L'Italia romana delle Regiones. Regio X Venetia et Histria: Verona
Importante città romana della Venetia, sita in posizione strategica sulle due rive dell’Adige.
La prima documentazione di un’occupazione dell’attuale centro storico si riscontra in sinistra d’Adige. Si colloca tra XI e inizi dell’VIII sec. a.C. ed è testimoniata da alcuni reperti funerari, da Porta S. Giorgio e via Carducci, e da pochi materiali ceramici da contesti urbani (via Redentore, regaste Redentore) che inquadrano in un’orizzonte protoveneto l’occupazione della collina di San Pietro, in posizione dominante l’attraversamento del fiume.
Il colle di San Pietro e le sue adiacenze resteranno, sino alla costituzione del municipio, il sito in cui si svilupperà V. Occorre, però, premettere che le possibilità di lettura e ricostruzione dell’insediamento preromano e poi dell’oppidum sono praticamente azzerate proprio dalla dinamica dell’evoluzione urbanistica della collina di San Pietro. Quando infatti, alla metà del I sec. a.C., la città venne progettata ex novo sulla destra del fiume, il piano comportò la distruzione del vecchio centro e la sua sostituzione con un grandioso complesso di edifici pubblici. La loro realizzazione richiese il radicale rimodellamento del profilo dell’altura con grandi tagli nella roccia e vasti riporti artificiali alla base. Sicché oggi a V. le possibilità di recuperare qualche dato dell’abitato indigeno sono limitate a rari e fortunati interventi ai piedi del colle, lungo la sponda del fiume.
Con il VII e il VI sec. a.C. a V. si registra uno iato e in questo periodo si segnalano i ritrovamenti d’ambito culturale pienamente veneto dell’insediamento di Montorio, posto su una altura 4 km più a est, sovrastante il tracciato pedecollinare che da Vicenza si dirigeva verso il punto di agevole passaggio dell’Adige. Con l’inizio del IV secolo viene rioccupata la collina di San Pietro e la zona circostante. Il villaggio dovette essere organizzato per nuclei sparsi con strutture abitative seminterrate e in parte disposte su terrazze tagliate sulla collina. Quanto ai materiali, a fianco della ceramica di tipo retico-alpino ed etrusco-padano, compare quella d’ambiente celtico. I caratteri leponzi delle iscrizione vascolari, una rinvenuta negli scavi della cripta di S. Stefano e altre dal territorio, attestano l’uso dell’alfabeto utilizzato dai Cenomani: il dato è importante perché rappresenta un diretto riscontro di quanto è tramandato da diverse fonti letterarie che indicano la città come un centro cenomane (Cat., 67, 34; Liv., V, 35, 1; Ptol., III, 1, 31). Diversa la tradizione accolta da Plinio il Vecchio (Nat. hist., III, 130), che ricorda l’appartenenza di V. a Reti ed Euganei: la duplicità di memorie sulle origini della città trova spiegazione nella sua collocazione geografica, all’incrocio di aree culturali diverse.
All’oppidum veronese dovettero far capo, almeno dalla metà del II sec a.C., una serie di piccoli aggregati rurali attestati solo da aree funerarie (in generale più d’una per sito) a Valeggio, Povegliano, Vigasio, Santa Maria di Zevio, Isola Rizza, distribuite, a partire dalla seconda metà del III secolo, nella pianura a sud di V. a una distanza di 10/20 km da essa. Si tratta di necropoli galliche d’ambito culturale centro-padano, analogo a quello dei vicini sepolcreti del territorio bresciano. Anche se dei relativi abitati non è mai stata individuata traccia, le caratteristiche quantitative, diacroniche e qualitative di tali sepolcreti suggeriscono l’immagine di un popolamento sparso in accordo con il famoso passo di Polibio (II, 17, 9). È ovvio che con l’apertura, nel 148 a.C., della Postumia, indirizzata su V. non solo a causa dell’attraversamento dell’Adige, tra i più agevoli e sicuri, ma soprattutto per ragioni strategiche, essendo qui possibile controllare lo sbocco della val d’Adige, questo centro assumesse un’importanza assai superiore a quella di tutti gli altri abitati della zona. Per la piccola comunità atesina, il passaggio della via ebbe un ruolo determinante: inserita in una primaria direttrice di traffico militare e mercantile cisalpino e collegata con alcuni tra i principali centri coloniali e indigeni padani, essa venne proiettata appieno nell’orbita degli interessi romani.
I dati disponibili, cui scavi del 2002-2003 aggiungono la testimonianza di un sepolcreto cenomane in via Carducci (zona a vocazione funeraria dai primordi della città per tutta l’età romana), non permettono comunque di cogliere, sino agli inizi del I sec. a.C., né tracce di un’organizzazione urbana, né indizi di un’espansione dell’abitato che rimase confinato sulla sinistra del fiume. In destra d’Adige i rari e poco consistenti contesti sin qui identificati, genericamente attribuibili al III-I sec. a.C., attestano solo modeste presenze insediative verosimilmente in relazione con il tracciato della Postumia e della precedente pista. Entro l’ansa non sono mai venuti in luce depositi pre- e protostorici: d’altra parte è improbabile che vi potessero esistere stanziamenti stabili, certamente sconsigliati dalle condizioni idrogeologiche della zona, spazzata da forti alluvioni sino alla costruzione degli argini municipali. La povertà delle testimonianze materiali di quest’epoca conferma il ruolo secondario, già evidente nelle fonti, che nella gerarchia tribale cenomane V. rivestì rispetto a Brixia il caput gentis (Liv., XXXII, 30). A V. si può soltanto immaginare che, con l’invasione dei Cimbri del 102-101 a.C., la fondamentale valenza strategica del sito apparisse ben chiara ai Romani e che quindi sin da allora ne provvedessero gli apprestamenti difensivi.
È però solo sullo scorcio iniziale del I sec. a.C. che si hanno delle testimonianze monumentali: in via Redentore, gli scavi (1989- 1993) hanno messo in luce quelli che si possono considerare i primi segni del processo di strutturazione urbanistica. Si tratta degli imponenti avanzi del grande bastione in opera quadrata di pietra tufacea locale, impostato entro un ampio taglio artificiale, privo di fondazioni e sostenuto da un rincalzo con struttura di controscarpa, con cui era stato fortificato l’oppidum, e le tracce assai modeste di una porta, presumibilmente con prospetto monumentalizzato da architetture applicate, per la quale la Postumia, in questa fase glareata, entrava in città da sud-est. Tali testimonianze, che i materiali presenti nell’interro di riporto del rincalzo riconducono ai decenni iniziali del I sec. a.C., sono, quindi, da mettere in relazione con gli interventi di urbanizzazione determinati dalla nuova condizione giuridico-istituzionale di colonia “fittizia”, assunta dal centro in seguito ai provvedimenti legislativi del 90/89 a.C.
Non si conosce l’andamento della cinta, ma è presumibile che essa risalisse la collina attestandosi sulla sponda del fiume, a nord presso Santo Stefano, a sud presso San Faustino. La realizzazione di un simile dispositivo di difesa, certamente frutto di committenza pubblica, suggerisce la presenza di altre strutture indispensabili per svolgere le attività politiche, amministrative e giurisdizionali connesse con il nuovo status. Ma tali strutture, come l’intero abitato premunicipale, restano assolutamente ignote. Sebbene siano chiare, come si è anticipato, le ragioni che portarono alla sparizione dei segni di questo abitato, tuttavia la povertà della documentazione archeologica è tale che risulta difficile immaginare dove potessero vivere importanti famiglie attestate nella zona, come quella dei Valeri, che secondo Svetonio soleva ospitare Cesare, proconsole nelle Gallie (Suet., Iul., 7), o quelle dei personaggi di rango senatorio attribuiti a V. su basi epigrafiche. È più che probabile che tutti costoro avessero grandi proprietà con belle ville nell’agro: non a caso nel Veronese l’elemento architettonico più antico sino ad ora noto, un capitello ionico-italico, proviene dall’area gardesana (reimpiegato in S. Zeno di Bardolino).
Attorno alla metà del secolo, le caratteristiche dell’insediamento sul colle dovettero apparire non più corrispondenti alle esigenze dei tempi e la città venne progettata ex novo in destra d’Adige, nello spazio pianeggiante entro l’ansa. Lo stesso disegno, come si è detto, previde la distruzione del centro sulla riva sinistra, sostituito sulle pendici della collina da un complesso monumentale comprendente gli edifici da spettacolo, una serie di terrazze con un tempio alla sommità e, verosimilmente, a nord del teatro, un santuario.
Il nuovo impianto, che ripete un modello coloniale frequentemente applicato in Cisalpina, si adatta nel modo più razionale al terreno. Presenta orientamento nord-ovest/sud-est, deviato rispetto al nord astronomico al fine di dare sbocco verso la pianura a cardini e decumani altrimenti con esito sul fiume a entrambe le estremità; un reticolo ortogonale di strade larghe ben 12 m (40 piedi) tra sede e marciapiedi, isolati di poco più di due actus di lato (74 x 76,5 m ca.), un foro grande e accentuatamente rettangolare (56,5 x 150 m ca.), prossimo, quindi, per dimensioni alle piazze italiche di III-II sec. a.C., con ogni probabilità chiuso al traffico veicolare. Il grande spazio pubblico si trovava nella zona dell’attuale piazza Erbe: ancor denominata con l’antico toponimo nel Medioevo, essa, seppur ridotta e irregolare rispetto al precedente romano, ne ha però mantenuto nei secoli la continuità delle funzioni civili, riunendo tutt’intorno il palazzo comunale, la loggia dei mercanti, la zecca e il carcere. Due ponti garantirono il collegamento tra le sponde dell’Adige: quello più a monte era ubicato nel sito dell’odierno ponte Pietra, cioè del passaggio pre- e protostorico sfruttato poi anche dal primitivo tracciato della Postumia e disassato rispetto alla maglia stradale; quello più a valle, il cosiddetto “ponte Postumio”, progettato ed eretto contestualmente al municipium, era allineato con il tratto rettificato della via consolare coincidente con il decumano massimo della città. Preliminare a tutte le opere di urbanizzazione fu la costruzione di robusti argini in corsi di mattoni, che costituivano un’indispensabile protezione dell’ansa dalle esondazioni fluviali.
I dispositivi principali dell’impianto, murum, portas, cluacas, sono menzionati nell’iscrizione sulla facciata interna della porta urbica sul cardine massimo, la cosiddetta Porta Leoni (CIL V, 3434 = AE 1987, 450) che, ricordando i quattuorviri, attesta implicitamente l’acquisito status municipale. La cinta, con uno sviluppo di 940 m, era limitata ai lati sud-est e sud-ovest del perimetro urbano, privi della protezione del fiume; in corrispondenza delle strade era scandita da porte e postierle, sicché la veduta esterna estrinsecava l’organizzazione del tessuto viario interno. Due le porte principali, all’estremità sud-ovest del decumano massimo e sud-est del cardine massimo.
Solo quest’ultima, la Porta Leoni, è ben leggibile. Costruita in laterizi, come tutto il sistema murario, era quadrata con corte centrale rettangolare, doppi fornici nelle facciate, gallerie ai piani superiori e imponenti torri poligonali a 16 lati (diam. 7,4 m) agli angoli del fronte meridionale. I caratteri tardoellenistici del monumento sono stati ripetutamente sottolineati: essi appaiono evidenti nella facciata nord, ancora parzialmente conservata, in particolare nella soluzione del loggiato di coronamento, ripresa forse dalle più antiche porte in sinistra d’Adige. Nella serie delle porte a galleria l’edificio veronese si colloca in una fase ancora sperimentale: lo suggeriscono incoerenze planimetriche e disorganicità degli elementi costitutivi.
Strutturalmente analoga, salvo che per la pianta rettangolare e per il dettaglio tecnico delle riseghe alla base delle torri non continue ma limitate agli angoli dei dadi di fondazione, era la porta all’estremità del decumano massimo, di cui è tramandato il nome, Iovia, e della quale nel tempo si è conservata quasi intatta la facciata occidentale aggiunta in età claudia, la cosiddetta Porta Borsari.
Simili erano probabilmente anche le porte realizzate qualche decennio più tardi in sinistra d’Adige nei punti in cui sorgevano gli accessi all’antico centro coloniario. Mentre quella di nord-est non è mai stata individuata, avanzi di quella di sud-est sono stati visti in via Redentore, dove rimangono tracce dell’interturrio e il basamento di una torre, a 16 lati, identico nelle dimensioni e nello sviluppo a quelli della Porta Leoni, tranne per il particolare dello zoccolo a pianta circolare. I dati di scavo sembrano suggerire che la porta non fosse inserita in un circuito murario: essa e la sua gemella avrebbero, quindi, rappresentato episodi monumentali isolati, come in altri casi della prima età imperiale. Le postierle, collocate alle estremità di cardini e decumani minori, con pianta quadrata e un fornice, dovevano apparire simili a torri, sporgendo all’esterno delle mura e probabilmente, come le porte, sopravanzandole in altezza. Di esse è ben conservata quella inglobata nelle cantine di via Leoncino.
Tra le realizzazioni iniziali dell’impianto municipale vi fu anche la costruzione del complesso capitolino, menzionato in una base della fine del IV sec. a.C. (CIL V, 3332). Il tempio era situato su una terrazza e prospettava il foro al di là del decumano massimo. Era costruito in laterizi, come argini e cinta – identità materica e tecnica caratterizzano le strutture più antiche del municipio, tutte destinate a funzioni essenziali – ma il rivestimento con lastre di calcare, con stucco e intonaco bianchi lo rendeva simile a un edificio marmoreo; l’ordine era tuscanico con elementi architettonici portanti prevalentemente in pietra tufacea locale e coronamento in lastre di terracotta. Ne restano, a seguito di una radicale spoliazione, modeste tracce delle fondazioni a reticolo al fondo di trincee di asportazione colme di materiali ributtati, pertinenti all’alzato. Qui è stata recuperata una base posta dai decurioni veronesi a Giove Ottimo Massimo.
Una serie di scavi ha permesso di definirne la planimetria: il tempio (35 x 42,2 m) era esastilo, periptero sine postico con pronao e peribolo assai ampi. Nel pronao, al quale si accedeva tramite una scalinata di cui non è stata trovata traccia, si contavano 18 colonne disposte su tre ranghi con intercolumni variabili, quello centrale maggiore di quelli laterali. La parte postica presentava tre celle, in larghezza coincidenti con gli intercolumni antistanti. L’evidente conservatorismo del tempio che, in un’epoca di sperimentazioni e di grandi innovazioni, riproponeva una tipologia architettonica riconducibile alla tradizione etrusco-italica, ormai del tutto obsoleta e in disuso, è certamente motivo di ulteriori riflessioni. L’edificio si sviluppava sopra un terrazzamento artificiale, alto circa 2 m, accessibile dal decumano massimo tramite una scalinata e contenuto sugli altri lati da un criptoportico seminterrato rispetto al piano stradale, costruito in opera incerta per la parte contro terra, per il resto in laterizio e articolato in due navate comunicanti attraverso una fitta serie di archi di spina. A questa struttura, corrispondeva, sul piano della terrazza, un triportico, d’ordine dorico, che doveva rivestire anche funzione di tabularium, per la conservazione e l’affissione di documenti pubblici di varia natura, ivi compresi quelli catastali. Lo provano parecchi frammenti di iscrizioni marmoree e bronzee, rinvenuti nel livello di macerie che copriva il piano di calpestio del criptoportico qui finiti attraverso le larghe fessure apertesi nelle volte al momento del crollo di queste. Tra le testimonianze epigrafiche se ne segnala una davvero eccezionale: un frammento di forma in bronzo, cioè di un catasto rurale, verosimilmente pertinente a una delle centuriazioni dell’agro veronese.
Di un momento un poco più recente, la piena età augustea, è la realizzazione del teatro e delle sovrastanti grandiose architetture: il complesso, che dominava la città e chiudeva la prospettiva assiale del decumano massimo, rappresenta senza dubbio l’episodio urbanistico più qualificante del piano veronese. Ne sono state più volte ricordate le assonanze con i santuari centro-italici e in particolare con quello di Palestrina. L’edificio scenico sorgeva parallelo al fiume, a circa 10 m dalla sponda; il frontescena era articolato in due nicchie laterali a pianta rettangolare e in una centrale curvilinea e assai ampia che inquadravano le tre porte di accesso al palcoscenico. La cavea (largh. max. m 105) era appoggiata in buona parte alla collina – ma da essa isolata mediante una profonda intercapedine tagliata nella roccia – e solo lateralmente su muri radiali voltati. Era conclusa da due gallerie sovrapposte, quella superiore con prospetto ad archi, e sui fianchi raccordata all’altura tramite due prospetti monumentali ad arcate cieche.
Più a monte si sviluppavano tre terrazze lunghe 123 m, la prima delle quali ospitava il cosiddetto “ninfeo” e altre strutture legate all’acqua, in cui da ultimo si è proposto di identificare – ma non pochi dubbi sussistono in proposito – i resti del santuario delle divinità alessandrine, santuario che certamente dovette esistere nelle vicinanze del teatro, a giudicare dai molti reperti “egizi”, dalle dediche a Iside e Serapide e dalla statua di Serapide (già nella collezione Maffei, oggi a Ginevra), provenienti dalla zona.
Alla sommità della collina, sopra le due terrazze superiori, entrambe con prospetti di fondo variamente articolati e scanditi da elementi architettonici applicati, si stendeva una spianata dove sorgeva un tempio, resti del cui podio si videro nel 1851: per la sua ubicazione, esso potrebbe esse ricondotto alla tradizione diffusa nella penisola dal II sec. a.C., che integrava i teatri in una dimensione religiosa e cultuale. La presenza nelle murature del teatro e delle terrazze dell’opera reticolata, così come dell’opera incerta nel santuario capitolino, tecniche il cui impiego è limitato quasi esclusivamente alle regioni centro-italiche, indica che alla costruzione di alcuni dei principali edifici del municipio veronese concorsero maestranze provenienti dalle zone centrali della penisola. Induce inoltre a pensare, almeno nel caso del complesso teatrale, dove di straordinario livello appaiono anche la formulazione urbanistica e i pochi frammenti superstiti del programma decorativo, a una committenza di altissimo livello.
Con la monumentalizzazione del colle di San Pietro e la riedificazione delle due porte in sinistra d’Adige si può considerare compiuto il processo di strutturazione urbanistica. La città doveva apparire grandiosa, se Strabone poteva ricordarla come una polis megale (V, 1, 6). Intensa era l’attività anche nel campo dell’edilizia residenziale che già sullo scorcio del I sec. a.C. si estese fuori le mura. La casa di piazza Nogara, presumibilmente risalente alla fine del I sec. a.C. - inizi del I d.C., con un impianto di m 20 ™ 20 aperto su un cardine minore, rappresenta in un certo senso il modello tipologico standard dell’edilizia privata veronese, dal momento che nella città sembra ricorrente il tipo di casa con cortile centrale, spesso anche con peristilio. A questo schema doveva prevalentemente corrispondere un tetto displuviato, non riconoscendosi sin qui indizi di strutture pertinenti a un piano superiore.
Nel corso della prima metà del I sec. d.C. un ampio e sistematico programma di monumentalizzazione di spazi ed edifici pubblici, che ha paralleli in molti altri centri dell’Impero, trasformò in modo rilevante l’aspetto della città: le costruzioni di mattoni, pietra tufacea e stucco cedettero il posto a strutture realizzate o rivestite nel chiaro calcare locale, talora arricchite da elementi architettonici marmorei: sono così ormai definiti i lineamenti della magna Verona di Marziale (XIV, 1, 6).
Di vario tipo gli interventi attuati: il rinnovamento di alcuni monumenti di particolare valore simbolico, come le quattro porte urbiche, che vennero dotate di nuove facciate lapidee di grande impatto scenografico. Della Porta Leoni resta circa metà del prospetto settentrionale, mentre della Porta Iovia si conserva – si è detto – il fronte esterno, la cosiddetta Porta Borsari, nome di tradizione basso medievale, dai bursarii che qui riscuotevano i dazi. Ripetutamente riprodotti dal XV secolo e caratterizzati da edicole che inquadrano fornici e finestre, da colonnine tortili e il primo anche da un’ampia esedra, in origine decorata da statue, per entrambi i fronti sono state richiamate somiglianze con le architetture delle frontes scaenae teatrali, più accentuate nella Porta Borsari che per essere una facciata esterna ha connotazioni di rappresentanza. Essa, in origine compresa tra le torri, doveva risultare nell’insieme più tozza e disorganica di quanto oggi non appaia, soprattutto per la scarsa altezza dei fornici (m 4,20 contro i 5,18 m della Porta Leoni), dovuta al fatto che la quota stradale antica, qui coincidente con l’attuale, all’atto della costruzione dei paramenti lapidei, fu rialzata di m 1,10 per ragioni non chiarite.
Il rinnovo delle facciate interessò anche le due porte in sinistra d’Adige. Dell’intervento a quella sud-orientale (via Redentore) rimane principalmente traccia in una grande iscrizione. Essa menziona Claudio, Messalina e Germanico (AE 1992, 739) ed è stato ipotizzato fosse in opera insieme a una epigrafe gemella, perduta, pure in onore di membri della famiglia imperiale, nell’attico della facciata sud. Al fronte nord si è invece proposto appartenesse un blocco pertinente ad un basamento che reggeva statue in bronzo, rinvenuto nel 1851 in una zona appena a nord della porta, con una dedica allo stesso imperatore e altre due assai mutile (CIL V, 3326 = ILS 204). L’indicazione nella titolatura imperiale della quarta tribunicia potestas, rivestita da Claudio tra il 25 gennaio del 44 e il 24 gennaio del 45, presente in entrambi i titoli, permette di situare nei primi anni di quel principato il riassetto dell’edificio e probabilmente anche quello delle altre porte urbiche, in precedenza assegnate a età claudia sulla base di notazioni stilistiche. Nello stesso programma rientrò la monumentalizzazione del foro dotato di portici a ovest, sud ed est (su questo lato è incerto se ci fosse un portico) e la realizzazione, nelle adiacenze del lato occidentale, su un’area già adibita a edilizia residenziale poi espropriata, di un polo destinato ad attività politiche, giudiziarie, amministrative e forse politico-religiose: esso comprendeva il complesso della curia, la basilica e un grande impianto porticato, forse destinato al culto imperiale.
La fabbrica meglio conservata del foro veronese resta certamente il complesso della curia, i cui ruderi vennero utilizzati nel Medioevo come carceri e successivamente furono ridotti a cantine. Identificato nel 1986, occupa la parte meridionale di uno spazio, precedentemente ritenuta la sede del Capitolium. Tale spazio, lungo 77 e largo 27,5 m, si articola in due settori, racchiusi da una recinzione lapidea alta circa 6 m, e sopraelevati, quello nord mediante un riempimento artificiale, quello sud tramite concamerazioni. Sopra queste si individuarono i resti di un’aula, larga 12,5 m e lunga presumibilmente 13 m, accessibile da sud tramite una scalinata e preceduta da portici all’esterno e sui fianchi. L’aula presentava resti di doppie banchine laterali assai basse e di un banco, appena più alto, contro il muro di fondo. Tale schema riporta a una affermata tipologia di curia, quella ad aula templare isolata con gradini laterali. Nella storia di tale tipologia l’edificio veronese si segnala per la notevole anteriorità rispetto agli esempi conosciuti (Filippi, Roma, Leptis Magna e Sabratha) e per l’importanza documentaria. Suggerisce, infatti, che questo fosse l’impianto planimetrico del suo presumibile modello, la Curia Iulia augustea, impianto ancora scrupolosamente rispettato nel rifacimento della fine del III sec. d.C. A nord dell’aula, nel terrapieno, si sviluppava un’ampia terrazza con ricca pavimentazione marmorea e una sorta di orchestra centrale. La sua destinazione è incerta.
Di fronte al complesso della curia, a sud, sorgeva la basilica, che copriva una superficie pressoché uguale. Ciò suggerisce che i due monumenti fossero compresi in un medesimo piano di progettazione urbanistica, che prevedeva di riunire su questo lato della piazza le principali funzioni amministrative, giudiziarie e civili della città. L’edificio, individuato intorno al 1930, aveva, in questa prima fase, pianta rettangolare (29 x 76,5 m), con peristasi interna e ingressi probabilmente su tutti i lati.
A ovest della curia l’intero isolato era occupato da una grande piazza sopraelevata e circondata da portici. Al centro dell’area si è individuata una struttura di definizione assai dubbia, forse parte di un podio con fronte mistilineo: alle sue spalle era verosimilmente l’edificio principale di tutto l’impianto. Considerato che questo settore di monumenti si raggiungeva dal decumano massimo tramite il piccolo tetrapilo di Giove Ammone, così denominato già nel XVI secolo per l’iconografia della chiave di volta, è possibile che la scelta di un motivo simbolico, tra i più sfruttati della propaganda imperiale, rivestisse valore semantico proprio in rapporto alla funzione del complesso porticato, destinato forse alla celebrazione del culto imperiale, culto attestato precocemente a V. – fu, infatti, istituito vivente Augusto (CIL V, 3341) – e ben documentato epigraficamente.
Anche il tratto urbano della Postumia, il decumano massimo e le sue appendici suburbane subirono abbellimenti. Dell’Arco di Giove Ammone, che pare tra gli ultimi episodi del programma di monumentalizzazione (terzo quarto I sec. d.C.); gli scavi hanno mostrato che aveva un solo fornice (come nella prima restituzione del Caroto e diversamente dalla interpretazione del Palladio) e una pianta rettangolare. Ubicato lungo il decumano massimo, costituiva l’accesso al cardine minore. Un altro tetrapilo è ricordato dal Canobbio a un crocicchio presso S. Anastasia e lo si può ipotizzare pure in fregio al decumano, in topografica simmetria con quello di Giove Ammone. Appena fuori della Porta Iovia (Borsari) fu edificato il tempio di Giove Lustrale. Più a ovest, i Gavii, una delle più prestigiose gentes veronesi, vollero un arco a esaltazione dei fasti familiari. Dell’opera, eretta verosimilmente durante il principato di Tiberio, fu incaricato l’architetto L. Vitruvio Cerdone che appose (o ottenne di apporre) il suo nome sul monumento (CIL V, 3464, 5-6 = ILS 7730). La sua posizione sulla Postumia, circa 540 m a ovest delle mura, sul ciglio del terrazzo alluvionale su cui si era sviluppato il municipio, appena prima dell’avvallamento di un vecchio ramo dell’Adige, materializzava l’ideale cesura tra la città, con la fascia di espansione edilizia attorno alla cinta, e la successiva necropoli. L’arco, dal tardo Rinascimento assai riprodotto e ripreso come modello architettonico, è un tetrapilo a pianta rettangolare. Mentre i fronti secondari sono pressoché privi di elementi decorativi, quelli principali mostrano un ornato sobrio ed elegante, con quattro colonne addossate, le mediane, unite da un avancorpo sormontato da un timpano, inquadranti il fornice assai slanciato (m 8,4), un motivo che anticipa quello delle porte. Negli intercolumni laterali erano nicchie con le statue dei personaggi onorati, menzionati in tabelle epigrafiche (CIL V, 3464 1-4).
La Postumia non venne solo abbellita con edifici di rilievo, che ne sottolineavano il ruolo di principale asse viario cittadino ma, con ogni probabilità sempre in epoca giulio-claudia, ebbe una pavimentazione in basalto locale, estesa lungo tutta la fascia residenziale a ovest della cinta sino a poco oltre l’Arco dei Gavii. In questo tratto, come si è visto nel 1999, la via presentava, ai lati della carreggiata in pietra nera, due corsie in lastre di calcare locale bianco e rosato, per una larghezza complessiva di 14 m esclusi i marciapiedi.
Contemporaneamente, e forse in occasione della costruzione dell’anfiteatro che dovette imporre la riorganizzazione del sistema viario, anche l’altra grande arteria che collegava la città alla viabilità interregionale, la cosiddetta Claudia Augusta Padana, fu rivestita in basalto. Venne allora abbandonato il percorso che entrava in città dalla porta sul cardine massimo, preferendosene un altro, esterno alle mura, in adiacenza al lato sud-ovest di queste e all’anfiteatro. Sempre in questo periodo si provvide al completamento della serie degli edifici da spettacolo. La costruzione dell’odeon, che è documentato solo da resti della costruzione scenica, dovette essere avviata poco dopo il completamento del teatro (e quindi forse ancora in età augustea): analogie di scelta topografica, di orientamento (impianto sviluppato sulle pendici della collina e allineato con la sponda del fiume), come di tecnica edilizia (strutture in parte in opera quadrata, rivestimenti murari in parte in opera vittata), segnalano per i due monumenti una progettazione unitaria.
Più tardi si realizzò l’anfiteatro. Strettamente collegato all’impianto urbano, come indica l’orientamento degli assi coincidente con quello del reticolo stradale, e ciò verosimilmente per ragioni urbanistiche e funzionali, esso venne edificato all’esterno della cinta, presso l’angolo sud di essa, in una zona urbanizzata ma certo molto meno intensivamente degli isolati entro le mura. A questa ubicazione non furono estranei motivi pratici: facilitava, infatti, l’afflusso e l’evacuazione del pubblico e l’accesso degli abitanti dell’agro e dei centri vicini. L’edificio per dimensioni (assi interni 73 x 44 m, esterni 152 x 123) è uno dei più grandi del mondo romano e poteva contenere fino a 28- 30.000 spettatori. Dell’anello esterno, alto circa 30 m, rimane oggi un breve tratto, la cosiddetta “ala”. In origine presentava 3 piani, ciascuno con 72 archi. L’ordine applicato era unicamente il tuscanico. La cavea, accessibile da 64 vomitoria tramite una serie di scale, si regge su un sistema di concamerazioni radiali e di gallerie anulari di grandezza scalare, tre al piano inferiore e una al piano intermedio. Quest’ultima sosteneva il porticato alla sommità delle gradinate. I muri e le volte di sostruzione furono eseguiti rispettivamente in opera mista e in conglomerato cementizio, mentre per le membrature portanti così come per l’intero rivestimento della cavea e il paramento esterno venne utilizzato calcare locale.
Un vasto impianto realizzato a sud della città tra l’Adige e la Claudia Augusta Padana parrebbe pure da assegnare ad età giulio-claudia. Si tratta di una struttura rettangolare, con una lunghezza presumibile dell’affacciamento sul fiume intorno a 200 m e con un grande abside (diam. 100 m) sul lato nord. Impostava su una serie (?) di banchi di anfore, tipologicamente collocabili entro la metà del I sec. d.C., disposte anche su due livelli a innalzamento e regolarizzazione della sponda. La destinazione dell’edificio è ignota: in via del tutto ipotetica si è avanzata la possibilità di riconoscervi il campus, che a V. sarebbe testimoniato da un’iscrizione menzionante un ludus publicus (CIL V, 3408 = ILS 5551 = IG XV, 2309).
Il programma sin qui illustrato, che in buona parte traduceva in termini di prestigio urbano l’ascesa economica, sociale e politica della classe dirigente locale e che, forse, con alcuni episodi di particolare valore simbolico, celebrava un evento assai importante nella storia della città – l’acquisizione, probabilmente durante il principato di Claudio, del titolo onorifico di colonia – non dovette limitarsi agli interventi di cui oggi rimangono resti più o meno consistenti. Altri edifici pubblici sono attestati da elementi architettonici sporadici e da iscrizioni, come quella che ricorda la costruzione, a spese del facoltoso cavaliere L. Cassio Corneolo, di un importante monumento urbano o suburbano, un arco forse, dedicato a Tiberio (AE 1985, 460; 1994, 713). Delle terme pubbliche nulla si conosce. Si crede che siano da localizzare nei due isolati lungo il fiume ai lati dell’odierna via Garibaldi dove, alla fine dell’800 e ancora recentemente, si rinvennero resti di vasche, condotti e strutture di riscaldamento. A esse sono tradizionalmente attribuite i grandi bacini in porfido rosso e pietra locale riutilizzati in S. Zeno e nella fontana di Madonna Verona in piazza Erbe. Si è inoltre ipotizzata – ma la cosa è dubbia – l’appartenenza al complesso di alcune sculture di notevole qualità, spolia trovati in un vicino muro tardoantico o altomedievale di piazza Duomo, tra i quali si segnalano un ritratto raffigurante forse Ottaviano, un puntello con firma di Prassitele, diverse statue femminili, tutte databili entro la metà del secolo.
All’imponente attività di monumentalizzazione pubblica corrisponde l’espansione dell’edilizia privata, come si è detto, già in corso dallo scorcio finale del I sec. a.C. Soprattutto a ovest, tra l’anfiteatro e il fiume, l’abitato si dilata lungo l’asse della Postumia ben oltre il perimetro dei bastioni. Indiretta conferma del vasto ampliamento è in un passo di Tacito (Hist., III, 10-11).
Tra i documenti più interessanti possiamo citare la ricca villa suburbana di Valdonega. La parte superstite consiste di tre ambienti aperti con porte e finestre su un portico affacciato su un giardino. Il principale di questi ambienti è costituito da un elegante oecus corinthius, una sala colonnata su tre lati. Quanto agli altri vani, uno conserva avanzi di affreschi che richiamano i modi del terzo stile. Invece, resta ancora sconosciuto l’impianto della villa e tuttora non è possibile attribuire una precisa funzione ai gradini all’estremità settentrionale del portico: essi, infatti, possono indicare sia l’esistenza di un piano superiore, sia la distribuzione del complesso su terrazze. Con certezza si trattò di un edificio lussuoso: ciò viene confermato dalla buona qualità dell’apparato decorativo e dalla raffinatezza delle soluzioni architettoniche. La datazione è discussa e in base a considerazioni stilistiche si ritiene possa oscillare tra gli inizi e l’ultimo quarto del I sec. d.C., ma i capitelli figurati in calcare che reggevano la volta dell’oecus non sono posteriori alla metà del secolo.
Se gli interventi di abbellimento e miglioria che sono riscontrabili in diverse domus urbane e suburbane, al pari delle molte opere pubbliche di cui si è già detto, denotano una comunità dotata di notevoli disponibilità economiche, una simile indicazione non si coglie invece in ambito funerario. Qui, dove si dispone di una documentazione lacunosa sebbene ampia, il quadro dei ritrovamenti finora effettuati risulta contraddittorio. Necropoli dovettero esistere lungo i tratti suburbani di tutte le strade che afferivano alla città. Le aree funerarie numericamente più consistenti (complessivamente 1350 sepolture) sono state individuate negli anni 1989-91 lungo la via Postumia, a sudovest della città, presso Porta Palio e alla Spianà, rispettivamente a circa 1 miglio e 1 miglio e 3/4 dalle mura. Ad est di quest’ultimo sepolcreto si è identificato un grande impianto produttivo, finalizzato con ogni probabilità alla fabbricazione di laterizi. Tale ritrovamento, come altri analoghi, sempre alternati a gruppi di tombe, attesta che la destinazione d’uso delle aree lungo le strade extraurbane era mista. Le indagini non hanno offerto testimonianze di edifici sepolcrali ma solo di recinti di media estensione e di rari segnacoli; tali strutture non erano localizzate in fregio alla via, con chiari intenti di monumentalizzazione del percorso stradale, ma sparse sul terreno, anche a distanza notevole dalla Postumia. Queste constatazioni, unite a quelle che si desumono dall’analisi dei corredi, in generale assai modesti, suggeriscono che le due aree fossero utilizzate da ceti di non rilevanti disponibilità ecomomiche.
Analoghe considerazioni paiono potersi trarre dall’esame di altre aree funerarie attualmente in corso di scavo, a nord della basilica di S. Zeno e in via Carducci, disposte rispettivamente lungo la via da/per Brescia e sul tronco orientale della Postumia, e dalle notizie dei vecchi ritrovamenti riguardanti, oltre queste stesse necropoli, anche quelle del tratto meridionale della Claudia Augusta Padana e della bretella extramuranea di raccordo tra le due rive. Un solo sepolcreto è stato identificato nelle vicinanze delle mura: quello, assai piccolo, presso la Porta Leoni, afferente un percorso privilegiato per la vicinanza al centro urbano e per l’intensa percorrenza, in origine parte della Claudia Augusta Padana e poi incorporato nella bretella. Qui sono stati scoperti gli unici avanzi murari noti a V. di un mausoleo. Si tratta di una fondazione a pianta quadrata che racchiude una cella semi-ipogea. In via d’ipotesi se ne è proposto un coronamento a tamburo.
Tranne nel caso di questa struttura, le tracce di monumentalizzazione delle necropoli sono, si è già detto, insignificanti. Certo in età imperiale sepolcri a tamburo, a dado, a trapeza, sacelli di vario tipo e grandi segnacoli dovettero esistere numerosi, come prova il materiale per lo più proveniente da reimpieghi, conservato nel Museo Archeologico o nel Museo Maffeiano, o ancora riutilizzato in edifici medievali e nei ruderi della cinta altomedievale. Ma è indubbio, almeno per quel che ci è pervenuto, che i contesti funerari veronesi, diversamente da quelli di altri siti, non rendono né l’evidenza diacronica della vita della città né lo spaccato della sua stratificazione sociale.
L’apertura dei grandi cantieri municipali dovette favorire la formazione di botteghe di scultori, scalpellini, decoratori, mosaicisti e pittori di cui rimane una buona documentazione a partire dalla fine dell’età augustea. In particolare numerose e di buon livello sono le attestazioni della statuaria in marmo. Ma dovettero esistere anche officine specializzate nella grande bronzistica. Più che dai ritrovamenti di materiali scultorei, tra cui la testa del cosiddetto Pestrino, lo si deduce dalla recente scoperta di un’iscrizione che ricorda un liberto, Q. Dellius Myro, statuarius, un artigiano, cioè, addetto all’esecuzione di statue in bronzo di grandi dimensioni.
Da quanto sin qui detto la prosperità di V. appare ben evidente sin dalla costituzione del municipio. Concorsero alla sua fortuna fattori di ordine strategico-militare ed economico-commerciale, derivanti essenzialmente dalla sua felicissima posizione geografica, che dapprima le permise il controllo di un attraversamento del fiume fondamentale nei collegamenti transpadani e l’utilizzo di due tra le principali vie d’acqua dell’Italia settentrionale (quella dell’Adige e quella del Garda-Mincio-Po), poi la caratterizzò come un nodo stradale assai importante. Si trovava al centro di un fertile territorio, molto più vasto di quello dell’odierna provincia. L’agro veronese, come in generale quello transpadano, doveva uniformarsi a un modello insediativo rurale con abitazioni sparse soprattutto nelle zone più ricche e adatte allo sfruttamento delle risorse (bacino gardesano, pendici meridionali della Lessinia, pianura, soprattutto per la parte centuriata). In queste zone i fundi con relative strutture abitative e produttive dovevano essere numerosi; mentre lungo la sponda del lago sono note superbe ville panoramiche, tra cui quella famosissima di Sirmione, destinate agli otia dei loro facoltosi proprietari. Assai grande la disponibilità di risorse agricole: principalmente la vite da cui si ricavava un vino rinomato; prospero l’allevamento per lo meno di ovini, visto che V. era nota per la produzione di una particolare stoffa pesante; infine, attività economica di notevole rilievo fu l’estrazione e la commercializzazione dei calcari ammonitici, bianco, rosa, bronzetto, rosso, cavati soprattutto nel bacino della Valpolicella. Utilizzati intensivamente nell’edilizia locale da età tiberiana, vennero esportati in area veneta ma pure nell’VIII regio e nella XI. L’insieme di questi fattori dovette risultare determinante per le fortune economiche della città, che rivestiva anche funzioni amministrative, riscuotendosi qui, per le regioni X e XI, la vigesima libertatis, tassa su una delle forme di manomissione degli schiavi (CIL V, 3351 = ILS 1870).
Dopo l’intensa attività del I sec. d.C. si riscontra un forte rallentamento delle grandi iniziative edilizie sino alla ripresa di IV e V secolo con la costruzione delle basiliche paleocristiane intra- ed extramuranee. Ciò non pare imputabile a una situazione di crisi economica (non mancano restauri e riassetti anche impegnativi), ma piuttosto al fatto che la fisionomia della città entro il I sec. d.C. era ormai perfettamente definita. L’età severiana, analogamente ad altri centri cisalpini, vede una vivace attività sia in ambito pubblico che privato. Agli inizi del III secolo, M. Nonio Arrio Muciano, un importante personaggio di origine bresciana, console nel 201, portò a termine con una cospicua elargizione le terme Iuventianae (CIL V, 3342): probabilmente si trattò di un lavoro di ampliamento o di un globale riassetto del complesso di via Garibaldi. Alla stessa epoca, come indicano i caratteri stilistici e formali dei ricchissimi ornati, risale il rifacimento della basilica: essa venne dotata sul lato sud di una grande abside, individuata nelle indagini del 1998, e all’interno di una peristasi colonnata che alternava tratti di trabeazione rettilinea ad archi; a uno di questi, riprodotto da G.F. Caroto nel XVI secolo, appartengono forse alcuni pezzi recuperati nel 1865 e oggi al Museo Archeologico.
Tra la fine del II secolo e gli inizi del III diverse pavimentazioni musive policrome testimoniano interventi di abbellimento di strutture residenziali certe o presumibili (piazza Nogara, piazzetta Scala, via Diaz, corso Cavour, piazza Bra, via Rocche) e di edifici di cui non è chiara la destinazione, come quello di via Quattro Spade (ricca abitazione o sede di collegium?). Forse pure alla sede di un collegium è da collegare la serie di strutture ipogee individuate sul lato meridionale della via Postumia, appena fuori la Porta Borsari. Realizzate probabilmente nella prima età imperiale, subirono in seguito rimaneggiamenti: nella seconda metà del II secolo venne rinnovata la decorazione pittorica di almeno due vani. Di uno di essi, riconoscibile come ninfeo, è discretamente conservata (sino a circa 3 m) la parete orientale, lunga più di 6 m. Presenta uno zoccolo con maschere di Oceano e gorgoneia e superiormente tre grandi campiture: in quella mediana era una pittura di giardino al centro della quale si apriva una nicchia con fontana, in quelle laterali erano raffigurati Mercurio e una divinità maschile seduta, sin qui non identificata.
Nel 265, a seguito del gravissimo pericolo corso da V. in occasione dell’irruzione degli Alemanni nella Pianura Padana, avvenuta proprio attraverso la val d’Adige, l’imperatore Gallieno provvide a fortificare la città. Sulla base dell’iscrizione dell’architrave di Porta Borsari che ricorda: muri veronensium fabricati iubente sanctissimo Gallieno (CIL V, 3329 = ILS 544), si è sempre ritenuto che il suo intervento avesse comportato la costruzione della seconda cinta. Ma una riflessione sui vecchi dati e l’analisi di nuove evidenze suggeriscono che il testo dell’epigrafe enfatizzi a scopo propagandistico e celebrativo l’opera dell’imperatore: egli, in realtà, si limitò a ripristinare le vecchie mura municipali, ricostruendone i tratti demoliti e rinforzandole con torri. L’impresa comportò l’inserimento nel circuito murario dell’anfiteatro, troppo incombente per non rappresentare un effettivo pericolo: distava dalle mura solo 80 m e le superava in altezza di circa 23 m. Verosimilmente fortificazioni vennero approntate anche in sinistra d’Adige, almeno presso le testate dei ponti. L’intervento, che vide l’impiego di una gran quantità di materiale di spoglio, comportò il sacrificio di costruzioni anche importanti, a fini di recupero, ma non defunzionalizzò le strutture urbane e neppure l’anfiteatro che rimase intatto. A partire da questo momento la città tornò a connotarsi come una piazzaforte, carattere che avrebbe mantenuto per lunghissimo tempo, sino al XIX secolo.
Dalla seconda metà del III secolo, in conseguenza degli avvenimenti che imposero il riassetto e il rafforzamento della cinta muraria, si riscontra una contrazione del tessuto urbano con l’abbandono degli impianti abitativi all’esterno dei bastioni.
Lungo la via Postumia, all’esterno di Porta Borsari una trasformazione radicale è segnalata dalla costruzione della basilica Apostolorum (l’odierna SS. Apostoli), verosimilmente risalente alla fine del IV secolo o al V in analogia con edifici di analoga dedicazione. Anche in sinistra d’Adige le case che si affacciano lungo le vie Postumia e Claudia Augusta Padana sembrano essere state abbandonate almeno in parte prima del IV secolo. Nel V secolo, appena fuori della porta urbica oltre il ponte Pietra, in un sito verosimilmente già adibito a uso funerario, venne realizzata la basilica di S. Stefano, dove ebbero sepoltura alcuni tra i primi vescovi veronesi. Le altre chiese extramuranee di questo periodo, S. Fermo e S. Procolo, sorgono non distanti da zone adibite a sepolcreti sin da età augustea.
Se in quest’epoca il suburbio modifica radicalmente il suo aspetto e la sua organizzazione, la città murata non sembra subire sostanziali trasformazioni, anche se vi sono evidenti segni di un progressivo impoverimento e tracce di episodi di discontinuità d’uso e se il complesso urbano di maggior valenza ideologica e politica, quello capitolino, è in stato di abbandono e di rovina, come documenta l’iscrizione CIL V, 3332, menzionante il rialzamento nel foro di una statua diu iacentem in Capitolio, regnanti Graziano, Valentiniano e Teodosio. Nell’edilizia residenziale si segnala qualche intervento di miglioria, come quelli che videro, nel corso del IV secolo, il riassetto del complesso di via Adua-vicolo Monachine, dove venne messo in opera un magnifico pavimento a tarsie marmoree, o il rinnovamento dell’edificio del Tribunale, con modifiche all’impianto planimetrico e rifacimento di alcune pavimentazioni musive. Inoltre in alcuni isolati centrali la ristrutturazione degli immobili privati è caratterizzata da un avanzamento dei fronti sin sulle carreggiate stradali, come ad esempio la lunga struttura di via Dante.
Alla modesta ripresa dell’attività costruttiva privata fa riscontro in ambito pubblico la realizzazione, nella prima metà del IV secolo, della cattedrale. Gli ultimi studi sulle strutture del nucleo episcopale ne ipotizzano l’origine come domus ecclesiae a partire dalla tarda età imperiale, in base alla presenza di resti di un edificio, che si presume a carattere privato, individuati sotto la basilica più antica. Questa sorse alla sommità dell’ansa in margine al lato orientale del terzo cardo di destra e con gli annessi doveva occupare quasi tutto l’isolato; monoabsidata, si articolava in tre navate e presentava una parete curvilinea all’interno dell’abside. Venne poi rinnovata e a questa fase è da riferire la pavimentazione musiva con pannelli donati dai devoti, come testimoniano le iscrizioni. Considerate le caratteristiche dei tessellati e i riferimenti che traspaiono nei sermoni di Zeno, vescovo della città all’incirca tra il 362 e il 380, l’intervento è stato ricondotto alla seconda metà del IV secolo. Alla metà del secolo successivo venne edificata una chiesa assai più grande con tre navate e un’abside, preceduta da un endonartece e forse da un atrio. Presentava una lunga solea, affiancata da muretti affrescati, e ricche pavimentazioni musive, prevalentemente a campi geometrici con iscrizioni dei donatori. Diversamente dalla basilica più antica, di cui rilevò la funzione di cattedrale, questa oblitera la strada e si sovrappone parzialmente all’edificio precedente che, comunque ridotto nelle dimensioni, continuò a esistere.
Per il IV e il V secolo la diffusione del cristianesimo resta un fenomeno prettamente urbano; nel territorio il più precoce segnale di presenza cristiana va riconosciuto nelle strutture ipogee di S. Maria in Stelle in Valpantena, risalenti a età imperiale. Esse hanno ancora destinazione funeraria quando, nel VI secolo, si colgono indizi di cristianizzazione del sito. Ma per precise indicazioni sull’epoca di trasformazione dell’impianto in luogo di culto e sulla scansione cronologica delle pitture, tra cui spiccano le note scene neo- e veterotestamentarie, si attende un riesame globale del monumento.
Con l’avvento del regno di Teodorico, V. conosce un rinnovato splendore. Il re goto pose mano a una serie di grandi fabbriche ricordate dall’Anonimo Valesiano: item Veronae thermas et palatium fecit et a porta usque ad palatium porticum addidit. Aquae ductum, quod multa tempora destructum fuerat, renovavit et aquam intromisit. Muros alios novos circuit civitatem (Anon. Vales., 12, 71). Questi ultimi, secondo una recente proposta, sono da identificare nel circuito già attribuito all’imperatore Gallieno. In materiale di spoglio, tale apprestamento in origine merlato e alto 14 m ricalca il percorso delle mura municipali, correndo 10 m più all’esterno, e sembra aver fatto sistema con esse. Evidentemente le vecchie difese, anche se potenziate con contrafforti triangolari e pentagonali, mediante i quali si era provveduto a chiudere tutte le postierle, non erano più sufficienti a garantire la sicurezza della città. La realizzazione dei nuovi bastioni comportò la demolizione dell’anello esterno dell’anfiteatro, tranne per un tratto verso le mura, che in tutto o in parte ancor oggi esiste, la cosiddetta “ala”, principalmente allo scopo di diminuire l’altezza dell’edificio, pericolosa in caso di attacco. La cinta teodoriciana dovette includere anche la collina di San Pietro, come confermerebbe il fatto che l’Iconografia Rateriana, illustrazione allegata a un codice di argomento veronese attribuito al vescovo Raterio (X sec.), ma per la quale di recente si è proposta la derivazione da un archetipo di età gota, mostra la cortina attorno al colle dipinta in rosa, il colore che, secondo l’interpretazione tradizionale, contraddistingue le fortificazioni attribuite a Teodorico. Tuttavia questa addizione, indispensabile per rendere funzionale il sistema difensivo, oggi non ha più alcuna evidenza.
Quanto alle altre iniziative tramandate dall’Anonimo Valesiano, pare che la dimora del re goto sorgesse proprio nel sito dell’odeon, come, tra l’altro, suggerisce l’Iconografia Rateriana, dove il palatium è ubicato in coincidenza con l’antico edificio da spettacolo. Delle rimanenti fabbriche nulla si sa. Invece, i dati di scavo riferiscono alla prima metà del VI secolo la radicale asportazione delle murature del Capitolium. Si trattò di un’operazione di grande impegno, sia per la profondità delle trincee necessarie per il prelievo dei mattoni delle fondazioni (più di 4 m in alcune zone), sia per l’imponenza dei lavori, dato che le strutture in qualche punto si dovettero tagliare in blocchi. Se ne desume che il recupero fosse voluto dall’autorità pubblica: in essa è forse da riconoscere Teodorico.
La seconda metà del VI secolo segnò un’epoca di grave crisi, anche per V. dove, come nel resto del Veneto, il fenomeno urbano venne sostanzialmente ridimensionato. I segni più evidenti della decadenza degli impianti abitativi sono costituiti dalla povertà delle tecniche e dei materiali da costruzione, nonché dalle continue modifiche funzionali degli ambienti che si susseguono rapidamente. Questo processo, che si concluse con l’abbandono della gran parte degli edifici romani, in molte zone della città fu repentino, causato da un incendio di vaste proporzioni, di cui è stata trovata traccia in alcuni scavi. Tale incendio è presumibilmente da identificare con quello ricordato da Paolo Diacono nell’Historia Langobardorum (III, 23), che distrusse più zone della città e al quale fece seguito un notevole innalzamento dei livelli insediativi. Queste evidenze sono ben documentate nel principale scavo urbano veronese, nel cortile del Tribunale, uno dei più importanti effettuati in Italia settentrionale (1980-83). I suoi risultati sono illuminanti per chiarire la crisi della città tardoantica e la sua trasformazione nella città altomedievale.
In generale:
G. Cavalieri Manasse, s.v. Verona, in EAA, II Suppl., 1971-1994, V, 1997, pp. 1017-21 (con bibl.).
Si veda inoltre:
A. Buonopane - W. Eck, Praefect[us Caes]aris, nicht praefec[tus aerarii milit]aris: zu CIL V 8845, in ZPE, 102 (1994), pp. 195-205.
M. Bella, L’Iseo e Serapeo di Verona, in E. Arslan (ed.), Iside. Il mito, il mistero, la magia (catalogo della mostra), Milano 1997, pp. 358-62.
G. Cavalieri Manasse, Note sull’edilizia funeraria di Brescia e Verona, in M. Mirabella Roberti (ed.), Monumenti sepolcrali romani in Aquileia e nella Cisalpina. Atti della XXVI settimana di studi aquileiesi (Aquileia, 24-28 aprile 1995), Udine 1997, pp. 243-73.
A. Buonopane, Statuarius: un nuovo documento epigrafico, in ZPE, 102 (1998), pp. 292-94.
G. Cavalieri Manasse, La via Postumia a Verona, una strada urbana e suburbana, in G. Sena Chiesa - E.A. Arslan (edd.), Optima via. Atti del Convegno Internazionale di Studi Postumia. Storia e archeologia di una grande strada romana alle radici dell’Europa (Cremona 1996), Cremona 1998, pp. 111-43.
Ead., Banchi d’anfore romane a Verona: nota topografica, in S. Pesavento Mattioli (ed.), Bonifiche e drenaggi con anfore in epoca romana: aspetti tecnici e topografici. Atti del seminario (Padova 1995), Modena 1998, pp. 185-96.
S. Pesavento Mattioli, I commerci di Verona e il ruolo della via Postumia, ibid., pp. 311-28.
G. Cavalieri Manasse, Verona (I secolo a.C.-I secolo d.C.), in G. Sena Chiesa - M.P. Lavizzari Pedrazzini (edd.), Tesori della Postumia. Archeologia e storia intorno a una grande strada romana alle radici delle Alpi, Milano 1998, pp. 444-53.
S. Pesavento Mattioli - A. Maraboli - M. Pavoni, Anfore romane a Verona. Nuovi rinvenimenti, in QuadAVen, 15 (1998), pp. 40-48.
M. Bolla (ed.), Archeologia a Verona, Milano 2000.
Ead., Statuaria e cornici in bronzo di epoca romana nel Museo archeologico di Verona, in NotMilano 65-66 (2000), pp. 25-71.
Ead., Sculture del teatro romano di Verona: oscilla e fregio, ibid., 40 (2002), pp. 9-60.
G. Cavalieri Manasse, Note su un catasto rurale veronese, in Index, 32 (2003), pp. 1-33.
G. Cavalieri Manasse - B. Bruno, Edilizia abitativa a Verona, in Abitare in città. La Cisalpina tra impero e medioevo, Roma 2004, pp. 47- 59.
G. Cavalieri Manasse - L. Malnati - L. Salzani, Verona: la formazione della città, in Des Ibères aux Vénètes. Phénomenès proto-urbains et urbains de l’Espagne à l’Italie du Nord. Actes du Colloque (Rome 1999), in c.s..
A. Frova - G. Cavalieri Manasse, La basilica forense di Verona alla luce delle indagini recenti, in Mélanges Pierre Gros, in c.s.