decenni successivi; un importante cambiamento si nota piuttosto nei luoghi legati all’esercizio del nuovo potere aristocratico, che abbandona la rocca capitolina. Dal punto di vista urbanistico si compie in questo periodo, con i due templi di Saturno e dei Castori, la prima importante definizione monumentale dei limiti del Foro. Il tempio di Saturno (501- 493), sede dell’erario pubblico, fu edificato sul luogo di un più antico culto, in corrispondenza del nucleo settentrionale della piazza forense, destinato alle riunioni del Senato (Curia) e del popolo (comitium), presso un altro antichissimo luogo di culto dedicato a Vulcano, identificato con il complesso del Niger Lapis.
Conosciamo meglio le fasi più antiche del Tempio dei Castori, collegato alla vittoria della cavalleria romana contro i Latini e contro lo stesso Tarquinio il Superbo nella battaglia del Lago Regillo, del 496 a.C.: un tempio di grandi proporzioni anche nella fase originaria (37 x 27 m ca.), presso la fonte Giuturna e allo sbocco del vicus Tuscus, nell’area dell’altro nucleo fondamentale del Foro, quello meridionale, con la residenza del re e i culti relativi (soprattutto quello di Vesta).
Le tensioni sociali che occupano la prima età repubblicana trovano un efficace riscontro urbanistico nei culti coevi dell’Aventino, il colle plebeo per eccellenza, dove Servio Tullio aveva fondato un santuario di Diana con richiami espliciti nella tipologia dell’edificio e nell’immagine di culto all’Artemide Efesia. Nei primi decenni della Repubblica sorgono qui, fuori dal pomerio, templi legati alle attività della plebe: il tempio di Mercurio (495 a.C.) e soprattutto quello della triade plebea Cerere, Libero e Libera (494 a.C.), fondato a seguito della consultazione dei Libri Sibillini e ornato da due artisti magno-greci, Damophilos e Gorgasos, con una decorazione di terracotta ancora visibile in età tiberiana, quando il tempio fu distrutto da un incendio. Alla decorazione del tempio, o piuttosto alla forte impronta magno-greca nella cultura artistica di questo periodo, è stata da più parti dubitativamente attribuita la statua frammentaria di guerriero ferito rinvenuta sull’Esquilino.
Dopo queste fondazioni templari e fino al principio del IV secolo, tradizione e archeologia restituiscono pochissime testimonianze: il tempio di Semo Sancus (466 a.C.) sul Quirinale e, nel Campo Marzio, il voto e la dedica del tempio di Apollo (433-430 a.C.), non lontano dalla Villa Publica (435 a.C.); sono questi ultimi i primi segnali dell’occupazione di un’area destinata a un grande sviluppo e già parte della vita religiosa (Tarentum, palus Caprae). Abbiamo notizie assai scarse di attività costruttive, che sembrano testimoniare una stasi nell’edilizia in questo periodo, la “notte del V secolo” secondo A. Piganiol, nella quale anche i corredi funerari offrono pochi dati rilevanti; un fenomeno, questo, esteso in tutto il Lazio che è considerato riflesso di specifiche leggi suntuarie.
Le testimonianze riprenderanno solo in seguito al sacco gallico (390 a.C.), ma anche di questo evento traumatico, ricordato da fonti greche che definiscono R. come città greca (Eraclide Pontico, fr. 102 Wehrli in Plut., Cam., 22, 2-3) e considerato addirittura la causa dell’urbanistica irregolare di una città frettolosamente ricostruita (Liv., V, 55, 5), non si hanno tuttavia testimonianze archeologiche sicure.
L’architettura più imponente del IV secolo è senza dubbio la cinta muraria nota come “serviana”. Le mura sono in opera quadrata di tufo di Grotta Oscura proveniente dalle cave presso Veio, il che presuppone l’avvenuta conquista di quella città, nel 396 a.C., con grande agger sul lato orientale, tra Porta Collina e Porta Esquilina, dove mancavano difese naturali. Il percorso è noto per la massima parte del perimetro, con qualche difficoltà di ricostruzione per l’affaccio sul Tevere, tra Aventino e Campidoglio. È estremamente probabile che questa cinta ricalchi, su tutto il perimetro, una più antica fortificazione, questa veramente di età serviana, di cui molti tratti in altro materiale più friabile, il cappellaccio estratto dallo stesso sottosuolo romano, sono visibili presso o sotto quelli delle mura repubblicane in vari punti del circuito (Quirinale, agger dell’Esquilino, Aventino, pendici del Campidoglio). Le grandi mura urbane segnano in modo definitivo e concreto il perimetro urbano della città repubblicana. La posizione delle porte fissa in linea di massima la struttura viaria della città, destinata a rimanere immutata per secoli e in diversi casi ancora parte integrante della città moderna.
Centrale nel sistema viario era il sistema dell’area forense, con la Via Sacra e la via Nova e quella, a essa collegata attraverso il vicus Iugarius, del porto tiberino, presso il quale si diramavano assi stradali di grande antichità e di notevole importanza. Tra questi fondamentale era quell’asse est-ovest, dall’Appennino centrale alla costa, compreso in età storica dalla via Salaria fino a R. e dalla via Campana (da campus Salinarum), dal Ponte Sublicio alle saline ostiensi alla foce del Tevere. Il controllo del commercio del sale, unico conservante noto nell’antichità e fondamentale in particolare nell’economia pastorizia, è attribuito dalla tradizione ad Anco Marcio (640-616) nel quadro della conquista del basso Tevere e della fondazione di Ostia. Questa datazione alta è stata di recente valorizzata come ulteriore spiegazione della grande fortuna di R. arcaica, anche se il pieno controllo della foce dovette avvenire in modo graduale e fu definitivo solo dopo la presa di Veio. Estrema antichità dovette avere anche il tracciato stradale che dal Lazio costiero si collegava al porto e al Ponte Sublicio attraversando l’Aventino (forse presso l’arcaico tempio serviano di Diana), evitando la lunga strettoia sul Tevere.
All’interno della città le strade principali solcavano gli altopiani, correvano a mezza costa o lungo le valli che separavano i rilievi (come su Quirinale e Viminale e nel caso della complessa viabilità del settore Esquilino); l’antichità di molti assi stradali è sovente testimoniata dalla posizione degli antichi santuari che li costeggiavano e dallo sviluppo delle necropoli. Insieme alla definizione della rete viaria si è argomentato che è possibile cogliere già da questo periodo una tendenziale differenziazione delle aree. Il Campidoglio fu escluso dalle abitazioni, per evitare anche pericolose affermazioni personali; qui fu più tardi edificato il tempio di Giunone Moneta, le cui oche sacre avevano salvato il colle dai Galli, che diverrà dal 269 sede della zecca di R.
Il processo edilizio riprende con l’attività dell’ultima figura leggendaria della storia romana: Furio Camillo. Il conquistatore di Veio, protagonista di un discusso trionfo (Liv., V, 23), chiaramente ispirato alla politica serviana edifica sull’Aventino il tempio di Giunone Regina, la divinità poliade della città etrusca sconfitta “evocata” a R. e, ai piedi del Campidoglio, ricostruisce i due templi gemelli di Fortuna e Mater Matuta. La costruzione più significativa è tuttavia il tempio della Concordia nel Foro Romano che consacra la pace sociale conseguita nel 367 a.C. con le leggi Licinie-Sestie.
Nei decenni che seguono la metà del IV secolo è ancora nella piazza del Foro che si concentra uno sforzo edilizio notevole ed è possibile cogliere i segnali di importanti novità. Nel 338 a.C. la tribuna del comitium fu ornata con i rostri delle navi anziati e prese, da quel momento, il nome di Rostra. Appartengono allo stesso periodo le prime sicure attestazioni di monumenti onorari: la colonna Maenia, le statue equestri dei due consoli del 338, C. Menio e L. Furio Camillo (Liv., VIII, 13, 9); della colonna in onore di Q. Marcio Tremulo, vincitore degli Ernici nel 307, conosciamo l’immagine rappresentata nelle più tarde monete di un discendente della gens Marcia. È ancora presso i Rostra che andranno concentrandosi, dallo scorcio del III sec. a.C., piccoli monumenti carichi di valenze simboliche che continueranno a essere elementi importanti della piazza del Foro anche quando il comitium avrà perduto ogni funzione: la statua di Marsia e la Ficus Ruminalis scandiscono ancora il paesaggio del Foro nei Plutei Traianei; la lupa con i gemelli dedicata nel 296 a.C. dai due edili Cn. e Q. Ogulnio, che sanciva il definitivo riscatto della plebe romana, fu con tutta probabilità oggetto di restauri ancora sotto Massenzio.
Tra la fine del IV e i primi decenni del III sec. a.C. (di recente si è proposta un’attribuzione all’età di Appio Claudio) muta la planimetria del comitium. Dalla forma quadrangolare – testimoniata da Plinio (Nat. hist., VII, 212) in un famoso passo di derivazione varroniana a proposito del suo funzionamento come “orologio solare” – assume un nuovo assetto a pianta circolare, per influenza degli ekklesiasteria greci (impianto analogo ebbero gli edifici delle colonie latine di Fregellae, Cosa, Paestum): è questo uno dei primi interventi che porteranno alla graduale trasformazione in senso monumentale del Foro, ispirata all’aspetto delle agorài greche, con interventi mirati a nobilitare il centro pubblico della città, eliminando i commerci minuti, sistemando le tabernae (furono definite veteres quelle a sud e, dopo il 210 a.C., novae quelle a nord della piazza) che sorgevano in margine, la cui fronte venne più tardi ornata con gli scudi dorati del bottino della guerra sannitica, e poi costruendo alle spalle del Foro il primo vero edificio da mercato, il Macellum (209 a.C.).
Gli anni della censura di Appio Claudio segnano un momento di svolta nello sviluppo della città, non solo nei dettagli di una politica religiosa destinata a lasciare tracce, ma per l’ampiezza e la portata del suo progetto urbanistico: le opere principali legate al suo nome sono l’Aqua Appia, il primo acquedotto urbano, che dalla via Collatina andava a rifornire soprattutto l’ormai popoloso distretto Aventino, e la via Appia fino a Capua, che concretizza la vocazione culturale oltre che mercantile di una città “nata guardando a mezzogiorno”. Quella di Appio Claudio è dunque la prima grande censura della storia urbana di R., dove alle opere utilitarie si accompagnano, in modo emblematico, volontà di affermazione personale e perseguimento della politica di una fazione.
Entrambe le opere, la via e la conduzione dell’acquedotto, rientrano in quelle che saranno celebrate, non senza retorica, come le grandi opere utilitarie schiettamente romane (Frontin., Aq., 16), anche se, in particolare nel caso degli acquedotti, non è chiaro a quale sapere tecnico, magno-greco o etrusco-italico o entrambi, questa tipologia attinga le sue radici. Nel caso di Appio Claudio è tuttavia assai interessante il dato messo di recente in rilievo, che mostra un chiaro collegamento tra le due opere: il tracciato della via Appia imponeva lavori di drenaggio nell’area pontina, con la messa in opera di canali artificiali e altri lavori tecnicamente non dissimili da quelli per la conduzione di un acquedotto.
Nonostante l’importanza, e il futuro di queste opere, non è l’acquedotto l’elemento principale dell’edilizia pubblica di questo periodo, ma il tempio. Tra la metà del IV e la metà del III sec. a.C. furono votati e dedicati circa venti templi, edificati spesso, ma non solo, in relazione alle conquiste militari. Si moltiplica il numero delle divinità venerate in città (molte di queste compaiono nei pocola, piccoli vasi votivi sovraddipinti, di produzione probabilmente urbana): oltre alle divinità ancestrali (Pales, Tellus, Quirinus) e a quelle evocate dalle popolazioni vinte (Vortumnus, Minerva Capta) cominciano a diffondersi divinità chiaramente ispirate al mondo ellenistico (Victoria, Iuppiter Victor). Gli esempi meglio conosciuti, il Tempio C di largo Argentina e il tempio orientale del Palatino (Victoria, 294 a.C.), consentono di avere un’idea complessiva dell’edilizia templare del periodo. Prevale la tipologia del periptero sine postico, su podio in opera quadrata di tufo con semplice modanatura e scalinata frontale. L’alzato doveva avere un aspetto piuttosto semplice, con colonne con ritmo aerostilo e trabeazione probabilmente lignea. L’apparato decorativo era di terracotta, di cui sono testimonianza i frammenti fittili, probabilmente frontonali, del Palatino.
Fondamentale per lo sviluppo della cultura artistica romana e chiara testimonianza di un uso narrativo delle immagini è la decorazione pittorica di cui si hanno notizie da questo periodo. Nel 303 a.C. un membro della potentissima gens dei Fabi, Fabius Pictor, decora la cella del tempio di Salus, sul Quirinale (Plin., Nat. hist., XXXV, 19). Pochi decenni dopo, nella cella dei templi di Conso (272 a.C.) e di Vortumnus (264 a.C.), sull’Aventino, erano collocati i quadri che rappresentavano, in veste trionfale, rispettivamente L. Papirio Cursore e M. Fulvio Flacco, mentre nel tempio di Tellus (268 a.C.) era visibile ancora in età tardorepubblicana una rappresentazione pittorica dell’Italia. Di queste pitture di tema storico, esposte nei templi e in altri luoghi pubblici, abbiamo dirette testimonianze solo dall’ambito funerario (è il caso della pittura con scene delle guerre sannitiche dall’Esquilino).
Per quanto attiene alla posizione dei templi nel paesaggio urbano, è frequente, da questo periodo, la relazione con il percorso della pompa trionfale, che da Porta Carmentale ai piedi del Campidoglio percorreva il Circo Massimo, piegando in seguito sull’asse dell’attuale via di S. Gregorio e poi lungo la Via Sacra in direzione del clivo Capitolino. Nel caso del Quirinale è possibile ipotizzare che i templi fossero collocati in posizione elevata e non lontano dalle porte, dal momento che sia le singole alture che componevano il mons sia le porte presero il loro appellativo dal tempio vicino (tempio di Salus, Collis Salutaris e Porta Salutaris). In altri casi la distribuzione dei templi risponde a esigenze insieme religiose e pratiche, come il caso del culto di Esculapio (292 a.C.), introdotto da Epidauro, nell’Isola Tiberina.
Fuori dal pomerio, continua sull’Aventino la tradizione che voleva vi trovassero posto le divinità straniere, mentre le aree dove si concentrano le fondazioni templari sono immediatamente all’esterno di importanti porte urbane, specialmente Porta Capena e Porta Collina. Ma lo sviluppo più notevole è soprattutto quello della pianura del Campo Marzio, per la crescente importanza del ruolo dell’esercito, che nel Campo si costituiva con il censo, tenuto nella Villa Publica, e si esprimeva politicamente con i comizi e le elezioni che si tenevano nei Saepta, con annesso diribitorium, il locale per lo spoglio dei voti.
Diversi templi, di diversi periodi, finirono talvolta per comporre vere e proprie sequenze monumentali: è il caso dei templi allineati di largo Argentina, che forse continuavano verso ovest, comprendendo altri edifici sacri oltre i quattro di cui sono visibili i resti; e di quelli del Foro Olitorio, schierati all’uscita dalla Porta Carmentale a formare una quinta monumentale verso il fiume. Si è tentato di comprenderne la posizione in rapporto col voto pronunciato o con la natura dei luoghi (un sito ricco di acque poteva accogliere divinità di quell’elemento: templi di Feronia e di Giuturna a largo Argentina), o come frutto di ostentazione gentilizia, sia nel senso di continuità nei trionfi (Lutazio Catulo nel 101 a.C. innalza il tempio di Fortuna huiusce diei vicino al tempio eretto a Giuturna da un antenato omonimo un secolo e mezzo prima), sia di una particolare ritualità (il tempio di Bellona, divinità sabina della gens di Appio Claudio Cieco, viene da lui eretto in relazione con l’antichissima tomba della sua famiglia). Manca tuttavia un progetto organico di sviluppo monumentale: dal punto di vista architettonico i templi rimangono iniziative individuali, che in qualche caso riflettono, nel paesaggio urbano, fratture e conflitti tra le gentes romane (ad es., questo è il caso del tempio a Victoria eretto nel 294 da Postumio Megello in concorrenza con quello a Iuppiter Victor dedicato l’anno precedente da Fabio Rulliano).
La volontà di affermazione delle grandi famiglie romane trovava efficaci forme di espressione anche al di fuori dell’edilizia pubblica e religiosa, anche se in verità si conosce assai poco dell’architettura domestica e funeraria di questo periodo. Le grandi domus rinvenute alle pendici orientali del Palatino mantennero sostanzialmente inalterata la planimetria fino alla fine del III sec. a.C. (ma dubbi sono stati sollevati sulla ricostruzione delle fasi più antiche). Di questo tendenziale conservatorismo rimangono forse altre tracce nelle planimetrie di alcune abitazioni sulla Forma Urbis marmorea, che pure registra una realtà di età imperiale avanzata: è il caso, ad esempio, del gruppo di case con atrio e peristilio affiancate sul vicus Patricius alle pendici del Viminale, omologhe a quelle ben più note della Pompei repubblicana.
Dei sepolcri gentilizi, il più celebre, e l’unico conosciuto nel dettaglio, è quello sulla via Appia dei Corneli Scipioni. Scavato direttamente nella collina, fu inaugurato verosimilmente da L. Scipione Barbato, console nel 298 a.C., il cui magnifico sarcofago con fregio dorico fu rinvenuto sull’asse dell’entrata principale. Anche per la sua prima fase è stata ricostruita una facciata monumentale, più modesta di quella, con parete scandita da semicolonne scanalate, da riferire alla metà del II sec. a.C.
Le guerre contro Pirro e la presa di Taranto segnano uno dei più importanti spartiacque della storia romana: il primo incontro diretto con due mondi, quello opulento della principale città della Magna Grecia e quello, pienamente ellenistico, di un monarca che si considerava erede, più o meno legittimo, della politica panellenica di Alessandro Magno. Con la caduta di Taranto ha inizio il declino della cultura magno- greca nella penisola italiana e un processo, solo rallentato dalle guerre puniche, che porterà nei secoli successivi a mutare profondamente la società romana e quindi anche il paesaggio urbano di R. L’impatto che il trionfo su Taranto ebbe sulla popolazione romana è ricordato ancora da Floro: “prima di questo giorno non avresti potuto vedere che il bestiame dei Volsci, le greggi dei Sabini, i carri dei Galli, le armi spezzate dei Sanniti”; sfilavano invece ora nella processione oro, porpora, quadri, statue e “tutto lo sfarzo di Taranto” (I, 13, 26- 27). Un evento dunque di grande portata, di poco oscurato dai successivi e famosissimi trionfi di Claudio Marcello su Siracusa e di Q. Fabio Massimo, ancora su Taranto (211 e 209 a.C.). L’impatto del trionfo su Taranto non fu solo culturale (nel “bottino” era compreso anche Livio Andronico), ma anche economico se interamente con le manubiae, cioè con la parte di bottino che spettava al comandante, fu realizzato il secondo acquedotto urbano, l’Anio Vetus.
Fino alla fine del III secolo è ancora il tempio il principale elemento del paesaggio urbano, edificato in relazione a un voto o a una vittoria militare (Fons, 231 a.C.; Honos, 222 a.C.) ma anche sull’onda del panico per l’avanzata annibalica, dietro consultazione dei Libri Sibillini (Mens, Venus Erycina, 217 a.C.). Assai famoso è il caso del tempio della Magna Mater, edificato tra il 204 e il 191 a.C. sul Palatino, che concretamente sovrappone la leggenda troiana di Enea sul colle di Romolo e che implica la sistemazione dello spazio circostante per le rappresentazioni teatrali dei ludiMegalenses. Il nesso tra teatro e tempio, diffuso già nel mondo centro-italico, viene così attestato anche a R., anche se il teatro, come nel caso del tempio di Apollo con i relativi ludi Apollinares, rimarrà una struttura provvisoria fino alla tarda Repubblica.
È ancora con una celebre censura, quella di C. Flaminio nel 223 a.C., che vengono realizzate due opere destinate a condizionare lo sviluppo di uno dei più importanti quartieri di R., il Campo Marzio: la via Flaminia e il circo. Il tracciato della nuova grande arteria militare verso il Nord della penisola sopravvive ancora nella sua attuale forma di via del Corso e parte del basolato stradale è stato a più riprese rinvenuto al di sotto della strada moderna. Nulla rimane invece del nuovo circo per i Ludi Plebei (allora istituiti) ai piedi del Campidoglio e nel tratto parallelo al Tevere, anche se intorno al monumento verranno a posizionarsi, nel volgere di un secolo, quasi tutte le principali costruzioni del tempo, templi isolati o inseriti in spazi conclusi, circondati da portici e sistemati a giardini, con opere d’arte, bacini d’acqua e fontane, a formare, sulle rive del Tevere, un vero e proprio “quartiere greco”. La coerenza di queste iniziative architettoniche che si distribuiscono nel II sec. a.C. diede vita all’appellativo autonomo del distretto (in circo Flaminio, o semplicemente, da Augusto in poi, in circo), che in età imperiale si sovrapporrà persino a quello, più ampio, di Campus Martius. La direttrice del circo condiziona l’orientamento degli edifici al punto che è possibile determinare la cronologia relativa dei monumenti anche in assenza di altri dati specifici: le costruzioni più antiche conservano l’orientamento astronomico originario degli edifici del Campo, come è il caso dei templi di Apollo Medico e Bellona, ma anche del tempio ignoto (Nettuno?) di cui è stato recentemente individuato il podio presso via del Portico di Ottavia.
A partire dal II secolo, in concomitanza con la conquista del Mediterraneo, con gli ingenti proventi delle conquiste e con un consistente inurbamento che dovette sensibilmente accrescere la popolazione della città, comincia a R. un’attività edilizia senza precedenti. Alla metà circa del secolo si rese necessario il restauro dei due acquedotti esistenti e la costruzione di uno nuovo, l’Aqua Marcia, concepito per alimentare il settore nord-orientale della città, che dai colli Quirinale e Viminale (che in quel periodo cominciavano a essere densamente abitati) doveva giungere fino in Campidoglio, dove sembra effettivamente si concluse, nonostante interdizioni religiose, con una mostra o una fontana monumentale.
La principale novità, gravida di potenzialità future, appartiene alla tecnica costruttiva. Lo sviluppo dell’opus caementicium, che ha origine in Campania (il primo esempio a R. è forse il tempio della Magna Mater), consente lo sviluppo di nuove forme architettoniche per opere utilitarie, tra queste il celebre Ponte Emilio, primo ponte stabile, ma anche monumentali, come l’arco onorario. Ai primi decenni del II secolo risalgono infatti le prime attestazioni di fornices (di Stertinio, di Scipione Africano), lungo il percorso della via trionfale (Liv., XXXIII, 27, 4; XXXVII, 3, 7).
È grazie all’applicazione del cementizio che fu ancora possibile, nel giro di circa un trentennio, risolvere la questione degli scali tiberini, creando a sud un nuovo centro portuale in sostituzione dell’arcaico porto del Foro Boario, sottoposto a continue inondazioni e ormai troppo piccolo per sopperire alle necessità della nuova capitale mediterranea. Sono in ogni caso noti ingenti lavori nel vecchio porto al termine del III sec. a.C., con opere di arginatura e di interramento, con una colmata sulla quale sarà riedificato il tempio di Portunus, uno pseudoperiptero tetrastilo quasi interamente conservato. Le basi del nuovo emporio furono gettate nel corso della celebre edilità di M. Emilio Lepido e M. Emilio Paolo, nel 193 a.C., quando fu realizzato un portico fuori Porta Trigemina (Liv., XXXV, 10, 12): si tratta della Porticus Aemilia, completata dai censori del 174 (Q. Fulvio Flacco e A. Postumio Albino), essi pure impegnati nello sviluppo del nuovo porto tiberino. È unanime l’identificazione con il grande complesso a sud dell’Aventino, documentato anche dalla Forma Urbis marmorea: con una superficie coperta di circa 3 ha e uno spazio suddiviso in 50 ambienti a pianta allungata, rimane ancora oggi uno dei più grandi monumenti antichi di R., anche in confronto con le immense opere imperiali. Altre porticus furono realizzate nel 179 a.C. (censori M. Fulvio Nobiliore e M. Emilio Lepido), anch’esse, sembra, in relazione con i percorsi tra vecchio e nuovo porto tiberino.
Il II secolo coincide ancora con il momento in cui fu più forte a R. la pressione culturale dell’Ellenismo, con l’ingresso in città di opere d’arte e materiali pregiati e, insieme a questi, di forme architettoniche nuove che rispondono a una diversa concezione dello spazio urbano e a un diverso stile di vita. La città che era parsa disadorna e poco monumentale ai cortigiani macedoni ancora nel 182 a.C. (Liv., XL, 5, 7) muta rapidamente il suo volto, in particolare nelle aree nevralgiche della vita politica e civile: Foro e Campo Marzio.
Contemporanea alla creazione dell’emporio è infatti la sistemazione della piazza forense, attraverso la nuova tipologia architettonica della basilica. È interessante notare il carattere ufficiale della loro costruzione: nella maggior parte dei casi opera di censori, dunque opere intese come utilitarie, le basiliche realizzate nel corso del II sec. a.C. riflettono assai bene il coerente programma pubblico di sistemare in modo definitivo il centro della vita cittadina, duramente colpito da un violento incendio nel 210 a.C. Concepita come una sorta di prolungamento del Foro, uno spazio coperto dove si potevano svolgere attività giudiziarie, economiche e commerciali, la basilica romana deriva i suoi aspetti formali dalla stoà greca, giungendo tuttavia a una realizzazione architettonica interamente nuova. Dalla stessa natura dello spazio forense appare evidente una posizione preminente delle due basiliche longitudinali, Fulvia-Emilia e Sempronia, che diedero al Foro la definitiva sistemazione spaziale fino in età tardoimperiale, attraverso le ricostruzioni di età tardorepubblicana e augustea. Nonostante siano noti alcuni resti, non abbiamo dati sufficienti alla ricostruzione dell’impianto originario. In mancanza di dati sicuri in genere ci si riferisce alle considerazioni di Vitruvio (V, 1, 4-5) sulla basilica canonica, nonché alle basiliche repubblicane conservate nelle colonie, che ragionevolmente si suppone abbiano avuto a modello gli edifici urbani. Vitruvio teorizza una pianta rettangolare con fronte porticata sul foro, dove l’ampiezza non deve essere inferiore a un terzo né superiore alla metà della lunghezza e la navata centrale è sopraelevata con un duplice ordine di colonne. Da altri esempi noti appare evidente come non vi fosse in età repubblicana una tipologia definita: si tratta generalmente di aule a pianta rettangolare con una navata centrale più ampia e sopraelevata rispetto alle navate laterali.
Livio informa che la prima basilica costruita a R. fu la Porcia, a opera di M. Porcio Catone, censore nel 184 a.C., tra Curia Hostilia e vicus Lautumiarum, sul luogo di due preesistenti atria privati (XXXIX, 44, 7), ma il termine basilica è in realtà più antico: in due passi plautini (in commedie databili tra il 194 e il 191 a.C.: Curculio, vv. 470- 82 e Captivi, vv. 813-15), apprendiamo che la basilica e i suoi frequentatori (i “subbasilicani”) vanno collocati nel Foro nel luogo che sarà occupato dalla Basilica Emilia, lo stesso luogo dove si trovava un enigmatico edificio, l’Atrium Regium, ricostruito all’indomani dell’incendio del 210 a.C. (Liv., XXVI, 27, 2-4; XXVII, 11, 16). Sarebbe dunque questa la prima basilica, indicata con una locuzione, forse al principio solo colloquiale, che sostituisce, con ellenizzazione del termine latino, il vecchio nome Atrium Regium. Chiarito il problema testuale, la questione si è spostata sull’origine dell’Atrium Regium, se sia da considerare un edificio risalente a età arcaica o se l’appellativo “regale” non sia piuttosto da far risalire a qualche caratteristica (legata a qualche evento specifico collegato piuttosto alla regalità ellenistica) dell’atrium, o – è ipotesi recente – se vi fosse un legame anche funzionale con le sale di rappresentanza dei basileia ellenistici. Nel 179 a.C. fu eretta dal censore M. Fulvio Nobiliore (Liv., XL, 51) la Basilica Fulvia sul luogo della basilica “plautina” nell’area settentrionale del Foro. Sul lato meridionale, di fronte alla Fulvia-Emilia, il censore Tiberio Sempronio Gracco costruì nel 169 la Basilica Sempronia. L’ultima basilica di II secolo fu costruita da Lucio Opimio (Cic., Sest., 140; Varro, Ling., V, 156), autore anche di un consistente restauro del tempio della Concordia.
L’altro polo della vita civile, il campus, che nell’accezione istituzionale indicava il luogo del censo e delle elezioni, continua a essere occupato dai monumenti dei viri triumphales, con templi e portici che costeggiano e si affacciano sulla Villa Publica. Ma è soprattutto dal Circo Flaminio che provengono le principali attestazioni dell’altro tipo di porticus che si impone a R.: non le grandi opere utilitarie che costeggiano gli scali del Tevere, ma la diretta trasposizione della stoà del mondo ellenistico, il maggior strumento di qualificazione dello spazio architettonico urbano. La prima testimonianza di una porticus monumentale risale al 166 a.C. con la Porticus Octavia, monumento trionfale di Cn. Ottavio per la vittoria navale sul re Perseo di Macedonia. Nulla è conservato di questo edificio, ma sappiamo che era ancora in età imperiale degno di nota per articolazione planimetrica (porticus duplex : a due navate) e per la decorazione del colonnato con capitelli di bronzo (Plin. Nat. hist., XXXIV, 13). La Porticus Metelli celebrava un altro grande trionfo macedonico, quello di Q. Cecilio Metello nel 148 a.C. (Vell., I, 11, 3); anche se ricostruita interamente in età augustea (Porticus Octaviae), i resti dell’edificio originario mostrano che era, già nella prima fase, un quadriportico a pianta quadrangolare, di proporzioni leggermente minori della successiva Porticus Octaviae, forse privo del propileo sud-occidentale. Il quadriportico racchiudeva un tempio già esistente, dedicato a Giunone Regina, e un altro contemporaneo alla costruzione, dedicato a Giove Statore, un tempio periptero (almeno nella fase originaria), il primo interamente di marmo pentelico, opera dell’architetto greco Ermodoro di Salamina (di Cipro), autore a R. anche dei Navalia, la darsena delle navi militari sul Tevere.
All’influenza di Ermodoro, il primo architetto attivo a R. di cui ci sia stato restituito il nome, si è a ragione collegata la tendenza che percorre tutto il resto del II secolo nella realizzazione di edifici religiosi chiaramente ispirati a modelli architettonici ellenici, come il tempio di Marte in circo cui vanno riferiti i resti sotto la chiesa di S. Salvatore in Campo e soprattutto la magnifica tholos corinzia del Foro Boario.
Conosciamo assai meno, perlomeno non a R., le vicende di quella che è stata definita la “seconda generazione” di architetti formatisi, più o meno direttamente, alla scuola di Ermodoro e degli altri maestri ionici. Al nome di C. Mucio è legato il principale monumento urbano di C. Mario: un architetto di cittadinanza romana, ma di nascita e cultura greco-asiatica (lui stesso o altro membro della sua famiglia “firma” in greco un ninfeo a Segni). Il tempio di Honos e Virtus, periptero sine postico, che commemorava il trionfo sui Cimbri e sui Teutoni, era a giudizio di Vitruvio (VII, praef., 17) il più bello del periodo, perfetto quanto a regole dell’ordine, ma svilito dalla povertà del materiale impiegato: si è congetturato che la selezione di materiali di tradizione italica per il suo monumento fosse il frutto di una precisa scelta politica e suntuaria dell’homo novus.
Gli anni della dittatura di Silla e, dopo la sua morte, l’attività di personaggi a lui legati vedono un importante programma edilizio soprattutto nel Foro, teatro del brutale ripristino dell’auctoritas senatoria, con un’ondata di reazione e di vendette che oscurarono le già cruente vicende graccane: “fece più morti il Lago Servilio che il Lago Trasimeno” scherzerà Cicerone (Rosc., 89), riferendosi alla fontana del Foro ornata con le teste recise dei proscritti. Nella piazza forense si susseguono interventi che cancellano concretamente le prerogative popolari espresse nei comizi e nei concili plebei. Dopo l’80 a.C. il pretore C. Aurelio Cotta ripavimenta l’intera piazza ed edifica una nuova sede per i tribunali; negli stessi anni viene sostituita la vecchia Curia Hostilia con un nuovo più grande edificio che, occupando in parte il comitium, riduce drasticamente lo spazio che da antichissima tradizione era assegnato alle consultazioni popolari.
Scompaiono anche altri monumenti del paesaggio urbano, con una furia che precorre le abolizioni della memoria imperiali: Silla fa rimuovere i Trofei di Mario, uno dei quali era posto sicuramente sul Campidoglio, che commemoravano le vittorie su Giugurta e su Cimbri e Teutoni (le “immagini” di Mario saranno provocatoriamente restituite da Cesare nella sua edilità: Suet., Iul., 11; Plut., Caes., 6, 1-5). Sul possibile aspetto di questi monumenti è istruttivo il confronto con un analogo monumento capitolino, in marmo grigio e chiaramente posto a celebrazione di una vittoria, attribuito a Silla (ma di dibattuta cronologia).
Negli stessi anni Q. Lutazio Catulo ricostruisce il Campidoglio, distrutto da un incendio nell’83 a.C., con una curatela ottenuta a prezzo di violente polemiche (Suet., Iul., 15). All’architetto di Catulo risale anche l’edificio noto come Tabularium, una delle più impressionanti realizzazioni del tempo, che elimina le irregolarità del colle e forma sul Foro una quinta scenografica di grande impatto: oltre 70 m di ingombro, a più ordini di arcate, con passaggi interni coperti a volta. Nello stesso periodo M. Emilio Lepido, avversario politico di Catulo, si impegna nella ricostruzione della basilica forense, con un ricchissimo apparato decorativo, che comprendeva forse anche il grande fregio di marmo pentelico con episodi della storia mitica di R. (ma la datazione è discussa). Probabilmente allo stesso periodo risale il tempio dei Castori in circo Flaminio, l’ultimo tempio repubblicano dell’area, che ospitava le statue dei Dioscuri capitolini e la cui pianta, nota da Vitruvio (IV, 8, 4), è restituita anche da un frammento di una pianta marmorea precedente quella severiana. Si tratta di una tipologia templare scarsamente attestata fuori di R. e che nell’Urbe conta limitati esempi (il tempio di Veiove sul Campidoglio, il tempio della Concordia nel Foro nella fase tiberiana): a pianta trasversale e con ingresso dal lato lungo, particolarità che è stata spiegata con la necessità di inserire l’edificio entro uno spazio obbligato.
Gli anni centrali del I sec. a.C. segnano un’impressionante rottura con la tradizione nella lotta politica, fino allora contenuta entro limiti istituzionali. Le vicende edilizie seguono e contrassegnano l’evoluzione degli eventi, mostrando una città totalmente in preda alle iniziative rivali di munificenza e di autopromozione degli imperatores antagonisti. Pompeo aggira o sfida il divieto censorio di erigere teatri di muratura e, edificando il primo teatro stabile (una sorta di rocca artificiale nella pianura del Campo), domina l’area dei Saepta e gli altri monumenti della zona; Cesare invece sceglie più audacemente come proprio terreno tutte le strutture “istituzionali”, sia in Campo Marzio (Saepta e Villa Publica) che nel Foro, coinvolgendo magistrati in carica e personaggi di prestigio del tempo e si spinge oltre, fino al progetto di un nuovo foro dominato dal tempio di Venere Genitrice. Negli ultimi decenni della Repubblica il Senato si troverà a essere ricevuto nella curia del complesso pompeiano o presso il pronao del tempio di Venere Genitrice: la curia sillana era stata abbattuta e il nuovo edificio, la Curia Iulia, nella sistemazione finale, ultimata da Augusto nel 29 a.C., si adeguerà all’orientamento del foro cesariano.
Si è osservato che il complesso pompeiano del Campo Marzio, inaugurato nel 55 a.C. con giochi sfarzosi, è sotto certi aspetti il precedente immediato dei Fori Imperiali, per la presenza della divinità “personale” del dedicante, per il gigantismo delle proporzioni, per l’ampiezza dello spazio del quadriportico, che riproponeva in città la tradizione del giardino ellenistico, per la ricchezza e la complessità della decorazione. Il diametro esterno della cavea teatrale misurava oltre 130 m e la sua forma semicircolare è ancora oggi leggibile nella disposizione degli isolati moderni; il teatro non era appoggiato al pendio di una collina, come erano solitamente i teatri greci cui esplicitamente si ispirava, ma interamente sostruito, creando dunque una collina artificiale elevata almeno una cinquantina di metri sulla pianura del Campo Marzio. L’ostilità romana alla costruzione di teatri stabili, in quanto potenziali luoghi di raduni sediziosi, veniva superata presentando il teatro stesso come una cavea anteposta a un tempio, quello di Venus Victrix, che sorgeva alla sommità, collegato ad altri culti del medesimo complesso (Honos et Virtus, Felicitas, Victoria). Il quadriportico dietro la scena, a forma di piazza (180 x 135 m), terminava, all’estremità opposta al teatro, con una grande esedra che ospitava la Curia Pompeia.
Anche il progetto del Foro di Cesare risale almeno al 54 a.C., anno dei primi acquisti di terreni nel quartiere dietro il Foro Romano (Cic., Att., XVII, 7). Fu inaugurato nel 46 a.C. e comprendeva la piazza rettangolare, lastricata con travertino, i portici perimetrali e il tempio di Venere Genitrice, votato dal dittatore nel 48 a.C., prima della battaglia di Farsalo. Il tempio, inizialmente addossato alla collina che univa Campidoglio e Quirinale e liberato solo dai grandi lavori traianei, fu, sin dalla fase originaria, l’elemento dominante dell’insieme monumentale. Se piazza e portici costituiscono infatti un temenos nella tradizione dei grandi quadriportici repubblicani, il tempio frontale con podio senza gradinata sul lato di fondo del complesso (e non più in posizione centrale) rappresenta la vera novità e servì da modello per gli altri Fori Imperiali e per numerosissime realizzazioni nelle province.
Alla magnificenza dell’architettura pubblica fa riscontro l’esibizione estrema nelle abitazioni della nobilitas e negli horti della tarda Repubblica. Si tratta di un fenomeno che la stessa natura aperta della domus romana, con i suoi spazi di rappresentanza, rendeva in certo modo naturale, nonostante la morale corrente andasse piuttosto in un’altra direzione: “Il popolo romano odia il lusso privato ma apprezza la pubblica magnificenza”, così almeno afferma Cicerone (Mur., 76), che da parte sua proprio in quel periodo (alla fine del 62 a.C.) acquista a carissimo prezzo una delle più fastose domus del Palatino.
Nel 58 a.C., M. Emilio Scauro, dopo una edilità caratterizzata da giochi spettacolari, trasferisce nella propria domus palatina il numero, certamente eccessivo, di 360 colonne di marmo usate per l’allestimento dei ludi (Plin., Nat. hist., XXXVI, 114). Dal momento che la intricata storia delle abitazioni alla pendice del Palatino è nota dalle fonti in molti particolari, si è pensato che a questa domus potrebbero essere attribuiti i piani sotterranei di un’abitazione indagata nell’area, resti che consentirebbero una ricostruzione piuttosto attendibile del piano nobile. L’archeologia ha restituito altri settori di domus di questo periodo (cd. Casa di Livia, Casa dei Grifi sul Palatino), o elementi decorativi di grande impegno (come le pitture odissaiche dell’Esquilino).
La felice posizione del settore del Pincio, il collis hortulorum, rende questa zona ideale per gli horti più celebri. Qui si trovavano i celebri Horti Luculliani, formatisi intorno al 60 a.C.; leggermente posteriori sono gli Horti Sallustiani, tra Quirinale e Pincio, che divennero in età tiberiana parte del demanio imperiale e furono residenza imperiale in diverse occasioni. Il complesso includeva edifici sacri, portici, ninfei, impianti termali e soprattutto la decorazione statuaria (raccolta evidentemente nel corso del tempo) che formò la parte principale della collezione Ludovisi. La storia di queste enormi proprietà, soprattutto i grandi horti che facevano corona alla città, di volta in volta brutalmente acquisiti negli anni convulsi del secondo triumvirato dalle fazioni emergenti e gradualmente inglobati nel patrimonio imperiale, consente di seguire la crescita urbanistica di R. imperiale, una città totalmente trasformata anche nel suo centro monumentale dalla grande attività edilizia augustea.
In tre ampli capitoli delle Res Gestae (19-21) Augusto stesso registra le opere da lui realizzate a R. meritevoli di essere ricordate. Composto e rimaneggiato in età matura, il più straordinario documento epigrafico del mondo romano, la cui definizione come genere letterario copre tutte le gamme possibili di interpretazione (manifesto di regime, elogium di tradizione repubblicana, imitazione delle iscrizioni rupestri dei sovrani orientali, testamento politico: probabilmente tutte queste cose insieme), doveva essere collocato di fronte all’ingresso del Mausoleo di Augusto nel Campo Marzio, iniziato nel 29 a.C.
I resti attuali del mausoleo non rendono giustizia all’imponente magnificenza dell’insieme, con il suo sviluppo in altezza, una collina artificiale che dominava la pianura circostante, con i tamburi cilindrici di marmo e travertino, sobriamente decorati con fregi dorici, il tumulo con alberi sempreverdi (forse bosso o alloro) e, soprattutto, la colossale statua di bronzo che dominava l’insieme, collocata, naturalmente, quando il committente del monumento era ancora in vita e in età giovanile (Strab., V, 3, 8). Edificato probabilmente su terreno privato, ma con chiaro riferimento ai sepolcri pubblici degli eroi della Repubblica che occupavano il Campo Marzio, aveva il suo ingresso non sulla via Flaminia ma proprio sul campus: quella parte della pianura libera da edifici e destinata alle esercitazioni militari. Da qui il popolo romano, ma soprattutto i giovani che nel campo si esercitavano, potevano leggere sulle tavole bronzee di fronte all’ingresso del sepolcro (indagini recenti hanno messo in luce le basi dei pilastri) la versione originale delle Res Gestae, a noi nota attraverso copie soprattutto dalle province asiatiche.
La logica che presiede alla scelta dei monumenti menzionati nelle Res Gestae è, a prima vista, piuttosto semplice e chiara. Si tratta degli edifici realizzati personalmente da Augusto, attingendo al suo patrimonio personale, dei quali è specificata la natura del terreno, in particolare lo status giuridico-religioso dei templi (attraverso l’uso dei termini aedes e templum), sul quale questi vennero compiuti o ultimati. Nel capitolo 19 delle Res Gestae sono elencati gli edifici, costruiti ex novo o restaurati, realizzati su suolo pubblico; nel successivo le opere restaurate o portate a termine (alcune delle quali tuttavia erano certamente su suolo pubblico), il restauro di 82 templi nel celebre sesto consolato, per incarico del Senato e il restauro della via Flaminia; il capitolo 21 elenca i monumenti edificati su suolo privato con il bottino di guerra (Foro di Augusto con tempio di Marte Ultore e Teatro di Marcello) e altri doni consacrati sempre ex manubiis nei principali santuari (seguono nei capitoli successivi elenchi di ludi gladiatori, cacce, naumachie e altri dona offerti al popolo).
Questo elenco redatto con scrupolo notarile comprime e presenta insieme monumenti concepiti in tempi diversi e in differenti circostanze politiche: dall’età triumvirale fino alla vittoria di Nauloco su Sesto Pompeo, dagli anni che separano questa dalla vittoria di Azio (36-31 a.C.), quando l’assenza di Antonio fece di Ottaviano il padrone della città, e soprattutto il periodo che segue, inaugurato dal triplice trionfo del 29 a.C., quando Ottaviano, ormai unico dominatore di R., può realizzare i suoi programmi senza condizionamenti di sorta e costruire le basi giuridico-formali del suo potere.
Non pochi di questi monumenti potevano suscitare sentimenti contrastanti tra i cittadini. Nelle Res Gestae il tempio del Divo Giulio, il più eversivo dei monumenti romani, sorto sul luogo dei sediziosi funerali del dittatore, è presentato semplicemente come una aedes costruita su suolo pubblico. Questo tempio, il primo santuario edificato dopo secoli nel Foro Romano, insieme alla Curia e alla Porticus Gai et Lucii sono i soli monumenti forensi esplicitamente menzionati nelle Res Gestae: nondimeno alla morte del principe il Foro appariva interamente circondato dai monumenti della gens Iulia, con i templi dei Castori e della Concordia ricostruiti da Tiberio ormai principe designato, con gli archi che scandivano le entrate della piazza, dominata dalle colonne rostrate decretate dal Senato per la vittoria aziaca.
Con l’appellativo di templum le Res Gestae registrano i due nuovi fondamentali culti della città, Apollo Palatino e Marte Ultore, simboli della nuova politica religiosa e monumenti chiave per la comprensione del classicismo augusteo. Il complesso palatino conteneva le opere di alcuni dei massimi scultori ellenici del IV sec. a.C. (Skopas, Timoteo e Cefisodoto) insieme a terrecotte architettoniche policrome di finissima fattura e rivestimenti di avorio. Significativamente collocato presso la Casa di Augusto, con una commistione tra palazzo e santuario che evocava modelli pergameni, il complesso si estendeva su una terrazza artificiale dominante sul Circo Massimo e comprendeva, oltre al tempio, un porticato con colonne di giallo antico, scandito dalle statue delle Danaidi (identificate con erme femminili di marmo scuro, poste forse tra i pilastri al piano superiore del porticato), e biblioteche greca e latina con le pareti ornate dei ritratti dei più celebri oratori e poeti. Per molti aspetti diverso era il programma del Foro di Augusto, ideato e messo in opera in un lunghissimo lasso di tempo, tra il 44 e il 2 a.C., una “tra le più belle costruzioni che mai vide la terra” secondo Plinio (Nat. hist., XXXVI, 102) e noto anche da copie o “citazioni” in Italia e nelle province (ad es., il foro di Mérida in Spagna). Il nuovo culto di Marte Ultore attrasse nel foro augusteo funzioni e prerogative che erano prima capitoline e ne fece uno dei centri nevralgici della vita urbana di età imperiale, con l’assunzione della toga virile dei giovani, con i riti legati alla partenza e al ritorno dei generali dalle province, che nel tempio deponevano le insegne della vittoria. Separato dal popolare quartiere della Subura da un imponente muro di pietra gabina, un tufo refrattario al fuoco, ancora conservato a tratti fino all’altezza originaria, il Foro di Augusto era costituito da una grande piazza porticata, con due emicicli sui lati lunghi, chiusa sul lato breve di fondo dalla fronte ottastila del tempio di Marte Ultore. I dati dei recentissimi scavi nell’area hanno portato a ricostruire, nell’impianto originario del foro augusteo, una basilica a esedre sul lato sud-occidentale del foro, il che ne farebbe dunque il precedente diretto del grande foro traianeo. Il tempio di Marte era interamente costruito con blocchi di marmo lunense, con capitelli corinzi che per struttura ed esecuzione costituirono un canone di riferimento per tutta l’architettura successiva fino al Rinascimento e al Neoclassicismo. Ai lati del tempio sorgevano due archi, il primo dedicato a Germanico, il secondo, simmetrico, eretto più tardi da Tiberio in onore del figlio, Druso Minore. Come concezione architettonica, il nuovo foro riprende, amplificandole, numerose caratteristiche del Foro di Cesare, in primo luogo la presenza del tempio sul fondo, la chiusura e l’unificazione dello spazio. Le due grandi esedre aperte ai lati della piazza costituiscono una nuova soluzione di dilatazione spaziale, destinate a ospitare gli elementi più importanti di un programma decorativo di grande complessità, ideato e messo a punto nei lunghi anni di edificazione: questo presentava, si è efficacemente sintetizzato, la nuova “versione autorizzata della mitologia imperiale”.
Oltre ai monumenti da lui stesso realizzati, Augusto registra nelle Res Gestae gli onori a lui decretati dal Senato: quelli di altissimo valore simbolico (corona civica a fastigio della sua abitazione, clipeus virtutis nella Curia) e, tra i monumenti, i due altari votati in occasione di due celebri reditus, l’Ara Fortunae Reducis presso Porta Capena e l’Ara Pacis del Campo Marzio. In questo caso, quanto è taciuto riveste interesse pari a quanto è registrato: mancano infatti gli archi, da questo periodo i principali elementi del linguaggio onorifico imperiale, e le colonne rostrate del Foro; forse non per caso vengono scelti a rappresentare la gratitudine del corpo civico i due altari simbolo di conquiste militari, ma in una oikoumene pacificata. Per l’altare della Fortuna Redux sono disponibili solo le rappresentazioni monetali, quasi per intero c’è stato invece restituito, come è noto, l’altare del Campo Marzio.
Ugualmente non menzionato nelle Res Gestae è il grande programma amministrativo e quanto fu realizzato dal suo entourage, primo fra tutti Agrippa. La riorganizzazione amministrativa, gestita in modo graduale a partire dal 13/2 a.C. e conclusa nel 7/6 a.C., portava nuove magistrature e nuovi strumenti legislativi a operare su una città che nel frattempo si era accresciuta al di là delle vecchie mura repubblicane. Prendendo per la prima volta in considerazione tutta l’estensione dell’abitato (le porte delle mura serviane vennero nel contempo restaurate), il tessuto urbano venne ripartito in quattordici regioni, suddivise a loro volta in diversi vici, con strutture (prime fra tutti le caserme dei Vigili) razionalmente distribuite. Fu adottata una serie di misure che univa le esigenze pratiche alla possibilità di esercitare un controllo capillare della plebe urbana (i magistri dei vici erano designati direttamente dal principe).
Dopo la battaglia di Nauloco, ma soprattutto dopo il trionfo aziaco, quando l’enorme disponibilità economica della vittoria egiziana consentì di avviare un programma impegnativo e di largo respiro, la politica edilizia augustea accentuò la divisione fra la città e il quartiere monumentale fuori del pomerio, il Campo Marzio. Le ultime autorizzazioni a costruire monumenti con le manubiae interessarono esclusivamente il Campo Marzio, dove sorsero nuovi edifici da spettacolo, un terzo più piccolo teatro permanente, realizzato nel 13 a.C. da L. Cornelio Balbo presso la ormai praticamente annullata Villa Publica, e il primo anfiteatro stabile di R., costruito da L. Statilio Tauro nel 29 a.C. (ma già iniziato nel 34) in una zona non ancora identificata: i ludi gladiatori furono così allontanati dalla piazza del Foro e dotati di un edificio apposito.
Il principale degli autori della R. “di marmo” fu Agrippa. Il vincitore di Nauloco assunse l’edilità post consulatum, un ritorno a una magistratura minore che mascherava il carattere privato dell’evergetismo con una precisa investitura a operare per il rinnovamento della città (33 a.C.): si avviò allora il programma di risanamento delle infrastrutture urbane, strade, fognature, rete idrica (Aqua Iulia, restauro di Aqua Appia, Marcia e Anio Vetus; nel 19 a.C. Aqua Virgo) la cui portata venne duplicata; allora furono probabilmente iniziati i lavori di bonifica, che consentirono, nel decennio seguente, di realizzare il Pantheon, il rifacimento dei Saepta secondo il piano cesariano, sul quale aveva già lavorato Lepido (26 a.C.; il diribitorium fu completato da Augusto più tardi), il primo complesso termale pubblico di R. (un laconicum dedicato nel 25, verosimilmente ultimato nel 19 a.C.), a cui si aggiunsero lo Stagnum e l’Euripo, completati forse nel 19 a.C., e un nuovo ponte, corrispondente all’attuale Ponte Sisto, che connetteva il Campo con il Trastevere e univa le immense proprietà che lo stesso Agrippa aveva su entrambe le rive (a lui si attribuisce la villa della Farnesina). Stagnum, terme, Aqua Virgo ed Euripo dovevano costituire, nella fase finale, un insieme monumentale organico e coerente (ad es., Ovid., Pont., I, VIII, 35-38; Trist., III, XII, 21-22), a cui si aggiungeva un nemus con numerose opere d’arte. Nel campus Agrippae, a est della via Flaminia, si trovava la Porticus Vipsania, il portico monumentale ultimato da Augusto che conteneva la prima rappresentazione geografica di tutto il mondo conosciuto (orbis pictus), da cui si ritiene derivata la Tabula Peutingeriana.
Alla morte di Agrippa (12 a.C.) tutti i monumenti realizzati in privato solo furono lasciati in eredità ad Augusto, che a sua volta li rese pubblici. L’intero Campo Marzio, comprese le aree destinate a funzioni civiche ben precise, fu monumentalizzato, arricchito di opere d’arte, fontane, terme pubbliche e verrà costantemente ricordato come luogo di amene passeggiate. L’effetto finale della sistemazione monumentale, a cui vanno aggiunte le realizzazioni nella zona del Circo Flaminio, è efficacemente descritto da Strabone (V, 3, 8): la città intera assumeva agli occhi del geografo quasi l’aspetto di un sobborgo del Campo Marzio.
Il Campo Marzio è certamente il settore urbano dove è più forte l’impronta lasciata da Augusto, sia l’area centro-settentrionale, l’unica – insieme a quella dei Fori Imperiali – ad avere in seguito uno sviluppo monumentale, sia il settore del Circo Flaminio, dove vi furono considerevoli interventi su tutti i grandi monumenti trionfali di età repubblicana. Furono tuttavia poche le aree chiave della città a scampare all’intervento della munificenza pubblica di Augusto. In tutto il centro monumentale il principe si era trovato a ereditare i programmi edilizi di Cesare (Suet., Iul., 44, 1-2): nel complesso Foro e Curia Iulia, nel lato del Campidoglio verso il Circo Flaminio (qui è stato localizzato il progetto grandioso del teatro in muratura, di cui quello di Marcello fu il più contenuto risultato), nello stesso Campo Marzio (complesso dei Saepta, grandioso tempio di Marte). Per quanto sia difficile valutare con certezza la reale portata dei programmi cesariani, è indubbio che Augusto si mosse con maggiore attenzione alla tradizione e alla legalità, con la tendenza ben sottolineata nelle Res Gestae a costruire su suolo privato e a restituire al pubblico zone occupate da proprietà private (è il caso dell’Esquilino, dove l’acquisizione degli horti di Mecenate, che aveva bonificato l’area della necropoli repubblicana, veniva controbilanciata dalla costruzione e dall’apertura al pubblico della Porticus Liviae sul sito della fastosa casa di Vedio Pollione).
Per quanto dominato da personalità diverse e complesse, il periodo da Tiberio a Nerone, importantissimo per la storia urbana, rivela nella politica urbanistica diversi e non secondari elementi di continuità. Quello più evidente riguarda la storia dello sviluppo urbano, ricostruibile attraverso la progressiva acquisizione delle grandi proprietà private e degli horti al patrimonio imperiale a partire dall’età augustea: una serie di annessioni che sembrano rivelare la presenza di una politica urbanistica coerente, che controlla e sovrintende all’espansione dell’abitato. Per l’edilizia pubblica e monumentale sono invece percepibili, in modo spesso poco chiaro, alcune generali linee di tendenza, in primo luogo l’attenzione a opere di pubblica utilità e alle infrastrutture da parte di Tiberio e soprattutto di Claudio. L’altra linea di tendenza è quella che accomuna i progetti di Caligola e Nerone, con opere più “demagogiche” o legate al tentativo di stabilire a R. modelli di regalità orientale, soprattutto per quanto riguarda il problema della residenza imperiale. Sul piano della politica monumentale il chiaro elemento comune è il richiamo dinastico ad Augusto, tanto più forte con Claudio, in quanto veniva con lui a mancare quell’elemento formale di legittimità fornito dall’adozione e dall’appartenenza alla gens Iulia.
Restauri di grandi monumenti (Teatro di Pompeo) e opere di pubblica utilità (Castra Praetoria ai confini dell’abitato) caratterizzano dunque l’attività edilizia di Tiberio, che si inserisce nel solco augusteo. Al padre adottivo egli edifica un tempio presso l’area forense, dedicato solo al tempo di Caligola, di cui abbiamo testimonianza da figurazioni monetali e la cui localizzazione è dibattuta. Claudio, in particolare, riprende su grande scala la politica dei servizi augustea: nuovi acquedotti e restauro di quelli esistenti, riorganizzazione delle strutture anche amministrative delle frumentationes e, soprattutto, il tentativo di adeguare, con grandi opere, le sempre carenti strutture portuali dell’Urbe.
La Casa di Augusto sul Palatino, nonostante i vantaggi indubbi della posizione e della vicinanza con il nuovo tempio di Apollo e con le memorie più antiche del colle, rimaneva un edificio di dimensioni contenute (anche aggiungendo al complesso la cd. Casa di Livia). La residenza imperiale era verosimilmente andata ampliandosi con altre domus palatine (la Domus Tiberiana tra queste) e per primo Caligola aveva dato inizio a un ampliamento che aveva destato scandalo (Suet., Cal., 22, 3) e che Plinio il Vecchio considerava un importante precedente del progetto neroniano: Bis vidimus urbem totam cingi domibus principum Gai et Neronis... (Nat. hist., XXXVI, 111). Questa informazione pliniana, spesso considerata frutto di una comprensibile esagerazione retorica tesa ad accomunare negli intenti i due despoti dell’età giulio-claudia, trova in realtà numerose conferme nel complicato e contraddittorio dossier relativo ai progetti edilizi di Caligola. Oltre ai lavori sul Palatino, che Svetonio presenta ben distinti dalle opere edilizie del principe, inserendoli piuttosto tra le opere compiute dal “mostro” (Cal., 22), andrebbe infatti considerata quella tendenza a utilizzare gli spazi per uso privato (ad es., il Gaianum e lo stesso circo vaticano), che si contrappone alla diversa attitudine della politica urbanistica augustea e che poteva a buona ragione essere percepita come una sorta di occupazione della città.
All’età di Caligola è definitivamente acquisito al demanio imperiale l’intero settore dell’Esquilino, con altre importanti grandi proprietà (prime fra tutte quelle degli horti Lamiani), che si aggiungevano ai celebri horti di Mecenate. È da considerare ancora la possibilità che Caligola avesse occupato in modo indebito anche spazi pubblici, nel Campo Marzio: degli ingenti lavori interrotti dalla sua morte, che prevedevano lo smantellamento (forse una deviazione) dell’acquedotto Vergine, abbiamo la testimonianza fornita dalla straordinaria iscrizione claudiana dell’arco del Nazareno (CIL VI, 1252: arcus ductus aquae Virginis disturbatos per C. Caesarem / a fundamentis novos fecit ac restituit) che sancisce la restituzione all’uso pubblico dell’acquedotto Vergine. Quali fossero precisamente i progetti di Caligola in questo settore del centro monumentale è impossibile da determinare con certezza, anche se alcuni indizi porterebbero a ricostruire il progetto di un apparato grandioso (ad es., in Dio Cass., LIX, 10, 5, dove è probabilmente un riferimento ai lavori per l’Iseo Campense). Coerenti con la sistemazione del Campo Marzio e in singolare corrispondenza anche dal punto di vista operativo sono da considerare i grandi lavori negli horti Luculliani: è in questo periodo infatti che viene realizzato il grande ninfeo a emiciclo che farà da quinta monumentale a questo settore urbano fino al XV secolo. Proprietario degli Horti Luculliani era in questo periodo D. Valerio Asiatico (Tac., Ann., XI, 1) e non è improbabile che allo stesso ambizioso homo novus vada attribuita anche la responsabilità dei lavori nel Campo Marzio, secondo quella tradizione a operare insieme su suolo pubblico e privato che Agrippa aveva inaugurato.
Non restano molte altre tracce dell’edilizia monumentale fra Caligola e Nerone: del circo di Caligola nel campus vaticano sopravvive l’obelisco della spina, oggi al centro della piazza di S. Pietro; l’anfiteatro neroniano del Campo Marzio bruciò nel 64 e non venne rifatto, mentre le grandi terme nell’area a nord dello Stagnum Agrippae sono state interamente ricostruite sotto Alessandro Severo e non sappiamo se nello schema rispettassero o meno l’impianto originario. La maggiore impresa edilizia del tempo riguarda la creazione del palazzo di Nerone, la Domus Aurea. Il grande incendio del 64 fu la premessa necessaria perché l’imperatore potesse usare interi quartieri danneggiati dal fuoco per costruire in loro vece il proprio palazzo. Delle quattordici regioni solo quattro si salvarono, tre furono annientate, tutte le altre subirono danni gravi: calcoli estremamente prudenziali stimano i senzatetto in almeno 200.000. Una conseguenza assai meno effimera dell’incendio neroniano riguarda i principi urbanistici che si imposero da quel momento in poi nella pianificazione urbana, della quale si è riconosciuta una traccia nella nuova sistemazione della Via Sacra, tra il Foro e la Velia, e con l’uso prevalente e poi esclusivo del laterizio, materiale di eccellente resistenza, che veniva utilizzato anche nelle abitazioni.
Una prima fase della nuova residenza neroniana è la domus definita Transitoria poiché doveva congiungersi ai giardini di Mecenate sull’Esquilino. Esistono elementi delle sue fondazioni sotto il palazzo di età domizianea, mentre assai più consistenti sono i resti della Domus Aurea. Comprendeva la Velia con l’area poi occupata dal tempio di Venere e Roma, dove si trovava l’immenso vestibolo: “tale che vi sorgeva in mezzo un colosso (...) la larghezza era tale che v’erano tre porticati lungo un miglio”; la depressione poi occupata dal Colosseo: “uno stagno simile a un mare, cinto da edifici formanti delle città” (Suet., Nero, 31, 1); buona parte del Celio (con il tempio del Divo Claudio), dell’Oppio e delle pendici dell’Esquilino, dove si trovano i resti più spettacolari, conservati perché sepolti dalle fondazioni delle Terme di Traiano. L’area occidentale, dove si è di recente proposto di identificare elementi della Domus Transitoria, si organizza intorno a un grande cortile rettangolare, con un porticato aperto verso la valle del Colosseo. Diversa e molto più complessa è l’articolazione planimetrica del settore orientale, con ambienti disposti a raggiera intorno a un grande ambiente ottagonale, la Sala Ottagona.
Le cosiddette “grottesche”, per vedere le quali gli artisti del Rinascimento si sottoponevano a escursioni funamboliche e che hanno condizionato lo sviluppo dell’arte moderna, sono in realtà solo il poco che è rimasto di un apparato decorativo di grandissimo impegno, con i marmi policromi delle pareti e dei pavimenti (poi spogliati), le opere d’arte depredate per l’occasione in Grecia e in Asia Minore, lo sfarzo immenso di ambienti dove tutto era “coperto di oro, ornato di gemme e di conchiglie perlifere”. Nello stesso passo ricordato, Svetonio accenna, calcando naturalmente l’attenzione sugli aspetti più mirabili (“sale da pranzo con soffitti di lastre d’avorio mobili e forate perché si potessero far piovere dall’alto fiori e profumi; la sala principale rotonda, che con moto perpetuo diurno e notturno si girava secondo il moto della terra”), alle principali innovazioni della cultura architettonica, percepibili anche agli studi moderni dal poco che rimane delle opere di Severo e Celere, gli artefici, secondo le fonti, della dimora neroniana. Si è osservato che proprio in questo periodo e in questi cantieri ha avuto inizio quella “rivoluzione strutturale” che porterà nei decenni successivi allo sviluppo di un’architettura di forme articolatissime e di dimensioni grandiose.
Tipico dell’età giulio-claudia è lo sforzo di sviluppare la politica di propaganda dinastica attraverso l’edilizia religiosa e onoraria. Alcune tipologie monumentali, pur con una lunga storia architettonica alle spalle, divengono specifici strumenti della comunicazione del regime; in primo luogo l’altare a cielo aperto con recinto: i modelli augustei vengono seguiti da Tiberio soprattutto con l’Ara Providentiae, eretta prima del 17 d.C., come ricaviamo dalla sua menzione nel s.c. de Pisone patre, dedicata nel giorno dell’adozione di Tiberio. Di altri monumenti conosciamo l’apparato epigrafico o rimangono importanti rilievi, come quelli Della Valle - Medici, assegnati a un’ara Pietatis o piuttosto a un altare eretto per commemorare il reditus trionfale di Claudio dalla Britannia. L’interruzione della linea di discendenza diretta da Augusto spiega l’esaltazione dinastica di personaggi che collegano le due gentes, i Giuli e i Claudi (soprattutto Livia e Germanico) negli stessi luoghi e con le forme già sapientemente organizzati da Tiberio.
Per quanto riguarda i monumenti onorari, è l’arco la tipologia che si impone in Italia, come nelle province. Già noto a R. sin dagli inizi del II sec. a.C. e legato al percorso del trionfo, l’arco trovava analogia con i monumenti onorari dell’Ellenismo maturo nella sua funzione di supporto di statue e di propileo monumentale, ma si differenziava perché i fornices repubblicani erano dovuti a iniziative dei costruttori e non a onoranze decretate dal corpo civico. Solo dall’età augustea l’arco sarà un monumento ufficiale, decretato per meriti eccezionali dal Senato e dal Popolo Romano.
Mancano dati architettonici sicuri sugli archi augustei nel Foro Romano, che dovettero costituire un modello per tutte le opere successive; sul terreno restano scarsi elementi di un arco a tre fornici, tra i templi del Divo Giulio e dei Castori, mentre è controversa l’identificazione dei monumenti raffigurati su monete tra il 30 e il 15 a.C. Queste lacune, in parte integrabili con i numerosi archi diffusi in molte città italiche e provinciali, non impediscono di riconoscere alcune importanti novità: in primo luogo il nesso arco-tempio, frequente in numerose città a partire dagli esempi urbani del Foro Romano e del Foro di Augusto. L’aspetto generale degli archi augustei e altoimperiali, a uno o a tre fornici, doveva essere piuttosto semplice; se pure è ipotizzabile la presenza di elementi figurati sui piloni, il fulcro del programma figurativo rimaneva comunque affidato al gruppo statuario sull’attico. Un documento unico sull’importanza e sul significato politico e dinastico di un monumento ufficiale come l’arco onorario è offerto dalla tabula Siarensis che, con la tabula Hebana, conserva il senatoconsulto relativo alle onoranze postume a Germanico. Dei tre archi (iani) decretati a R., in Germania e in Siria, il testo si sofferma con tutti i particolari del programma figurativo e dell’iscrizione dedicatoria, su quello romano, da erigersi nel Circo Flaminio.
A partire dall’età giulio-claudia si innalzano archi anche al di fuori del percorso trionfale, presso l’entrata in città delle due più importanti arterie stradali, l’Appia e la Flaminia (normale teatro delle cerimonie di adventus o reditus) in corrispondenza con il santuario di Marte presso Porta Capena e con i grandi complessi monumentali del Campo Marzio. Sull’Appia abbiamo menzione di un arco dedicato a Druso Maggiore. L’Arco di Claudio eretto per le vittorie britanniche monumentalizza il passaggio sulla via Lata (Flaminia) dell’acqua Vergine a piazza Sciarra. Una svolta sostanziale nell’evoluzione dell’apparato decorativo dell’arco onorario si ha con l’età neroniana: l’arco partico di Nerone sul Campidoglio (Tac., Ann., XV, 18,1) è perduto, ma le numerose raffigurazioni monetali permettono di riconoscere, qui applicate per la prima volta, diverse soluzioni che danno alla struttura stessa del monumento una diversa e più movimentata articolazione: il monumento è a un fornice, con colonne su alti plinti interamente distaccate dai piloni; a queste fa riscontro una maggiore complessità della trabeazione e si nota soprattutto la presenza di statue a tutto tondo sulla trabeazione e di pannelli a rilievo sulle fronti dei piloni, tra cui scene di battaglia e Vittorie con trofei.
Il primo intento di Vespasiano, giunto al potere dopo la morte di Nerone e dopo un torbido anno di guerre civili che avevano portato, tra l’altro, alla seconda distruzione del tempio di Giove Capitolino, fu di restituire al popolo quanto Nerone aveva sottratto: in sostanza quasi tutto il centro della città. Si trattava di una scelta chiaramente demagogica e politica, tutt’altro che semplice da realizzare (e infatti i modi e i tempi della dismissione della Domus Aurea furono ben più lunghi e complessi di quanto presentava la propaganda), una scelta che rispondeva tuttavia anche a intenti amministrativi e urbanistici ben precisi, alla necessità di ristabilire percorsi di viabilità pubblica, di censire nuovamente le proprietà private, di ridisegnare in sostanza il catasto urbano. Buona parte di questo fu realizzato nel corso della celebre censura retta congiuntamente da Vespasiano e Tito nel 73; a queste operazioni è ispirata con tutta probabilità l’ammirata descrizione dell’estensione fisica di R. che leggiamo in Plinio (Nat. hist., III, 66- 67), in un passo purtroppo complicato da gravi problemi di interpretazione. A questa grande operazione amministrativa è attribuito il nuovo percorso del pomerio, messo in atto due anni dopo e, con tutta probabilità, la redazione di una forma marmorea collocata in un ambiente del Foro della Pace, in posizione non diversa da quella che fu poi realizzata in età severiana.
Delle diverse estensioni pomeriali di età imperiale (dell’unico ampliamento repubblicano, a opera di Silla, sappiamo pochissimo) abbiamo a disposizione solo i resti concreti dei cippi, rinvenuti a più riprese in diversi punti della città e che ne marcavano il percorso. Una importante operazione era stata messa in atto da Claudio: dalla posizione dei cippi è evidente l’inclusione nello spazio urbano dell’Aventino, entro le mura ma fuori del pomerio per antichissima tradizione. Difficile è stabilire il percorso della linea pomeriale nel Campo Marzio, dove pure sono attestati cippi. Nella generale difficoltà dei dati è evidente tuttavia che qui il percorso era reso in certo modo obbligato dalla presenza di monumenti ed edifici che non potevano giuridicamente e religiosamente far parte dell’Urbs. La nuova estensione dell’età di Vespasiano, poi confermata da analoghi cippi di età adrianea, sembra dovesse tenere conto e includere nella città i quartieri che si erano sviluppati oltre la cinta serviana, i continentia tecta di cui parla Plinio, per una superficie urbana totale sostanzialmente identica a quella inclusa poi nelle mura di Aureliano allo scorcio del III secolo.
Il bottino della guerra giudaica fornisce i fondi e la manodopera per rendere splendida la restituzione al popolo della R. sottratta da Nerone; il Colosso nel vestibolo della domus neroniana viene trasformato in una statua del Sole radiato e da questa statua prende il suo nome colloquiale, Colosseo, l’opera più grandiosa creata in luogo della Domus Aurea, l’Anfiteatro Flavio, sorto sul posto dello stagno artificiale del palazzo. Edificato ex manubiis, come testimonia la dedica recentemente riportata alla luce al di sotto di una più tarda iscrizione, il nuovo anfiteatro risolve in modo definitivo il problema della sede dei ludi gladiatori, portando alla formazione, nel quartiere circostante, di numerosi edifici di servizio (Ludus Magnus, armamentaria, castra). La capienza complessiva del nuovo edificio data dai Cataloghi Regionari è di 87.000 loca. Si tratta di una cifra probabilmente eccessiva e recenti calcoli indicherebbero una capacità di 50.000 persone: un numero comunque elevatissimo.
Il tempio del Divo Claudio, sul Celio, trasformato da Nerone in una facciata-ninfeo della sua villa, fu pietosamente restaurato e in quello che era stato verosimilmente il settore termale della Domus Aurea vennero realizzate le Terme di Tito. Il principale monumento trionfale di Vespasiano è in ogni caso il tempio della Pace che, distaccandosi esplicitamente dai fori di Cesare e Augusto, si ispira piuttosto ai quadriportici repubblicani e augustei; pienamente augustea è anche l’ispirazione religiosa che richiama le vittorie sui nemici esterni e la pacificazione interna.
Il tempio della Pace, noto dai resti sul terreno, in particolare l’aula della Forma Urbis e il tratto del muro divisorio dal Foro Transitorio, oltre che planimetricamente dalla pianta marmorea severiana, è stato oggetto di recenti scavi che hanno chiarito diversi aspetti della sua articolazione, specialmente riguardo agli elementi decorativi e all’assetto originario. Si tratta di un grande quadriportico con colonne di granito rosa su tre lati, di africano sul lato confinante con il foro Transitorio (probabilmente rifatto da Domiziano), che racchiudeva un’ampia area non lastricata e sistemata a giardino dove scorrevano sei lunghi canali (sono questi gli elementi rappresentati nella forma marmorea). La statua di culto della Pace era probabilmente ospitata nella grande esedra sul lato di fondo, in cui trovava spazio anche una biblioteca. Il foro della Pace conteneva le spoglie principali del trionfo giudaico (tra questi la menorah, le trombe e il vasellame d’oro: Fl. Ios., Bell. Iud., VII, 161) e una delle più ricche gallerie di opere d’arte della città, in parte recuperate dalla Domus Aurea, compresi gli originali bronzei dei donari eretti dai re di Pergamo per le vittorie sui Galati. Nei recenti scavi sono stati scoperti i frammenti di tre basi di statue, che si aggiungono ad altri venuti in luce in passato e che, restituendo i nomi di Policleto, di Prassitele, di Cefisodoto, di Leochares, aggiungono nuovi elementi a quanto noto dalle testimonianze letterarie, soprattutto Plinio, riguardo alla straordinaria ricchezza di una collezione che era visibile ancora ai tempi di Procopio (Bell. Goth., IV, 21, 12). Solo in età tarda (ad es., Aur. Vict., Caes., IX, 7), il tempio della Pace verrà detto Foro della Pace: la denominazione ne sottolineava l’inserimento nel comprensorio dei Fori Imperiali, grazie alla monumentalizzazione e trasformazione dell’asse stradale dell’Argileto in un nuovo foro, che lo riunificò con l’insieme monumentale dei fori di Cesare e Augusto. Questo foro, detto Transitorio per la sua funzione di passaggio, poi dedicato da Nerva nel 98, fu progettato già prima degli anni 85-86 d.C. (Mart., I, 2, 7-8) e parzialmente realizzato forse da Rabirio, il celebre architetto del palazzo di Domiziano. La costruzione monumentale era condizionata dalle preesistenze e dallo stretto spazio a disposizione; veramente notevoli sono le soluzioni adottate per dilatare gli spazi laterali; tra queste la curvatura dei lati corti e soprattutto l’uso del colonnato applicato a brevissima distanza dal muro perimetrale, che dava l’animazione di un portico senza prendere eccessivo spazio. Il tempio di Minerva, la dea cui Domiziano era particolarmente devoto, occupava il centro del lato settentrionale.
Differente sotto molti aspetti fu l’attività edilizia di Domiziano. La cauta politica del padre, che aveva accompagnato il suo sforzo di legittimazione, viene totalmente abbandonata a favore di una politica di affermazione dinastica che trova nei monumenti realizzati testimonianze notevolissime. L’impronta dell’opera di Domiziano nella storia monumentale della città non è stata forse mai valutata in tutta la sua importanza: insieme a richiami evocativi della politica monumentale augustea, nel solco dell’opera di Vespasiano, sono ora presenti notevoli e non secondari elementi di novità. Innovazioni, queste, percepibili non tanto nella grammatica dei messaggi affidati ai monumenti (dopo Augusto era davvero difficile poter esprimere qualcosa di nuovo), quanto piuttosto nella sempre più esplicita e martellante occupazione di tutti gli spazi pubblici della città nel segno del sovrano. Tra i tre autocrati del I sec. d.C., Domiziano è stato il solo ad avere un programma preciso, oltre ai mezzi e al tempo per realizzarlo, atto a incidere profondamente sul paesaggio urbano augusteo. Il rovinoso incendio dell’80 che, regnando ancora Tito, aveva devastato quasi tutti i monumenti del Campo Marzio (Dio Cass., Ep., LXVI, 24; Chronogr. a. 354) fu dunque occasione per mettere a punto un nuovo programma vasto e articolato, che, si è osservato, lascia presagire con chiarezza le forme del dominato.
Domiziano ricostruì i monumenti danneggiati e realizzò anche due nuove importanti opere, lo stadio (ricalcato dall’attuale piazza Navona) e l’odeon (sotto l’odierno Palazzo Massimo), nella zona ancora libera a ovest delle terme neroniane. Dal punto di vista dei contenuti si trattava di una novità importante: stadio e odeon, destinati rispettivamente alle gare atletiche e alle audizioni musicali, costituivano tipologie edilizie legate a una formazione culturale ellenica, che a R. non aveva mai trovato, quanto meno nell’edilizia pubblica, un così esplicito accoglimento. Di altri edifici flavi nel Campo Marzio siamo meno informati; a nord e a oriente dei Saepta gli interventi domizianei divengono più incisivi nel senso di una pressante indicazione in senso dinastico e trionfale: la costruzione (o ricostruzione) dell’Iseo e Serapeo nelle originalissime forme curvilinee note attraverso la Forma Urbis severiana e i ritrovamenti di sculture egizie ed egittizzanti che hanno segnato la topografia (e la toponomastica) di tutta la zona, dal Rinascimento in poi, si connettono chiaramente con la devozione particolare dei Flavi verso gli dei propizi dell’Egitto, da dove Vespasiano aveva iniziato la sua marcia alla conquista del potere in R. Contiguo al tempio di Serapide sorge il Templum Divorum, altro edificio cardine dell’ideologia trionfale flavia, raccordato al Serapeo tramite lo snodo architettonico costituito dal tempietto circolare di Minerva Chalcidica. Il Templum, o Porticus Divorum era un vasto temenos rettangolare allungato, forse piantato con alberi e cinto da un portico, cui si accedeva attraverso un monumentale ingresso conformato come un arco trionfale a tre fornici; subito oltre l’ingresso si fronteggiavano due piccoli templi prostili tetrastili, dedicati appunto ai due divi, Vespasiano e Tito.
Domiziano sarà ancora l’autore della nuova residenza imperiale, il palazzo palatino, che resterà per tutto l’Impero la dimora dei principi. Se la Domus Aurea di Nerone si era estesa su quattro dei colli di R., Domiziano limita la costruzione al Palatino, ma portandola con gigantesche terrazze artificiali a sovrastare il ciglio del colle sopra il Circo Massimo e di qui lungo tutto il perimetro dell’altura, scendendo con l’ingresso al palazzo sulla Via Sacra, ai limiti di un Foro scandito dai nuovi monumenti della dinastia: l’Arco di Tito, il solo degli innumerevoli archi eretti in questo periodo a essere giunto pressoché intatto fino a noi, il tempio dei divi Vespasiano e Tito e, al centro della piazza forense, l’immensa statua equestre di Domiziano. A questo chiudersi in una cittadella inaccessibile, che negava il principio romano della visibilità dell’abitazione nobiliare, Plinio il Giovane contrapporrà invece l’atteggiamento più aperto di Traiano (il quale comunque non cambiò residenza).
L’articolazione interna del palazzo flavio attende ancora oggi uno studio esaustivo. La tradizionale divisione tra Domus Flavia (parte pubblica del palazzo) e Domus Augustana (settore privato destinato all’abitazione vera e propria) appare oggi superata; anche la tendenziale spiegazione delle differenze formali tra i diversi settori con la presenza di diversi cantieri o diversi architetti non restituisce una chiave di interpretazione del complesso interamente soddisfacente, dal momento che molte anomalie sono in realtà dovute all’esigenza di rispettare o utilizzare strutture preesistenti. La parte di esedra recentemente messa in luce sul lato della Vigna Barberini, simmetrica nell’ingombro, anche se non in asse, con l’esedra che si apre verso il Circo Massimo sul lato meridionale della Domus Augustana, restituisce, almeno nelle linee principali, l’impressione di una coerenza interna del progetto di insieme del palazzo flavio.
La portata del programma edilizio domizianeo, interrotto dalla sua uccisione nel 96, è percepibile anche da altri dati. È appurato con sicurezza che proprio a lui si deve il grosso dei lavori di sbancamento della sella che separava il Campidoglio dal Quirinale, chiaramente preparatoria a ingenti costruzioni anche su questo lato dei Fori Imperiali ed evidentemente in concomitanza con quelli del foro Transitorio. Di questo periodo è anche la razionalizzazione dei procedimenti di fabbricazione e di distribuzione dei laterizi: l’incremento produttivo sollecitato dalle grandi commesse imperiali fece della produzione di fittili da edilizia una delle principali attività nei dintorni di R. Dell’intensa attività costruttiva di una città trasformata in un gigantesco cantiere abbiamo ancora la testimonianza iconografica dei rilievi del sepolcro degli Haterii, dove opere compiute e macchinari mostrano l’operosa carriera nell’edilizia del redemptor C. Haterius.
L’abolizione della memoria di Domiziano dopo il settembre del 96 fu per molti aspetti diversa da quella che seguì la fine di Nerone. Che le immagini del tiranno fossero distrutte è fuori questione e Plinio il Giovane ne ha lasciato un’impressionante testimonianza: “era un piacere fracassare contro terra quelle superbissime teste, picchiarle col ferro, imperversare con le scuri” (Pan., 52), ma la stessa mole e la pervasione topografica degli interventi domizianei rendeva di fatto impossibile cancellarne ogni traccia, ammesso che vi fosse stata una reale intenzione in questo senso. Il Foro Transitorio venne dedicato da Nerva e mutò il suo nome ufficiale (Forum Nervae) senza che venisse cambiato molto della sua decorazione; questo fu probabilmente anche il caso di altri grandi monumenti, come il tempio di Giove Capitolino e quelli del quartiere monumentale del Campo Marzio. Anche la residenza palatina rimarrà invariata, con interventi verso il Circo Massimo che dovevano eliminare o mitigare gli aspetti più offensivi dei lavori domizianei. Questa continuità è percepibile anche attraverso le maestranze e le officine impegnate nella decorazione dei monumenti, cosa che ha causato in alcuni casi cronologie controverse per monumenti anche di grande importanza (è il caso, ad es., dell’Arco di Tito, definitivamente rivendicato come domizianeo solo in tempi relativamente recenti).
È dunque certamente da rivedere l’opinione radicata che tende a dilatare e separare nel tempo l’impegno costruttivo urbano di questi anni, ricostruendo una stasi edilizia quasi decennale, tra gli ultimi anni di Domiziano e i primi anni di Traiano, una cesura che appare necessaria soprattutto per allontanare nei contenuti oltre che nel tempo la politica urbanistica dell’Optimus Princeps rispetto a quella del tiranno esecrato. Nei primi anni di regno l’opera di Traiano si concentrò probabilmente sui monumenti domizianei, con interventi dei quali le emissioni monetali hanno lasciato testimonianza; è notevole quella, databile al V consolato del principe, che testimonia il rifacimento degli accessi all’area capitolina: una sorta di riconsacrazione del colle, che andrebbe collegata con altre opere di sistemazione di cui si è conservata la testimonianza epigrafica (CIL I2, 745 = ILLRP 377 = CIL VI, 1725; cfr. p. 3134).
L’immagine pubblica di Traiano resta tuttavia legata alle opere funzionali e di infrastruttura, come l’Aqua Traiana, alle grandiose terme del colle Oppio e, soprattutto, al monumentum per eccellenza: il foro eretto con il bottino delle guerre daciche. Collocato a nord degli altri fori in modo da aprire definitivamente il passaggio tra Foro Romano e Campo Marzio, nella stessa zona dove furono interrotti i programmi, per noi sconosciuti, di Domiziano, con i suoi quasi 2 ha di superficie il Foro di Traiano è di gran lunga il più grandioso tra i Fori Imperiali. Scavi e ricerche recenti hanno portato nuovi dati che modificano su punti sostanziali la ricostruzione canonica del foro che seguì gli scavi del Governatorato negli anni Trenta del Novecento.
La parete meridionale si sviluppa non in leggera curva, ma con tre setti di muro collegati ad angolo ottuso che si adattano alla grande esedra settentrionale del Foro di Augusto; al centro, dove si riteneva si trovasse l’ingresso monumentale (l’arco trionfale riprodotto su monete degli ultimi anni di Traiano), si apre un’area porticata, probabilmente a cielo aperto, posta a un livello inferiore rispetto al piano generale del foro. La piazza vera e propria, pavimentata con blocchi di marmo lunense, è circondata su tre lati da un porticato sopraelevato di tre gradini, con colonne corinzie scanalate e lesene di pavonazzetto; dietro i due portici laterali, est e ovest, si aprono due emicicli. Il basamento della statua bronzea a cavallo di Traiano si è trovato nella piazza, non al centro, ma leggermente spostato verso il lato meridionale. La piazza è conclusa trasversalmente dalla facciata della Basilica Ulpia, disposta con il lato maggiore sul foro come nelle basiliche forensi, ma sopraelevata rispetto al lastricato centrale e movimentata da tre avancorpi corrispondenti agli ingressi principali. Soluzioni diverse sono state proposte, anche di recente, per la restituzione dell’alzato della basilica, caratterizzata planimetricamente da uno spazio centrale con colonne di granito attorniato da un duplice colonnato di caristio che genera cinque navate, con due grandi absidi sui lati brevi, che reduplicano nelle misure e nella raffinata policromia dei marmi il motivo delle esedre dei porticati della piazza.
Alle spalle della basilica, in corrispondenza del lato settentrionale del complesso, è il cortile della colonna, dove si affacciano due ambienti, tradizionalmente identificati con le biblioteche, greca e latina. Questo è il settore nel quale, per lunga tradizione, si è collocato il tempio del divo Traiano, in relazione alla Colonna, circondato da un porticato a ferro di cavallo. Le recenti indagini sembrano escludere che il tempio si trovasse in quest’area (che anche il porticato fosse interamente ipotetico era stato già da tempo notato). Qui si riconosce piuttosto l’accesso principale al complesso, un imponente propileo, cui potrebbero appartenere le enormi colonne di granito rinvenute nell’area. Il problema della collocazione del tempio del Divo Traiano, l’unico tempio dei Fori Imperiali a essere esplicitamente menzionato nei Cataloghi Regionari (templum divi Traiani et columnam cochlidem), rimane dunque aperto, con diverse proposte interpretative. La struttura del Foro di Traiano, che costituì un modello per i fori municipali di parecchie città provinciali, ha fornito lunga materia di discussione agli studiosi; risale a G. Rodenwaldt l’idea, tuttora al centro del dibattito, di una trasposizione monumentale delle strutture centrali degli accampamenti legionari (i principia della legione).
Al foro traianeo e ad altre opere urbane è legato il nome di una delle figure più importanti dell’architettura antica, Apollodoro di Damasco: ingegnere, autore di un trattato di poliorcetica, autore del ponte sul Danubio durante le guerre daciche e di altri monumenti anche in età adrianea. Soprattutto per le origini etniche (era probabilmente un Nabateo ellenizzato), Apollodoro è considerato uno dei protagonisti nell’applicazione a R. e in Italia di esperienze formali tipiche del Vicino Oriente e dell’Asia Minore.
Chiusa definitivamente la serie dei Fori Imperiali e, per il momento, anche quella delle conquiste militari, il Campo Marzio rimaneva il quartiere dove era possibile, oltre che necessario, intraprendere operazioni edilizie su vasta scala. Adriano diede tuttavia vita, precocemente, anche a un nuovo cantiere nel cuore della città dove, con immensi lavori di livellamento e di sgombero, fu realizzato il tempio di Venere e Roma.
Il tempio conclude la riconversione della Domus Aurea, spianando la collina della Velia con una colossale piattaforma e obliterando il vestibolo del palazzo neroniano dove si ergeva il colosso del Sol Invictus, che fu spostato in basso nella valle sottostante, tra il nuovo tempio e l’Anfiteatro Flavio. Su questa piattaforma sopraelevata e su un crepidoma alla maniera greca sorgeva il tempio, un anfiprostilo diptero decastilo con 22 colonne di lato, caratterizzato da due celle contrapposte secondo una tradizione pienamente ellenica. L’analisi dei bolli laterizi indica un inizio dei lavori nei primi anni di regno, ma il cantiere perdurò almeno fino al 135 circa. Un incauto commento sul progetto portò alla rovina di Apollodoro di Damasco, che sembra criticasse le proporzioni e l’elevazione dell’edificio in rapporto allo spazio circostante.
Con Adriano si compiono gli imponenti lavori nel Campo Marzio che danno all’intera zona la sua forma definitiva, documentata dalla pianta marmorea severiana: con il rifacimento di Pantheon, Saepta, Basilica Neptuni, Terme di Agrippa e aggiungendovi il restauro del Divorum e i nuovi templi e le basiliche delle divae della casata, di fatto si costituiva un complesso campense del tutto nuovo. Un grande interro, che doveva in parte ovviare alle continue piene del Tevere, è il presupposto per la nuova pianificazione del quartiere; solo pochi importanti monumenti vengono risparmiati, tra questi l’Ara Pacis, protetta da un muro di contenimento alto quasi 2 m e che, pur restando sempre accessibile, ormai poteva vedersi solo sporgendosi dal parapetto del muro.
L’età di Adriano rappresenta ancora un momento cruciale nella storia urbana, con la progressiva lottizzazione di ampi settori dell’area centrale che corrisponde in termini di politica edilizia e finanziaria a un’inversione di tendenza (iniziata già con Traiano: Plin., Pan., 50) rispetto alla politica giulio-claudia di acquisizione al demanio imperiale di ampie aree della città. Di pianificazione adrianea è infatti il quartiere a est della via Flaminia, che mostra l’assetto noto di molti quartieri ostiensi, con isolati regolari su cui si impiantano caseggiati a più piani con tabernae in bordura. Adattato nello sviluppo alla diversa morfologia dell’area è ancora l’ampio settore urbano, occupato prevalentemente da abitazioni, ricostruibile in base alla pianta marmorea nel settore poco distante del Quirinale. Di questa edilizia privata romana è straordinaria testimonianza anche l’insula del Campidoglio, che restituisce l’elevazione in altezza che dovevano avere le abitazioni romane: una costruzione a cinque piani (con indizi di un sesto).
Fondamentale per lo sviluppo dell’area trasteverina è il nuovo grande mausoleo dinastico realizzato da Adriano, raggiungibile attraverso un nuovo ponte che congiunge alla zona centrale del Campo Marzio l’area del Vaticano. Il confronto è, ad evidenza, con il Mausoleo di Augusto, ma con diverse concezioni architettoniche e con richiami più espliciti a modelli orientali ed ellenistici. Da questo periodo fino ai Severi i cantieri principali riguardano quasi esclusivamente i monumenti degli imperatori divinizzati, edificati a conclusione di cerimonie di apoteosi che erano ormai parte integrante del cerimoniale imperiale: i templi di Adriano (139), di Faustina (141) e, più tardi, il complesso dedicato a Marco Aurelio divinizzato.
Assai rilevante è, soprattutto per la posizione, il tempio di Faustina, eretto a seguito di una divinizzazione che dovette essere epocale (a questo periodo risalgono le principali emissioni monetali con gli altari di consecratio): è il solo tempio nella zona del Foro destinato ad accogliere una Augusta (alla sua morte, si aggiungerà anche il culto di Antonino Pio); vi sono indizi di una collocazione “anomala” anche per il tempio di Faustina Minore.
Il luogo consueto degli edifici di culto imperiale della dinastia antonina fu tuttavia il Campo Marzio. L’Adrianeo fu realizzato nella parte centrale del Campo, in relazione probabilmente con gli edifici eretti in onore di Matidia e Marciana. Probabilmente pertinente al complesso dedicato a Matidia è l’edificio distrutto nel XVII secolo noto come “tempio di Siepe”; i disegni che ne documentano l’alzato mostrano un’architettura tipicamente adrianea, con la cupola a ombrello assai simile a quella di Baia (cd. “tempio di Venere”) e di Villa Adriana (tempio di Apollo). Il tempio del Divo Adriano, una delle più compiute realizzazioni del corinzio romano, è invece un tradizionale tempio entro temenos, un periptero ottastilo di cui rimangono in alzato le colonne del lato lungo settentrionale. Del portico che circondava l’edificio templare non è perfettamente chiara l’articolazione; è certo che il lato d’accesso orientale doveva risolvere il problema dell’orientamento del complesso, quello nord-sud – generato dai Saepta – di molti monumenti del Campo, con l’andamento della vicina via Flaminia, dove si sono rinvenute le fondazioni dei piloni di un arco monumentale. Alla decorazione del portico, e non al tempio come si è a lungo creduto, dovrebbero appartenere i magnifici plinti, arricchiti da decorazioni a rilievo con personificazioni di province, alternati a pannelli con trofei d’armi.
Del tempio di Marco Aurelio, che si trovava invece con certezza nell’area del Campo, in relazione alla Colonna di Marco Aurelio, abbiamo solo scarsi resti della decorazione architettonica. L’area a settentrione del Campo Marzio continuò ad avere sviluppo nel corso del II sec. d.C. con la creazione dei monumenti funerari della dinastia antonina: sono venuti in luce a più riprese tre cosiddetti ustrina, edificati sul luogo della pira funeraria. Il primo altare, attribuito ad Antonino Pio, è noto grazie a documenti di scavo ed era apparentemente in asse e in relazione con la Colonna Antonina. L’analisi recente dei rinvenimenti degli inizi del Novecento in corrispondenza del palazzo di Montecitorio ha consentito di ricostruire non uno ma due recinti monumentali, adiacenti e con un lato in comune; all’altare già noto (in parte ancora conservato nei piani sotterranei del palazzo), attribuito a Marco Aurelio, andrebbe aggiunto un secondo recinto, probabilmente anteriore (da attribuire a Lucio Vero o a Faustina Minore).
Al suo ingresso in città nell’estate del 193 d.C., un’entrata presentata da una tradizione storiografica come una pesante occupazione militare, Settimio Severo era il terzo imperatore nel giro di pochi mesi. Con il consolidamento del potere lo sforzo di legittimazione imponeva il richiamo ai valori più tradizionali e rassicuranti. Il riferimento ufficiale è soprattutto agli Antonini: la continuità con la gloriosa dinastia è ossessivamente indicata nelle iscrizioni, che ripercorrono all’indietro la discendenza fino al divo Nerva. Nel solco di una tradizione più antica, Settimio Severo scelse tuttavia il Foro come scenario dei suoi monumenti di vittoria: il grande arco a tre fornici all’accesso del clivo Capitolino e la statua equestre, nota solo dalle fonti.
In questo periodo riprendono quota gli sforzi edilizi, con un programma assai ampio di restauri e con nuove costruzioni. Soprattutto queste ultime testimoniano l’avvenuto superamento del classicismo adrianeo in favore di un gigantismo nelle proporzioni e del richiamo a modelli architettonici e decorativi di origine orientale. L’occasione per le opere di restauro è ancora un incendio, che sotto Commodo aveva devastato le pendici capitoline e il tempio della Pace. La grande pianta marmorea eseguita tra 205 e 208 di cui si sono cominciati a trovare i frammenti a partire dal XVI secolo (e ancora oggi ne tornano in luce) testimonia nella maniera più efficace il programma di restauro e di miglioramento. Si tratta di una gigantesca planimetria della città, alla scala 1:240 circa, per una superficie di ben 235 m2, incisa su 151 grandi lastre marmoree accostate. Al di là del significato simbolico e dell’ovvio valore anche decorativo dell’opera, ci si è ripetutamente interrogati su un suo eventuale significato amministrativo, se costituisse cioè una sorta di planimetria catastale.
Il Campo Marzio è l’area dove si concentrano i principali restauri: Pantheon, l’Iseo e, per la prima volta dall’età augustea, si interviene nel Circo Flaminio con il rifacimento del Portico di Ottavia. Il grande propileo esastilo attualmente visibile è quello severiano, che insiste sulle fondazioni augustee. Anche il Palatino è sede di nuovi ingenti lavori: una grande terrazza sul lato sud-orientale del colle consente ampliamenti della Domus Augustana. All’affaccio sull’Appia del Palatino si trovava una delle più imponenti nuove opere severiane: il Septizodium, ricostruibile grazie alla pianta documentata dalla Forma Urbis marmorea e da numerosi disegni rinascimentali. Si trattava di una sorta di facciata teatrale di imponenti dimensioni, con edicole inquadrate da diversi ordini di colonne: un elemento architettonico che aveva avuto grande fortuna nelle città asiatiche e che troviamo, per la prima volta, presente anche nella capitale. Un’ipotesi di collocazione di alcuni frammenti della pianta marmorea severiana porterebbe a ricostruire ingenti lavori anche nell’area di fronte al Septizodium, verso il Celio.
Ancora di tradizione orientale è l’altro grande monumento severiano della città, l’enorme tempio del Quirinale che insiste sui giardini Colonna, collegato alla quota del Campo Marzio da un’immensa scalinata impostata su una serie di ambienti voltati. Oggetto di appassionato interesse nel Rinascimento, quando parte della cella era ancora in piedi (cd. Torre Mesa), è oggi ancora poco conosciuto. Studi recenti mettono in dubbio la tradizionale attribuzione a Serapide (a favore di Ercole e Dioniso) e hanno contribuito a chiarirne, almeno nelle linee generali, articolazione e dimensioni. Si tratta del più grande edificio templare della città, che supera nelle proporzioni il già colossale tempio di Venere e Roma: un tempio periptero sine postico picnostilo dodecastilo, circondato da un recinto su tre lati e aperto sul lato frontale.
Altro aspetto chiave della politica urbanistica severiana è quello dei servizi, in primo luogo edifici cari alla plebe urbana, con le Terme di Caracalla e, più tardi, con il grandioso e forse radicale restauro delle terme neroniane in Campo Marzio. Le prime riprendono, ampliato e perfezionato, il modello delle terme traianee sull’Oppio: con il portico esterno e le esedre laterali costituisce un gigante edilizio, superato di poco dalle successive Terme di Diocleziano, che rese necessario anche ritracciare la viabilità dell’intero quartiere. Dopo il breve regno di Elagabalo, che edifica alle pendici del Palatino un effimero tempio dedicato al dio solare di Emesa, Alessandro Severo si occupa soprattutto dell’amministrazione e della razionalizzazione delle frumentationes, il servizio più importante per i cittadini; con la costruzione di nuovi horrea e, si è notato, con le prime installazioni di mulini in diverse aree della città, Alessandro anticipa l’organizzazione burocratica del Tardo Impero e la sua opera è probabilmente alla base della riforma che troviamo attuata sotto Aureliano, quando alla distribuzione di frumento, che avveniva ogni mese nella Porticus Minucia Frumentaria del Campo Marzio (un edificio di discussa identificazione, ma con tutta probabilità verso il Tevere), è sostituita da distribuzioni di pane in diversi punti della città.
Allo scorcio del III secolo la città capitale dell’Impero ha nuovamente bisogno di mura. Le incursioni di Alamanni oltre le Alpi sotto Gallieno avevano mostrato quanto la metropoli, priva di difese, fosse facilmente raggiungibile. Prima del 272 Aureliano intraprese la nuova opera, che sarà conclusa da Probo. La nuova cinta muraria includeva la città nella sua estensione fisica, tenendo conto di fattori strategici e servendosi in diversi punti di edifici preesistenti (l’Anfiteatro Castrense del complesso delle proprietà imperiali ad Spem Veterem – il futuro palazzo Sessoriano –, i Castra Praetoria tiberiani) e fu eseguita con molta rapidità. Le mura correvano lungo le sponde del Tevere, includendo Trastevere che era collegato al resto della cinta muraria da due ponti mobili.
Con le mura merlate di III secolo muta totalmente il paesaggio urbano: il tratto tiberino separa definitivamente la città dal suo fiume, che era stato da tempi immemorabili la principale arteria commerciale, imponendo una drastica riorganizzazione delle operazioni di sbarco delle merci; il Monte Testaccio cessa proprio in questo periodo di essere utilizzato per lo scarico dei frammenti ceramici. Contemporaneamente si riorganizza, al riparo delle mura, il sistema di scali del porto più a monte, la Ripetta di età moderna che, contrapposta a Ripa Grande, accoglierà fino ai grandi lavori di arginatura dopo l’Unità d’Italia, le merci che scendevano a R. dal bacino tiberino. La costruzione del tempio del Sole, i cui portici erano destinati ad accogliere i vini fiscali italici nell’organizzazione di Aureliano, si colloca poco lontano da questo scalo del Campo Marzio.
R. all’epoca di Diocleziano è ormai un anacronismo, secondo una celebre osservazione di A.H.M. Jones: una metropoli immensa e popolosa, con privilegi onerosissimi, il cui ruolo effettivo di capitale era ormai perduto. È tuttavia proprio in età tetrarchica che si registrano gli ultimi grandi interventi nel campo dell’edilizia pubblica, concentrati nei più tradizionali luoghi del potere, soprattutto con la nuova sistemazione della piazza del Foro, con il rifacimento della Basilica Giulia e del Foro di Cesare, fino alle ricostruzioni nel Campo Marzio (Teatro di Pompeo, Iseo). Come in altri casi nel passato, era stato soprattutto un grande incendio (quello del 283) a rendere necessari i lavori, ma i nuovi progetti che accompagnano queste opere, insieme a nuovi provvedimenti amministrativi (restauri agli acquedotti, sistemazione delle sponde tiberine) testimoniano la mole e la precisa scelta ideologica di quest’ultimo grande sforzo di stabilire la centralità, almeno simbolica, dell’Urbs: un tentativo che tuttavia già corrisponde a una evocazione, a un’idea di R. più che a un reale ripristino di funzioni e prerogative.
Risale all’età dioclezianea la redazione principale dei Cataloghi Regionari, aggiornata con l’inserimento di edifici e monumenti nel corso del IV secolo. Importanti sono soprattutto i dati statistici contenuti nel testo e nelle sue appendici, che elencano con comprensibile orgoglio civico gli innumerevoli mirabilia della città: gruppi equestri, statue colossali, obelischi. Di pari interesse, ma di difficilissima interpretazione, sono le cifre relative alla consistenza anche demografica della città, con 1790 domus e 46.602 insulae (incerto è il significato preciso del termine), 254 panifici, 290 granai, 856 bagni, 144 latrine pubbliche, 1352 fontane pubbliche.
Nella piazza del Foro l’enfasi è soprattutto sui Rostra, dove in occasione dei vicennali degli Augusti e dei decennali dei Cesari (Costanzo Cloro e Galerio) viene collocato il gruppo delle cinque colonne tetrarchiche: tre delle basi sono giunte sino a noi e l’insieme è visibile nella scena di adlocutio dell’Arco di Costantino. Una nuova tribuna sembra venne realizzata sul lato orientale, anche questa con un gruppo simmetrico di colonne, che fronteggiava i più antichi Rostra in una piazza del Foro notevolmente ristretta e scandita, sul lato prospiciente la Basilica Giulia, da sette ulteriori colonne onorarie, di cui rimangono i nuclei di cementizio.
L’assetto attuale della Curia, restituito da un’operazione di ripristino che ne ha eliminato tutte le fasi posteriori, è quello del restauro tetrarchico. Si tratta di un grande edificio a pianta rettangolare, di laterizio, con pavimenti di opus sectile e, lungo i lati, i gradini lastricati che ospitavano i sedili dei senatori. Sul lato di fondo, elevata sul podio è la base per la statua della Vittoria, collocata nella Curia da Augusto, la stessa immagine che nel IV secolo diverrà il simbolo della R. pagana nella contesa tra Simmaco e Ambrogio. Per la produzione del materiale da costruzione furono nuovamente organizzate le figline romane (l’uso di contrassegnare i laterizi era cessato alla fine dell’età severiana), che servirono soprattutto alla costruzione dell’ultimo gigante edilizio della R. antica, le Terme di Diocleziano. Ultimate e dedicate tra il 305 e il 306 sono le più grandi terme pubbliche di R., collocate in un settore residenziale, quello del Quirinale, ancora privo di stabilimenti termali. Nella dedica, Diocleziano e Massimiano citano in maniera esplicita la dedica famosissima della Colonna Traiana (coemptis aedificiis pro tanti operis magnitudine omni cultu perfectas Romanis suis dedicaverunt: CIL VI, 1130).
Nell’ottobre del 306 Massenzio tiene saldamente il controllo della città. La sua ingente attività edilizia a R. testimonia la rottura con la politica tetrarchica, in primo luogo nei simboli. Da un lato nell’ideologia tetrarchica la rappresentazione del gruppo imperiale era quella di un’entità non separabile, dall’altro il consolidamento di un nuovo potere individuale impone un richiamo diverso, quello ai simboli dell’età dell’oro della città e al mito. Scompaiono quindi gradualmente dalle monete e dai monumenti i simboli erculei, mentre nel 308, in occasione del Natale di Roma, viene eretto o restaurato un gruppo statuario dedicato a Marte e ai fondatori della città eterna, Romolo e Remo (CIL VI, 33856 = ILS 8935). Massenzio aveva una visione più ambiziosa dell’edilizia monumentale rispetto a quella dei suoi predecessori, perseguita attraverso un programma imponente e di ampio respiro nel cuore della città, con i grandi lavori dell’area della Velia, a cui sembra si debba aggiungere la prima costruzione delle terme del Quirinale, note poi col nome di Terme di Costantino.
Sulla Velia, Massenzio procedette alla ricostruzione, quasi integrale, del tempio di Venere e Roma, distrutto da un incendio nel 307; a questa fase appartengono le celle di laterizio realizzate direttamente sul pavimento adrianeo, che costituiscono quanto è più conservato dell’elevato. A fianco del tempio, Massenzio realizzò l’ultima basilica civile romana, vicinissima alle antiche basiliche forensi. Lo schema dell’aula colonnata viene trasformato attraverso una grandiosa scansione in tre navate, coperte da volte supportate da pilastri laterizi. La principale innovazione consiste nel privilegiare l’asse longitudinale, spostando l’ingresso della basilica sul lato corto orientale a cui fa riscontro un’abside sul lato opposto: più tardi il progetto originario sarà modificato e, con un ingresso sul lato della Via Sacra e un’abside sul lato lungo opposto, sarà ripristinato l’antico schema basilicale. Difficile e assai discussa è l’interpretazione del cosiddetto Tempio del Divo Romolo, una rotonda di mattoni con un’articolata facciata concava e ai lati due stretti ambienti rettangolari terminanti in esedra.
L’opera principale di Massenzio è tuttavia extraurbana, il grandioso complesso sulla via Appia, dove fu edificato un ampio settore residenziale dominato da un’aula basilicale riccamente decorata con crustae e pavimenti marmorei, il circo e, soprattutto, il grande mausoleo dinastico (che ospitò il figlio Romolo, morto nel 309) affacciato sulla via Appia. A pianta circolare e con avancorpo quadrangolare chiaramente ispirato nelle proporzioni al Pantheon adrianeo, il grande heroon di Romolo sorge al centro di un ampio quadriportico. L’aspetto generale del monumento oggi spogliato da tutti gli elementi di rivestimento è con tutta probabilità restituito da una serie di monete coniate in occasione della morte di Romolo. Nel complesso massenziano è presente una combinazione di elementi destinata a sviluppi futuri: se il nesso tra circo e abitazione era un elemento consueto nelle ville romane, l’unione tra dimora e sepolcro imperiale è una novità di questo periodo (ad es., a Spalato, a Salonicco), mentre il rapporto tra sepolcro monumentale e circo servirà come modello delle basiliche cimiteriali cristiane.
Dopo la battaglia di Ponte Milvio le opere di Massenzio saranno dedicate dal Senato nel nome di Costantino. Il contesto politico subito dopo la presa di R. è quello della restituzione della legittimità dopo un regime di usurpazione, tanto più forte nella propaganda in quanto anche la legittimità del liberatore era quantomeno dubbia. Il monumento simbolo di questo primo periodo costantiniano è il grande arco a tre fornici dedicato in occasione dei decennalia del 315, collocato lungo la via trionfale poco prima della svolta verso la Via Sacra e assai vicino ai monumenti di Massenzio. Il monumento prende a modello, nelle forme e nello sviluppo architettonico, il precedente arco dell’altro liberatore di R., Settimio Severo. Assai diversa è la decorazione, conservata quasi per intero, che utilizza in gran parte elementi figurati di spoglio, secondo un uso che si impone da questo periodo ma che già contava nella città illustri precedenti (Arco di Portogallo, Arcus Novus). Nel fregio eseguito per l’occasione che corre sui tre lati dei fornici minori è narrata la fulminea avanzata in Italia che si conclude con la battaglia di Ponte Milvio. All’interno del fornice centrale, sull’attico e nei tondi posti sopra il fregio costantiniano, la figura di Costantino si sovrappone alle immagini, provenienti da tre distinti cicli monumentali più antichi, dei buoni imperatori del passato: Traiano, Adriano e Marco Aurelio.
Tra la sterminata bibliografia su Roma si citeranno i lavori fondamentali e più recenti. Sui singoli monumenti si rinvia a S.B. Platner - Th. Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford 1929 e E.M. Steinby (ed.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, I-VI, Roma 1992-2001 (con ampia bibl. recente).
Sulla storia edilizia della città, oltre i contributi a più firme s.v. Roma, in EAA, VI, pp. 764-939 e EAA, II Suppl. 1971-1994, IV, 1995, pp. 784-957, si veda: H. Jordan, Topographie der Stadt Rom im Alterthum, I-II, Berlin 1878-85.
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Dalla conquista di Taranto all’avvento di Silla
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