L'Italia romana delle Regiones. Regio IV Sabina et Samnium: Amiternum
Città sabina conquistata dai Romani durante la terza guerra sannitica (293 a.C.); tuttavia l’abitato doveva all’epoca essere costituito da una serie di piccole comunità sparse, collocate su siti d’altura circostanti la piana della città romana.
Le persistenza di questi originari nuclei abitati vicani sino in età imperiale risulta testimoniata dalle fonti epigrafiche, come appare ad esempio evidente per Pettino, documentato sin dall’età repubblicana, San Vittorino noto come Pagus Forensis, Foruli noto come vicus Forulanus ancora in una dedica ad Adriano del 134 d.C. e ancora Scoppito, Pizzoli, Preturo e Coppito, tutti testimoniati da rinvenimenti archeologici. Le prime strutture centralizzate dell’abitato, rimasto sin all’età augustea semplice prefettura, andarono a collocarsi sulla piana lungo il fiume Aterno fra San Vittorino e Colle San Mauro a partire dal I sec. a.C., quando l’insediamento poi divenuto municipio venne definendosi con l’impianto di pubblici edifici fra loro coordinati nonostante una certa seriazione cronologica.
All’età augustea può essere datato il teatro, che era ubicato a nord dell’Aterno non diversamente dalle strutture del foro, situate fra esso e la S.S. 80; altri edifici pubblici erano a sud del fiume, come l’anfiteatro, costruito nel I sec. d.C. e restaurato nel II, e le terme; in questo settore erano stati rinvenuti nel 1834 vari resti monumentali, frammenti di statue, con ogni evidenza riferibili ad altri edifici pubblici, e a poca distanza era anche il sito di ritrovamento di una statua colossale di donna sedente, forse Cibele, correlabile a un luogo di culto. Resti di abitazioni e domus sono segnalate in varie località del pianoro ai due lati del fiume.
La viabilità principale dell’area non doveva essere molto dissimile da quella attuale, con un tracciato antico corrispondente circa alla diramazione della S.S. 80 di cui sono stati rinvenuti vari tratti, un altro itinerario corrispondente all’attuale S.S. 80 e un itinerario collegante fra loro teatro e anfiteatro superstite in una strada campestre. Due acquedotti alimentavano l’abitato: l’uno, con origine alle sorgenti del Rio Grande presso Villa Raiolo di Pizzoli sino alla località Ara di Saturno alle spalle del teatro, alimentava i settori centrali dell’abitato a sinistra dell’Aterno; l’altro, noto come Aquae Arentani, dalla località Cisternole presso Cese giungeva sino al complesso delle terme.
Restauri proprio a quest’ultimo acquedotto e alle terme sono attestati nel 325 d.C. a opera del patrono della città C. Sallio Sofronio Pompeiano. In quest’epoca era ancora in uso anche il teatro, tanto che vi si tennero i ludi in celebrazione dei succitati restauri e al III-IV secolo sono riferibili anche gli ultimi interventi di restauro dell’anfiteatro. Ancora alla metà del IV secolo l’Ordo splendidissimus Amiterninae civitatis era in grado di dedicare una statua al corrector Flaminiae et Piceni L. Turcius Secundus, nonostante i primi segni di un generalizzato degrado degli edifici pubblici probabilmente legato anche agli effetti del terremoto del 346 d.C.: indagini condotte nei pressi dell’anfiteatro hanno infatti evidenziato la presenza dei resti di un’aula absidata, ristrutturata dopo un primo crollo del soffitto su un livello archeologico con monete bronzee non successive alla metà del IV secolo. Un secondo crollo e il definitivo abbandono dell’edificio absidato vennero a seguire un grande incendio, le cui tracce sono state lette anche in altri ambiti del centro antico.
Della crisi e della parziale distruzione dell’insediamento, forse seguita alla conquista longobarda, ma anche della contestuale persistenza del popolamento fra fine V e VI secolo sono testimonianza anche l’inserimento di sepolture all’interno dell’abitato stesso, sia presso il teatro ormai abbandonato, che nell’ambito di altri edifici civili rimasti occupati sino alla Tarda Antichità; qui venne infatti scavato nel 1926 un vero e proprio sepolcreto che era andato a inserirsi fra le strutture ormai abbandonate. Due sepolture realizzate con materiali antichi di spoglio erano state scavate anche nel 1907 nell’ambito di altri edifici tardi, a suo tempo realizzati poco più a sud lungo l’Aterno riutilizzando finanche frammenti architettonici da monumenti funerari ormai smantellati; una di queste sepolture presentava fra gli elementi di corredo una fibula ad anello, databile fra fine VI e i primi decenni del VII secolo.
La continuità del popolamento ancora nell’ambito dell’insediamento romano di fondovalle sino a un’epoca ben successiva appare testimoniata dalla sopravvivenza in età altomedievale della sede vescovile, poi collegata a quella di Rieti e infine unita a quella di Forcona a dar vita alla nuova città de L’Aquila; in un’area interessata da cospicui possedimenti farfensi la menzione nell’883 di una vigna posta da un lato secus vineam de aepiscopio sanctae Mariae sembra suggerire che il toponimo Campo Santa Maria conservi memoria della persistenza dell’episcopio, probabilmente presso l’anfiteatro.
La diserzione dell’abitato con il trasferimento della sede vescovile presso il nucleo martiriale tardoantico di San Vittorino e il quasi totale abbandono del pianoro su cui era andato a organizzarsi l’impianto tardorepubblicano andarono completandosi nel X secolo, tanto che nel 970 la città appariva ormai ridotta a un cumulo di rovine. La dissoluzione dell’antica città si accompagnò al riprodursi fra X e XII secolo di una situazione di abitato sparso analoga all’originario assetto italico, con la ripresa di San Vittorino e altri piccoli abitati d’altura circostanti la piana, che erano per lo più sopravvissuti durante tutta l’età romana e l’Alto Medioevo.
A.R. Staffa, Città antiche d’Abruzzo. Dalle origini alla crisi tardoromana, in BCom, 98 (1997), pp. 164-67.