L'Italia romana delle Regiones. Regio IV Sabina et Samnium
Fra le regioni in cui si era articolata la divisione augustea dell’Italia antica la regio IV ricomprendeva varie popolazioni umbro- osco-sabelliche della media Italia appenninica e adriatica che avevano avuto con Roma contatti e rapporti culturali sin da epoca particolarmente antica (La Regina 1989, 1990, 1994); in Plinio sono presenti accurate liste alfabetiche, riferite ai centri di ognuno dei popoli antichi che vi erano stati ricompresi, Frentani, Marrucini, Paeligni, Marsi, Albenses, Aequiculani, Vestini, Samnites e Sabini (Nat. hist., III, 106 ss.).
Si trattava di popolazioni che avevano dato fra VIII e III sec. a.C. un contributo fondamentale, probabilmente secondo solo a quello di Roma, alla storia dell’Italia centrale. Esse erano legate da antichi rapporti di sangue riassumibili nell’antica tradizione conservata da Varrone e Strabone sugli stretti rapporti esistenti fra Sabini e Sanniti, a Sabinis orti nell’ambito di migrazioni compiute secondo il rito religioso del ver sacrum (Varro, Ling., VII, 29; Strab., V, 4, 12), che si poneva alle origini leggendarie anche di altri popoli dell’Italia centrale cui venivano riconosciuti collegamenti con i Sanniti stessi, quali i Piceni e gli Irpini (Plin., Nat. hist., III, 110; Strab., V, 4, 2; 12; Serv., Aen., XI, 785; Colonna - Tagliamonte 1999).
Questa tradizione trova oggi fondamenti consistenti nella corrispondenza del nome osco del Sannio (Safinim), documentato intorno al 120 a.C. da un’iscrizione del santuario di Pietrabbondante (Vetter 1953), con i riferimenti delle stele funerarie di Penna Sant’Andrea (Teramo) a una Safinas tutas di cui facevano parte le genti che abitavano i territori subito a sud del fiume Vomano (La Regina 1994); queste tombe proclamavano con le loro stele, nei pressi dell’importante santuario di Monte Giove, la pertinenza etnica di tali genti ai confini settentrionali dell’area safina, in un’epoca (V sec. a.C.) in cui era già ben definita la distinzione etnica con le vicine genti picene che occupavano i territori a nord del Vomano, fra cui anzitutto i Praetutii (Prosdocimi 1999), mentre non era ancora entrata nel sentire comune quella fra Sabini e Sanniti, consolidatasi solo a partire dalla metà del IV sec. a.C.
D’altra parte la tradizione delle “primavere sacre” ripresa dagli storici antichi, al di là dell’aspetto rituale sottolineato nelle fonti, doveva in effetti essersi consolidata nell’ambito di reali forme di mobilità geografica, probabilmente connesse a reali fenomeni di spostamento di popolazioni, nell’ambito di dinamiche di rafforzamento dei sistemi sociali locali assimilabili a vere e proprie forme di colonizzazione. Fenomeni simili appaiono leggibili, ben prima del definitivo inglobamento nello Stato romano, anche nella stessa Sabina, presto connotatasi in due ambiti territoriali distinti, quello interno fra Amiternum (Amiterno) e Reate (Rieti), fondata quest’ultima da coloni provenienti dalla prima, e quello tiberino orbitante su Cures, a sua volta fondata, secondo le fonti, da coloni provenienti da Reate, con dinamiche analoghe a quelle già ricordate che avevano dato origine anche ai Piceni verso nord, ai Sanniti e agli Irpini verso meridione. Nell’ambito della loro espansione lungo la valle del Tevere i Sabini erano quindi giunti a contatto diretto con Roma, come si evince sia dalla pertinenza sabina dell’antica Nomentum, sia dal fatto che il celebre santuario della dea Feronia presso Capena fosse divenuto sede in epoca regia di un celebre mercato che attirava mercanti, artigiani e contadini dalla Sabina, dal Lazio e dall’Etruria (Liv., I, 30, 5); famiglie di ascendenza sabina erano entrate nell’aristocrazia senatoria e fra esse la gens Claudia, assurta nel I sec. d.C. alla porpora imperiale.
Nell’ampio quadro così definitosi a livello locale fra la prima età del Ferro e il periodo orientalizzante, connesso alla formazione di un’ampia koinè medio-adriatica, vanno attivandosi in età arcaica rilevanti mutamenti, che vedono a partire dalla fine del VI sec. a.C. prima l’espansione etrusca nella bassa vallata del Po e nel contempo l’apertura della regione – attraverso gli approdi adriatici – al commercio greco e poi l’espansione celtica nelle Marche settentrionali, a cui seguono nuovi commerci etruschi e ancora greci di provenienza prevalentemente siracusana, a cui si collega anche la fondazione della colonia greca di Ancona (Colonna 1975). Nell’ambito di questi accadimenti e soprattutto della più generale crisi del V sec. a.C. l’orizzonte culturale “sud-piceno”, che aveva sostanzialmente unificato i territori adriatici fra Abruzzo e Marche, andò lentamente decadendo, per poi dissolversi a partire dalla fine del secolo e soprattutto nel IV sec. a.C., quando al venir meno dell’antica koinè adriatica va accompagnandosi la progressiva espansione anche in Campania, Basilicata e Calabria dei popoli sanniti, che parlano osco e unificano linguisticamente e politicamente gran parte del Mezzogiorno (Colonna 1975; La Regina 1989, 1990, 1994). Contestuale appare nelle fonti il progressivo emergere con autonoma organizzazione statuale, sul modello della touta documentata presso i Samnites Pentri, anche degli antichi popoli dei Vestini, Marsi, Peligni e Marrucini, che vanno adottando per i loro dialetti, fra IV e III sec. a.C., l’alfabeto latino a evidente testimonianza di rilevanti influssi linguistici e culturali.
In una situazione in cui la distinzione fra Sabina e Sannio apparteneva solo alla lingua latina, dovuta ai differenti rapporti intercorsi nei secoli fra le varie etnie e Roma, sono gli stessi Romani che iniziano a distinguere i Sabini veri e propri, ormai destinati a entrare di lì a poco con pieno titolo a far parte della res publica romana, dalle più lontane popolazioni dei Carricini, Pentri, Caudini, Irpini, che vengono a essere chiamati Samnites (La Regina 1994), e che utilizzano per la loro lingua l’alfabeto osco o sannita come evidente elemento di identificazione culturale. Intorno alla metà del IV sec. a.C. lo Stato sannitico vero e proprio si estendeva, oltre che nell’attuale Molise e nelle aree interne dell’Abruzzo chietino, nella fascia pedemontana del Matese in Campania e in una parte del territorio dei Volsci nel Lazio; della Lega sannitica era inoltre parte integrante nel 346 a.C., al momento della penetrazione romana in Campania, anche l’Irpinia. Al riconoscimento del carattere bellicoso e della capacità militare delle genti “safine” si lega il generalizzato utilizzo, specie in Italia meridionale e Sicilia, di mercenari italici la cui fama militare doveva essersi rafforzata a seguito delle conquiste sannitiche in Campania, fenomeno che va riducendosi con la fine del secolo a seguito della progressiva annessione romana dei loro territori e della stipula con parte delle popolazioni di foedera che li rendono socii di Roma.
Analogamente a Roma anche fra le genti “safine” poi confluite nella regio IV è attestato prima del IV sec. a.C. un ordinamento monarchico, come testimoniano il re (raki) Nevio Pompulledio raffigurato nel Guerriero di Capestrano o il rex Equeicolus Ferter Resius, mentre con il IV secolo sono attestate forme costituzionali repubblicane, esemplificate nel termine touto o touta (res publica), presente in vari documenti epigrafici (ad es., Toutai Maroucai nella tavola di Rapino).
Dopo le prime due guerre sannitiche (343-341, 326-304 a.C.), che vedono Roma protagonista a sbarrare l’ulteriore espansione dello Stato sannita, e soprattutto dopo la battaglia del Sentino (295 a.C.) che segna la fine dell’intesa con Etruschi e Galli, determinante nelle successive vicende dell’area appare la conquista romana del territorio sabino e pretuzio (293-290 a.C.). Tale acquisizione chiudeva ogni collegamento fra i Sanniti e gli altri ribelli della terza guerra sannitica (Liv., Per., XI; Flor., I, 10; Front., Strat., I, 1, 4; IV, 3, 2; Oros., III, 22, 11; Colum., I, 14) con il definitivo inglobamento del territorio sabino nello Stato romano e la fondazione sull’Adriatico delle due strategiche colonie di Castrum Novum (Giulianova) e Hadria (Atri).
Lo Stato sannitico andò tuttavia sopravvivendo e proprio al III sec. a.C. è riferibile un’abbondante documentazione epigrafica in alfabeto osco (o sannita), che ci restituisce l’assetto istituzionale della touto o touta con al grado più elevato il meddiss tuvtiks (magistrato eponimo detentore dell’imperium, con importanti poteri pubblici, militari e giurisdizionali), i censori e gli edili, da cui sono noti nomi e talvolta genealogie delle principali famiglie del territorio. Una lastrina bronzea in osco dal santuario italico in località Punta Penna di Vasto menziona i lavori condotti sul posto dai censori Calavio Osidio e Vibio Ottavio (Vetter 1953) e testimonia un ordinamento analogo a quello dei Samnites Pentri anche presso l’altro popolo “safino” dei Frentani, che occupava la fascia costiera fra Abruzzo chietino e Molise.
Il forte antagonismo con Roma andò giungendo al suo definitivo epilogo con la guerra sociale, ultimo tentativo delle classi dirigenti locali di darsi un nuovo ordinamento istituzionale e una sostanziale autonomia amministrativa nell’ambito di un effimero stato a cui gli insorti danno l’emblematico nome di Italia, obiettivo che viene meno nel prevalere dei reali interessi di queste classi a entrare a far parte integrante del sistema di potere romano. Alla guerra sociale seguirono una generalizzata attribuzione della cittadinanza romana, il conglobamento del territorio nello Stato romano e la probabile penalizzazione di quegli ambiti di insediamento e gruppi locali che avevano opposto maggiore resistenza, mentre una vera e propria selezione sul territorio, originata anche dalle vicende e dagli esiti del conflitto, andava definendo i centri poi giunti allo stato municipale.
Da tale processo, sviluppatosi nell’arco del I sec. a.C., va ricomponendosi in età augustea il quadro complessivo con cui quest’area dell’Italia centro-meridionale appenninica e adriatica viene ricompresa come regio IV nella divisione augustea; il territorio della regio stabiliva i suoi confini a nord sull’Adriatico lungo i corsi dei torrenti Saline e Piomba sino al Gran Sasso, per poi comprendere l’ampio saliente propriamente sabino che da Amiternum giungeva a nord sino a Nursia (Norcia), verso ovest sino a Reate (Rieti) e al corso del Tevere, per poi giungere a pochi chilometri da Roma, ove ne facevano parte il santuario di Feronia e i centri di Nomentum e Tibur. Di qui il confine transitava sui monti fra Abruzzo-Molise e Lazio, restandone fuori centri importanti nella storia dei popoli “safini”, Venafrum (Venafro) e altri centri sannitici della Campania, divenuti parte del Latium et Campania; un fenomeno simile è attestato anche ai confini meridionali, ove all’interno dei confini della regio erano Saepinum (presso Sepino) e Bovianum (Boiano), oltre alla media e alta vallata del Biferno, mentre veniva annesso all’Apulia l’importante centro frentano di Larinum (Larino). Si tratta di un assetto territoriale poi perpetuatosi senza ulteriori trasformazioni sino al II-III sec. d.C., in cui convivono sia un’ampia destrutturazione del preesistente quadro insediativo sparso di tradizione italica connessa dal I sec. a.C. alla generalizzata diffusione della villa rustica, che l’indubbia sopravvivenza di significativi lacerti del precedente tessuto abitativo paganico-vicano, poi sopravvissuti sino alla più tarda antichità, sino a caratterizzare il quadro del popolamento altomedievale.
Su questi temi le ricerche condotte nell’ultimo decennio hanno comportato notevoli nuove acquisizioni confluite in parte consistente prima nel volume Identità e civiltà dei Sabini (1996) e poi in quello Studi sull’Italia dei Sanniti (2000), che hanno raccolto le ricerche condotte in occasione della grande mostra “Italia dei Sanniti”, organizzata da A. La Regina, che ha riguardato – purtroppo con la sola eccezione dell’Abruzzo – tutte le principali aree interessate dallo stanziamento di “Safini-Sabini”. Di poco precedente era stato l’avvio delle iniziative connesse al progetto Piceni popolo d’Europa (1999-2000) coordinato da G. Colonna, L. Franchi dell’Orto e G. De Marinis, importante occasione d’approfondimento sulle tematiche archeologiche e culturali di questo popolo antico. Il progetto estendeva la propria attenzione anche ai rapporti con la vicina area “safina-sabina”, “sconfinando” in occasione della mostra di Teramo (2000) in ambiti (Guardiagrele, Opi-Val Fondillo, Tornareccio) le cui problematiche archeologiche si ricollegavano proprio a quelle dell’area sannita-sabina propriamente detta. Recentissime sono infine altre iniziative, quali la mostra sui Sanniti organizzata a Benevento (2003), concentratasi sulla presenza sannita fra Molise e Campania, e quella sui luoghi di culto della Basilicata antica, organizzata a Potenza presso il Museo Provinciale (2003-2004).
Negli stessi anni è andata notevolmente migliorando anche l’accessibilità di tanti importanti reperti segnalati in questa sede, con riqualificazione e riapertura al pubblico di varie strutture espositive di più antica tradizione, i musei archeologici di Vasto (1998), Alfedena (1998), Penne (2001) e la costituzione della sezione archeologica del Museo Paolo Barrasso a Caramanico (1997), del Museo di Preistoria dell’Abruzzo a Celano (1998), dell’Antiquarium a Loreto Aprutino (1998) e del Museo Archeologico a Lanciano (1999), strutture che offrono oggi a studiosi e cultori dell’antico l’occasione di prendere visione di importanti testimonianze archeologiche sinora difficilmente accessibili.
Considerato che l’assetto dei territori articolati dalla Sabina al Samnium, come va definendosi alla fine del I sec. a.C., rappresenta una diretta eredità delle plurisecolari vicende storiche dei popoli italici ivi confluiti, sin da epoca ben precedente la romanizzazione, appare impossibile comprendere l’assetto complessivo della regio IV senza una disamina sia pur ampiamente riassuntiva delle problematiche archeologiche che caratterizzano il progressivo sviluppo insediamentale e culturale di questi territori a partire dall’età del Ferro.
L’entità dei nuovi dati disponibili, particolarmente per i territori ricadenti all’interno dell’Abruzzo attuale, è tuttavia talmente abbondante che appare possibile proporre su tali vicende solo una breve sintesi complessiva, rinviando sia alla cospicua bibliografia di seguito segnalata, che ad altra sede in cui le problematiche di questo contributo sono trattate con la necessaria articolazione e più dettagliati riferimenti bibliografici (Staffa in c.s.); a quest’ultimo studio si rinvia in particolare per tutto quanto attiene alle necropoli e agli usi funerari, che si evolvono con significativa continuità dal periodo italico sino alla tarda età repubblicana, costituendo una delle più significative testimonianze della progressiva romanizzazione dell’area e contestualmente della sopravvivenza quasi orgogliosamente protratta sino all’età imperiale di elementi e caratteri peculiari, avvertiti come tali, pur nel loro progressivo mutamento, proprio dalle popolazioni locali.
L’assetto paganico-vicano del popolamento
Sin dalla prima età del Ferro e soprattutto dal VI-V sec. a.C. il popolamento dell’ampia area oggi compresa fra Abruzzo, Molise e Sannio campano risulta caratterizzato da quell’assetto sparso paganico-vicano già supposto in passato sulla base delle notizie conservate dalle fonti antiche, Samnites (…) in montibus vicatim habitantes (Liv., X, 17,2), e ormai ampiamente confermato anche dalle indagini archeologiche degli ultimi decenni, a partire da quelle fondamentali condotte a suo tempo proprio in Molise da La Regina (1989, 1990). In una situazione che vede ormai consolidata alla fine del V sec. a.C. la proprietà privata dei suoli agricoli, questa forma di insediamento prevalente inquadrabile nel pagus, entità territoriale appartenente a una comunità ben definita, appariva dotata di strutture diversificate a seconda delle necessità: villaggi (vici ), mercati ( fora), prevalentemente ubicati lungo gli assi viari di fondovalle poi ripresi dalle strade romane e dai successivi tratturi, santuari (templa), centri fortificati (oppida, castella), fattorie e altri insediamenti minori del territorio rurale.
Fra queste strutture esistevano generalmente nessi precisi: gli abitati e i mercati più importanti si sviluppavano generalmente in aree pianeggianti o con leggero declivio (ad es., Bovianum, Venafrum, Saepinum), nei pressi dei santuari, mentre sulle alture vicine s’erano sviluppate cinte difensive fortificate in evidente connessione con i sottostanti abitati. Le fonti storiche restituiscono numerose notizie sui principali insediamenti del territorio sannitico vero e proprio, che le più recenti ricerche archeologiche hanno consentito di riconoscere in alcuni dei siti più importanti, Aquilonia a Monte Vairano, Herculaneum a Campochiaro, Cluviae nella località Piano La Roma di Casoli, Callifae a Roccavecchia di Pratella e forse Cominium a Pietrabbondante e Duronia a San Biagio Saracinisco. Non meno ampio appare, nell’ambito dell’Abruzzo attuale, il panorama di dati offerti dai centri poi assurti a dimensione urbana come Pinna (Penne), Teate (Chieti), Anxanum (Lanciano), Hortona (Ortona), Histonium (Vasto), Sulmona, Marruvium, Peltuinum, Superaequum, dai principali santuari (ad es., Casteldieri, Cansano, Ercole Curino a Sulmona, Pescosansonesco, Feronia a Loreto Aprutino, Schiavi, Quadri), dal tessuto insediativo minore e dall’assetto della fascia litoranea, che evidenzia significative forme di continuità insediativa fra periodo italico ed età romana, lungo quel tracciato litoraneo poi ripreso dalla Flaminia adriatica che aveva costituito l’asse portante dell’ampia koinè medio-adriatica d’epoca precedente.
In anni recenti il notevole aumento di dati archeologici di riferimento è stato occasione per una riflessione sugli effettivi aspetti delle forme d’abitato testimoniate dalle fonti, particolarmente per i territori ricadenti nel Sannio vero e proprio; accanto a tipologie abitative conservatesi sostanzialmente immutate sino al Tardoantico e talvolta – aggiungiamo noi – sino all’Alto Medioevo, si verificava la presenza di tipologie evolutesi precocemente verso forme di urbanizzazione, a seguito di evidenti influssi dovuti ai crescenti rapporti con Roma, in una situazione in cui la realtà sul territorio appariva ben più variegata e complessa di quanto si fosse sinora ritenuto; inoltre, mentre per i centri fortificati erano carenti i dati archeologici ed erano invece significativi i dati topografici, per gli abitati vicani di fondovalle si verificava la situazione opposta, con esaurienti dati archeologici ma elementi topografici quanto mai limitati e poco affidabili soprattutto ai fini di possibili valutazioni complessive.
I centri fortificati
In territorio abruzzese gli aspetti del popolamento sparso italico erano stati in passato documentati dagli studi di E. Mattiocco sui centri fortificati in area peligna e vestina e dalle ricerche condotte ad Amplero presso Collelongo e nel Fucino grazie all’importante attività promossa nella zona dall’Università di Pisa per iniziativa di C. Letta. Eloquente appare il caso di Collelongo nel Fucino, ove l’insediamento occupava un ambito collinare terrazzato con strutture in opera poligonale (loc. San Castro presso Amplero) e ha restituito reperti dal III sec. a.C. al III sec. d.C.; il relativo centro fortificato era in località La Giostra e presentava una cinta poligonale abbastanza evoluta, al cui interno erano una cisterna connessa a un piccolo edificio di due vani, un deposito votivo con materiale fittile dal VI al II sec. a.C., un santuario con vestibolo porticato e cella di culto tripartita. Fittamente documentata appare questa forma di occupazione del territorio sui rilievi montuosi che circondavano il Fucino e in vari ambiti compresi fra il territorio dei Vestini Cismontani e quello dei Peligni.
Interessanti, in merito all’evoluzione in età romana dell’articolato panorama di insediamenti fortificati d’età precedente, appaiono le considerazioni avanzate da Mattiocco (1981, 1986) sulle forme di reinsediamento medievale su recinti italici dell’Abruzzo interno: su un totale di 140 centri fortificati italici noti in queste aree solo una parte molto ridotta presenta chiare tracce di occupazione medievale; una siffatta generalizzata eclisse di una tipologia insediamentale caratteristica del quadro insediativo italico non può che dipendere dal fatto che fosse stata definitivamente interrotta, fra tarda età repubblicana e media età imperiale, la stessa frequentazione della maggior parte dei siti, definitivamente sostituiti nell’assetto del popolamento da numerosi insediamenti di fondovalle poi divenuti municipi, a cui erano stati in precedenza connessi da legami analoghi a quelli ampiamente documentati nel Sannio.
Anche in territorio molisano i centri fortificati rappresentavano sino a qualche tempo fa la principale forma di stanziamento sannita nota e appaiono prevalentemente riferibili alle fasi del confronto con Roma (tardo IV sec. a.C.), come confermano sia le fonti antiche (Diodoro Siculo, Livio) sia le indagini condotte al loro interno (Monte Santa Croce, Monte Vairano, Morcone, Oratino, Terravecchia di Sepino, Monte Pallano); non va tuttavia dimenticata, analogamente ad altri casi abruzzesi (vedi infra), la presenza in alcuni siti (Monte Vairano, Monte San Paolo, Rocca di Oratino) di materiali connessi a una frequentazione sin dal VI-V sec. a.C., ben prima della realizzazione delle cinte murarie oggi visibili. Tali centri esercitavano un ruolo fondamentale nel controllo del territorio e svolgevano la funzione di arx nei confronti di sottostanti abitati vicani riferibili all’articolato tessuto del popolamento sparso, come nel caso degli insediamenti vicani – poi divenuti municipi – di Boiano, Venafro e Sepino, delle fortificazioni di Chiauci, Monte Cavuto alle pendici sud-orientali del Matese nella Campania sannita, identificate queste seconde con il centro di Callifae.
Funzioni di controllo analoghe a quelle di Boiano lungo il tracciato che collegava la media valle del Liri con l’alta valle del Volturno doveva svolgere anche l’abitato fortificato recentemente identificato sul Monte Santa Croce in comune di San Biagio Saracinisco. Un controllo strategico lungo le vie armentizie che collegavano fra loro l’Abruzzo meridionale e i territori della Daunia appare evidente dalla distribuzione dei centri fortificati lungo il tratturo Celano-Foggia (Monte San Nicola, San Lorenzo di Agnone, Selva del Monaco, Monte Miglio di San Pietro Avellana, Staffoli) e lungo la vera e propria “via della lana” costituita dall’altro tratturo Castel di Sangro-Lucera (Rocca Cinque Miglia, Castel di Sangro, La Montagnola di Rionero Sannitico, Carovilli, Santa Maria dei Vignali, Colle Sant’Onofrio, Chiauci, Civitanova del Sannio, Duronia, Castropignano e Oratino); di rilevante interesse appare anche la ricostruzione del sistema di difesa ricadente nel territorio dei comuni di Agnone e Capracotta (Monte San Nicola, San Lorenzo di Agnone, Monte Cavallerizzo a sud di Capracotta, Monte Saraceno presso Pietrabbondante), che costituiva una sorta di quadrilatero posto lungo il tracciato dei due tratturi Ateleta- Biferno e Celano-Foggia oltre che di quello che li ricollegava a Sprondasino-Castel del Giudice, a evidente difesa del santuario federale di Pietrabbondante e del fitto tessuto insediativo a esso circostante.
Che si fosse trattato della fortificazione di siti d’altura già frequentati sin da epoca precedente appare evidente dall’ubicazione di varie cinte murarie su siti già naturalmente difesi, come Alfedena, Montagano, Frosolone, Carovilli e soprattutto Monte Vairano, ove sono stati riconosciuti i resti del principale centro dei Sanniti Pentri menzionato dalle fonti documentarie, quell’Aquilonia ricordata da Livio (X, 36-48), indicata come Akudunniad nell’unica emissione monetale emessa dai Pentri poco prima della conquista della città da parte dell’esercito romano condotto da Scipione Barbato.
Analogamente alla fondazione coloniale di Alba Fucens nel territorio degli Equi (anch’essa interessata da preesistenze) l’insediamento di Monte Vairano risultava articolato in tre alture, con al centro un’ampia area resa pianeggiante da potenti mura di terrazzamento, con cinta difensiva in opera poligonale (perimetro 3 km ca.) a doppio paramento con aggere interno e a tratti anche a paramento semplice con un riempimento di piccole pietre all’interno; nella cinta si aprivano tre porte (a sud, est e ovest), che conservano ancora le tracce dei cardini dei due battenti lignei.
Dell’abitato sono stati messi in luce una cisterna e resti di edifici, fra cui una casa con pavimenti di cocciopesto e pareti a intonaco rosso e zoccolo nero, in uso dal II sec. a.C. alla metà del I sec. a.C., quando viene distrutta da un incendio; ha restituito fra l’altro frammenti ceramici con graffito LN, dolii, un mortaio, un telaio con 39 pesi di varia foggia e un’antefissa raffigurante Eracle e il Leone Nemeo; antefisse con lo stesso soggetto provengono da un altro edificio in opera poligonale di incerta destinazione (basamento di portico o di grande altare come a Rossano di Vaglio, oppure scena per spettacoli all’aperto), diviso in ambienti rettangolari.
Fra gli altri centri fortificati interessati da ricerche recenti ricordiamo Rocca di Oratino, Monte San Paolo di Colli al Volturno e Monte Ferrante di Carovilli ove sono stati indagati resti d’abitato databili fra III e II sec. a.C., fra cui i terrazzamenti dell’acropoli con un luogo di culto e altre strutture insediative ubicate più in basso, mentre è ancora incerta la cronologia delle mura; il rinvenimento di un tesoretto con monete dell’82-80 a.C. suggella le fasi più tarde del sito, connesse ai saccheggi da parte dei seguaci di Silla dopo la guerra sociale. Un’imponente cinta fortificata doveva esistere anche presso l’importante centro di Caudium, ubicato ai confini occidentali del territorio sannita verso la Campania, in corrispondenza dello storico valico delle Forche Caudine, da cui si accedeva all’entroterra sannitico.
Le cinte fortificate erano sovente di grandi dimensioni, atte a ospitare popolazione e armenti (ad es., Frosolone, Cercemaggiore, Pescolanciano) e in taluni casi sono sede di insediamenti vicini a una dimensione protourbana, come Monte Vairano, Castelromano, Cercemaggiore, Monte Ferrante di Carovilli, Oratino, Terravecchia di Sepino, Monte Pallano e soprattutto Monte San Paolo, riconosciuto in via d’ipotesi come l’accampamento sannita prima della battaglia di Aquilonia del 293 a.C., con una cinta sviluppata per circa 6 km con area interna di ben 200 ha. Generalmente, tuttavia, le cinte presentavano dimensioni più ridotte, con plausibile funzione puramente militare o comunque ristretta solo a determinati periodi dell’anno, in connessione da un lato con le dinamiche dell’economia pastorale e dall’altro con l’esigenza di garantire la sicurezza degli armenti (ad es., Montefalcone, Rionero Sannitico, Tre Torrette di Campochiaro). La tecnica costruttiva appare sovente molto semplice con grossi blocchi in genere poco lavorati sovrapposti a secco e fa pensare in tali casi alla presenza di maestranze non specializzate, probabilmente soldati e prigionieri guidati da capi militari, se non anche manodopera di tipo servile. Le mura sono prevalentemente a paramento unico, raramente doppio con riempimento a sacco (La Giostra di Amplero) e aggere interno (Monte Vairano); alle Tre Torrette di Campochiaro la cinta muraria è dotata di torri a pianta quadrata; le porte, presenti in vario numero, hanno in più casi un ingresso con corridoio obliquo (Amplero, Monte Vairano, Castelromano, Cercemaggiore).
Gli abitati di fondovalle e il tessuto insediativo minore
I centri fortificati non rappresentavano comunque la forma d’insediamento prevalente in area “safina-sabina”, come hanno rivelato progetti mirati di ricognizione condotti, a partire dalle ricerche svolte in Molise dalla British School at Rome, anche in altre aree della media Italia appenninica e adriatica; ricerche che gettano nuova luce sull’articolazione del tessuto insediativo minore inquadrabile nel tradizionale assetto paganico-vicano del territorio testimoniato dalle fonti, restituendo un panorama complessivo del popolamento in vasti ambiti territoriali (valle del Biferno e alta valle del Volturno in Molise, provincia di Pescara- area vestina trasmontana, costa chietina, media Valle del Sangro in Abruzzo), con considerevoli fenomeni di continuità dal periodo italico sino al Tardoantico e in taluni casi sino all’Alto Medioevo.
Abitati vicani occupati dal VI-IV sec. a.C. sino all’età tardorepubblicana (con continuità sovente attestata sino a tutta l’età imperiale e anche oltre) sono stati individuati in buon numero in area peligna e vestina; significativo appare il quadro territoriale testimoniato dalla Lex aedis Furfensis, rinvenuta a Santa Maria di Forfona presso Barisciano, che ricordava la dedica di un tempio a Iuppiter Liber regolandone il culto, testimoniando la sopravvivenza nel 58 a.C. di un pagus in cui convivevano i vici dei Furfenses, Fificulani e Taresuni. Recenti indagini hanno interessato alcuni di questi abitati vicani, nella Piana di San Marco ai piedi dell’abitato di Castel del Monte, ove sono venuti alla luce i resti di un insediamento connesso all’economia della transumanza, con settori di rappresentanza e strutture produttive (Strazzulla 1998), e in località Piano Valentino di Molina-Aterno, su un terrazzo fluviale lungo l’Aterno, connesso a un sepolcreto utilizzato a partire dal VI sec. a.C.
Ricerche condotte presso il già noto abitato di Fonte Schiavo di Nocciano hanno restituito i resti di varie capanne seminterrate (2000- 2002), riferibili a un ampio insediamento che va lentamente spegnendosi in età repubblicana (secc. III-II a.C.) in coincidenza con lo sviluppo del vicino vicus in località Casali, rimasto poi abitato sino all’Alto Medioevo, interessato sia dalla presenza di nuclei residenziali e produttivi che da umili case di terra. In località Conoscopane di Pianella (2001), presso una successiva villa rustica, erano i resti di due case di terra, una delle quali di forma rettangolare e grandi dimensioni, databili al IV-II sec. a.C.; nei pressi era una vasca di cocciopesto con superficie rialzata su un lato e dolio adiacente a essa, forse avanzo di un torculario del tipo a congiario descritto da Plinio, mentre all’interno della casa più grande sono state rinvenute scorie di ferro connesse ad attività di fusione.
Evidente esempio di siffatte tipologie insediative e della loro diversa evoluzione appare in area vestina il caso dei vicini abitati di Penne e Colle Fiorano di Loreto Aprutino, ambedue circondati fra VI e V sec. a.C. da necropoli che ne testimoniano rilevanza e possibile sviluppo protourbano (più rilevanti proprio quelle di Loreto), andati poi incontro a destini ben diversi. Pinna giunge a dimensione urbana e diviene municipium, mentre Colle Fiorano si conserva nel suo assetto di abitato vicano a maglie larghe per tutta l’età imperiale, sino a essere interessato nel VI secolo dall’inserimento di una chiesa paleocristiana con fonte battesimale, che segna la sopravvivenza dell’insediamento sino all’Alto Medioevo.
In questa parte del territorio vestino (e dunque “safino”) orbitante su Pinna risultano attestati già prima del confronto con Roma centri d’altura connessi a sottostanti abitati vicani, come nel caso dei siti di Roccafinadamo, Colle Trotta e Collalto, nel loro rapporto con le fasi più antiche della vicina Penne, e del Monte Bertona con l’abitato corrispondente alla necropoli di Vestea-Colle Quinzio, centri a cui pare riferibile il termine okrèi presente proprio in una delle iscrizioni paleosabelliche della vicina necropoli di Penna Sant’Andrea (terza iscrizione), inteso proprio come “altura fortificata” (La Regina 1986); a differenza del Sannio insediamenti del genere, con compiti di controllo e avvistamento simili a quelli attestati per altri centri della Marsica e dalla Campania, non vengono tuttavia trasformati nel tardo IV sec. a.C. in centri fortificati veri e propri, a seguito delle vicende militari avverse e del patto stipulato con Roma nel 304 a.C.
Anche in area marrucina le ricerche più recenti si soffermano sull’assetto paganico-vicano del popolamento, nel cui ambito sono evidenti tre centri principali: Chieti, poi municipium; la Civita Danzica di Rapino (Ocre Tarincra nella Tavola di Rapino) connessa alla necropoli di Comino di Guardiagrele; l’insediamento di Pretoro-Pennapiedimonte, rimasti alla condizione vicana. Non più antiche del IV sec. a.C. sono anche le testimonianze delle recenti ricerche condotte a Monte Pallano, ove si è proceduto al restauro delle fortificazioni poligonali dell’insediamento, di cui deve rilevarsi la notevolissima qualità costruttiva; la presenza nel territorio circostante di forme di popolamento risalenti all’età arcaica, ben precedenti la compiuta fortificazione del sito, è testimoniata da vari nuclei funerari (Colle San Pietro, Sambuceto, Colledimezzo, Tornareccio), risalenti al VII-VI sec. a.C. in coerenza cronologica con il cosiddetto Torso di Atessa, oltre che dal rinvenimento nei pressi di frammenti di stele funerarie.
A questi sepolcreti le recenti ricerche collegano un sistema d’insediamento rurale costituito sia da vici che da più ridotte fattorie rurali, sistema che, nello stretto rapporto con il preminente centro fortificato di Monte Pallano, presenta notevoli paralleli sia con quelli attestati a Monte Vairano e nel territorio circostante Larino nel vicino Molise, sia soprattutto con l’insediamento fortificato sannita di Roccagloriosa in Lucania, centro principale connesso nel raggio di pochi chilometri a vari altri insediamenti rurali minori. Anche nei pressi della necropoli del Tratturo di Vasto è attestata la presenza di un abitato a vocazione difensiva, quello sul Colle del Tratturo risalente al VII-VI sec. a.C., suggerendo che siffatte funzioni di controllo del territorio si fossero attivate da epoca ben precedente alle vicende del confronto con Roma, anche prescindendo dall’esistenza di articolati e costosi apprestamenti difensivi.
A un tessuto insediativo analogo sono state attribuite, nel centro urbano di Benevento, interessato nel 268 a.C. dall’importante fondazione coloniale, le testimonianze dell’abitato preromano venute alla luce in occasione di scavi recenti, riferibili ad almeno due pagi: il primo ben delimitato da necropoli (a nord-est lungo le pendici della collina digradante verso il Calore, a ovest in corrispondenza dell’attuale teatro comunale, a sud-est nell’area occupata dalla Rocca dei Rettori); il secondo corrispondente al sepolcreto di Palazzo Pacca, con nuclei funerari distribuiti lungo un tracciato viario che percorreva la dorsale della collina corrispondente al centro storico, poi ricalcato dal decumano della nuova colonia. Anche a Benevento le ricerche più recenti hanno rivelato la realizzazione proprio verso la fine del IV sec. a.C., sia nell’area di Palazzo De Simone che presso la Rocca dei Rettori, di opere di fortificazione e addirittura di un agger, che oblitera nell’area della Rocca parte del sepolcreto sannita d’epoca precedente, interventi che rientrano in quelle ben più ampie dinamiche di fortificazione del Sannio in precedenza riassunte.
Con la fine delle guerre sannitiche i centri fortificati vanno lentamente perdendo importanza, anche se le testimonianze del popolamento rivelano fasi che scendono sino all’età romana e che comportano precocemente, come a Monte Vairano con la fornace di porta Vittoria e a Monte San Paolo con lo sviluppo di insediamenti esterni alle mura (III-II sec. a.C.), una caduta in disuso o comunque una perdita di importanza delle fortificazioni in epoca precedente la guerra sociale; prevalente nella successiva evoluzione del quadro insediativo appare l’ampio sviluppo, non diversamente dal vicino Abruzzo, delle forme d’abitato vicano distribuite nel territorio e lungo gli assi di comunicazione in larga parte corrispondenti alla successiva rete tratturale d’età medievale.
Caratteristica del popolamento rurale in area sannita fra III e II sec. a.C. appare la sua articolazione in due forme principali, villaggi di dimensioni medio-piccole prevalentemente derivanti da forme d’abitato d’epoca precedente e nuclei più ridotti con funzioni residenziali e produttive, poi trasformati in quelle ville rustiche che caratterizzano il quadro del popolamento a partire dal I sec. a.C., come è emerso anche nel corso di recenti ricerche a Venafro. Abitati di tipo vicano sono stati identificati in anni recenti nelle località San Martino e Colle Sparanise di Campochiaro, presso Baranello, nel territorio di Vinchiaturo, fra San Giovanni in Galdo, Toro e Campodipietra, e soprattutto nelle vicinanze di San Vincenzo al Volturno.
Interessante esempio di queste forme minori di stanziamento appare l’insediamento di Fonte del Romito a Capracotta, occupato quasi senza soluzione di continuità in un arco cronologico compreso fra l’epoca arcaica e la prima età imperiale e collegato a un centro fortificato sul vicino Monte San Nicola; presenta le prime fasi stabili e articolate fra IV e III sec. a.C., con nuclei residenziali e di servizio ben distinti, un edificio a due piani e ampie stalle e si sviluppa nel II sec. a.C. con un grande edificio centrale chiuso (16 x 10,5 m) a destinazione residenziale con vani di servizio, spazi non coperti per attività produttive, cura del bestiame, immagazzinamento del legno, produzione di ceramiche comuni. L’abitato è soggetto nelle sue fasi più tarde a interventi di ristrutturazione, al cui proposito la sostanziale conservatività del suo modello culturale suggerisce prudenza nelle valutazioni su un possibile sviluppo in senso protourbano o sull’esistenza di funzioni civili e religiose. Fonte del Romito, ben difendibile a partire dal vicino centro fortificato di Monte San Nicola, è confrontabile con altre forme di abitato quali quelle in località Valletta del Curino ad Alfedena e a Monte Pallano, oltre che con la Casa di LN a Monte Vairano; interessante in proposito appare nel vicino Abruzzo il possibile riconoscimento in località Monte Civitalta dell’arx dell’abitato sannita della valletta del Curino, connesso alla ben nota necropoli di Alfedena.
Le ricerche più recenti in Molise enfatizzano nuovamente l’importanza degli scavi condotti proprio ad Alfedena da L. Mariani, che avevano rivelato la presenza di un settore centrale dell’abitato interessato da strutture pubbliche con funzioni sia civili che religiose, con varie fasi edilizie inquadrabili dal III sec. a.C. all’età imperiale. Diversa è la situazione per altri insediamenti rurali in posizione più difficilmente difendibile indagati negli ultimi anni in Molise, che presentano maggiore compattezza verso l’esterno e un’organizzazione dell’assetto planimetrico sviluppata verso l’interno; ne è un buon esempio in località Pesco Morelli di Cercemaggiore una casa sannitica (19 x 17 m) con ambienti sia abitativi che destinati alle lavorazioni agricole distribuiti intorno a un atrio rettangolare, con vasca e alcuni dolia. La casa, che presenta una prima fase costruttiva di IV sec. a.C., è costruita in opera poligonale e ha pavimenti di cocciopesto grossolanamente lastricati o di terra battuta. Essa ha restituito testimonianze di frequentazione protratta sino al II sec. a.C. Un altro insediamento rurale di II-I sec. a.C. (poi crollato e abbandonato), con quattro ambienti a pavimentazione di cocciopesto, è stato indagato in località Ponte San Mauro di Vastogirardi. Abitati del genere sono stati identificati nel territorio di Larino, in località Santa Maria della Strada a Matrice e Mattonelle a San Martino in Pensilis, San Pietro a San Giacomo degli Schiavoni e a Santa Maria di Casalpiano. Non direttamente connesso con il vicino insediamento di Venafro è l’insediamento artigianale, con varie fornaci relative a produzioni ceramiche d’età ellenistica, indagato in località Camerelle, confrontabile con impianti attestati a Campobasso, Larino, Casacalenda e Monte Vairano.
Il quadro insediativo di III-II sec. a.C. sin qui riepilogato andò evolvendosi nel I sec. a.C. con la definizione di grandi proprietà pertinenti a quelle famiglie – fra le più rilevanti – che erano riuscite a conservare status e beni nonostante le vicende della guerra sociale, fra cui, ad esempio, quel Gaio Stazio Claro che, passato fra i sostenitori di Silla dopo un’iniziale adesione alla rivolta, era stato poi ammesso a far parte del Senato. Accanto ai nuclei superstiti del popolamento rurale italico vanno diffondendosi in quest’epoca grandi ville rustiche, ad esempio le ville di Santa Maria di Canneto, Roccavivara, San Fabiano, Macchianera e San Felice del Molise; impianti del genere sono attestati in gran numero anche nelle aree interne, nelle località Canala di Castropignano, Sterparelle di Vinchiaturo, Colle del Medico di Monte Vairano, Cannavine di Bagnoli, San Vincenzo al Volturno, San Biase e Fonte Paradiso di Monteverde.
Particolarmente interessante è la situazione del territorio di Venafro, ove è già attestato il modello della cosiddetta “villa catoniana”, connesso a strutture agrarie di dimensione limitata come i praedia qui posseduti dallo stesso Catone (Agr., 10 ss.), evidentemente derivati da fattorie di IV-III sec. a.C. inquadrabili nel tessuto dell’insediamento minore sannita finora ricostruito. In quest’area si sviluppano precocemente grandi ville di produzione che ripropongono schemi e modelli laziali (Capini 1991) e che costituiranno il modello per una loro ben più ampia diffusione, anche a seguito della formazione nel tessuto sociale locale di quella classe di ricchi proprietari che si rendono particolarmente attivi come trafficanti e banchieri nelle aree del Mediterraneo orientale.
Le vie della transumanza: collegamenti culturali ed economici fra Sannio e Apulia
Fondamentale nell’assetto del popolamento sparso che caratterizzava questi territori ancora fra III e II sec. a.C., nonché nella stessa più generale economia dell’intera regio IV a partire dall’età augustea, appare la presenza di una ramificata rete viaria che collegava le aree dell’interno (Aquilano, Valle Peligna, altopiano delle Cinque Miglia, Valle del Sangro, Molise interno, ecc.) con la costa (Valle del Pescara) e di qui con la Puglia e che risulta sovente ripresa anche dai tratturi d’età medievale, ad esempio i due fondamentali tracciati L’Aquila-Foggia e Pescasseroli-Candela.
Va in proposito sottolineato, riprendendo precise considerazioni di S. Capini, che i tratturi alfonsini, pur andatisi a sovrapporre a tracciati viari sovente di notevole antichità, vanno trattati non come un elemento del paesaggio ma come prodotto di una precisa azione umana, quale la grande transumanza dalla Sabina al Tavoliere, che non va consolidandosi prima del II sec. a.C. Il rapporto tratturo-territoriopaesaggio- testimonianze archeologiche va dunque interpretato volta per volta, tenendo presente che sono assodate la sostanziale interruzione della grande transumanza con l’età altomedievale e la ripresa di questa solo con la nascita del regno normanno.
L’importanza di questi itinerari, lungo cui si sviluppano le principali dinamiche dei collegamenti commerciali e culturali dell’area “safina” con i territori della Magna Grecia, è resa evidente già in epoca precedente non solo dalla posizione strategica degli insediamenti connessi alle due necropoli di Alfedena e Opi-Val Fondillo, ma anche dai contatti commerciali e dalle forme di acculturazione documentati dalle ricerche recenti nella Daunia settentrionale, in particolare a Tiati/ Teanum Apulum e addirittura nella Basilicata. Contatti evidenti sono emersi in Abruzzo anche nella recentissima edizione degli scavi 1911- 14 della necropoli del Tratturo di Vasto (VI-III sec. a.C.), dove i corredi rivelano sin dal VI secolo contatti culturali con la Daunia poi fortemente intensificatisi fra IV e III. Questi contatti si collegano a quel ben più ampio e noto fenomeno di espansione italica che investe il Mezzogiorno della penisola a partire dall’ultimo quarto del V sec. a.C.; tale fenomeno vede la presenza di gruppi di Sanniti nel Lazio meridionale, in Campania e nel resto dell’Italia meridionale sino alla Calabria e alla Sicilia.
Nell’ambito della formazione, a partire dal II-I sec. a.C., di grandi proprietà anche nei territori dell’Italia appenninica compresi fra Abruzzo e Molise, molte delle quali poi passate a dipendere direttamente dal fisco imperiale, la grande transumanza sino ai pascoli della Puglia andò sopravvivendo anche in età imperiale, come appare vividamente documentato dalla celebre epigrafe ancor oggi murata presso Porta Boiano a Saepinum.
I santuari e gli aspetti religiosi
Intimamente connessa all’organizzazione paganico-vicana del popolamento sin qui riepilogata appare in area sabellica la distribuzione sul territorio dei luoghi di culto, in origine semplici sacelli all’aperto. Molti luoghi di culto erano giunti a catalizzare nei loro pressi (IV-II sec. a.C.) insediamenti anche di notevole articolazione, sovente rimasti anche in seguito a uno stadio semplicemente vicano.
Sulla base delle ricerche archeologiche e della documentazione epigrafica sono oggi possibili importanti considerazioni sugli aspetti peculiari della religiosità dei “Safini” e sulla personalità e attribuzioni delle varie divinità. Si tratta di acquisizioni importanti, in quanto sono numerosi i luoghi di culto d’epoca precedente che continuano a costituire punti di riferimento nell’assetto della regio IV sino all’età imperiale, determinando anche in seguito, nell’influenza e nell’attrazione esercitata da questi culti fra le popolazioni locali, significative forme di continuità di tratti importanti della religiosità antica sino al Medioevo e anche oltre. Nell’ambito di interessanti forme di sincretismo fra influenza greca e sensibilità italica si è giunti, ad esempio, a importanti acquisizioni sull’associazione fra orfismo e culti italici agricoli, sull’identificazione mistica del ciclo vita-morte e del ciclo annuale del grano nella Tavola di Agnone, sui caratteri di una singolare divinità femminile propiziatrice e salutare, caratteristica del mondo italico, contaminatasi in vario modo a livello locale anche con l’apporto di culti e riti dall’area romana e orientale.
Interessante appare indubbiamente lo stretto rapporto esistente fra religiosità italica e mondo della natura, i cui cicli vitali influenzavano con le loro alterne vicende i cicli del singolo individuo e della comunità e in cui risultavano inseriti alcuni dei principali santuari, in origine semplici altari all’aperto analoghi a quello individuato presso il santuario di Feronia in località Poggio Ragone di Loreto Aprutino. L’ubicazione di alcuni santuari presso fonti perenni (Corfinio-Fonte Sant’Ippolito, Pescosansonesco, Loreto Aprutino-Poggio Ragone, Casalbore in Irpinia) si collega particolarmente in ambito abruzzese a singolari forme di continuità medievale e moderna di analoghi culti salutari (Casteldieri, Caramanico-San Tommaso, Città Sant’Angelo-Sant’Agnese, Montebello di Bertona-Sant’Agata) nel restituire una vivida immagine di quelli che erano stati in antico gli elementi più caratteristici della religiosità “safina”.
Particolarmente interessante è in proposito il riconoscimento di prescrizioni rituali del tipo lex arae, già presenti sin da epoca assai antica nel sostrato unificante della cultura sud-picena e che documentano l’esistenza di una componente “politica” a metà strada fra i sacra pubblici e quelli privati, nonché la presenza del genius del defunto e di un’ideologia eroica e guerriera all’insegna della gens (Franchi dell’Orto); quest’ultimo aspetto appare rivelatore di una disposizione nei confronti del divino che troverà riscontro nel predominio della funzione pubblica e politica su quella religiosa nei grandi santuari, ad esempio nel luogo di culto federale dei Pentri a Pietrabbondante, ma anche in numerosi altri santuari in questa sede brevemente analizzati. Al santuario spettava il compito di regolare, nel rapporto con la touta e con i vici, una serie di funzioni importanti all’interno del relativo pagus connesse alla scansione delle festività stagionali, della vita religiosa e civile della comunità; esso inoltre ospitava attività civili, altrove differentemente allocate, a carattere economico, amministrativo, o connesse alla vita politica e militare delle comunità; funzioni a cui si accompagna a Pietrabbondante, a Quadri e fors’anche a Punta Penna di Vasto la presenza dal II secolo di strutture teatrali.
Gli originari luoghi di culto all’aperto vanno trasformandosi in edifici templari veri e propri, assimilabili alle ben note tipologie etruscoitaliche, solo a partire dal III sec. a.C., a seguito dei forti rapporti con Roma avviatisi dopo la fine delle guerre sannitiche. Con il II secolo il panorama va facendosi ancora più articolato e alcuni luoghi di culto sono oggetto di interventi di monumentalizzazione, protrattisi sino alla più tarda età repubblicana. Significativo appare l’intensificarsi degli interventi proprio in età augustea, al momento della creazione della regio IV, che appare occasione importante a livello locale per un programmatico perseguimento di forme di rinascita e sviluppo degli antichi culti italici.
I principali santuari in territorio abruzzese
Fra i luoghi di culto più importanti dell’area “safina-sabina” è anzitutto da ricordare il santuario di Monte Giove a sud del fiume Vomano, riconosciuto come possibile santuario di confine fra Safini e Pretuzi-Piceni, in connessione con le note stele paleosabelliche della vicina necropoli di Penna Sant’Andrea, che menzionano i Sabinorum principes (Safinùm nerf ) e sembrano confermare sin da epoca notevolmente antica (VI sec. a.C.) l’avvertita distinzione etnica fra i due ambiti già sottolineata in precedenza, oltre che una loro separazione lungo il fiume Vomano. Un ruolo analogo pare riferibile nella vicina vallata del Fino al santuario di Colle San Giorgio, i cui materiali fittili, esposti a Chieti nello storico allestimento di V. Cianfarani, sono stati oggetto dei recenti studi di G. Iaculli, che ha proposto un’attendibile ipotesi di ricomposizione del tetto e della decorazione del monumento, attribuita alle fasi più tarde dell’ellenismo medio-adriatico (poco prima della guerra sociale) fra cui il frontone decorato con statue fittili a 2/3 del vero: al centro Giove in trono e altre divinità stanti, Minerva, Giunone, Dioniso e forse Venere.
Verso sud ricerche recenti hanno rivelato la presenza del tempio di Feronia in località Poggio Ragone di Loreto Aprutino, sede di un primitivo altare italico all’aperto presso una fonte perenne, configuratosi dal II sec. a.C. come tempio prostilo ad ante, con due ali ai lati e cella rettangolare più larga che lunga, preservata dopo un restauro d’età augustea, con preziosi oggetti connessi al culto della dea, grazie all’interro avvenuto a seguito di una grande frana (III sec. d.C.); frammenti della statua di culto, il diadema, due basi a essa connesse, una preziosa corona votiva, una phiale con iscrizione di dedica, un bronzetto di Giove giovanile associato nel culto alla dea, vari crepundia infantili connessi al suo culto e tanti altri oggetti votivi rinvenuti all’interno della cella fanno di questo rinvenimento uno dei più suggestivi e importanti fra quelli recenti per la migliore comprensione della religiosità italica in quest’area.
Il culto di Feronia è attestato anche altrove in area vestina, presso l’abitato vicano di Forcona presso Civita di Bagno, in area di confine con il vicino territorio dei Sabini veri e propri orbitante su Amiternum, oltre che nello stesso territorio di Amiternum; a Civita di Bagno il luogo di culto, documentato dal rinvenimento di un’epigrafe frammentaria d’età augustea connessa a interventi di restauro coevi a quelli di Loreto Aprutino, appare riconoscibile in un imponente complesso di strutture di opera incerta in corso di scavo da parte di R. Tuteri, con fasi di culto risalenti al III-II sec. a.C. in una situazione caratterizzata dall’ampia presenza di acque. La rilevante importanza religiosa sul lunghissimo periodo dell’insediamento, connessa proprio alla presenza del monumentale santuario di Feronia, appare confermata dall’inserimento presso il vicino abitato vicano di Forcona, sopravvissuto sino all’Alto Medioevo, di una delle poche diocesi conservatesi nelle aree interne della regione, qui trasferita dall’ormai decaduta Aveia.
Il culto di Feronia è attestato anche altrove nel territorio dei Sabini, sia dal già menzionato santuario lungo il Tevere di Lucus Feroniae, che dall’altro luogo di culto di Trebula Mutuesca, di cui era stata a suo tempo esplorata la stipe votiva. Interessante è anche il riesame del santuario già noto in località Monte La Queglia di Pescosansonesco, anch’esso sviluppatosi, analogamente al luogo di culto di Loreto Aprutino, come altare all’aperto presso una fonte perenne di montagna, attivo a partire dal V-IV sec. a.C. sino alla fine del IV sec. d.C.; il santuario viene interessato da un ampio intervento evergetico di restauro intorno alla metà del III sec. d.C. a opera di un’importante famiglia di Sulmona e connesso a un abitato vicano risalente al periodo italico ubicato in località Santa Maria Ambrosiana su un sottostante pianoro (Staffa 2002).
Importante testimonianza dell’assetto rurale prima della definitiva romanizzazione appare il tempio in località Piedi Franci di Casteldieri nella Valle Subequana, ubicato nelle vicinanze di una sorgente carsica oggi prosciugatasi; una più antica struttura, comprendente un basamento in opera poligonale e un altro precedente edificio sacro, vengono sottoposti fra II e I sec. a.C. ad ampi interventi di ricostruzione, che configurano un luogo di culto su alto podio con cella tripartita, profondo pronao e alta scalinata d’accesso antistante; nel 1882 e 1949 vennero rinvenute nei pressi due iscrizioni sabelliche probabilmente correlabili al culto pubblico di illustri personaggi defunti (V sec. a.C.), in una situazione abbastanza simile a quella dell’associazione santuario-necropoli ricordata anche a Penna Sant’Andrea. Un’iscrizione musiva conservata all’ingresso della cella (metà I sec. a.C.), coeva alla già ricordata Lex aedis Furfensis (58 a.C.), ricorda la ricostruzione del luogo di culto ex pagi decreto. Il santuario dovette restare in uso sino a età imperiale, quando andarono avviandosi progressivi fenomeni di smottamento delle terre ubicate a monte del sito, che dovevano portare al definitivo interramento fra III e IV sec. d.C., ma non alla sparizione del culto, trasfusosi in successive forme di religiosità d’epoca medievale.
Sempre in area peligna ricordiamo il tempio di Ercole presso Fonte Sant’Ippolito a Corfinio (di cui è stata scavata anche la stipe votiva e dalla cui acqua si va ancor oggi a cercare beneficio per le malattie dell’orecchio) e soprattutto il complesso del santuario indagato in località Tavuto di Cansano, lungo un importante itinerario che collegava la Valle Peligna proprio al Sannio Pentro. Quest’ultimo era edificato su un terrazzo alle falde di Colle Mitra (sede di un centro fortificato già ricordato), ed era compreso all’interno di un articolato insediamento. Il complesso conteneva i templi di Ercole e Giove sul terrazzo superiore, un sacello di Cerere e Venere in un recinto minore, una zona destinata ad abitazioni, un’area produttiva con un grande edificio (calcara), due estese necropoli poste lungo percorsi glareati che servivano il sito (da quella meridionale viene l’iscrizione dedicata dai cultori di Giove di Ocriticum). Nei rapporti stretti fra Colle Mitra, il santuario di Cansano, l’altro luogo di culto di Hercules Curinus e il sottostante abitato di Sulmona sono evidenti dinamiche assimilabili a quelle rilevate in numerosi siti del territorio molisano.
Anche il celebre santuario di Schiavi con i due templi a suo tempo indagati da A. La Regina, oggetto di recenti scavi e restauri, fa parte, analogamente a Cansano, di un ben più articolato insediamento, risalente addirittura alla prima età del Ferro. Gli interventi recenti hanno interessato il pronao del tempio maggiore e hanno portato alla luce un altare antistante il tempio minore, oltre a una serie di altri edifici in opera quadrata e in reticolato di funzione sinora imprecisata, databili sino all’età imperiale, che testimoniano della particolare articolazione del complesso.
Anche il santuario d’altura, che darà poi origine sul piano sottostante al municipium di Iuvanum, è costituito da due distinti luoghi di culto, il primo databile alla seconda metà del III - prima metà del II sec. a.C., con alto podio in opera quadrata, e il secondo più piccolo, anch’esso con tipico podio sopraelevato, a cui si affianca la presenza, non diversamente da Pietrabbondante, di un teatro, probabilmente riferibile al II sec. a.C.; una situazione analoga è quella dell’altro importante santuario di Quadri, costituito da un grande tempio su alto podio e da varie strutture di servizio circostanti, anch’esso correlabile a un abitato conservatosi allo stato vicano.
Sempre nell’Abruzzo chietino rilevanza particolare dovette rivestire nel III-II sec. a.C. il santuario segnalato in località Punta Penna di Vasto dalle già ricordate laminette bronzee con iscrizione in lingua osca, una delle quali menzionante due censori che dovevano avervi realizzato qualche intervento pubblico, oltre che dal peso raffigurante Giove con iscrizione Iuveis Lufreis. Ancora nella seconda metà del XVI secolo sul pianoro intorno a S. Maria della Penna erano visibili i resti di due templi e di un teatro, il che sembrerebbe ricollegare il contesto al ben più noto complesso di Pietrabbondante e in effetti sul sito sono stati esplorati vari resti di un abitato inquadrabile fra IV-III e I sec. a.C.; sembra quindi trattarsi di un luogo di culto di importanza superiore al semplice ambito locale, verosimilmente lo stesso santuario federale dei Frentani.
Nell’Abruzzo meridionale ricordiamo ancora Vacri, ove sono stati rinvenuti alcuni bronzetti di Ercole (secoli V-IV a.C.) e i resti di due edifici templari più tardi, il primo più ampio con classico podio e il secondo più piccolo privo di podio; Atessa, occupato fra III-II sec. a.C. e la guerra sociale; Villalfonsina, con pregevolissima decorazione caratterizzata fra l’altro dalla presenza di lastre di rivestimento a matrice (II sec. a.C.), avvicinabili per dimensioni e tipologia a esemplari da Pietrabbondante e Gildone, e da almeno due antepagmenta con raffigurazione di Eracle seduto e Atena stante; San Buono-Fonte San Nicola, costituito anch’esso da un tempio più ampio e da un ridotto sacello, frequentati fra IV e I sec. a.C. V. D’Ercole ha recentemente ipotizzato una distribuzione sul territorio dei luoghi di culto del Chietino in relazione proprio alle fasce di territorio che separavano i vari popoli di etnia “safina” ivi stanziati, Marrucini, Frentani, Carricini e Pentri.
Va ancora ricordato il riconoscimento in località Mandrile di Castelguidone, non lontano dal santuario federale pentro di Pietrabbondante, del santuario da cui doveva provenire la straordinaria testa di San Giovanni Lipioni, così vicina per caratteristiche tecniche e stilistiche al Bruto Capitolino, unico ritratto probabilmente pervenutoci di un glorioso meddíss (magistrato) delle genti sannite. A forme di religiosità salutare in ambito urbano è infine riferibile il pozzo sacro del complesso dei tempietti romani a Chieti, che trova confronto nell’analogo pozzo sacro di Campochiaro e che segnala l’importanza di un elemento sopravvissuto anche in aspetti della religiosità popolare poi trasmigrati in successivi riti cristiani, ad esempio i pozzi sacri di San Tommaso a Caramanico, Sant’Agata a Montebello di Bertona, Santa Vittoria a Trebula Mutuesca e la fonte presso la chiesa rurale di S. Agnese a Città Sant’Angelo.
I principali santuari nel Sannio
Il vicino complesso cultuale di Pietrabbondante rappresenta il principale santuario dei Sanniti Pentri, ove venivano consacrate sin dalla fine del V sec. a.C. le decime dei bottini di guerra, come documenta anche la costante attività nel suo ambito dei magistrati dello Stato sannita; riconosciuto come il Cominium delle fonti (Liv., X, 43, 5-7), occupava un’ampia area collinare augurata di pianta quadrangolare (IV sec. a.C.), lungo un importante asse viario e in posizione dominante sulla sottostante vallata del Trigno. Dopo una prima ristrutturazione monumentale di III sec. a.C., il complesso è oggetto di una ricostruzione nell’ambito del II con un nuovo luogo di culto (Tempio A), con pronao e unica cella collocati su podio con cornici superiore e inferiore modanate, e soprattutto con il teatro (fine II sec.) e – poco prima della guerra sociale (95-91 a.C.) – con il vicino imponente Tempio B (prostilo, tetrastilo con tre celle, su alto podio), mai portato a compimento a causa della soppressione del culto e della concessione dell’area a privati di parte sillana. Fra gli interventi più recenti sul sito, fondamentale nelle vicende storiche dell’intero Sannio, va ricordata la complessa anastilosi del teatro, curata da A. La Regina.
Particolarmente importante anche il santuario di Campochiaro, identificato con lo Herculaneum menzionato da Livio (X, 45), protetto con fortificazioni in opera poligonale durante il conflitto con Roma. Esso era ubicato a 800 m s.l.m. in località La Civitella nei pressi di Boiano, in posizione strategica lungo il tratturello che raccordava fra loro i tre maggiori tratturi esistenti nella zona, il Celano-Foggia, il Castel di Sangro-Lucera, il Pescasseroli-Candela.
Il santuario è frequentato a partire dal IV sec. a.C., epoca a cui risale la più antica fase edilizia, e occupava un’area terrazzata all’interno della cinta fortificata, che delimita uno spazio grosso modo triangolare con vertice verso valle (150 x 125 m ca.); sulla terrazza principale è il luogo di culto, con un lungo porticato verso ovest ed elevato ligneo del quale si conserva un frammento di sima fittile con palmetta e testa leonina, in origine probabilmente costituito da un semplice recinto sacro (húrz) con uno o più altari, come lo húrz Kerríis della Fonte del Romito tra Capracotta e Agnone o come l’originario santuario di Feronia in località Poggio Ragone di Loreto Aprutino. Fra fine del III e II sec. a.C. la terrazza principale è ampliata e sostenuta da una lunga costruzione con prospetto scenografico sulla spianata sottostante (forse un portico) e su di essa sorge il nuovo tempio prostilo tetrastilo in antis, con podio liscio e puteal strigilato al centro del pronao, monumentalizzazione di un ben più antico pozzo sacro; i bolli delle tegole qui rinvenute restituiscono il nome del meddíss del 130 a.C. (Sn. Staiis Mit. K.), mentre sul lato settentrionale del tempio sono stati rinvenuti due depositi con materiali votivi ed edilizi.
In area molisana sono noti vari altri santuari, San Pietro di Cantoni a Sepino, San Giovanni in Galdo, Vastogirardi, Gildone, tutti dotati di uno, o più raramente, due templi su alto podio con gradinata frontale incassata, eleganti modanature a gola rovesciata e blocchi accuratamente lavorati, che denotano l’impiego di maestranze specializzate di ispirazione ellenistica, probabilmente campane. Sovente gli edifici sacri sono su terrazze sostenute da muraglioni, come nei già ricordati casi di Schiavi e Campochiaro, oltre che a San Giovanni in Galdo, ove l’area sacra è recintata da un portico colonnato, mentre in taluni casi è anche attestata la presenza di un teatro (Pietrabbondante, Callifae, Iuvanum e forse Punta Penna di Vasto in Abruzzo).
Nei templi d’epoca più recente (secoli II-I a.C.) è attestata la presenza di pavimenti di signino rosso con inserzione di tessere bianche di derivazione campano-laziale, come a San Giovanni in Galdo e a Schiavi, ove un’iscrizione conserva il nome del costruttore G. Paapii(s).
Le decorazioni architettoniche rinvenute sono per lo più fittili, in origine policrome, riconoscibili come prodotti di media qualità nell’ambito della koinè ellenistica magno-greca, con motivi decorativi quali bucrani e rosette nelle metope (Schiavi), teste di leone o di satiro per i doccioni di gronda (Macchia Valfortore), Ercole, la Pothnia theròn o semplicemente teste femminili nelle antefisse (Gildone, Chieti, Colle San Giorgio); negli antepagmenta i motivi vegetali si accoppiano fantasiosamente a più teste femminili (Schiavi, Gildone), palmette e volute fanno da cornice ad amorini montati su pantere (Colle San Giorgio), mentre le lastre, soprattutto quelle di coronamento del frontone, sono decorate con eleganti motivi a traforo. Frammenti di statue frontonali sono stati rinvenuti a Pietrabbondante, a Lanciano (Porta San Biagio) e soprattutto a Chieti, ove sono stati ricostruiti ben due frontoni dai santuari della Civitella.
Accanto a santuari più importanti anche nell’attuale Molise sono stati rinvenuti numerosi luoghi di culto minori, come quelli in località Morgia della Chiusa presso Gildone, e i piccoli edifici sacri nei pressi di sepolcreti, come a Cercemaggiore.
Un importante santuario sannita, risalente addirittura al VI sec. a.C. con ampi interventi di monumentalizzazione a partire dalla metà del III a.C., è attestato anche in Irpinia, a Casalbore, presso una sorgente perenne ubicata – come a Pietrabbondante – subito a valle del tratturo e i cui elementi decorativi segnalano interessanti contatti con l’area tarantina; importante è qui la presenza di riproduzioni fittili di melograni, frutta, maschere femminili e soggetti vari fra cui l’uovo, evidente simbolo di vita, nascita e rinascita, attestato in contesto funerario a Metaponto e riferibile alla cosmologia orfica e all’adesione a forme di culto connesse con la religiosità misterica diffuse in Italia meridionale, ricollegatesi a Casalbore a un preesistente culto della fecondità. La presenza dell’uovo in contesti caratterizzati da fonti perenni, analogamente ai casi di Timmari (Matera), Macchia di Rossano (santuario di Mefite) e Armento, restituisce un elemento importante della religiosità sannitica, strettamente legata al mondo delle acque per la loro importanza centrale nella prevalente economia pastorale, che faceva dei corsi d’acqua e delle sorgenti capisaldi fondamentali per lo spostamento delle greggi transumanti.
Caratteri e aspetti dei principali culti del mondo sabino e sannita
Si è proposto di riconoscere nella divinità venerata a Casalbore la dea Mefite, principale divinità femminile in Irpinia e Lucania, signora della fecondità e della riproduzione ma anche della morte e del mondo infero. Un analogo riconoscimento è stato proposto anche per il santuario in località Pescarola di Casalvieri, nei territori sannitici del Lazio; anche qui il culto era praticato presso un lago con acque dalle proprietà salutari, al cui interno sono stati rinvenuti numerosi oggetti votivi, fra cui nelle fasi più antiche cinturoni di bronzo (IV sec. a.C.) e poi abbondante materiale fittile che rinvia a contatti proprio con il santuario di Mefite nella vallata d’Ansanto in Irpinia (Rainini 1985) e con l’area centro-italica compresa fra il Fucino e la valle del Salto. Considerata la sua attestazione nei territori sannitici dell’Irpinia e della Campania doveva trattarsi di una divinità femminile tipicamente “safina”, che compare attestata con diversa titolatura anche in altri importanti esempi, anzitutto il singolare busto da Lanciano raffigurante una figura femminile, con testa volta leggermente verso destra, diadema appoggiato sui capelli, abbigliata con tunica senza maniche e spalline sottili, secondo una foggia che richiama quella dell’egida bipartita. Per la capigliatura possono proporsi confronti con terrecotte italiche di IV-III sec. a.C. e il busto appare nel suo complesso databile al III - inizi II sec. a.C., mentre alcuni fori sul capo sembrano correlabili alla presenza di un elemento di materiale diverso, probabilmente un elmo (Staffa 1999 e in c.s.); tale elemento si affianca alla foggia della tunica nell’indicare il possibile riconoscimento della figura come Minerva, contaminatasi con una divinità locale dalla forte connotazione salutare testimoniata dai numerosi votivi anatomici rinvenuti associati con essa, analogamente al caso della Minerva-Mefite in antico venerata nella valle d’Ansanto in Irpinia.
Il diadema della statua di Lanciano è inoltre identico a quello lunato e apicato di bronzo attribuito alla statua della dea Feronia presso il già ricordato tempio di Loreto Aprutino e in quanto tale compare nell’unica testimonianza iconografica che se ne conserva e cioè le effigi monetali presenti sulle monete di Petronio Turpiliano del 20-18 a.C., unitamente alla collana, attestata anch’essa a Loreto Aprutino. Una siffatta contaminazione è forse riconoscibile anche a Villalfonsina, da cui proviene un antepagmentum con raffigurazione di Atena stante, che presenta un’egida bipartita simile a quella raffigurata nel busto da Lanciano.
Feronia, che ben simboleggia questa divinità femminile salutare “safina” dai molti nomi, è divinità protettrice della vegetazione e delle acque e per estensione nume tutelare dell’universo femminile in quanto depositaria di fertilità; essa aveva antiche origini italiche, in particolare secondo Varrone proprio sabine (V, 74); compito della dea era mettere al servizio degli uomini, della loro alimentazione e salute le forze ancora selvagge della natura, guarendo e fecondando, ottenendone in cambio le primizie del raccolto, come appare evidente anche da appellativi a lei dedicati quali salus e frugifera. Analogamente a Mefite, a cui la avvicinano molti elementi sin qui esaminati, compare inoltre a simboleggiare anche gli aspetti oscuri e minacciosi della natura; è avvicinata a Proserpina e associata a divinità inquietanti, a Praeneste madre del mostro Erulo dalle tre teste, a Lucus Feroniae vicina al Soranus Pater, vera e propria sorta di Ade italico. La dea abitava nei boschi che le erano sacri e l’ambito del culto era essenzialmente agreste tanto che i suoi santuari più importanti erano ubicati nei pressi di un lucus (Lucus Feroniae presso il Soratte, Praeneste, Trebula Mutuesca, Terracina, Poggio Ragone, Civita di Bagno). I santuari della dea svolgevano anche un importante ruolo commerciale, tanto che vi si tenevano mercati ricordati dalle fonti antiche e sorgevano lungo importanti vie di comunicazione; il santuario di Civita di Bagno risultava infatti ubicato sul margine meridionale del territorio sabino verso i Vestini, lungo un importante itinerario che discendeva verso l’area peligna e la vallata del Pescara, mentre l’altro celebre santuario di Lucus Feroniae era ubicato lungo il Tevere, ai margini occidentali del territorio sabino, alla confluenza con l’area falisco-capenate e lo stesso territorio di Roma.
Un altro luogo di culto, di cui le fonti epigrafiche testimoniano la monumentalità, era ubicato nella Sabina interna a Trebula Mutuesca, probabilmente non lungi dal sito della successiva pieve altomedievale di Santa Vittoria, nei cui pressi in passato è stato rinvenuto il deposito votivo. Negli stretti rapporti segnalati fra i riti testimoniati in Abruzzo ad Amiterno, Civita di Bagno, Loreto Aprutino e Lanciano, nella stessa Sabina vera e propria a Lucus Feroniae e Trebula Mutuesca e in Irpinia a Casalvieri e Casalbore, appaiono evidenti forme e modalità di diffusione di un culto femminile dalla palese doppia natura, che sembra caratteristico delle genti “safine” e che andrà sopravvivendo sino alla piena romanizzazione e oltre. Chissà che con tale doppia natura non avesse qualcosa a che fare, ancora in età romana, la singolare planimetria dei Tempietti di Chieti, ove la bipartizione in due edifici gemelli separati da uno stretto passaggio sembra suggerire un collegamento a due distinti ruoli funzionali della divinità, forse proprio quelli in precedenza ricostruiti per la figura di Feronia. Proprio da quest’ultima area proviene un importante cippo oggi disperso che ricordava una sacracrix Herentatia (La Regina 1978), singolare testimonianza di un culto di Venere-Herentas anch’esso connesso alla presenza di un pozzo sacro (Erice, Gravisca) e che ben si collegherebbe alla diffusa attestazione del culto di Cerere e Venere fra i Marrucini, i Peligni e i Vestini, ove compare in ambito urbano a Pinna Vestinorum, a nord del fiume Pescara.
La prostituzione sacra, a cui pare ricollegabile il titolo della sacracrix attestato sia a Chieti sia in un’epigrafe dal territorio di Interpromium oggi conservata a San Clemente a Casauria, risulta documentata in area marrucina a Rapino, ove il titolo è menzionato nella celebre Tavola di Rapino, e anche presso il tempio della dea Mefite a Rossano di Vaglio in Lucania. La Tavola di Rapino restituisce, nella più recente analisi di La Regina (1997), elementi di particolare interesse per il caratteristico culto femminile sin qui analizzato, menzionando una sacerdotessa (sacracrix) “giovia”, termine attestato anche a Rossano di Vaglio, che amministra, nell’ambito di un luogo di culto dedicato al padre degli dei, un tesoro di Cerere, che rimanda al già ricordato culto di Cerere e Venere. Il culto di Venere è attestato nel Chietino a Tufillo, una chiave con dedica a Herentas, e a Fresagrandinaria, in associazione con quello di Cibele, che risulta a sua volta attestato anche a Venafro e a Corfinio, probabilmente nell’ambito di forme di contaminazione innestatesi su divinità salutari locali; al culto della Magna Mater rimandano d’altronde un simulacro fittile da Corfinio e un’antefissa forse raffigurante Attis, da Casteldieri.
Connessa alla Tavola appare a Rapino la continuità di frequentazione cultuale della celebre Grotta del Colle, da cui proviene anche la ben nota statuetta arcaica della Dea di Rapino e che diviene sede in età altomedievale del culto di S. Angelo. L’associazione documentata a Rapino fra il culto salutare e propiziatore di una divinità femminile e quello del padre degli dei Giove, quale nume tutelare dell’equilibrio cosmico, è attestata anche presso il santuario della dea Feronia a Loreto Aprutino e in area laziale presso il santuario di Giove Anxur a Terracina; il culto di Giove, assimilabile al Veiove del tipo Monterazzano, testimoniato anche da bronzetti votivi rinvenuti presso il santuario in località Passo Porcari di Atessa e a Tornareccio, ritorna in uno dei due gruppi frontonali dalla Civitella di Chieti. È interessante in proposito notare che ambedue i templi di Loreto Aprutino e Atessa risultavano privi del podio, analogamente al tempio minore di Vacri, differenziandosi in ciò da numerosi altri casi illustrati nella zona. Analoghe caratteristiche salutari dovevano presentare anche le divinità, anch’esse probabilmente femminili, venerate a Casteldieri, come già in precedenza illustrato, e a Pescosansonesco, a proposito del cui culto appare interessante il rinvenimento, nell’area a lato del secondo tempio ivi individuato, di frammenti di due olle con orlo estroflesso e cordone ondulato a sezione circolare connesso a due anse raffiguranti serpenti, forse specificamente utilizzate in età tardorepubblicana per offerte alla divinità che vi si venerava (Staffa 2002).
È interessante notare che analoghi culti ofidici sono documentati in Abruzzo dal bronzetto di un “serparo” da Tollo e da una mano con serpente da Villa Santa Maria, che si sommano alle notizie delle fonti sugli speciali poteri nei confronti dei serpenti di alcuni gruppi gentilizi fra i Marsi (Plin., Nat. hist., XXVIII, 30; Letta 1972), e segnalare particolarissime tradizioni cultuali, sopravvissute anche in seguito nei culti d’età medievale e moderna a Cocullo e a Rapino; a Trebula Mutuesca, nel territorio sabino, le fonti epigrafiche attestano un culto legato proprio alla magia dei serpenti, quello di Angitia, altra divinità femminile assimilabile per molti versi alle precedenti, che risulta talmente importante nel territorio dei Marsi da aver fatto trasformare in municipium addirittura un suo santuario, quello di Lucus Angitiae. A una analoga divinità salutare femminile è riferibile anche l’importante tempio in località San Pietro di Cantoni lungo la via che collegava l’arx di Saepinum in località Terravecchia al vicus di Altilia, poi divenuto municipium, nella pianura sottostante, come hanno dimostrato il recente rinvenimento di una statuina bronzea femminile e della sua base con dedica, che si aggiunge ai numerosissimi votivi anatomici venuti alla luce in passato.
Singolare testimonianza delle forme più genuine della religiosità italica poi trasmigrate nel tessuto religioso della regio IV d’età romana appare infine la vastissima diffusione del culto di Ercole, protettore delle greggi e dei celebri mercenari italici, caro a queste genti di cui era ben noto il valore per le sue caratteristiche guerresche ed eroiche, anche se nella sua natura non mancavano collegamenti con divinità femminili connesse alla fecondità quali Cerere e Fortuna.
Attestato presso importanti santuari già ricordati e connessi con le principali fasi di sviluppo del popolamento fra IV-III e I sec. a.C., Hercules Curinus a Sulmona, Hercules Victor a Superaequum, Corfinio e Campochiaro, il culto trova le sue testimonianze più diffuse e sentite nei numerosissimi bronzetti che lo raffigurano con clava e leontè, rinvenuti sia nell’ambito dei principali santuari, non solo quelli dedicati a questa divinità, sia soprattutto in quello di numerosissimi sacelli minori e addirittura sovente in ambiti neanche caratterizzati dall’evidente presenza di luoghi di culto. Un bronzetto raffigurante Ercole è stato rinvenuto addirittura nell’interro della villa romano-bizantina in località Casino Vezzani-Vassarella di Crecchio (fine VI sec.), ultima testimonianza di forme di religiosità sopravvissute per secoli.
Sulla base delle ampie problematiche storiche e archeologiche sin qui riepilogate, il tessuto della regio IV, come andrà definendosi in età augustea, va complessivamente costruendosi in corrispondenza delle fasi principali della romanizzazione, fra III e I sec. a.C. Sin da quest’epoca infatti la presenza di colonie romane e deduzioni viritane, ubicate ai margini o incuneate nel territorio corrispondente alle attuali regioni d’Abruzzo e Molise, era andata traducendosi in profonde ricadute sulla struttura economica e sociale dell’area. Anzitutto portò alla circolazione fra le classi dirigenti locali di nuovi modelli nelle manifestazioni di status sociale e a una progressiva concentrazione delle ricchezze proprio nell’ambito di queste classi. Tali ricchezze erano evidentemente connesse da un lato a un intenso sfruttamento delle risorse della pastorizia e di un’economia agricola in via di progressivo potenziamento, dall’altro ai commerci che le principali famiglie italiche avevano avviato sui mercati dell’Oriente, fra cui probabilmente quel commercio degli schiavi a cui si ricollega nel II sec. a.C. l’attestazione di loro esponenti presso il grande porto di Delo, attivato come porto franco in Oriente a partire dal 166 a.C. A fenomeni del genere si collega anche la progressiva marginalizzazione e pauperizzazione di ampi settori di popolazione, la cui condizione si aggrava con il progressivo utilizzo nelle grandi ville produttive, che vanno diffondendosi anche in queste aree, di cospicua manodopera schiavile.
L’influsso delle fondazioni coloniali romane (secc. III-II a.C.)
La deduzione delle due colonie di Beneventum (Benevento, 268 a.C.) e Aesernia (Isernia, 263 a.C.) avviava lo sviluppo di pianificazioni urbane in ambiti in cui le più recenti ricerche archeologiche hanno rivelato la presenza in un caso, Benevento, di evidenti tracce di un preesistente abitato sannita e nell’altro, Isernia, l’attestazione di un preesistente abitato sannita il cui nome (Aisernui) compare in una dedica a Ercole rinvenuta presso il santuario di Campochiaro, mentre bucchero campano è stato rinvenuto nei pressi della città. Non meno rilevante in proposito doveva risultare nelle aree ricadenti all’interno dell’Abruzzo attuale la fondazione delle colonie latine di Alba Fucens (303 a.C) e Carsioli (Oricola, 302-298 a.C.) nei territori dei Marsi e degli Equi e di Hadria (289 a.C.) e Castrum Novum (Giulianova) in quelli fra Vestini e Pretuzi, seguita alla campagna militare di Curio Dentato verso il Mare Adriatico (290 a.C.).
Simile a quella di Benevento appare forse la situazione di Alba Fucens e Hadria, ove la presenza di forme d’abitato preesistente sui siti sembra segnalata dal rinvenimento negli immediati dintorni di necropoli risalenti al VI-V sec. a.C. (Valle Solegara, Pretara e Colle della Giustizia). Particolarmente leggibile per l’abbandono d’età medievale appare il sito di Alba Fucens, ove l’insediamento occupava sin dalla sua fondazione tre colli (San Pietro, Pettorino, Albe Vecchia) gravitanti su un pianoro intermedio, in cui andò progressivamente definendosi un impianto regolare con foro, templi, teatro, macellum, terme, basilica e case d’abitazione.
Ai coloni, che dovevano garantire con la loro presenza il controllo dei territori annessi o collegati allo Stato romano, vennero affidati estesi terreni sottratti alle popolazioni locali, in parte sparsi anche nel territorio (assegnazioni viritane); la forzata convivenza di popolazioni di stirpe diversa venne così a rappresentare motivo per la creazione di altri riferimenti territoriali, le praefecturae, e tali divennero i preesistenti abitati di Aveia, Peltuinum e Aufinum, nell’ormai annesso territorio dei Vestini cismontani, poi incamminatisi lentamente anch’essi sulla via di un progressivo sviluppo urbano, mentre a tali vicende si accompagnava la stipula di foedera con Marsi, Peligni e Marrucini, restando libero e alleato di Roma il centro di Pinna (Penne). A testimonianza della presenza di dinamiche analoghe, nella stessa Sabina va organizzandosi come praefectura fra III e II sec. a.C. anche l’insediamento di Nursia poi divenuto municipium.
Assegnazioni viritane dovettero probabilmente interessare anche la bassa vallata del Pescara, come emergerebbe dal rinvenimento a Rosciano di un cippo dedicato ad Apollo, culto di origine romana già attestato ugualmente in Abruzzo presso la praefectura di Peltuinum. Modelli analoghi vanno lentamente diffondendosi anche in ambiti insediativi dell’attuale territorio molisano annessi allo Stato romano nel 268 a.C. con concessione della civitas sine suffragio, a Venafrum, Allifae e Alfedena. La creazione della praefectura a Venafrum si lega all’ubicazione strategica dell’insediamento, in un territorio aperto sin dall’epoca arcaica ad articolati apporti culturali esterni, ove si manifestano precocemente quei fenomeni che documentano un pieno inserimento nel mondo romano, accanto a una persistenza dell’osco sino a tutto il II sec. a.C.
Dinamiche simili sono attestate anche nei centri sannitici dell’Irpinia (Abellinum, Flumeri lungo l’Ufita) e in Molise, soprattutto a Larino. In questo luogo l’ascesa a dimensione urbana del centro in località Piana San Leonardo va accompagnandosi al progressivo spegnimento di numerosi abitati vicani circostanti, analogamente a quanto le ricerche più recenti sono andate restituendo anche per il territorio dell’altro importante centro della zona poi giunto a uno stadio municipale, Histonium (Vasto).
Evoluzione in senso urbano dei principali abitati: la situazione in ambito molisano
Il fenomeno della nascita in area “safina” delle prime embrionali strutture urbane non appare tuttavia riducibile solo allo sviluppo di modelli importati a seguito della parziale conquista romana, in quanto già dal secolo precedente l’espansione sannitica e i forti collegamenti commerciali e culturali avviatisi con la Campania e l’Italia meridionale avevano portato alla circolazione di modelli socioculturali ben diffusi proprio in quelle zone. Le fasi del confronto con Roma sono fondamentali nello sviluppo di prime embrionali strutture urbane all’interno del preesistente tessuto abitativo sparso, in quanto erano divenute, soprattutto nel Sannio, il motore di consistenti forme di ristrutturazione del popolamento, con lo sviluppo del capillare tessuto di centri fortificati in precedenza analizzato, destinato a consentire il controllo strategico di un territorio in cui andavano emergendo per importanza e collocazione alcuni fra gli abitati vicani preesistenti.
Le ricerche più recenti nelle vallate del Biferno, del Volturno e del Sangro evidenziano proprio in quest’epoca un forte sviluppo demografico e insediativo, che appare attestato anche in Abruzzo in un ambito strategico per i collegamenti fra le aree interne e quelle costiere qual era la vallata del fiume Pescara; non appare in proposito casuale il fatto che, ben aldilà dei confini meridionali del territorio sannita vero e proprio, fosse addirittura divenuta – nella nota testimonianza di Strabone (V, 4, 8) – una città sannita con propria organizzazione anche la celebre Pompei. In questo centro campano iscrizioni in lingua e alfabeto osco testimoniano fino al I sec. a.C. la presenza del meddiss e di altre magistrature quali aidilis e kvaiistur ; peraltro le ricerche più recenti stanno ormai restituendo importanti testimonianze archeologiche su queste significative fasi.
In area sannitica lo sviluppo dei centri a economia agricolo-pastorale più matura, che vanno poi evolvendosi sulla via del progressivo sviluppo urbano, appare legato all’ubicazione lungo vie di comunicazione o lungo tracciati tratturali percorsi dalle migrazioni stagionali delle greggi, secondo dinamiche e fasi cronologiche che appaiono probabilmente più antiche delle fasi cruciali del confronto con Roma. È questo il caso di Venafrum e soprattutto di Saepinum e Boianum, entrambe dotate di arx (Terravecchia, Civita), ma soprattutto estese in aperta pianura con nuclei di insediamento dalle evidenti caratteristiche di fora, che emergono anche a livello toponomastico dal possibile riferimento a un originario recinto per il ricovero delle greggi (Saepinum da saepio, La Regina 1970) e a un punto di concentrazione del bestiame (Bovianum).
L’etnico Saipins o Saipinaz compare in lingua osca e greca su un elmo databile fra i primi decenni e la metà del IV sec. a.C., che ricorda uno Spedis Mamerekies Saipins (Vetter 1953, 190), e poi su una defixio dalla necropoli di Cuma (Vetter 1953, 5c, 7), databile negli ultimi decenni del secolo. L’arx dell’insediamento era sull’altura di Terravecchia (Colonna 1962), ove appare ubicabile il centro di Saepinum assediato e saccheggiato nel 293 a.C. dal console romano Papirio (Liv., X, 45, 12-14), anche se non vi sono motivi per supporre che l’abitato fosse poi andato del tutto distrutto e anzi pare plausibile che vi si fossero conservate forme di popolamento poi confluite nell’insediamento altomedievale, che aveva recuperato durante le fasi cruciali di VI sec. d.C. le tradizionali potenzialità difensive (Staffa 1995).
Il sito del vicino vicus di Altilia, poi divenuto in età romana sede del municipium, era nella pianura sottostante all’incrocio fra il tracciato poi ripreso dal tratturo Pescasseroli-Candela che collegava il Sannio Pentro alla Campania e alla Puglia e l’altro itinerario che dal Matese procedeva verso la vallata del Tammaro; presso l’abitato, sorto come forum, si assiste nel III-II sec. a.C. a un progressivo sviluppo del popolamento e alla concentrazione di attività artigianali specializzate nella lavorazione della lana, favorite dalla disponibilità di manodopera servile e di larghe estensioni di ager publicus. In posizione intermedia fra i due centri era l’importante santuario di S. Pietro di Cantoni, frequentato sin dal IV-III sec. a.C. e interessato nel II sec. a.C. dall’inserimento di una struttura templare di grandi dimensioni con podio in opera poligonale.
A Bovianum, sviluppatosi come mercato per il bestiame lungo il tracciato antico poi ripreso dal tratturo Pescasseroli-Candela, principale centro del Sannio dopo la caduta di Aquilonia nel 293 a.C., l’arx era sull’altura della Civita e difendeva il sottostante vicus organizzato in isolati quadrati di lato di circa 60 m (simile a Venafro) sul sito poi interessato dall’abitato romano, consentendo il controllo della sottostante strada fondamentale per i collegamenti con la Puglia. Le fasi sannitiche di Bovianum sono ancora poco note e anche i resti delle fortificazioni oggi conservati sulla Civita sono abbastanza scarsi: oltre al tratto noto da tempo in Larghetto Gentile ne sono venuti alla luce altri sia a destra che a sinistra; nel cortile del vecchio episcopio è stato in particolare rinvenuto un muro ortogonale ai primi, che presenta collegamenti con la situazione di Lucus Angitiae (Luco dei Marsi), ove si distaccavano da una cinta rettilinea pedemontana due tratti di mura ortogonali che risalivano i fianchi della montagna. Oltre alla Civita, Bovianum risultava difesa (App., Bell. civ., I, 51) da ben tre fortezze, una delle quali corrispondente a una cinta fortificata sul Monte Crocella, con corridoio obliquo e cisterna al suo interno.
Resta infine da ricordare Larino, diversa dai centri dell’interno e assimilabile ad alcuni insediamenti dell’Abruzzo adriatico di seguito presi in esame: documentata sin dall’età arcaica diventa infatti un insediamento importante nel IV sec. a.C. e va poi raggiungendo notevole sviluppo urbano già fra III e II sec. a.C., probabilmente nell’ambito dei primi contatti fra Roma e le classi dirigenti locali seguiti alla fine delle guerre sannitiche (La Regina 1980).
Evoluzione in senso urbano dei principali abitati: la situazione in ambito abruzzese
Fenomeni di precoce selezione di ambiti insediativi poi incamminatisi verso uno sviluppo in senso protourbano, ben prima della guerra sociale e della definitiva romanizzazione, sono attestati anche nell’Abruzzo adriatico, ove resti d’abitato e sepolcreti documentano su alcuni siti sin da epoca molto più antica la presenza di importanti nuclei di popolamento; tale fenomeno è stato già segnalato in precedenza anche sui siti delle colonie di Alba Fucens e Hadria (Staffa 1999).
Per certi versi simile alla situazione di Larino, anche se poi non giunta allo stadio urbano, appare quella del centro di Monte Pallano, ubicato in un territorio già popolato quanto meno dall’età arcaica; anche a Iuvanum l’altura su cui va sviluppandosi fra III e II sec. a.C. il complesso cultuale posto alle origini dell’insediamento è frequentata sin da epoca molto antica e ben precedente la creazione del municipio; a queste fasi precedenti la ricostruzione d’epoca giulio-claudia, appaiono riferibili vari resti, fra cui nelle immediate adiacenze del foro una sepoltura italica con cinturone di bronzo.
Novità interessanti provengono da Anxanum (Lanciano), in territorio frentano, ove sono stati indagati livelli riferibili all’età del Ferro (Quartiere Sacca, Miracolo Eucaristico) e delle cui fasi di IV-II sec. a.C. gli scavi condotti negli ultimi anni sottolineano l’importanza. Le ricerche più recenti hanno rivelato la preesistenza sul sito del santuario altomedievale e medievale del Miracolo Eucaristico di resti di un luogo di culto di IV-II sec. a.C., ubicato all’incrocio fra la via Flaminia adriatica, l’itinerario antico ripreso dal tratturo L’Aquila-Foggia e un’importante via che proseguiva verso l’interno, che doveva catalizzare il popolamento sino a dare sviluppo all’abitato poi divenuto municipium. Lungo la stessa Flaminia, a Porta S. Biagio nel cuore dell’abitato, è stato inoltre riconosciuto il sito di rinvenimento del già ricordato busto fittile di Minerva, oltre a numerosi votivi anatomici e a frammenti di decorazione architettonica fittile (Staffa 2002).
Una situazione analoga è attestata in area frentana anche a Ortona, ove le ricerche archeologiche più recenti nell’area del Castello Aragonese, all’estremità settentrionale dell’insediamento verso il mare, hanno restituito i resti di un abitato risalente all’età del Bronzo, che doveva controllare da posizione d’altura il sito del sottostante approdo, ubicato al termine sul mare dell’itinerario di crinale su cui va poi sviluppandosi il centro d’età romana (Staffa in c.s.).
All’originario abitato sull’acropoli di Teate (Civitella), arx del successivo insediamento tardorepubblicano, si collega una necropoli di VII sec. a.C., mentre lungo l’asse viario che la collegava al sottostante abitato, poi divenuto nucleo del municipium, va sviluppandosi (secoli IV-II a.C.) un articolato complesso cultuale con un tempio maggiore, a tre celle e doppio colonnato antistante, e almeno altri due luoghi di culto; riferibile al tempio maggiore è la decorazione di un frontone (A) con i Dioscuri, legata all’ideologia ellenizzante diffusa nel II sec. a.C. fra le aristocrazie italiche. A temi ampiamente diffusi nella coeva architettura coloniale (ad es., Luni) appare riferibile anche il tema del secondo frontone (B), con Giove, Apollo e le Muse. Fra queste classi sociali era attiva la famiglia locale degli Asinii, che appare probabilmente attestata nel II sec. a.C. anche presso il santuario di Ercole a Campochiaro.
A proposito dei contatti fra le classi dirigenti locali ormai urbanizzate e i principali santuari preesistenti dell’antica area “safina”, un altro caso interessante è quello del tempio di Ercole nei pressi di Montorio al Vomano, lungo la via che collegava Interamna ad Amiternum lungo l’alta vallata del fiume Vomano. La cella del tempio è restaurata e decorata con un pavimento a mosaico (metà I sec. a.C.) da alcuni magistri locali, fra cui un L. Ofillio Rufo menzionato come quattuorviro quinquennale e curatore negli stessi anni di una strada a Isernia (CIL IX, 2667). La ricchissima serie di terrecotte architettoniche rinvenute presso l’acropoli della Civitella e nell’area dei tempietti romani all’interno del sottostante abitato testimonia un ampio programma omogeneo di decorazione degli edifici sacri della città, in diretta dipendenza dalle coeve esperienze romane, come significativa testimonianza di forme di collegamento fra le classi dirigenti locali e l’aristocrazia senatoriale romana.
Una situazione simile è documentata in area vestina a Pinna Vestinorum (Penne), ove resti d’abitato protostorico (fine età del Bronzo - età del Ferro) sono stati rinvenuti sia sull’altura di Colle Duomo, cuore dell’insediamento romano e altomedievale, sia lungo via Alessandrini sulla sella a sud di piazza Luca di Penne (Palazzo Valeriani). Quest’ultimo sito – sempre all’interno del centro storico medievale che corrisponde (con qualche riduzione) al municipium d’età romana – risulta definito sui vari lati da necropoli di VI-IV sec. a.C. (Arce- Conaprato, Colle Romano, Blanzano, Campo Boario), mentre al suo interno sono state rinvenute testimonianze di luoghi di culto dedicati a Vesta, Venere, Giunone, Cerere e Ops. L’insediamento si sviluppa dalla progressiva prevalenza di questo sito nell’ambito di un tessuto insediativo sparso costituito anche da altri nuclei abitativi (Collalto, Colle Trotta, Colle Maggio), comunque sopravvissuti sino all’età imperiale e oltre e in connessione con l’insediamento fortificato di Roccafinadamo, che resta importante nell’assetto difensivo del territorio sino all’età medievale. Anche a Ostia Aterni l’esplorazione di vari nuclei di necropoli (secoli VI-IV a.C.) enfatizza l’importanza, nello sviluppo dell’insediamento portuale, di un tessuto insediativo sparso risalente alla protostoria nell’area dei Colli (Colle del Telegrafo), a monte dell’approdo alla foce del Pescara.
In tutti i casi sin qui riepilogati gli insediamenti poi divenuti nel I sec. a.C. municipi, a differenza dei casi molisani in precedenza descritti, non sono direttamente connessi a vicini centri fortificati d’altura, ma sembrano piuttosto presentare – su siti in ogni caso ben difendibili – fasi d’abitato a lunghissima continuità di vita fra periodo protostorico e periodo italico. Sempre in area vestina interessante appare il caso di Aveia, nel cui territorio ricade l’importante necropoli di Fossa che testimonia, con le sue importanti fasi ellenistiche e romane, un’evidente continuità del popolamento e delle classi dirigenti locali nell’ambito del più importante municipium del territorio vestino cismontano.
Nelle aree interne dell’Abruzzo la situazione appare più vicina a quella molisana e lo sviluppo di alcuni dei principali insediamenti poi divenuti municipi va svolgendosi fra IV e II sec. a.C. con la discesa verso valle di forme di popolamento su preesistenti abitati d’altura (Staffa 1999). È questa la situazione di Aufidena, derivata dallo sviluppo sul fondovalle del recinto fortificato in località Castello di Castel di Sangro; di Iuvanum, sviluppatasi presso un luogo di culto dal centro fortificato esistente a Montenerodomo e forse anche da altri abitati sui colli circostanti; di Sulmona, sorta nel IV-III sec. a.C. come presumibile prosecuzione dell’abitato fortificato di Colle Mitra (VI-IV sec. a.C.), probabilmente anche con l’apporto di altre comunità circostanti. Una situazione simile è attestata anche a Trebula Mutuesca, nel territorio sabino vero e proprio, ove l’insediamento si sviluppa in una zona caratterizzata dalla presenza dell’importante santuario di Feronia, mentre sulle alture circostanti sono i resti di alcuni centri fortificati con cinte difensive in opera poligonale.
Un evidente rapporto con il preesistente assetto paganico-vicano del popolamento appare attestato in area peligna a Superaequum (Castelvecchio Subequo), ove l’abitato romano di fondovalle incorpora il popolamento precedentemente organizzato nel centro fortificato di Forca Caruso connesso alla ben nota necropoli, e in altre circoscrizioni minori attestate dalle fonti epigrafiche, il pagus Boedinus e il pagus Vecellanus. Anche ad Amiternum, principale sito sabino in Abruzzo, l’insediamento poi divenuto municipio si andò sviluppando dal sinecismo di piccole comunità sparse sulle alture circostanti la piana. Il processo non venne mai a completarsi, tanto che i vici sparsi sulle colline circostanti erano destinati a sopravvivere sino al Medioevo. La forte tradizione del precedente abitato sparso appare evidente anche in altri centri minori assurti al rango municipale, quali Angulum nella bassa vallata del Pescara, Cliternia e la res publica Aequiculanorum nel territorio degli Equiculi, rimasti caratterizzati per tutta l’età imperiale da più nuclei d’insediamento con poche strutture centralizzate.
In questo ampio processo un ruolo importante era svolto proprio dai luoghi di culto, secondo dinamiche evidenti anche nell’ambito di centri quali Schiavi, Quadri e Cansano, connessi ad abitati mai sviluppatisi oltre una semplice dimensione vicana. Presso i principali santuari si svolgevano infatti funzioni religiose e civili connesse ai vari momenti della vita del pagus, che finivano per costituire un ineludibile punto di riferimento nella crescita del territorio e dei principali nuclei di popolamento in esso esistenti, nell’ambito di quello sviluppo economico e demografico di cui si è già sottolineata l’importanza fra IV e III sec. a.C. Un ruolo importante nello sviluppo di Peltuinum e Marruvium vengono a svolgere i santuari di Apollo e dei Novensides, ubicati rispettivamente lungo l’itinerario poi ripreso dalla Claudia Nova e all’incrocio fra la via circumlacuale del Fucino e un tracciato che qui giungeva da nord-est. In questo secondo caso l’insediamento evolve in praefectura successivamente all’annessione allo Stato romano dell’area e nel suo ambito la presenza del culto di Apollo è stata riferita alla presenza di assegnazioni viritane.
Importanti appaiono i casi della città-santuario di Lucus Angitiae nel territorio dei Marsi, sviluppatasi dall’omonimo santuario; di Teate (Chieti) in area marrucina, ove l’importante complesso dei tre luoghi di culto sorge lungo un itinerario che collegava l’arx della Civitella al sottostante ambito insediativo tardorepubblicano e imperiale; ivi, presso il luogo sacro (cd. Tempietti) vanno trasferendosi antiche consuetudini di culto; di Anxanum (Lanciano), ove lungo l’itinerario di crinale che si innestava sulla Flaminia adriatica sono stati individuati – come già ricordato – i siti di ben due luoghi di culto frequentati fra IV e II-I sec. a.C.
Anche in Molise dinamiche del genere sembrano delineabili nel ruolo mediatore recentemente suggerito per il santuario di San Pietro di Cantoni fra l’antico insediamento sannitico d’altura di Saipins in località Terravecchia e il sottostante vicus dell’Altilia, poi divenuto in età romana municipium. Il ruolo svolto da vari luoghi di culto era quello di “garantire” o comunque mediare il sinecismo di comunità sparse del loro territorio, come nel caso degli strettissimi rapporti esistenti fra Sulmona e il grande santuario di Hercules Curinus e del ruolo svolto sia pur in epoca più tarda dal santuario di Hercules Victor nel coagulare il più tardo centro di Superaequum.
Gli impianti coloniali e l’assetto urbanistico dei centri più antichi
Nell’ambito dell’ampio panorama di insediamenti sin qui riepilogati, problemi di organizzazione interna degli abitati e conseguente loro pianificazione – con adeguata scansione fra spazi pubblici e privati, attrezzamento e monumentalizzazione delle strutture destinate a funzioni pubbliche – non dovettero porsi in maniera complessiva prima del III-II sec. a.C., anche in conseguenza dell’influsso che venivano comunque a esercitare i già ricordati centri coloniali. Scavi e ricerche condotte in ambito coloniale restituiscono un quadro complessivo in cui risulta evidente, sin dalle fasi più antiche (fine IV-III sec. a.C.), una divisione regolare degli spazi secondo moduli ortogonali in cui si inseriscono progressivamente, a somiglianza di Roma, gli edifici monumentali, foro, basiliche, edifici commerciali e di culto, anche se la documentazione archeologica va facendosi consistente e generalizzata solo a partire dal III sec. a.C.
Ad Alba Fucens, alle devastazioni operate dai seguaci di Silla (78 a.C.), seguono opere di riassetto nell’ambito dell’antico scacchiere coloniale, il rifacimento della zona forense, l’aggiunta di terme e il rifacimento della basilica e poi in età augustea del teatro, con riqualificazione dei relativi spazi. Dopo il 37 d.C., su lascito del prefetto del pretorio di Tiberio Q. Nevio Sutorio Macrone, viene realizzato l’anfiteatro e vengono restaurati il macellum, le terme e vari luoghi di culto. Ben leggibile è anche l’assetto urbanistico dell’altra colonia di Hadria, con asse principale sul crinale del pianoro e isolati di 2 x 3 actus (70 x 105 m) con rompitratta intermedi (35 m) corrispondenti a terrazzamenti, nel cui ambito si sviluppano le dinamiche di progressiva monumentalizzazione del centro fra III-II sec. a.C. e I sec. d.C.
L’adozione di impianti regolari non sempre riconducibili a schemi canonici trova il più antico esempio in ambito non coloniale ad Aveia, sviluppatasi sul piano sottostante nel III sec. a.C. con schema regolare costruito sul tratto urbano di un antico itinerario pedemontano a destra dell’Aterno, con isolati rettangolari di 3 actus, connesso alla presenza di cives Romani qui giunti a seguito di assegnazioni viritane e al conseguente sviluppo del centro come praefectura.
In altri casi noti il fenomeno non appare precedente al II-I sec. a.C.: anzitutto Marruvium, con impianto ortogonale a isolati quadrangolari databile già fra fine II e inizi I sec. a.C.; poi la ricostruzione di Sulmona, con isolati di lato di 1,5 actus a definire un quadrato di 11 x 13 actus, con fascia centrale di 2 actus per gli edifici pubblici; un ampliamento di Histonium di I sec. d.C. con ordito regolare e isolati quadrati di lato di 1 actus; quasi nulla è al contrario noto delle fasi più antiche di Aesernia, risalente al 263 a.C. ma distrutta da Silla dopo le fasi della guerra sociale, in cui aveva aderito alla rivolta degli Italici divenendone addirittura la capitale. Meglio ricostr uibile appare Venafrum, insediamento preesistente di lontana origine e inizialmente organizzato su terrazzamenti, trasformato nel III sec. a.C. in praefectura e regolarizzato con un impianto oggi attribuito da S. Capini alle deduzioni di Ottaviano del 40 a.C., che aveva riorganizzato due alture vicine e la valletta ubicata fra esse.
L’assetto dei centri urbani di origine non coloniale
L’assetto della maggior parte dei centri non coloniali analizzati, non risalenti a un unico momento di fondazione, sembra adattarsi in maniera prevalente alla morfologia dei luoghi.
A Corfinium in area peligna l’insediamento si espande (secoli V-IV a.C.) dal nucleo originario lungo due assi fra loro divergenti, la via Valeria e la via di Pratola, che consentono un uso ampio e organizzato del pianoro verso sud. A Pinna in area vestina l’impianto del versante meridionale del Colle Duomo si organizza in terrazzamenti paralleli e relativi assi viari, mentre lungo il più accidentato versante sudest verso Porta S. Francesco sono leggibili alcuni terrazzamenti artificiali irregolarmente distribuiti; il principale asse viario antico va a collocarsi proprio sul crinale della dorsale fra i colli del Duomo e Castello. A Teate, principale centro dei Marrucini, l’abitato si dispone lungo un antichissimo itinerario di crinale che discendeva dalla Maiella al mare, divenuto asse dell’insediamento e in seguito innestatosi sul diverticolo urbano della via Claudia Valeria. A Ostia Aterni, terminale di questo importante asse viario alla foce del fiume Pescara, il curioso schema a triangolo allungato appare probabilmente derivato proprio dall’adattamento dell’insediamento sviluppatosi lungo la più antica via di fondovalle Pescara al nuovo tracciato della Valeria (48/9 d.C.). In area frentana ad Anxanum l’asse principale dell’impianto urbanistico corrisponde al tracciato viario che collegava fra loro i santuari antichi presso il Miracolo Eucaristico e a Porta S. Biagio, lungo il crinale del colle di Lanciano Vecchia; l’abitato era articolato lungo i diverticoli a esso ortogonali prolungati sino al margine del pianoro collinare della città. Verso meridione il più antico nucleo municipale di Histonium, condizionato dall’equilibrio geologico instabile del suo pianoro, si adatta al pendio verso il mare con schema non organicamente pianificato.
La maggior parte degli insediamenti non coloniali si sviluppano dunque secondo dinamiche e pianificazioni correlate alla morfologia dei siti e ai rapporti con il territorio circostante e connessa viabilità, secondo una vocazione di lungo momento ben evidente ad esempio nell’esito in età postantica del reticolo viario di un insediamento a schema regolare, Marruvium; dell’impianto urbanistico di fine II-I sec. a.C. sopravvivono al VI-VII secolo solo i due assi viari principali che avevano generato il primitivo abitato italico, la via circumlacuale e la via da nord-est.
Gli effetti della guerra sociale e la municipalizzazione nel Sannio
La guerra sociale e le successive devastazioni operate nel Sannio dai seguaci di Silla rappresentano un momento di svolta nelle vicende storiche del territorio e nelle dinamiche della successiva municipalizzazione. A Pietrabbondante viene interrotta la costruzione dell’imponente Tempio B, con soppressione del culto e successiva concessione dell’area a privati di parte sillana. Forme di crisi più o meno traumatica colpiscono anche gli altri santuari di Vastogirardi, Campochiaro, San Giovanni in Galdo, mentre l’insediamento della Valletta del Curino connesso alla necropoli di Alfedena viene sostituito come punto di riferimento per il territorio circostante dall’insediamento di Castel di Sangro, poi divenuto municipio con il nome di Aufidena; interventi collegabili a un preciso intento punitivo nei confronti dei punti nodali della grande rivolta.
Non meno rivelatrice appare l’assenza di significative testimonianze archeologiche sulle fasi sannitiche dai siti dei successivi municipi di Fagifulae e Terventum, considerando in particolare come la selezione di Terventum avesse spostato l’asse gravitazionale del popolamento nell’alta vallata del Trigno da Pietrabbondante, oramai quasi annientata, a un colle che dominava la vallata sul versante opposto. A dinamiche analoghe anche più largamente diffuse, che sembrano segnare una vera e propria frattura con l’età precedente, appare connesso il generalizzato venir meno, nelle fonti successive alla guerra sociale e nel tessuto toponomastico poi perpetuatosi sino all’età tardoimperiale, di alcuni dei principali insediamenti del Sannio preromano ricordati dalle fonti, ad esempio Aquilonia, Herculaneum, Callifae, Cominium e Duronia, il cui difficoltoso riconoscimento sul terreno ha dovuto attendere i risultati delle ricerche recenti.
Non meno significativa appare la diffusione nell’intero Sannio di fondazioni coloniali tarde, la deduzione di coloni di Augusto (43-41 a.C.) e Vespasiano (75 d.C.) a Bovianum, la costituzione di una colonia augustea a Venafrum, l’assegnazione documentata a Saepinum di terre prima a veterani della guerra sociale in occasione della costituzione del municipium, poi a veterani delle guerre germaniche di Druso e Tiberio in età augustea e infine ad altri coloni all’epoca di Tiberio, e ancora un’ultima assegnazione agraria nel territorio di Terventum; anche nell’ambito della ricostruzione che porta Aesernia al successivo statuto municipale è documentato il trasferimento dal vicino Lazio di consistenti nuclei di popolazione, che recano nuova linfa alla rinascita del centro. La progressiva latinizzazione del mondo sannita, che aveva investito con il II sec. a.C. soprattutto le classi elevate e gli ambiti più direttamente a contatto con l’area tirrenica e che trova fra 100 e 90 a.C. una significativa testimonianza nel rinvenimento a Pietrabbondante di una grande tegola recante una doppia iscrizione latina e osca, apposta da schiavi che parlavano le due lingue e lavoravano insieme (La Regina 1989), va ormai facendosi prevalente nell’intera area. Tale fenomeno è fortemente supportato anche dai ricordati stanziamenti di genti che parlavano latino.
L’ultimo atto del vero e proprio smantellamento del Sannio preromano appare con Augusto: la definitiva attribuzione del centro di Larino alla regio II (Apulia), a cui pure l’avvicinavano molti aspetti culturali, nonostante avesse sempre fatto parte del territorio dei Frentani. Di qui sino alla media età imperiale questi centri, di cui era finanche mutata la stessa composizione etnica e sociale, vanno omologandosi alle generalizzate vicende dell’Italia centrale romana (Capini - Di Niro 1991). Bovianum, ubicato a uno strategico crocevia fra il tracciato viario ripreso dal tratturo Pescasseroli-Candela fra Aesernia e Saepinum e la via che discendeva verso Larino, diviene municipium (48-46 a.C.); è interessato dalle fondazioni coloniali di Augusto e Vespasiano e va organizzandosi con impianto per assi ortogonali adattati alla morfologia digradante dei luoghi, nel cui ambito è nota la presenza di un foro e di edifici da spettacolo.
Saepinum presenta un impianto urbano d’età augustea, unitariamente concepito e racchiuso all’interno di mura, con decumano massimo rioccupato fra Porta Boiano e Porta Benevento dal tracciato tratturale. Interventi di monumentalizzazione e abbellimento del centro si devono alla locale famiglia dei Neratii, assurti in età traianea al rango senatoriale, e murata a Porta Boiano si conserva ancor oggi l’importante epigrafe che testimonia lo stato di tensione esistente, all’epoca di Marco Aurelio, fra le autorità del municipio e i responsabili delle greggi che percorrevano il tratturo verso la Puglia, ormai appartenenti al fiscus imperiale (CIL IX, 2438).
Di Fagifulae ben poco è noto tranne l’esistenza nel foro urbano di una basilica e un porticato, riferibili a opere di monumentalizzazione tarde e probabilmente non precedenti l’età augustea. Ancor meno si sa di Terventum, sorta quale sito di limitate funzioni amministrative in un territorio scarsamente popolato e comunque devastato dalle vicende della guerra sociale. Diversa e più florida appare la situazione di Aesernia, rifondata dopo le devastazioni che avevano fatto seguito alla sua adesione alla rivolta in occasione della guerra sociale, e di Venafrum, con impianto urbano ad assi ortogonali, in cui si integrano in età augustea il teatro e nel I sec. d.C. l’anfiteatro.
La municipalizzazione dei territori ricadenti nell’Abruzzo attuale
Ben diversa appare fra II e I sec. a.C. la vicenda dei centri di tradizione italica dell’Abruzzo attuale giunti a uno stadio urbano già nel II sec. a.C. prima della guerra sociale e della conseguente municipalizzazione (ad es., Corfinium, Marruvium, Pinna, Teate). Il fenomeno è documentato dalla ricchezza di alcune decorazioni templari e dallo sviluppo nel tessuto urbano di nobili domus, legato al consolidamento delle classi dirigenti che trovavano nella riorganizzazione della tradizionale agricoltura italica e nell’ampliamento dei commerci con l’Oriente importanti occasioni di arricchimento. Il fenomeno venne a trovare naturale sviluppo nel I sec. a.C. con la municipalizzazione e la realizzazione nell’ambito di centri urbani di antica o recente origine di edifici e strutture pubbliche che ne completano il riassetto, nell’ambito di forme di continuità del quadro insediativo locale profondamente diverse dalla situazione del Sannio sopra ricordata.
Importante per questi interventi appare il ruolo che vanno progressivamente ritagliandosi importanti famiglie locali, che si legano finanche alla stessa casa imperiale, come gli Octavii Laenates e i Rubellii Blandi, con le loro preziose e articolate domus a Marruvium, gli Asinii a Teate, o entrano a far parte della aristocrazia senatoria, come M. Vettio Marcello che risistema il foro di Teate, Gneo e Gaio Osidio Geta e Marco Bebio Suetrio Marcello attivi a Histonium. Interessante appare anche il ruolo svolto da personaggi locali entrati nell’alta burocrazia, come il prefetto del pretorio di Tiberio Q. Nevio Sutorio Macrone attivo ad Alba Fucens e il procuratore di Livia, Tiberio e Caligola in Palestina Erennio Capitone, realizzatore del foro di Iuvanum. La tradizione dovette proseguire anche in seguito, come si rileva dai lavori fatti eseguire nel II sec. d.C. a Corfinium da Servio Cornelio Dolabella console del 113 d.C. e da Alfio Massimo e dall’intervento di monumentalizzazione del centro di Histonium condotto nel II sec. d.C. da parte di Q. Osidio Geta, artefice degli acquedotti urbani e fors’anche dello stesso anfiteatro.
Numerosi sinora gli edifici pubblici di cui sono superstiti resti o memorie nella documentazione epigrafica: in età augustea sono ormai completati il foro e la basilica ad Alba Fucens, due macelli con alcune basiliche a Corfinium, mentre il foro di Iuvanum è ormai riferibile alla prima metà del I sec. d.C. e si inquadra nell’ampio intervento di monumentalizzazione e ripianificazione dell’abitato d’epoca precedente già ricordato; complessi termali sono attestati ad Alba Fucens e Hadria dalla tarda età repubblicana, a Pinna e Amiternum dal I sec. d.C., a Corfinium, Teate e Histonium dagli inizi del II, mentre ben poco è sinora noto dei principali santuari urbani, a eccezione dei luoghi di culto di Alba Fucens, il ricordato complesso dei Tempietti a Teate e l’attestazione di un tempio di Augusto e Roma a Superaequum. Interessante è ad Anxanum la probabile continuità d’uso nella prima età imperiale del santuario antico presso il complesso del Miracolo Eucaristico, sostituito nella Tarda Antichità da un primo complesso paleocristiano con annessa necropoli, a cui seguono le fasi altomedievali e medievali della chiesa di S. Legonziano, documentata dalle fonti come pieve della città (Staffa 2001, 2002). Si tratta di un caso veramente singolare e rappresentativo di continuità dal periodo italico al Medioevo di un luogo di culto che servì come punto di riferimento per l’ambito urbano circostante.
Di particolare importanza nel conchiudere l’assetto urbano dei nuovi municipi, quale andava completandosi nell’ambito di una compiuta definizione degli spazi pubblici e privati, è la realizzazione degli edifici da spettacolo: il teatro, presente dall’età augustea ad Alba Fucens, Amiternum, Peltuinum; dagli inizi del I sec. d.C. a Corfinium; dall’età neroniana a Teate; più genericamente dalla prima età imperiale a Cluviae; l’anfiteatro, costruito già nel I sec. d.C. ad Amiternum e Alba Fucens, fu realizzato fra fine del I e prima metà del II sec. d.C. anche a Teate e Histonium. Gli ultimi grandi interventi edilizi interessano, fra la fine del I e del II sec. d.C., per lo più il tessuto urbano già esistente: a Histonium con la costruzione dell’anfiteatro e dell’acquedotto delle Luci; a Ostia Aterni, con la costruzione, sulla fascia lungo il Pescara adiacente all’approdo sul fiume, di magazzini, tabernae di laterizio e strutture probabilmente pubbliche con preziosa pavimentazione a mosaico; a Sulmona ove si assiste all’abbandono (II sec. d.C.) della domus dell’Annunziata, con la realizzazione di un’area sin da allora rimasta aperta nel cuore dell’abitato. Al III sec. d.C. sono ormai attribuibili solo interventi di restauro dei complessi pubblici preesistenti, l’anfiteatro ad Amiternum, il tempio di Apollo ad Alba Fucens, le cisterne ad Hadria, le terme urbane a Pinna e anche l’area forense di Aufidena, come sembra dedursi dalla presenza di una dedica alla moglie di Gordiano III.
L’assetto del territorio fra I e III sec. d.C.
La diffusione della villa rustica, attestata nell’area da numerose testimonianze archeologiche, si era avviata nel II sec. a.C. e proprio al II-I sec. a.C. appaiono riferibili grandi impianti di produzione analoghi a quelli cosiddetti “varroniani” dell’area romana-laziale, precocemente documentati in Molise ad esempio nel territorio di Venafro. In alcune aree tale fenomeno sembra portare alla progressiva dissoluzione del popolamento sparso paganico-vicano, come, ad esempio, è precocemente illustrato dalla devastazione di parte del sepolcreto di Opi per la costruzione in località San Rocco (secoli III-II a.C.) di una villa rustica in cui sono riutilizzate lastre provenienti dalle tombe, testimonianza della crisi dell’antico assetto territoriale legato alla necropoli.
In territorio molisano l’ampia diffusione delle ville dovette subire un potente ampliamento a seguito delle già ricordate assegnazioni di terre a veterani e a coloni, documentate fra la metà del I sec. a.C. e il I sec. d.C. nel territorio di Venafrum, Bovianum, Saepinum e Terventum, oltre che a Aesernia, ove l’immigrazione di nuclei di popolazione dal vicino Lazio doveva portare al forte sviluppo dell’agricoltura locale. Interessanti in proposito sono i risultati delle ricerche della British School nella valle del Biferno, ove si è constatata dopo la guerra sociale e sino alla media età imperiale una drastica riduzione del numero degli insediamenti, con forte diminuzione del numero delle fattorie di tradizione più antica connesse alle colture miste di antica tradizione italica. Vi si accompagna un forte aumento del numero delle ville, probabilmente appartenenti a importanti famiglie di Larino che possedevano anche terreni coltivati nei pressi della città, utilizzate anche come stazioni pastorali fisse, in una situazione con ogni evidenza caratterizzata dalla coesistenza della grande transumanza verso i pascoli della Puglia e di una pastorizia locale connessa a forme di transumanza di corto raggio. Nonostante le profonde conseguenze della conquista romana e della successiva municipalizzazione in precedenza riassunte, la più recente ricerca archeologica condotta in Molise da Capini ha evidenziato la persistenza di tipologie abitative italiche mantenutesi inalterate sino all’età imperiale inoltrata.
Gli effetti della guerra sociale risultano di impatto fortemente più contenuto rispetto a quelli del Sannio vero e proprio anche nel popolamento rurale dei territori dei Marsi, Vestini, Peligni, Marrucini e Frentani. I dati archeologici testimoniano il progressivo sviluppo, ad esempio nella vallata del Pescara, di un tessuto costituito da ville anche di grandi dimensioni, quali gli impianti identificati nei territori di Spoltore, Pianella, Cepagatti, Nocciano, Rosciano, Alanno, Civitella Casanova, Penne, Loreto Aprutino e Città Sant’Angelo (Staffa 2001 e in c.s.) e quello oggetto di estensivo scavo archeologico recente in località Piano Santa Maria Arabona di Manoppello. In questo sito è attestata, già nel I sec. a.C., la presenza di pregevoli pavimentazioni a mosaico e decorazioni parietali di marmi pregiati insieme a un piccolo edificio termale.
Accanto a ciò nelle aree interne e pedemontane della provincia di Pescara si è constatata la sopravvivenza anche in età imperiale di un articolato e particolarmente vitale tessuto insediativo di villaggi veri e propri di tradizione precedente, ubicati lungo i principali assi viari e organizzati senza forme gerarchizzate in una situazione caratterizzata dalla sostanziale omogeneità in tono minore delle varie unità insediative, attestate per lo più in materiali deperibili (Cepagatti, Santa Maria del Lago di Moscufo, Casali di Nocciano, Santa Maria Ambrosiana di Pescosansonesco, Solagna di Civitaquana Colle Carpini, Santa Caterina di Cordano e Colle Fiorano di Loreto Aprutino, Collalto, Colle Trotta, Roccafinadamo di Penne). La persistenza di forme di abitato vicano d’epoca precedente è attestata in età imperiale anche nel Chietino, anzitutto sul sito di Quadri, ove l’insediamento di Trebula in precedenza connesso al santuario rimane abitato. Il sito conserva i resti di un piccolo anfiteatro costruito dopo il sostanziale disuso del luogo di culto e ha restituito una dedica all’imperatore Adriano da parte dei conscripti Trebulani. Anche in località Punta Penna di Vasto l’insediamento, connesso all’importante santuario italico e a uno dei due unici approdi naturali dell’intero Abruzzo, rimase abitato sino all’Alto Medioevo, per poi rinascere in epoca federiciana.
Situazioni simili sono attestate anche nel territorio dei Vestini cismontani attualmente ricadente nell’Aquilano, fra cui anzitutto il vicus di Incerulae, ubicato sul piano sotto Navelli, ove la chiesa altomedievale di S. Maria Incerulis poi in Coerulis va probabilmente a collocarsi sui resti di un santuario di Hercules Iovius e testimonia di forme di continuità insediativa sul sito antico protrattesi sino all’XI secolo. Anche nel territorio di Fagnano Alto le forme d’abitato paganico-vicano antico peculiari della comunità antica degli Aufenginates, menzionati nella iscrizione murata nella vicina chiesa di S. Maria della Vittoria a Fontecchio sovrappostasi ai resti di un santuario antico, sopravvivono nell’assetto insediativo sparso d’età medievale. Nelle vicinanze un documento del 787 fa ancora menzione di un insediamento altomedievale di evidente toponomastica antica, Summovicus (Chronicon Volturnense, I, 208), sopravvissuto sino al XV secolo, riconoscibile sul sito d’altura di Monte San Pio e risalente a un’antica nozione di oikos-vicus connessa a un abitato fortificato.
Emblematico in quest’area appare anche l’antico pagus Frenetium, conservatosi nella toponomastica e nel nucleo di popolamento connesso alle due chiese di S. Valentino e S. Libante de Freriis de Picentia, sopravvissute sino nel XIV secolo nelle vicinanze di Poggio Picenze. Siffatte forme di fortissima continuità insediativa erano già state segnalate anche nell’area dei Marsi, ove apparivano connesse ai forti condizionamenti dell’ambiente montano e delle sue limitate risorse (Letta 1988), in una situazione in cui importanti aspetti del tessuto insediativo sparso di tradizione italica sopravvivono nel popolamento altomedievale per villae e curtes (Staffa 1992, 2000).
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