L'Italia romana delle Regiones. Regio VIII Aemilia
La regio VIII augustea, erede diretta della Cispadana, bagnata a est dal Mare Adriatico, delimitata a ovest e a sud dalle ultime propaggini dell’Appennino e attestata a nord lungo la linea del Po, comprendeva una porzione cospicua del settore centro-settentrionale della penisola, corrispondente per intero al territorio dell’attuale Emilia-Romagna, con esclusione dei centri di Sarsina e Mevaniola, la cui origine umbra, ne indirizzò l’accorpamento alla regio VI. Le fonti letterarie antiche, principalmente Strabone (V, 1, 4) e Plinio (Nat. hist., III, 115-119), forniscono un quadro abbastanza dettagliato della regione soffermandosi ora sui limiti, ora sulle caratteristiche morfologiche e sulla presenza dei numerosi corsi d’acqua, a partire dal Po, e sulle popolazioni che abitarono il territorio, sulla poleografia e sulle distanze terrestri o fluviali.
Nel processo di espansione romana verso il Nord, sostanzialmente iniziato dopo la battaglia di Sentino, del 295 a.C., ebbero un ruolo determinante le vicende riguardanti i territori che entreranno a far parte della regio VIII. Infatti la politica di conquista romana della regione iniziata con l’acquisizione, a danno dei Senoni, della punta orientale romagnola e scandita dalle diverse fondazioni di città, ebbe il suo primo caposaldo nella fondazione della colonia latina di Ariminum (Rimini) nel 268 a.C., alla foce del torrente Marecchia e quindi, con la conquista del territorio alla foce del fiume Savio, proseguì con l’apertura di un asse viario fra Roma e l’Adriatico (via Flaminia). Il processo di romanizzazione, avviato dalla legge Flaminia per la distribuzione ai coloni del territorio romano strappato ai Senoni lungo la costa e nelle vallate appenniniche delimitate dall’Esino e dal Conca e proseguito con la fondazione delle colonie latine di Placentia (Piacenza) e Cremona, nel 218 a.C., con la funzione strategica di teste di ponte avanzate nella regione, ma anche di polo economico in relazione al traffico fluviale, per circa un quarto di secolo venne interrotto dalla guerra annibalica. Le successive vittorie sui Galli, in particolare i Boi, presenti nella pianura romagnola ed emiliana, e i Liguri, presenti invece nelle zone di montagna, permisero il pieno dispiegarsi del progetto romano, attraverso una seconda colonizzazione di alcuni centri (ad es., Piacenza, 190 a.C.) e soprattutto con la fondazione di una serie di nuove città, Bononia (Bologna) nel 189 a.C., Mutina (Modena) e Parma nel 183 a.C., tra le quali alcune con specifica caratteristica commerciale, come Forum Livi (Forlì), Forum Corneli (Imola), Forum Gallorum (Pradella), che vennero impiantate allo sbocco delle valli appenniniche e quindi collegate tra loro dalla via Aemilia. Su questa importante arteria, che aveva come termini da un lato Rimini e dall’altro Piacenza, definitivamente tracciata e sistemata nel 187 a.C. dal console M. Emilio Lepido, venne a impostarsi anche la centuriazione, che in una prima fase dovette interessare i territori a sud di essa e poi, dopo una vasta opera di bonifica, quelli a valle in zone prossime alla costa. In queste zone i frequenti straripamenti delle aste terminali dei corsi d’acqua contribuivano alla presenza di aree palustri o tutt’al più boscose.
Dalla seconda metà del II sec. a.C. inizia ad attrezzarsi il porto di Ravenna e nel contempo la rete stradale si arricchisce del tracciato della via Popilia da Rimini a Ravenna e ad Adria attraverso il delta, in alternativa alla via da Bologna a Este nelle comunicazioni con il Veneto e forse di alcune bonifiche tra il Savio e il Ronco. Ampliamenti verso settentrione di quest’opera di appoderamento coloniario si ebbero, in età sillana e soprattutto triumvirale e augustea, quando molte città accolsero nuovi contingenti, talora con ridefinizioni del territorio originario. Con i provvedimenti che seguirono il bellum sociale, fatta eccezione per alcuni centri (Ravenna, forse Brescello) che in ogni caso nell’età di Cesare vennero a farvi parte, tutta la Cispadana ottenne la cittadinanza romana. Nel corso del I sec. a.C. o forse in età augustea vennero creati municipi a Cesena, Forlì, Reggio e Imola.
Le guerre civili del primo e del secondo triumvirato tormentarono la Cispadana. Ottaviano e Antonio inviarono nuovi coloni in città della regione, espropriando o bonificando aree contigue. Nello specifico la tradizione letteraria ricorda le katoikiai di Antonio (App., Bell. civ., V, 19, 77), certamente Rimini e Bologna e, tra quelle riferite ad Augusto, ancora Rimini, Bologna, Parma e Piacenza. La felice stagione augustea in campo economico vede accanto all’incremento di colture speciali, soprattutto vite e olivo, e dell’allevamento di bestiame in grandi fattorie, l’aumento delle aziende miste a conduzione famigliare o patriarcale (come quella del forlivese C. Castricio Calvo). La crisi economica iniziata alla fine del regno di Nerone tocca il culmine in età traianea, come evidenziano i provvedimenti della tabula alimentaria di Velleia. Con il II sec. d.C. si assiste da un lato a un nuovo abbandono dei campi, con conseguente allargarsi delle aree acquitrinose, e dall’altro all’incremento della produzione dell’artigianato locale (laterizi, oggetti figulini, pellame, filati e tessuti) e quindi all’intensificarsi dei transiti. Questo fenomeno ha conseguenze sull’aspetto di molte città (Ravenna, Rimini, Bologna, Parma e, in misura minore, Forlì, Faenza e Piacenza), che si estendono notevolmente, con nuovi quartieri artigianali.
Nel contempo altre città scompaiono (Claterna, tra Bologna e Imola sul torrente Quaderna; Butrium, alle spalle di Ravenna; ForumClodi; Forum Druentinorum; Forum Licini). Le fonti disponibili permettono di intravedere le ripercussioni che dovettero avere, nella seconda metà del III sec. d.C., le scorrerie delle popolazioni germaniche d’Occidente: a partire dalla prima irruzione che nel 254 poté spingersi in Italia toccando anche Ravenna (Eutr., IX, 7-8), alla calata di Alamanni e Iutungi, tra il 270 e il 271 d.C. La fortuna di diversi centri si riaccende poi a partire dalla fine del IV sec. d.C., fino a età tardoantica, in relazione al fatto che Ravenna viene scelta come ultima capitale del regno romano d’Occidente e poi del regno romano-barbarico. Periodi di particolare rigoglio economico, che si riflettono su un vivace rinnovamento edilizio, si hanno con Onorio e Tedorico. Di quest’ultimo, oltre al noto mausoleo, si è conservata testimonianza soprattutto nei pavimenti musivi policromi, rinvenuti in diversi centri: a Rimini (Palazzo Gioia, datato al V sec. d.C.), a Classe e infine a Ravenna, a S. Vitale.
Le ricerche hanno generalmente privilegiato le fasi preromane mentre gli studi sulle età posteriori hanno riguardato soprattutto i centri urbani di tradizione e quelli di minori dimensioni, come, ad esempio, i volumi di G.A. Mansuelli, su Ariminum nel 1941 e su Caesena (Cesena), Forum Popili (Forlimpopoli) e Forum Livi nel 1948, e inoltre le zone di pianura, con conseguente approfondimento della conoscenza dello sfruttamento agricolo, degli insediamenti rustici e residenziali e delle maglie centuriali nelle quali gli insediamenti vennero impiantati. Agli studi sulla centuriazione delle zone di pianura (e sulle opere di bonifica a essa collegate) vanno ad aggiungersi opere monografiche sull’evoluzione urbana di alcuni centri (Modena, Ravenna, Piacenza) e contributi su centri meno noti (Claterna, Forum Popili, Cesena, Fidenza). In ogni caso un aspetto imprescindibile delle diverse ricerche è l’analisi delle trasformazioni morfologiche mirate a una ricostruzione, cronologicamente differenziata, del paesaggio naturale, con particolare riferimento alle mutazioni della linea di costa e agli inevitabili condizionamenti nello sviluppo dei centri costieri.
Il rilevante numero di carte archeologiche realizzate negli ultimi decenni del Novecento ha senz’altro contribuito ad accrescere la conoscenza sia delle dinamiche insediative che delle caratteristiche costruttive degli impianti rustico-residenziali dall’età repubblicana fino a quella tardoantica. Accanto a esse è poi necessario segnalare almeno altre tre linee guida della ricerca: quella riguardante la portualità della fascia litoranea, che ha ulteriormente approfondito l’argomento, potendo contare su nuove scoperte (in primis a Classe), e nel contempo ha esteso in maniera puntuale le ricerche anche nella zona sud-orientale della regione, fino al confine moderno con le Marche (zona di Gabicce); quella della viabilità; quella riguardante indagini sui diversi aspetti della cultura materiale della regione, quali individuazione delle fornaci e officine ceramiche, studio di classi ceramiche, ecc. Nell’ambito della politica di tutela territoriale trovano giustificazione i numerosi resti che, nella maggior parte dei casi, una volta individuati sono stati scavati e documentati. I diversi interventi hanno avuto e continuano ad avere pronta pubblicazione, soprattutto nella collana Archeologia dell’Emilia Romagna.
Le indagini più recenti sulla portualità del settore litoraneo compreso tra i rami deltizi del Po e l’area a sud di Rimini si sono incentrate sulla ricostruzione dell’orlo costiero e dell’immediato retroterra, talora grazie anche all’ausilio della documentazione archivistica eseguita nel Settecento sui porti-canali. Significative acquisizioni si sono registrate per i porti e gli approdi dell’intera fascia costiera, a partire da Ravenna e Rimini.
Per quanto riguarda Ravenna, è molto probabile che, a partire dalla prima età romana, il centro venga fornito di un piccolo impianto portuale. Se appare ipotizzabile che le foci di alcuni corsi d’acqua, all’interno della città (Fossa Augusta e Padenna) e nel territorio circostante (i rami deltizi meridionali del Po, il Lamone, il Montone e il Ronco-Bidente), a partire dall’amnis Bedesis ricordato da Plinio (Nat. hist., III, 15, 115), abbiano potuto essere utilizzate come approdi, l’instabilità della loro portata e, talora, del tracciato, combinata con l’alluvionamento fluviale, l’abbassamento del suolo, l’eustatismo marino e l’azione del moto ondoso, deve aver determinato notevoli mutamenti, come la formazione di aree paludose paralitoranee e soprattutto il progressivo allontanamento del mare. Il novus portus fatto costruire da Augusto tra il tracciato dei Fiumi Uniti e l’estremità settentrionale dell’abitato di Classe, insieme al suo pendant Miseno (Suet., Aug., 49), permette di rilevare, oltre alla grandiosità della struttura, gli espedienti utilizzati per ovviare, sia lungo il lato nord che lungo quello sud, all’insabbiamento del bacino portuale. Del porto militare (amoenissimum portum, capace di ben 250 navi a dire di Iord., Get., 29, 150), che poi prenderà il nome di Classis, non è possibile osservare nulla sul terreno. Alle ricerche degli anni Sessanta del Novecento, che rivelarono gran parte delle strutture portuali, si sono aggiunti recenti sondaggi nella zona di via del Muro Lungo.
L’imboccatura del porto, orientata a sud-ovest, fu costruita edificando due moli di notevoli dimensioni (quello nord per una lunghezza maggiore rispetto a quello sud, nella zona prossima all’alveo artificiale dei Fiumi Uniti). Il molo sud era realizzato in blocchi di pietra calcarea. Il canale portuale, a banchine su entrambe le sponde, era largo nella parte terminale circa 80 m. Procedendo verso nord-ovest questo canale, all’altezza dell’isola della Chiavichetta (dove gli scavi hanno rilevato l’esistenza di due quartieri portuali di età placidiana e teodoriciana, con rifacimenti di età giustinianea), si divideva dando vita a due ramificazioni. La disposizione dei due moli dovette provocare l’erosione del litorale e la necessità di proteggere le strutture portuali e la città stessa con due muri di protezione, presumibilmente nel I sec. d.C.: il primo, Murazzo di piazza d’Armi, attaccato al molo sud nella zona Ca’ della Vigna, con andamento nord-est/sud-ovest, in blocchi di calcare legati con malta; il secondo, Murazzo sotto la Rocca Brancaleone, strutturalmente analogo al precedente ma di dimensioni maggiori, che innestandosi al molo nord si allungava in direzione nord-est sulla linea di costa. Contemporaneamente al porto militare, alla foce di uno dei due rami della Fossa Augusta, è documentata, almeno fin da età repubblicana, l’esistenza di uno scalo commerciale (App., Bell. civ., I, 89, 410; III, 97, 410; V, 33, 78, 80, 100, 104). La documentazione archeologica (via Sant’Alberto, via Gastone di Foix) rivela che questo porto, presumibilmente commerciale, era costituito da un bacino interno rettangolare, con moli di ciottoli fluviali e conglomerato cementizio che poggiano su pali lignei e laterizi spezzati posti a spina di pesce.
Maggiori le difficoltà esistenti per la ricostruzione del porto di Rimini, a causa della totale assenza di resti archeologici. Significativi elementi appaiono tuttavia desumibili dall’indagine geomorfologica, da quella della rete infrastrutturale della città, strettamente connessa all’impianto portuale, e dalla tradizione scritta. Proprio da quest’ultima sono noti resti murari nell’area dell’attuale stazione ferroviaria, sui quali si impostava una torre con funzione di faro di età medievale al cui crollo fece seguito la demolizione delle strutture limitrofe. Di esse si conservava un muro di età tarda – di raccordo tra la torre e le mura della città –, il quale ricalcava l’andamento del molo antico. All’antico porto si connette comunemente il mosaico riminese a soggetto marino (seconda metà del II sec. d.C.). Circa l’ubicazione delle attrezzature, le diverse fonti appaiono concordi nell’indicarla nell’area della stazione ferroviaria, lungo una linea di costa contigua a quella delle mura tarde. Dal punto di vista planimetrico il porto sembra caratterizzarsi come bacino con difesa foranea, chiuso a est da un molo con torre farea e protetto sul versante opposto da difese di sponda. Nonostante le difficoltà causate da fondali bassi, la ricerca archeologica in mare ha restituito importanti testimonianze, a partire dal gruppo di erme marmoree recuperate alle foci del fiume Reno tra Casal Borsetti e Porto Corsini. A esse vanno aggiunti i rinvenimenti di archeologia fluviale ed endolagunare nel delta ferrarese tra cui lo scafo di età augustea a Valle Ponti, nel territorio di Comacchio.
Al realizzarsi di differenti caratteri nel popolamento tra le aree pianeggianti e quelle montane è possibile che abbiano contribuito ragioni di geografia fisica e vicende storiche: mentre il processo di romanizzazione delle pianure fu radicale, con la destrutturazione del sistema insediativo celtico, diverso è il caso dell’area appenninica, dove le comunità liguri appaiono meno disposte a rinunciare alla loro autonomia (Strab., V, 1, 4). La conquista romana del territorio appenninico si realizza quindi con interventi pesanti e radicali nel corso dei primi decenni del II sec. a.C. e ha la sua conseguenza nell’abbandono generalizzato degli insediamenti liguri, posti su alture con funzione strategica per il controllo del territorio (Auginus, Suismontium, Letus o Ballista), a vantaggio di insediamenti rispondenti a canoni urbani, in aree più acclivi (Liv., XXXIX, 2, 2; XL, 38, 3-4; XLI, 19, 1-2).
L’intera provincia reggiana, per la quale non si conosce l’esistenza di impianti municipali o coloniali, sembra doversi attribuire alle circoscrizioni di Regium (Reggio Emilia) e Tannetum, i due municipia, in precedenza rispettivamente forum esistente forse dal secondo venticinquennio del II sec. a.C. e insediamento preromano. Di Regium sono stati rilevati livelli romani e tardoantichi: pavimento di cocciopesto, tratto di strada basolata in direzione est-ovest (decumano parallelo alla via Aemilia nel tratto urbano), domus di I sec. d.C. (via Manfredi) e una porzione di conduttura in tubuli afferente forse all’impianto di adduzione idrica (Ospedale di Santa Maria Nuova). Differenze sostanziali contraddistinguono i territori dei due centri. Mentre il comprensorio riferibile a Regium presenta una tipologia insediativa che sembra avere nella città il suo principale punto di riferimento, quello di Tannetum appare caratterizzato da una struttura policentrica dalla quale dipendono vici o aggregati minori. In questa casistica rientra quello individuato presso l’attuale Montecchio Emilia, lungo il percorso del cardo maximus della centuriazione tannetana diretto verso l’Appennino, e quello nella frazione di Ciano, nel comune di Canossa, identificato con l’abitato di Nuceria o Luceria, ricordato da Tolemeo (Ptol., III, 20). Le indagini di scavo hanno permesso di osservare caratteristiche strutturali e planimetriche delle strutture, affacciate sulla strada che traversava il centro: di impianto rettangolare, con portico articolato in due ambienti comunicanti, nei quali è possibile leggere almeno tre fasi costruttive principali (dall’età giulio-claudia fino al Tardo Impero).
Importanti dati sul popolamento vengono dalle ricognizioni di superficie nell’entroterra appenninico emiliano. Il rilevamento della presenza di impianti produttivi, accanto a quello senza dubbio più cospicuo costituito da villae, ha permesso di conoscere le linee guida per la positio loci, per la quale sembrano prediligersi i crinali, nei versanti aperti a sud o a sud-est, la cui esposizione permetteva la coltivazione di ortaggi e alberi da frutto: Val Trebbia e Val Nure, Val Parma, tra Val Parma e Val d’Enza, Val Pessola, Valle dell’Idice. È stato possibile osservare le caratteristiche costruttive di alcuni edifici, con alzato di opus craticium, fondato su blocchi rozzamente squadrati (Toano, loc. Monte della Castagna). La grande quantità di tegole e coppi, forse di produzione locale, è da riferirsi alle coperture del tetto. Sono state anche identificate in quest’area una domus rustica in località Monte della Castagna (I-IV sec. d.C.), un insediamento in località Monte del Cavallo e un piccolo insediamento rustico (età repubblicana - fine II sec. d.C.) a Croce dei Fornelli.
Le testimonianze delle fonti letterarie ed epigrafiche appaiono esplicite nel sottolineare l’importanza dell’allevamento, in particolare quello ovino, nell’area reggiana, certamente fino all’età dioclezianea (Edictum de pretiis, 19, 13; 19, 21; 19, 23-26; 20, 3; 21, 1a; 22, 16; 22, 18, a proposito della lana Mutinensis): è il caso dei Campi Macri (Magreta), nella media valle del Secchia, famosi per un’importante fiera annuale (Strab., V, 1, 11; cfr. anche CIL X, 1401 = ILS, 6043) e, soprattutto, per l’eccellente qualità del bestiame (Varro, Rust., II, 6; Colum., VII, 2; XLI, 18, 5; XLV, 12, 11), ma è anche il caso dell’area tra Parma e Modena, dove si sarebbe allevata una tra le migliori razze ovine d’Italia (Strab., V, 1, 12; Colum., VII, 2).
Indagini di ricognizione sul terreno con saggi di scavo sono state realizzate nel comune di Casalecchio di Reno in un’area situata sulla sinistra del fiume Reno (vie Isonzo, del Lavoro, Bazzanese): se ne sono dedotti elementi sul popolamento, in evidente interrelazione con la divisione del territorio, e sull’assetto ambientale. L’elemento insediativo di maggiore evidenza è costituito da una villa (via Isonzo) utilizzata a partire dalla fine dell’età repubblicana e fino al V sec. d.C. A non grande distanza verso ovest sono stati riconosciuti i resti di un muro di recinzione poderale, mentre un ulteriore impianto, databile al I sec. a.C., si trovava al margine sud dell’area, sulle prime pendici collinari. Grande impulso hanno avuto, infine, le ricerche nell’area del delta padano: risultati importanti si hanno per Ferrara, Voghenza e Comacchio. In particolare nel territorio di Voghenza, vicus di Ravenna, le indagini hanno permesso di rilevare la presenza di numerosi impianti romani tra i quali un edificio rurale (fraz. Ducento) con muri di laterizi (metà I-II sec. d.C.).
Per quanto concerne i centri urbani nel comprensorio emiliano informazioni dettagliate sono note per Modena, Parma, Rimini, Bologna, Cesena, Piacenza, Reggio Emilia, Veleia (Velleia) e Fidenza, con i rispettivi territori. La conoscenza della struttura urbana di Modena, colonia del 183 a.C., nel 173 a.C. caduta in mano dei Liguri Friniates (Liv., XLI, 12) e nel 43 a.C. assediata da Antonio, è resa problematica per l’enorme strato alluvionale che nell’Alto Medioevo venne a sommergerne i resti. Si suppone che all’originario impianto di età repubblicana a pianta rettangolare, impostato sulla via Aemilia e delimitato in gran parte sulla base della dislocazione delle necropoli, sia seguita una fase di età imperiale. Al primitivo impianto è possibile riferire i resti scavati nella seconda metà dell’Ottocento sotto il palazzo della provincia; nel cortile di Palazzo Forghieri; in via S. Cristoforo, nell’area occidentale della città. A quello di età imperiale, durante la quale dovettero registrarsi ampliamenti, possono riferirsi i numerosi resti di vie e di domus. Devono aggiungersi l’anfiteatro, ricordato da un’iscrizione (CIL XI, 862; cfr. anche Mart., III, 59), e il foro, a sud della via Aemilia. Nell’area del mercato coperto (via Albinelli e piazza XX Settembre) coincidente con il limite ovest del perimetro di Mutina si sono rinvenuti resti in opera laterizia orientati secondo la via Emilia (secondo terzo del I sec. d.C.), sui quali s’impiantò una necropoli tra IV e VI sec. d.C.: quest’ultimo rinvenimento conferma il restringimento dell’area urbana già noto nel VI secolo.
A Parma l’impianto della città, dedotta nel 183 a.C. lungo il fiume omonimo, a cavallo della via Aemilia, è riferibile a una delle ricostruzioni augustee. Se la via Aemilia costituiva il decumano non solo della città ma del territorio centuriato, il cardine deve ritenersi corrispondente alle attuali via Farini e via Cavour, alla congiunzione delle quali doveva trovarsi il foro. I rinvenimenti più recenti nel centro storico hanno permesso di osservare la presenza di insulae di I sec. d.C. (via Mistrali, via Cavestro) e hanno anche consentito di trovare conferma alla presenza di un’area depressa, in parte bonificata (via Petrarca), corrispondente a un paleoalveo preistorico del torrente Cinghio. Nell’hinterland, recente è il rinvenimento di un vasto insediamento sigillato da una coltre di limi alluvionali del torrente Parma, con fasi che dalla prima età imperiale giungono al Tardoantico (via Europa, via Milano), e di un secondo (villa Manici), anch’esso al di sotto di una coltre alluvionale. Un’indagine ha permesso la scoperta di un insediamento antico nella periferia nord della città (via Asolana, via Paradigma). Altre indagini, con prospezioni geofisiche e saggi di scavo, alla periferia sud-ovest (via Traversotolo, via Budellungo), hanno riguardato una fattoria di limitata estensione, con più rifacimenti (I-III sec. d.C.). Alla periferia ovest della città è stato indagato un insediamento all’interno di una maglia centuriale attestata sulla via Aemilia e di una piccola necropoli utilizzata tra il I e il IV sec. d.C.
Risultati importanti si sono verificati anche a Rimini, con nuove acquisizioni riguardanti impianto urbano e territorio. Indagini archeologiche nel settore nord-orientale della città (piazza Ferrari), a ridosso di uno dei cardines (via Giovanni XXIII) e di un decumanus, obliterato dalla piazza, hanno permesso l’esplorazione di una domus, distrutta da un incendio nella seconda metà del II sec. d.C. Allo stesso periodo è riferita la costruzione dell’anfiteatro, che viene a coincidere quindi con una fase di notevole attività edilizia. A sud di Rimini, in località Grotta Rossa, sotto il colle di Covignano, una necropoli romana appare riferibile a un nucleo di popolamento dell’agro riminese (I-II sec. d.C.), mentre in località Covignano uno scavo ha messo in luce le strutture di due insediamenti. A Imola, in località Morine di Sopra, sono stati individuati i resti dell’acquedotto con conduttura sotterranea a rivestimento laterizio. Nell’impianto antico di Cesena risulta incerto il percorso della via Aemilia, mentre recente è la scoperta dell’antichità dell’asse corrispondente (con uno spostamento a ovest) agli attuali corso Sozzi - corso Cavour. Sembra comunque possibile ipotizzare una fase urbanistica, tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale, a cui vanno riferite tre grandi fosse di scarico forse legate ad attività artigianali, con materiali tardorepubblicani, rinvenute nell’area dell’ex convento delle suore di Carità, e una successiva riferibile al III sec. d.C., documentata dai resti di edifici abitativi (IIIII sec. d.C.), rinvenuti nel centro storico (piazza Fabbri). Al di fuori dell’abitato sono note aree di necropoli (via Sacchi, via Carbonari, vicolo Cesnola, corso Cavour), zone soggette a bonifiche (via Paiuncolo, giardino pubblico) e aree con funzione artigianale (via Tiberti).
Per Piacenza la deduzione della colonia latina nel 218 a.C., su un terrazzo delimitato a nord dalla scarpata incisa dal Po e a est da quella segnata dal Trebbia, viene riconnessa alla discesa di Annibale in Italia. Oltre all’invio di nuovi coloni nel 190 a.C. (a questa fase andrebbero riferite le strutture in laterizio sotto la chiesa di S. Margherita, nell’area nord-ovest della città, e soprattutto la sua delimitazione lungo il lato sud-est) e alla costruzione della via Aemilia nel 187 a.C., è fondamentale per le vicende della città il successivo invio di nuovi coloni dopo le guerre civili. A questa fase va riferita la vasta pianta rettangolare comprendente 60 insulae, con il decumano massimo costituito dall’asse della via Aemilia, la monumentalizzazione del centro urbano e la realizzazione del porto fluviale. Rimangono numerosi tratti, lungo tutto il perimetro urbano, delle mura delle quali è documentata una prima fase in opera laterizia, riferita al II sec. a.C. e un successivo rifacimento, nel IV sec. d.C., mentre le fonti ricordano diversi interventi riferibili presumibilmente al I sec. d.C. (Tac., Hist., II, 18, 1; 21, 1, 3; 19, 2; 21, 2; Ann., XV, 47). Il foro dovrebbe localizzarsi nei due isolati alla confluenza di cardine e decumano massimo. Meglio nota è l’edilizia privata, limitata alle pavimentazioni: numerosi sono i resti individuati lungo il decumano massimo. Una delle più estese necropoli romane databile al I sec. d.C. si trova a settentrione della via Aemilia.
Tra gli edifici variamente conservati all’interno dei centri urbani o nella loro immediata periferia figurano teatri e anfiteatri. A parte i cospicui resti dell’anfiteatro di Rimini, realizzato in opera laterizia nel corso dell’età adrianea, nulla rimane oltre a quelli, variamente ipotizzati, di Ravenna, Forlimpopoli (CIL XI, 575 = ILS, 8206) e Claterna (CIL XI, 683), di quelli di Piacenza, Imola, Bologna, Modena e Parma (I sec. d.C.).
L’anfiteatro di Piacenza, probabilmente di età augustea, è noto attraverso Tacito (Hist., I, 61, 67, 68, 70; II, 21,1; cfr. anche Plut., Oth., 5), che ne ricorda la distruzione nel corso dell’assedio alla città da parte di Aulo Cecina, nel 69 d.C. Ardua risulta la sua ubicazione e solo ipoteticamente se ne può proporre il sito sul lato nord della città, verso il fiume, sul proseguimento del cardine massimo. Quello di Imola era situato 16 m a nord della via Aemilia e circa 260 m a ovest della porta della città di Bologna. Dai dati di scavo può desumersi che l’edificio avesse una pianta ellittica. In quanto alla tecnica costruttiva, mentre le fondazioni erano costruite con ciottoli fluviali, gli alzati sembra fossero in opera laterizia.
All’esterno del perimetro urbano di Bologna, a differenza del teatro di età repubblicana al limite meridionale della città, sembrano esservi elementi per localizzare l’anfiteatro la cui esistenza è ricordata dalle fonti letterarie (Tac., Hist., II, 53, 7; 71; Mart., III, 59). Nonostante la mancanza di resti, il riesame dei rinvenimenti e la toponomastica sembrano permettere di ipotizzare che si trattasse di un edificio con cavea e arena ricavate con la regolarizzazione di un avvallamento naturale. Quello di Parma – il più grande della regione – si trovava in un’area periferica a est del centro urbano e a sud del decumano massimo (via Salimbene, borgo Lalatta, strada Nuova). Strutturalmente era costituito da quattro anelli concentrici e realizzato da strati di pietre squadrate a cui si alternano filari di laterizi, fondati nella parte nord su robuste palafitte lignee. L’anfiteatro di Velleia, di ridotte dimensioni, era situato sull’elevata terrazza nel settore a sud-est della città. Era probabilmente costituito da una struttura mista, formata da anelli in muratura a sostegno della cavea lignea.
Nuovi contributi hanno riguardato la ricostruzione dei tracciati delle maggiori viabilità regionali e interregionali: è il caso della via Aemilia, nel tratto tra Bologna e Piacenza, delle vie Popilia e Annia, tracciate rispettivamente nel 132 a.C. da Rimini ad Aquileia e nel 131 a.C., a completamento della prima da Adria a Padova, e della via Sarsinate. I risultati più significativi riguardano proprio la via Aemilia che, al contrario di quanto documentato in tutti i principali centri abitati (ad es., Bologna e Rimini: CIL XI, 366), in aree extraurbane sembra caratterizzarsi per una pavimentazione di ciottoli e ghiaia. Alcuni elementi sono fruibili anche per il breve segmento della via Flaminia all’interno della regione e per la via Sarsinate: in entrambi i casi viae glarea stratae. In particolar modo le ricerche hanno contribuito ad accrescere le conoscenze delle infrastrutture (ad es., la tagliata della via Emilia a Capocolle di Bertinoro, tra Cesena e Forlimpopoli) e principalmente dei numerosi ponti lungo le strade, contribuendo a ridefinire anche l’inquadramento cronologico dei tracciati stradali cui sono funzionali. Si tratta di strutture differenti tra loro tipologicamente (dal ponte a unica arcata al ponte viadotto) e strutturalmente, riferibili a un arco cronologico compreso tra età repubblicana e II sec. d.C.
A un tronco della via Aemilia, corrispondente a un percorso di epoca repubblicana antecedente la rettifica augustea, deve riferirsi il ponte che valicava il fiume Uso circa otto miglia a ovest di Rimini. Del monumento, distrutto nel 1944 e poi ricostruito, oltre alle fondazioni lapidee delle arcate centrali, rimane l’intradosso della prima arcata a sinistra, inglobato nella costruzione moderna. Il ponte antico, largo 5,5-5,6 m, per una luce ipotizzabile di circa 4,25 m, è realizzato in opera quadrata irregolare di pietra calcarea. I blocchi dell’intradosso e dell’armilla sono disposti alternativamente di testa e di taglio. Il ponte era originariamente costituito da quattro arcate delle quali due a sesto ribassato al centro e due a tutto sesto ai lati. Sulla base della tecnica costruttiva, del materiale utilizzato e della localizzazione ne è stata proposta una datazione all’età repubblicana.
In collegamento a una strada che, staccandosi dalla via Sarsinate doveva dirigersi verso Cesena, è il ponte sul fiume Savio (loc. San Carlo). Della struttura antica si conserva solo una pila rostrata a cuneo, con pianta esagonale, in blocchetti parallelepipedi di arenaria e nucleo in conglomerato cementizio. Originariamente il ponte, del tipo a viadotto e riferito al II sec. d.C., doveva essere costituito da almeno tre archi. Fuori posto sono i resti del ponte di Selbagnone (due pile e una spalla) a circa 300 m a nord/nord-est del fiume Ronco, presso Forlimpopoli, lungo la strada che partendo dalla via Emilia a ovest di Forlimpopoli, varcato il fiume, conduceva verso Magliano, Meldola e la vallata del Ronco-Bidente. Era forse a tre arcate, per una lunghezza complessiva di almeno 46 m, un’altezza di 7 m circa e una larghezza di 6 m, realizzato, presumibilmente, nel II sec. d.C.
Direttamente collegati alla centuriazione, dal momento che risultano inseriti nel medesimo progetto di controllo territoriale, sono quegli interventi, pubblici e privati, motivati da esigenze locali (ad es., le regimazioni che non rispondono ad alcuno schema centuriale oppure la bonifica di un’area paludosa). Nell’ambito di questo generale programma di drenaggio delle acque, un ruolo significativo assunsero le operazioni di irregimentazione di quei corsi d’acqua, anche di notevole portata, il cui flusso idrico risultava soggetto a esondazioni e divagazioni (è il caso dell’arginatura artificiale, attuata tra II e I sec. a.C., lungo la riva orientale del paleoalveo del Reno, all’altezza di Maccaretolo, in comune di San Pietro in Casale).
Alla regolamentazione dei corsi fluviali esistenti si accompagnò, in alcune circostanze, lo scavo di altri alvei, con lo scopo di garantire il deflusso delle acque verso l’invaso padano e verso il mare. Nell’ambito di tali interventi – oltre alla menzione epigrafica del donativo da parte di Praeconius Ventilius Magnus di 35 iugeri di terra coltivabile, bonificati con un intervento presumibilmente del I sec. d.C. –, un ruolo significativo svolge la notizia fornita da Strabone (V, 1, 11) dello scavo di canali navigabili dal Po a Parma a opera di Marco Emilio Scauro, realizzati alla fine del II sec. a.C. Una recente rilettura del passo straboniano consente di ritenere che l’intervento di Scauro abbia riguardato principalmente il Po e che quindi i canali scavati avessero la funzione di evitarne le piene, sottraendo parte dell’acqua al canale principale. A questi interventi, che sono variamente ricordati dalle fonti letterarie antiche, è necessario aggiungere quelle innumerevoli piccole opere di bonifica attuate nella pianura cispadana a partire dal III-II sec. a.C., che la ricerca sul terreno e la lettura delle foto aeree documentano in numero crescente: è il caso di quelle individuate nel contesto insediativo di Casteldebole, caratterizzate da un reticolo di fossati, con orientamento non in asse con la via Aemilia. Ugualmente, la messa a coltura e i continui lavori nei terreni di Valle Pega hanno contribuito a rilevare, oltre a tracce della centuriazione, una trama fitta e complessa di fiumi e drenaggi naturali collegati al tronco finale del Padovetere, come ad esempio il tronco del canale di Motta della Girata.
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