L'Italia romana delle Regiones. Regio X Venetia et Histria
La regio X augustea, delimitata a nord dalle Alpi, a sud dal fiume Po, a ovest dalla valle dell’Oglio, a est dal fiume Arsa, comprendeva una vasta area dell’Italia nord-orientale corrispondente al territorio dell’attuale Veneto, Trentino- Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, al quale si aggiungevano a ovest una parte dell’odierna Lombardia orientale (province di Brescia, Cremona, Mantova) e a est la penisola dell’Istria (oggi parte di Slovenia e Croazia).
di Fernando Rebecchi
Il settore occidentale della provincia di Cremona – che si distende da est a ovest, tra i corsi del Po e dell’Adda – apparteneva in età romana all’ager Bergomensis e per questo motivo il Cremasco e il Soncinese devono considerarsi, con la stessa Bergomum, parte della regio XI. In epoca tardoantica Bergamo fu assegnata alla Venetia et Histria nell’ambito della riforma dioclezianea che, con l’innovativa struttura della diocesi annonaria, incise particolarmente sull’assetto dell’Italia settentrionale elaborato in funzione di più saldi stanziamenti militari per la difesa dei confini d’Italia.
I confini antichi del territorio mantovano erano più limitati della provincia odierna: la pertica centuriata di Viadana, a sud dell’Oglio, oggi in provincia di Mantova, sembra fosse collegata all’ager Cremonensis, al pari di Bozzolo e Sabbioneta. Una villa romana è stata rilevata in località Casale Zaffanella di Viadana. A nord-est appartenevano all’agro bresciano i territori di Castiglione delle Stiviere, di Castel Goffredo e di Asola. A est, come sembrano testimoniare i limiti delle diocesi medievali, il confine dell’agro mantovano doveva più o meno essere come l’attuale; ma a sud, da dove il Po segna una grande ansa verso nord fino all’imboccatura del Secchia, le terre all’interno dell’ansa appartenevano probabilmente a Regium Lepidi e quindi alla regio VIII (Aemilia); lo stesso vale, a est del Secchia, per Poggio Rusco e Sermide dipendenti da Mutina. La testimonianza di Tacito prova che l’area di Ostiglia, oggi mantovana, apparteneva alla pertica di Verona (Hist., III, 9).
A nord, le terre a ovest del Garda, di cultura cenomane, di cui Brescia era l’insediamento più importante (Liv., XXXII, 30, 6), furono tradizionalmente considerate come facenti parte della cultura veneta; anche in età tardoantica esse dovettero rimanere, malgrado i continui spostamenti di confine, alla provincia della Venetia et Histria, cui fu poi aggiunta, probabilmente a partire dai primi anni del IV sec. d.C., anche Bergamo. Tale spostamento amministrativo si deduce dalla dedica del miliare di Verdello (CIL V, 8044), posto dalla Venetia regio in onore di Valentiniano e Valente. Il grande asse viario costituito dalla via Postumia aveva permesso di inserire il territorio bresciano in una fitta rete di comunicazioni.
Il ritrovamento di alcuni elmi di legionari romani è una prova archeologica degli scontri tra Romani e Insubri sui luoghi dove i consoli M. Claudio Marcello e Cn. Cornelio Scipione Calvo assediarono, nel 222 a.C., Acerrae, caposaldo insubre a protezione di Mediolanum (Milano; Pol., II, 34), da localizzare presso l’odierna Pizzighettone sull’Adda, non lontano da Cremona. Uno degli elmi conserva sotto il paranuca l’iscrizione con il nome del proprietario e l’indicazione del peso: M(arco) Patolcio Ar(untis) l(iberto) p(ondo) (octo). Qualche anfora da trasporto e pochi altri reperti sono le sole testimonianze della Acerrae romana, il cui sito preciso non è ancora stato identificato. A coronamento delle vittorie contro i Celti Transpadani, i Romani decisero nel 218 a.C. la deduzione delle colonie latine di Piacenza e Cremona, rispettivamente nei territori ostili degli Anari e degli Insubri, per controllare i Galli appena pacificati (Liv., XXXI, 48, 7). Le due nuove città, travolte dalla ribellione suscitata dall’invasione annibalica – Piacenza venne distrutta da Amilcare, mentre Cremona riuscì a resistere –, poterono essere rinforzate con l’invio di nuovi contingenti di coloni soltanto nel 190 a.C.
L’agro e la città di Cremona presentano orientamenti diversi a causa dei problemi imposti dalla regolamentazione di una così vasta superficie agricola in rapporto a una modesta area cittadina. L’impianto urbano sembra riflettere l’influsso dell’accampamento romano nello schema generale della bipartizione, nella direzione dei decumani, e della tripartizione, nella direzione dei cardini, anche se il disegno perimetrale dovette probabilmente adattarsi ai tratti morfologici naturali del terreno. Il tracciato della cinta cittadina è abbastanza sicuro a nord lungo il fossato Cremonella (via Virgilio, via Battisti), a ovest (via Manna, via Cesari) e a sud (via Tibaldi). In via Manna e in via Battisti sono stati scoperti indizi di presenza di mura, che le fonti dicono imponenti (Tac., Hist., III, 20, 30), probabilmente ricostruite dopo le distruzioni del 69 d.C. e utilizzate fino al grande incendio del 1113. Si era in un primo momento pensato, in base al racconto di Tacito (Hist., III, 30), che la città avesse sviluppato a est, oltre via Solferino, un quartiere residenziale suburbano tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del secolo seguente.
Scavi recenti hanno individuato in questa zona edifici repubblicani e del I-II sec. d.C.: nel cortiletto del Torrazzo un edificio di notevoli proporzioni, risalente agli inizi del I sec. a.C., era probabilmente destinato a funzioni pubbliche (presenza di rocchi di colonna di cotto), ruolo mantenuto anche in una successiva fase del IV e V sec. d.C., attestata da un mosaico, ora all’interno del battistero, da una lucerna e da un balsamario vitreo. L’area da via Solferino fino a via Antica Porta Marzia e a via Aselli doveva perciò far parte di un ampliamento della città verso est, forse di età augustea; l’area extra moenia della chiesa di S. Lorenzo sorgeva su una necropoli tardorepubblicana a fianco della via Postumia, che si caratterizzava per l’uso di letti funebri d’osso lavorato. La basilica, le cui vicende edilizie si datano a partire dall’età paleocristiana, ospita il Laboratorio di Restauro dei mosaici romani.
I mosaici provengono tutti dal settore settentrionale della città romana, oltre la via Cavallotti che ricalca il decumano massimo, in una zona residenziale. I resti di due mosaici, l’uno a tessere bianche, nere, rosa e gialle, l’altro a tessere bianche e nere e a motivi geometrici e floreali del II secolo avanzato, sono stati lasciati presso la Banca del Monte in via Guarnieri del Gesfi. Altri mosaici più antichi di circa un secolo sono stati rinvenuti in via Plasio, da dove provengono anche i frammenti di una o forse di due statue virili di terracotta di grande importanza per la loro datazione alla prima metà del II sec. a.C. Stilisticamente i resti di queste sculture fittili sono da assegnare a un artista urbano, certamente fatto giungere a Cremona per plasmare statue votive a tutto tondo come ex voto in un santuario o come donario “eroico” in un luogo aperto al pubblico o in un edificio civile. Corre quasi parallelo alla via Solferino, orientato in direzione nord-ovest/sudest, l’ampio tratto di strada selciata larga più di 7,2 m, comprese le crepidines su entrambi i lati, che è conservato in vista sotto la Camera di Commercio. In altri punti della città (piazza della Pace) si sono riconosciute le tracce dell’antica rete stradale romana. Un brillante recupero appare la ricostruzione come arma pesante da getto (catapulta) proposta sui frammenti metallici siglati con il marchio della legio IV Macedonica, che partecipò alla guerra civile dalla parte dei Vitelliani (Tac., Hist., III, 22). Rinvenuti in città, i pezzi erano comunemente ritenuti parti della cassaforte della legione.
Sulle rive dell’Oglio (Roccafranca, Robecco sull’Oglio, Canneto sull’Oglio) sono stati indagati sepolcreti romani concentrati lungo il corso del fiume, divenuto in età tardoantica una via di comunicazione più sicura delle strade normali. Resti di una villa rustica romana con mosaici pavimentali a motivi floreali sono riutilizzati nell’abside di un sacello di età longobarda a Santa Maria della Senigola presso Pescarolo. Da Cappella dei Picenardi va ricordato inoltre un ritratto bronzeo di privato (Parigi, Museo del Louvre), la cui alta qualità rivela la presenza nella zona di artisti di ottimo livello, partecipi, in età cesariana, della cultura artistica tipica del naturalismo ellenistico. Nel corso del secondo triumvirato (40 a.C.) questo territorio subì una seconda parcellazione agraria imposta da ragioni politiche, che rispettò l’orientamento dell’antica, ma mutò probabilmente le misure degli appezzamenti. La nuova centuriazione occupò un’area superiore alla precedente, sconfinando notevolmente a est per la valorizzazione di nuove terre da assegnare ai veterani. In un qualche modo cominciò allora il declino militare delle vie Brixiana e Postumia.
Come si è accennato, importanti ritrovamenti hanno confermato per l’epoca classica l’occupazione etrusca di Mantova e del suo territorio. Qui, lungo le rive del Mincio, deve essere avvenuta una vera e propria colonizzazione di gruppi etruschi a cominciare molto probabilmente dagli ultimi anni del VI sec. a.C., come sembrano dimostrare le fibule a sanguisuga e ad arco serpeggiante raccolte in superficie al Castellazzo della Garolda, ma dopo arature profonde. Gli scavi più estesi sono stati compiuti al Forcello di Bagnolo San Vito, dove è stato portato alla luce un grosso terrapieno che fungeva da aggere, all’interno del quale si addensavano le abitazioni. Le fondazioni erano gettate con impasti di sabbia e materiale calcareo, mentre pavimenti e pareti erano composti con canne e argilla indurita dal fuoco. Ceramiche importate e innumerevoli manufatti di terracotta, osso, pietra, ambra, ferro, bronzo, piombo e argento illustrano la varietà dei commerci e la ricchezza del sito, cui conferiva importanza soprattutto la produzione di derrate alimentari e la favorevole posizione commerciale. Simili caratteristiche aveva anche l’abitato di Castellazzo della Garolda.
Dopo il fiorire dell’epoca etrusca il territorio mantovano fu occupato dai Cenomani con una rete insediativa più o meno fitta di modesti abitati rurali situati a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro. La documentazione gallica è concentrata nella fase più avanzata della romanizzazione (I sec. a.C.), quando le precedenti differenze etnico- culturali erano ormai venute meno. Durante quest’epoca l’agro centuriato mantovano, ai margini del quale erano già stati spostati i precedenti abitanti celti, fu interessato da una nuova e proterva operazione di esproprio di veterani, “conquistatori” nei confronti dei precedenti antichi coloni. Le tracce di tali eventi, noti dalle fonti letterarie (Verg., Ecl., IX, 26 ss.; Georg., II, 198; Plin., Nat. hist., III, 130), sono ampiamente riscontrabili sul terreno che fu riparcellizzato secondo i nuovi moduli del contiguo ager Cremonensis. Notevoli edifici sono stati individuati presso Cavriana e Solferino, una villa era a Castellaro Lagusello, in una zona dotata anche di ricche necropoli. Nel Museo di Gazoldo degli Ippoliti sono state allestite ricostruzioni dell’assetto del territorio in epoca romana (via Postumia, centuriazione) e in età preistorica.
Il vicus romano era posto sul decumano massimo della centuriazione, che aveva un orientamento diverso dalla Postumia; due miliari trovati ad Asola e a Casoldo hanno suggerito che in questa direzione probabilmente corresse una strada che congiungeva direttamente Cremona a Verona senza passare per Bedriaco. Molti indizi dell’esistenza di ville rustiche costellano anche i bordi dell’area centuriata, dove peraltro non dovevano essere trascurate le attività agricole, che un calendario rustico inciso su mattone, non anteriore al 27 a.C., testimonia a Guidizzolo. Da Bigarello provengono una statuetta marmorea di Asclepio e forse una di Igea, che con altri frammenti scultorei doveva far parte della decorazione di una villa rustica.
Presso Goito, in frazione Sacca, è stata recentemente scavata un’area cimiteriale longobarda con tombe ricche di utensili, armi e ornamenti decorati con eleganti agemine. La necropoli di Goito è una delle maggiori di quest’epoca trovate in Italia. Le tombe erano ordinatamente poste presso il tracciato della Postumia a dimostrazione della perenne vitalità e della funzione aggregativa svolta dall’antico percorso. Le sculture e i materiali provenienti dal territorio, che ancora fanno parte delle imponenti collezioni del Palazzo Ducale di Mantova, saranno ospitati in un nuovo Museo Archeologico Nazionale. Vi saranno sistemati anche i vari frammenti architettonici e scultorei, riferibili a più monumenti funerari di età augustea, reimpiegati nel muro tardoromano che rinforzava un tratto della cinta urbana presso il seminario vescovile. Di uno di questi è stata recentemente proposta una ricostruzione architettonica che lo assimila alle note tipologie di Bologna e di Sarsina. Nel duomo di Mantova è da sempre conservato un sarcofago “a porte di città” che fu certamente trasportato da Roma per un funzionario cisalpino del IV sec. d.C. Al III secolo risalgono invece i sarcofagi di Pomponesco e di Casalmoro, caratteristici modelli cisalpini della produzione ravennate, l’uno con fronte corniciata, l’altro con complessa ornamentazione architettonica. In una nicchia esterna della torre campanaria del duomo di Mantova è stata da poco riscoperta una bella testa femminile di ispirazione classicheggiante che, per i tratti eleganti del volto, per la presenza sul capo di una benda e di un diadema e infine per gli orecchini testimoniati dai fori del trapano, dimostra di provenire da una statua molto probabilmente innalzata a un membro divinizzato della famiglia imperiale giulio-claudia.
Il magnifico ambiente naturale, che, a oriente di Brescia, giunge fino ad abbracciare le rive occidentali e meridionali del Benaco, poté favorire in età imperiale romana con le sue straordinarie opportunità itinerarie e produttive (agricoltura, pesca) il fiorire di una continuità insediativa variamente composta da ville residenziali e da piccoli nuclei urbani, che si prolungò ininterrottamente dalla fine del I sec. a.C. all’avanzato V sec. d.C. Presso Brescia possiamo ricordare a questo proposito il lussuoso impianto della villa suburbana di San Rocchino (II sec. d.C.) a nord del castello, composta da almeno nove ambienti. Il pavimento a mosaico policromo di un grande vano, che si affacciava a sud sul peristilio con una grande apertura, aveva un disegno a ottagoni con fiori stilizzati. Al centro una fila di maschere ed eroti circondava una complessa scena paesistica di cui resta una figura di anziano che si accinge a salire su una barca davanti a un tempietto. Il quadro sembra alludere a un episodio del Rudens di Plauto.
Sulle rive del Benaco si possono ricordare il castello di Soiano, che sorge sulle strutture di una villa romana e, oltre Maderno, dove sono le imposte di pietra di un ponte su cui passava la strada romana, il paese di Toscolano, probabile centro dei Benacenses. Qui, in località Capra, un’altra villa presenta ambienti che si aprono su un lungo corridoio con pavimenti a mosaico riferibili a due differenti fasi, geometrici bianchi e neri di età flavia, policromi con trecce e motivi floreali di età severiana; la villa era provvista di servizi e di collegamenti con il lago. Anche Salò fu in età romana un insediamento di una qualche importanza, come testimoniano ritrovamenti di necropoli in varie località dei dintorni. Da qui proviene anche l’esemplare, rarissimo fuori di Roma, di una stele marmorea di eques singularis recuperato a Barbarano, nella cui decorazione a tre fasce compare in alto il defunto su kline, al centro il suo ritratto entro medaglione, in basso ancora il defunto a cavallo che brandisce una lancia, seguito da un assistente che gli porge l’elmo di tipo frigio.
Sono oggi nella provincia di Brescia le località di Lonato, di Desenzano e di Sirmione, che in antico dovevano appartenere, come tutta la sponda meridionale del Lago di Garda, al municipium di Verona. A sud di Lonato, lungo la direttrice di Castiglione delle Stiviere, è stato scavato un complesso di sei fornaci per la cottura di tegole e laterizi (cinque sono state ricoperte a causa di gravi problemi di statica). Nei pressi erano altre strutture per l’immagazzinamento dei laterizi e di molti scarti da utilizzare per il rifacimento delle fornaci. La fornace maggiore, di pianta circolare e dotata di arco di accesso alla camera di combustione, sovrastato da un arco minore di scarico, è stata restaurata. Il piano di cottura era costituito da mattoni forati, molto regolari, sorretti da un sistema a doppie archeggiature. Anche la villa romana di Desenzano ha visto interventi di restauro, cui si è aggiunto un efficace studio critico intorno alla fase tardoantica e alla decorazione scultorea. Datato all’età augustea il primo impianto, un secondo intervento sulle strutture è stato riferito alla metà del I sec. d.C. (lacerto di intonaco nero). Dopo una seconda ristrutturazione verso la fine del I sec. d.C., il complesso subì vistose trasformazioni nel corso del IV sec., quando il settore nord-orientale fu occupato da un’aula con funzioni termali.
L’assetto architettonico e decorativo fu completamente rinnovato con una ricca decorazione musiva policroma in un progetto di percorso che si sviluppava da un vestibolo ottagonale sul lago, attraverso un peristilio quadrato e un atrio a forcipe, fino alla conclusione di una fastosa aula a tre absidi, che doveva essere allestita per funzioni conviviali con stibadia ricurvi posti entro tre absidi concatenate. Dietro le absidi si trovava il raccolto viridarium a nove nicchie, attraversato da un euripus. I nuovi scavi hanno accertato che tra il IV e il V secolo il settore della grande sala absidata dietro il peristilio fu rialzato in funzione di un nuovo complesso di rappresentanza che non è escluso potesse essere connesso alla costruzione di una basilica cristiana. L’apparato statuario, ritrovato in frammenti nel sotterraneo del peristilio, è rilevante. La quasi totalità delle statue, ora parzialmente ricomposte, appare prodotta entro il II sec. d.C., ma rimase in uso nella villa anche nel IV e nel V secolo, testimoniando ancora una volta il gusto antiquario dell’epoca. La superficie ben conservata delle sculture permette di asserire che tutti i pezzi si trovavano al coperto entro portici e nicchie, anche se probabilmente concentrati nel settore dell’aula absidata e del viridarium. Tra le sculture spicca per qualità artistica la testa di un adolescente databile tra l’età traianea e la prima età adrianea. L’uso in molte di esse del marmo di Vezza d’Oglio indirizza a localizzare a Brescia più che a Verona la maggior parte di queste sculture. Nuovi scavi alla villa romana della zona archeologica delle Grotte di Catullo hanno permesso di scoprire nello strato di preparazione del pavimento e nel sottostante strato di livellamento dell’ambiente 73 alcuni frammenti ceramici ben databili all’età augusteo-tiberiana (frammento di coppa tipo Sarius Surus, di coppetta a pareti sottili, ecc.), che confermano la cronologia già proposta per la costruzione della villa. Sotto la pavimentazione che copriva le cisterne sono state individuate condutture di piombo per la raccolta dell’acqua piovana. Le cisterne, gli intonaci dipinti e un muro di fortificazione tardoantico sono stati restaurati e consolidati.
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di Giovanni Ciurletti
Nella sistemazione amministrativa imperiale augustea la regione non fu compresa in un’unica realtà giuridico-amministrativa ma divenne, al contrario, una tipica terra di confine.
La sua porzione più ampia, quella meridionale, fu inserita infatti nella regio X, aggregata però a quattro diversi municipi: Feltria (Feltre), Verona, Brixia (Brescia), Tridentum (Trento). La Val Venosta, con le sue convalli, venne a far parte della Rezia, mentre la Val Pusteria e, probabilmente, la Val di Fassa furono assegnate al Norico. Il processo di romanizzazione, promanante non solo dal centro dell’Impero, ma anche dai territori danubiani, ricevette un notevole impulso a partire dall’età augustea.
L’economia, volta in gran parte al consumo interno, e nella quale l’agricoltura doveva avere un’incidenza minore, era di tipo silvo-pastorale. In campo artigianale dovevano esistere piccole fornaci per la produzione dei materiali edilizi, frutto delle innovazioni tecnologiche introdotte dai Romani, e di vasellame domestico, officine per la produzione di utensili di uso quotidiano e modesti oggetti d’ornamento. La presenza della via Claudia Augusta fa supporre un certo sviluppo di un’economia ruotante attorno ai posti di sosta, di ristoro, di cambio di cavalli, all’attività di trasporto e commercio. Come tutta l’area alpina, anche la regione atesina fu terreno di arruolamento per gli eserciti di Roma schierati sul limes danubiano.
A differenza di Trento, nelle valli, non solo quelle più interne, le comunità locali sembrano invece perpetuare i modelli socio-economici protostorici; anche gli abitati non si trasformano conformemente ai nuovi canoni urbanistici provenienti dall’esterno. Continuano infatti, secondo la tradizione retica, gli aggregati spontanei di più edifici, di pietra e legno – ora però dotati della calce quale legante e, talora, del cotto per la copertura del tetto – di dimensioni solitamente medio-piccole, col pianoterra incassato nel terreno, corridoio d’ingresso con funzione di atrio e due soli locali, uno con focolare aperto, destinato a cucina, scarsamente arredati. Edifici che nel corso dei secoli tendono ad ampliarsi fino ad assumere piante complesse, ma sempre compatte, con l’aggiunta di nuovi ambienti, taluni destinati ad attività lavorative, con la presenza di più nuclei famigliari. Queste costruzioni erano circondate da spazi aperti (cortili, orti, campi, prati, viottoli), sia di collegamento sia utilizzati per lo sfruttamento agricolo e per l’allevamento degli animali da carne. Siamo in presenza, sostanzialmente, del maso di montagna, tipologia edilizia che nella regione durerà sino ai giorni nostri.
Nelle aree più aperte, climaticamente più favorite, viene però ben presto a collocarsi un’altra realtà economico-rurale, figlia diretta degli influssi culturali promananti dalla penisola italica: la villa. Indagini archeologiche hanno messo in luce i resti di ampie costruzioni dotate di murature di pietra e calce spesso intonacate, talora affrescate, in cui è testimoniato l’ampio uso di tegole e coppi, di pavimenti di battuto di calce o cocciopesto, di impianti idrici e di scarico di cotto o pietra, nonché di impianti, seppur ridotti, di riscaldamento. Non mancano, anche se limitate, testimonianze di pavimenti musivi. Questa modalità di insediamento trovò la sua maggiore applicazione nella piccola piana, dell’estensione di circa 10 km, adiacente al Lago di Garda, a nord di esso, fra i centri attuali di Riva e Arco. In quest’area, soggetta già in età augustea a un intervento di microcenturiazione (l’unico, per ora, documentato in regione), numerosi sono i complessi edilizi pertinenti a ville di ampie dimensioni, anche oltre 4.000 m2, con la presenza sia della pars urbana sia di quella rustica fructuaria. Di tali complessi rimangono i resti limitati alle fondazioni o ai primi corsi di murature.
Le necropoli risultano solitamente modeste, di dimensioni piuttosto limitate, ma utilizzate assai a lungo nel tempo. Sono documentati entrambi i riti funebri con la tomba solitamente costituita da pozzetti quadrangolari con pareti di pietra o laterizio; non mancano però quelle alla cappuccina di tegoloni. Verso la fine dell’Impero si ha la prevalenza delle inumazioni, con scarso corredo, nella nuda terra. Tipica dell’area alpina risulta l’usanza di seppellire i neonati in adiacenza o all’interno delle case.
Con riferimento alle manifestazioni artistiche, la regione, in analogia a quanto avviene in tutto il territorio alpino, salvo qualche eccezione, non offre testimonianze di particolare valore. La scultura colta è rappresentata da pochissime opere provenienti sostanzialmente da Trento e dal territorio benacense, frutto senz’altro di importazione. La decorazione architettonica dei principali monumenti pubblici di Trento, i pavimenti musivi e gli affreschi che arricchivano le case o le ville sparse nel territorio furono senz’altro realizzati in loco da maestranze specializzate provenienti da fuori. Anche i prodotti di artigianato artistico di una certa qualità (bronzetti, vetri, gioielli, piccola plastica di cotto, vasellame da mensa) erano importati dall’esterno.
Come il capoluogo, Trento, anche la regione conosce il periodo di maggior floridità nei primi due secoli dell’Impero, periodo in cui si registra il massimo sviluppo degli insediamenti, come si evince anche dagli scavi archeologici. Nel corso di tutto il III secolo la regione acquisterà un importante ruolo strategico-militare, come testimoniano alcune epigrafi e numerosi miliari ritrovati nella valle dell’Adige e in Val Pusteria. Le invasioni alemanne degli anni 260-275 semineranno terrore e distruzione, denunciati dalle tracce di incendi in diverse località e dall’occultamento di tesoretti monetali. Un momento di temporanea parziale ripresa economica sembra quello assicurato dall’età costantiniana, ma via via che ci si avvicina al crollo dell’Impero, che nella regione alpina si avrà con le invasioni dei Visigoti di Alarico (402) e degli Ostrogoti di Radagaiso (410), anche questa regione non potrà non seguirne le sorti.
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di Bianca Maria Scarfì
La parte centrale della regio X comprendeva popolazioni diverse. I Veneti, secondo alcune fonti antiche originari dell’Asia Minore, si estendevano dal Po fin oltre il Livenza, penetrando a ovest nei territori dei Galli Cenomani sino alla sponda orientale del Garda, a nord in quello dei Reti (identificabili forse con gli Euganei, primi abitatori del Veneto) e verso est nel territorio dei Carni. In questo ambito si sviluppò, dall’VIII agli inizi del II sec. a.C., la cultura paleoveneta, sostanzialmente unitaria nelle manifestazioni archeologiche, diversificata invece per i fatti linguistici: il venetico, lingua di struttura indoeuropea, è attestato a cominciare dal VI sec. a.C. dalle iscrizioni preromane in alfabeto etruscoide del Veneto centrale, mentre dalle aree di Trento, Bolzano, Verona, Feltre e, marginalmente, di Vicenza e di Treviso provengono iscrizioni retiche. Aspetti tipici della cultura paleoveneta sono la modestia degli insediamenti, l’abbondanza delle stipi votive, che spesso continuano fino all’età romana, la ricca produzione artigianale fittile e bronzea, testimoniata nella maggior parte dei casi dai corredi delle tombe a incinerazione.
La massima espressione artistica della cultura paleoveneta è rappresentata dai bronzi, soprattutto dalle situle di lamina sbalzata. Ricerche recenti hanno messo in evidenza gli aspetti peculiari che, all’interno di questa unità di base, distinguono la produzione delle varie località, a cominciare da Este e Padova, i due centri più antichi e più importanti; a Este appare collegato il Veneto sud-occidentale, a Padova il Veneto orientale. Si individua anche una facies veneto-alpina, rappresentata da Montebelluna, Mel e altre località fra il Brenta e il Piave e una cultura, tipica degli abitati d’altura del Vicentino e della Lessinia, più legata al mondo retico. Per la cronologia del materiale paleoveneto viene considerata ancora sostanzialmente valida la suddivisione in quattro periodi di A. Prosdocimi, articolata ora in più precise partizioni interne che ne permettono il confronto con le coeve culture settentrionali. Alla fase antica, che comprende il I, il II e, in parte, il III periodo atestino, dall’VIII alla fine del V sec. a.C., è da premettere una fase precedente a quella di Este, documentata soprattutto dalle necropoli e dagli abitati protovillanoviani di Frattesina, di Fratta Polesine e di Montagnana, per la quale si è proposto il termine di Protoveneto. La fase finale, il IV periodo atestino, mostra il graduale e progressivo impoverimento della cultura paleoveneta, che risente di influenze etrusche, celtiche e poi romane.
La penetrazione romana nel Veneto avvenne gradualmente e pacificamente. Già nel III sec. a.C. rapporti amichevoli univano Romani e Veneti, accomunati nella difesa contro i Galli; rapporti che si fecero sempre più intensi nel II sec. a.C. per la presenza stabile di Romani e Latini fra le popolazioni locali e per il crescente riconoscimento da parte dei Veneti dell’autorità dello Stato romano. È del 174 a.C. l’intervento del console M. Emilio Lepido chiamato a Padova per sedare le controversie generate da una guerra civile; nella seconda metà del secolo i proconsoli L. Cecilio Metello e S. Attilio Sarano pongono cippi di confine fra il territorio atestino e patavino e tra quello atestino e vicentino; nel 132 a.C. il console P. Popillio Lenate conduce da Rimini ad Adria la via Popillia, che ha prosecuzione nel 131 con la via Annia la quale da Adria, per Padova e Altino, giunge ad Aquileia, attraversando tutto il territorio veneto, come già nel 148 a.C. la via Postumia, condotta da Genova ad Aquileia. Imposizioni di confini e tracciati di strade significano il passaggio da regime di alleanze a regime di governo romano. La documentazione archeologica di questa fase è praticamente assente nelle città, perché distrutta dal successivo sviluppo urbano, e rilevabile solo dai materiali dei corredi funerari, delle stipi votive, dei tesoretti, dove è chiaro il graduale trapasso da onomastica e tipologia venete a quelle romane. La consistenza degli insediamenti paleoveneti è deducibile solo indirettamente: a Padova per l’irregolarità dell’impianto urbano romano, evidentemente condizionato dal preesistente abitato; ad Altino, invece, dal tracciato della via Annia, che mostra una variazione di percorso nell’area occupata dal nucleo veneto.
La piena romanizzazione del Veneto avviene alla fine dell’età repubblicana con la concessione del diritto latino nell’89 a.C. e con quella del diritto romano, avvenuta fra il 49 e il 42 a.C.; è in quest’epoca che divengono municipi i principali centri del Veneto: Adria (Atria), Padova (Patavium), Vicenza (Vicetia), Verona, Altino (Altinum), Treviso (Tarvisium), Asolo (Acelum), Oderzo (Opitergium), Feltre, Belluno (Bellunum). Le uniche colonie sono Concordia (Iulia Concordia), fondata intorno al 40 a.C., ed Este (Ateste), in cui vennero stanziati militari nel 31 a.C., dopo la battaglia di Azio. Risale certamente alla metà del I sec. a.C. la costruzione degli impianti urbani di Verona e di Padova; è da supporre che anche Vicenza e Oderzo abbiano avuto sistemazione urbana nel medesimo periodo. Appare più tardo, invece, lo sviluppo dei centri pedemontani di Asolo, Feltre, Belluno. Diversa era la situazione di Adria: porto di grande importanza, sede di scambi e di commerci tra Mediterraneo orientale e valle padana, dovette avere singolare rilevanza nel Veneto fin dal VI sec. a.C. Ma l’aspetto urbano di Adria preromana e romana è pressoché ignoto e l’importanza del centro è deducibile solo da quanto è testimoniato dai corredi tombali e nell’arredo urbano.
Dall’età augustea a tutto il I sec. d.C. le città del Veneto hanno un periodo di grande fioritura, arricchendosi di imponenti opere pubbliche, delle quali però, con l’eccezione di Verona, rimane ben poco. Contemporaneamente avviene la sistemazione del territorio, con la centuriazione delle campagne (tuttora evidentissima sul terreno quella a nord-ovest di Padova e dalla fotografia aerea quella di Adria), con grandi opere idrauliche nelle Valli Grandi Veronesi e nel Polesine, con la creazione di nuove strade di collegamento fra i vari centri; fra queste la Claudia Augusta da Altino al Danubio, tracciata da Druso nel 15 a.C. e terminata dall’imperatore Claudio nel 49 d.C., elemento determinante assieme alle vie endolagunari per lo sviluppo commerciale di Altino. La floridezza e la sicurezza di quest’epoca è dimostrata dalla diffusione di ville e di case rustiche in tutto il Veneto e dall’espansione delle città al di fuori delle mura che a volte, come a Verona e Altino, vengono abbattute a neppure cento anni dalla loro erezione.
Anche la documentazione proveniente dalle necropoli è particolarmente ricca e abbondante nel I sec. d.C.: monumenti funerari e statue, stele iscritte, segnacoli e corredi danno direttamente una testimonianza molto ampia e varia della produzione artigianale e indirettamente, attraverso le iscrizioni funerarie, delle componenti etniche e dell’organizzazione sociale delle varie località. Nel II sec. d.C. comincia a manifestarsi una notevole crisi economica, che si accentua nel III e nel IV secolo e che è da attribuire alla decadenza delle correnti di traffico con le province d’oltralpe e all’insicurezza politica causata dall’indebolirsi della difesa sui confini alpini. Già nel 265 Gallieno deve provvedere a ricostruire la cinta difensiva di Verona, utilizzando non solo nuovi materiali di cava ma anche molti elementi di edifici e di monumenti funerari precedenti. In questo periodo di decadenza generale, in cui nelle città sono pressoché assenti le grandi opere pubbliche e si riscontrano solo modeste ristrutturazioni di abitazioni, solo Concordia, insieme a Verona, manifesta ancora una considerevole vitalità, che sembra anch’essa dovuta alla presenza di contigenti di truppe, testimoniate da iscrizioni funerarie di militari dal II al V secolo, quando Concordia diventa sede di una fabbrica di frecce.
Persistenza di vita si manifesta anche nelle campagne, dove le grandi ville rustiche, al centro di un fundus, dimostrano di essere autosufficienti a lungo, come le ville del Veronese che presentano frequentazione continua a volte fino all’Alto Medioevo. Ad aumentare la crisi sociale ed economica contribuirono sensibilmente gravi dissesti territoriali lungo la fascia costiera, causati dall’innalzamento eustatico del mare verificatosi agli inizi del III secolo; furono così danneggiati i transiti e i commerci lungo la via Annia e compromessa la stessa esistenza del municipio di Altino. Benché molti miliari del III e del IV secolo documentino la frequenza delle opere di manutenzione dell’Annia, questa dovette essere gradualmente abbandonata in favore delle vie endolagunari, più sicure anche perché al riparo dalle invasioni barbariche; ciò fu determinante in epoca altomedioevale per lo sviluppo dei centri costieri e lagunari di Eraclea, Iesolo, Malamocco, Rialto e, infine, Venezia.
Quanto rimane dei grandi monumenti pubblici romani e della scultura urbana del Veneto non mostra caratteristiche provinciali locali, perché tipologie costruttive, tecniche e stile di lavorazione rientrano nei canoni e nello spirito dell’arte romana coeva. E ciò non può stupire dal momento che la massima espressione artistica paleoveneta, quella dei bronzi sbalzati, all’epoca della romanizzazione era già da molto tempo in decadenza.
Verona, dove sono ancora in vista imponenti monumenti pubblici, è l’unica città di cui è certo il regolare impianto urbano e in cui è stata sicuramente ubicata la sola struttura templare finora individuata nel Veneto, il Capitolium di modulo vitruviano. Del tempietto dei Dioscuri, esistente a Este, rimangono infatti solo alcuni elementi decorativi di terracotta, di chiaro influsso centro-italico. È sempre Verona la città che ha restituito il maggiore numero di statue di provenienza cittadina, espressioni di arte “colta”, perfettamente inquadrabili nella produzione dei primi due secoli dell’Impero. Analoghe considerazioni si possono fare anche per altre sculture trovate nel Veneto, non molte, ma pregevoli come quelle di Concordia, i ritratti femminili di Padova, le statue che ornavano la scena del teatro di Berga a Vicenza. A questi cicli di sculture, noti da tempo, si sono aggiunti una statua acefala di Esculapio, da Feltre, e alcuni ritratti da Altino che, pur provenienti dalle necropoli, rientrano certamente nel filone dell’arte colta. Della bronzistica è rimasta praticamente solo la minore: anche in questo campo spicca Verona, probabile centro produttore, con esemplari numerosi e di gran pregio; notevoli per numero e per qualità anche i bronzetti di Concordia e qualche altro da Oderzo e da Este. Si può affermare che l’evoluzione dei modelli urbani si sia propagata nel Veneto senza ritardi sensibili: così nell’architettura monumentale, nella scultura, nel mosaico, nella pittura (per quanto ne rimane), nella stessa produzione d’uso domestico. Per le arti minori è importante la documentazione di Adria, sia per i vetri, molti d’importazione, sia per le ceramiche fini da mensa, di fabbrica locale, con marchio. Singolarmente scarsi sono vasellame d’argento e oreficerie.
Una testimonianza molto ampia e varia della produzione artigianale lapidea è data dai reperti delle necropoli, concentrati soprattutto nel I sec. d.C. Statue, stele, segnacoli funerari, dalle tipologie spesso specifiche delle singole aree, sono indice di un artigianato locale di buon livello, accomunato da caratteri stilistici evidenti: linearità, rigidezza e durezza di forme con cui viene tradotto, semplificato, il modello colto al quale queste opere si ispirano. Questa produzione, che quasi sempre dal punto di vista formale è ben inferiore a quella ufficiale, ha una spontaneità e una freschezza di espressione che non fa rimpiangere la tradizionale classicista. Non trascurabile è anche la persistenza, più che di stile, di tipologie etrusco-italiche; unite all’onomastica delle iscrizioni funerarie le sculture funerarie forniscono, ad esempio ad Altino, un dato storico significativo sulla presenza di genti centro-italiche nel Veneto romano.
Altra importante influenza esterna, non mediata da Roma, è quella dell’Oriente mediterraneo, testimoniata sia da vetri e ceramiche di importazione di pregio, sia da tipologie di monumenti funerari, quali i grandi monumenti a edicola e gli altari cilindrici, questi diffusi soprattutto ad Altino ma presenti anche in altre necropoli venete. Fin da età arcaica, come mostrano l’insediamento di Frattesina e il successivo centro di Adria, la costa dell’Adriatico settentrionale si rivelò un insostituibile punto di transito tra l’area padana ed europea e i centri di produzione del Mediterraneo orientale. Questa funzione non solo di scambi commerciali ma anche di reciproche influenze culturali, continuate in età romana dalla stessa Adria, da Altino, Concordia e Aquileia, fu assunta poi da Venezia già nell’età altomedievale.
Per notizie su scavi e rinvenimenti in particolare: AVen e QuadAVen.
In generale:
Il Veneto in età romana, I-II, Verona 1987.
G. Fogolari - A.L. Prosdocimi, I Veneti antichi. Lingua e cultura, Padova 1988.
B.M. Scarfì, s.v. Venetia et Histria, in EAA, II Suppl. 1971-1994, V, 1997, pp. 988-96 (con amplia bibl.).
di Monica Verzár Bass
Le prime testimonianze della presenza dell’uomo nell’attuale territorio della regione Friuli Venezia Giulia risalgono al Paleolitico superiore: resti più consistenti sono stati trovati nelle grotte del Carso, mentre i rinvenimenti documentano una frequentazione durante il Mesolitico nella valle del Natisone. Tuttavia la presenza umana si fa più consistente nel Neoeneolitico, documentata da reperti litici e da una produzione di ceramica a decorazione impressa con il cosiddetto “vaso a bocca quadrata” (Azzano Decimo). È da notare che la produzione litica continua fino all’età del Bronzo, alla quale si riferiscono ritrovamenti in strato (San Vito al Tagliamento e Ponte San Quirino).
All’età del Bronzo Antico sono attribuite le prime attestazioni di abitati (Ponte San Quirino) con le tipiche forme di centri fortificati (XV-XIV sec. a.C.). Con la “cultura dei castellieri” si diffondono anche le tombe a tumulo (Selvis di Remanzacco), oggi quasi del tutto sparite. Già al Bronzo Medio si può datare la prima apparizione di armi, evidentemente segno di un grande cambiamento, di uno sviluppo socioeconomico che è noto soprattutto attraverso i ripostigli (Castions di Strada, Muscoli). In effetti, tra Bronzo Medio e Tardo, intorno al 1000 a.C., secondo alcuni studiosi si noterebbe una cesura, poco prima quindi della grande ripresa dell’età del Bronzo Finale, con luoghi di ritrovamento sempre più fitti e il generale diffondersi della “cultura dei Castellieri” sia in altura sia in zona pianeggiante: è il momento in cui inizia la formazione delle etnie. Il Friuli diventa così quello che è stato definito il “ponte tra Occidente e Oriente”, ma in un certo senso anche tra l’Europa centro-settentrionale e il Mediterraneo, in particolare le coste adriatiche.
Grande importanza dovettero avere le vie dell’ambra e quella del sale: quest’ultima collegava l’importante centro di Hallstatt, nell’attuale Austria, con la regione nord-adriatica attraverso il passo del Monte Croce Carnico. L’importanza di questo commercio può essere misurata sulla base di alcuni ritrovamenti straordinari, come oggetti d’oro etruschi (Sedegliano) o due vasi dauni provenienti dalla Puglia (Pizzughi) rinvenuti nei castellieri.
Per quanto riguarda i castellieri, si distinguono essenzialmente due aree: la prima, quella dell’area carsica tra Livenza e Isonzo, si può considerare come cerniera tra la cultura del Veneto euganeo e gli abitati fortificati della Venezia Giulia e dell’Istria. Qui, vari castellieri formano sistemi di difesa, principalmente nella valle del Natisone, nella valle dell’Isonzo e di Doberdò; inoltre sono state osservate piccole linee difensive nelle zone prealpine e in pianura. La seconda area è più a nord, nell’alto Friuli: sono noti abitati fortificati più piccoli rispetto al tipo carsico, con muri a secco. I castellieri veri e propri vengono distinti in abitati su rialzo naturale (di origine alluvionale o morenica) o su terrapieno artificiale; sono inoltre collocati nei pressi di corsi d’acqua (Gradisca di Spilimbergo sulla destra del Tagliamento, Rive d’Arcano presso San Daniele, Castions di Strada, San Giovanni di Casarsa, Ponte San Quirino). Posizioni particolarmente ricercate dovevano essere quelle vicine alla confluenza di due fiumi. L’aspetto esteriore dei castellieri varia da forme circolari a forme romboidali o rettangolari. Pochi esempi sono ora conservati in pianura (come anche poche tombe a tumulo), a causa di profonde alterazioni nel terreno dovute a operazioni di riordino fondiario: tra quelli noti si possono menzionare Sedegliano, Savalons e Balleriano. Il territorio di ogni castelliere era legato all’economia principale, che doveva essere quella della pastorizia, mentre l’area interna dei castellieri stessi era in genere occupata dalle strutture d’un villaggio; in qualche caso sembra però che si possa riconoscere una pura funzione di rifugio.
Uno dei castellieri più importanti e meglio indagati è quello di Pozzuolo del Friuli: i suoi più antichi reperti fanno pensare a una frequentazione del sito fin dall’età del Bronzo, anche se la cinta può essere datata tra Bronzo Finale ed età del Ferro. II castelliere di Pozzuolo costituisce, al tempo stesso, anche un esempio di insediamento che si è protratto con continuità fino a epoca romana, come attesta un gruppo di tombe appartenenti con molta probabilità a una villa rustica. Vi sono stati scavati i fondi di capanne delle abitazioni, impianti artigianali e magazzini per derrate alimentari. Probabilmente vi possono già essere distinte aree di specializzazione a partire dal VII sec. a.C.. Notevoli i ritrovamenti di armi e di un’iscrizione preromana (paleoveneta?). I periodi più fiorenti sono l’VIII-VI secolo (Atestino II) e il V-IV sec. a.C. (Atestino III), quest’ultimo definito come koinè adriatica. Parlando di koinè è importante sottolineare l’esistenza di elementi sempre più consistenti riferibili alla cultura venetica mentre risultano ancora assai sporadiche le tracce della presenza celtica. Rarissime sono infatti le testimonianze che si possono attualmente assegnare all’influsso celtico: oltre ad alcuni reperti da Fagagna, da San Daniele e a un torques da San Canziano del Carso, va segnalato il recupero a Lauco (Carnia) di tre cuspidi di lancia e di una spada in ferro di tipo La Tène, databili agli inizi del II sec. a.C.
A partire dal IV sec. a.C. si assiste a un graduale spopolamento dell’area friulana, contemporaneamente ai primi contatti con i Romani. Tale decadenza è stata osservata nel castelliere di Pozzuolo del Friuli, dove tuttavia c’è continuità di vita – a livello di sussistenza – fino all’annessione al territorio di Aquileia, quando l’area è caratterizzata dalla presenza di una villa rustica. Più frequente che in pianura era la continuità abitativa nei centri fortificati in montagna, in aree dove la romanizzazione fu molto lenta (non prima del I sec. d.C.) come nel caso di Invillino-Ibligo, Cesclans, Ragogna, centri che rifiorirono dal Basso Impero in poi.
Con la colonizzazione romana, che si apre con la fondazione di Aquileia nell’estremità orientale della laguna nord-adriatica (181 a.C.), si avvia una trasformazione nell’organizzazione del territorio. Il grande territorio aquileiese si sviluppa verso il Norico: conosciamo in particolare due vie principali che portano al Regnum Noricum, ma si ha notizia anche di una via piuttosto antica verso il Carso triestino che raggiungeva con un percorso terrestre la vicina Istria (una testimonianza archeologica ed epigrafica del periodo repubblicano si è rinvenuta a Prepotto, tra i resti attribuibili a una stazione doganale). Evidentemente, le vie più antiche provenivano da ovest, dalla vicina area veneta: una prima via consolare costruita da Emilio Lepido avrebbe collegato il territorio romano con la prima colonia in area friulana fin dal 170 a.C. o poco prima; archeologicamente attestate sono però soltanto la via Postumia, costruita nel 148 a.C., e la via Annia tracciata secondo alcuni nel 153 a.C., secondo altri nel 131 a.C. Tuttavia, non sono state rinvenute testimonianze archeologiche riferibili a centri minori, stationes, ville rustiche o altre strutture rurali del II o della prima metà del I sec. a.C.; invece possono essere segnalati ritrovamenti di quel periodo non lontani da Aquileia, appartenenti certamente a strutture extraurbane interpretabili come santuari (ad es., alle foci del Timavo, forse nell’adiacente località di Monastero, oppure presso Aquileia). Evidentemente, al momento della colonizzazione, la regione doveva essere caratterizzata da boschi estesi e da aree incolte adatte per la pastorizia, anche se non mancano studiosi che pensano a una notevole attività agricola nei territori di alcuni castellieri già in età protostorica. Ne sarebbero una prova i cosiddetti “vasi-silos” per la conservazione di derrate alimentari, trovati, ad esempio, a Pozzuolo del Friuli. Ma in realtà bisogna pensare piuttosto a un sistema di agricoltura arcaico su spazi molto limitati; gran parte dell’area conquistata dai Romani doveva essere costituita da terreno ancora incolto. Da un lato sembra probabile che la conversione da un sistema economico basato sulla pastorizia a uno basato sull’agricoltura dovesse essere lenta: dall’altro lato, l’economia pastorale è rimasta radicata nell’area altoadriatica fino al periodo tardoantico, come documentano le testimonianze letterarie, epigrafiche e archeologiche.
Le prime ville rustiche appaiono quindi soltanto con la colonizzazione cesariana e triumvirale (Iulia Concordia, Forum Iulii, Iulium Carnicum, Tergeste) e con le assegnazioni viritane di Filippi e poi di Azio. Nello stesso periodo viene elaborato un caratteristico tipo di anfora, nota come Dressel 6 (cd. “istriana”), prodotta nelle fornaci del territorio aquileiese e usata per il commercio del vino, mentre la stessa anfora sulla costa istriana doveva servire prevalentemente per il trasporto dell’olio. Il recente ritrovamento di una fornace contenente questo tipo di anfora a Locavaz, nella zona orientale del territorio di Aquileia, ha permesso infine di localizzare la produzione anche in area friulana. Contemporaneamente si sviluppò tutta una serie di centri industriali e artigianali, in cui veniva prodotta su larga scala la terra sigillata nord-italica, che sostituiva la precedente ceramica a vernice nera prodotta localmente e imitava la terra sigillata dell’Italia centrale. Accanto venivano però prodotti anche dei tipi influenzati da modelli ellenistico-orientali.
Per quanto riguarda le tipologie di ville presenti nella regione, esse possono essere divise grosso modo in due tipi: le ville dell’entroterra, delle quali rimangono ora poche tracce a causa del riassetto fondiario e dei conseguenti massicci lavori di livellamento, e le villae maritimae sulla costa rocciosa del litorale giuliano. Le prime attestazioni sembrano databili al terzo o quarto venticinquennio del I sec. a.C. anche per le sedi più lontane dalle città, come le ville di Vidulis e di Coseano; ma i rinvenimenti archeologici mostrano una certa consistenza soltanto a partire dall’età giulio-claudia.
Nel corso del II e III sec. d.C. la vita nelle fattorie sembra impoverita. Mancano anfore e ceramica fine d’importazione e, in generale, suppellettili di lusso; ma l’assenza di indizi di abbandono nei siti scavati e la presenza di ceramica comune attribuibile a questo periodo critico fanno pensare, più che a un’interruzione a causa della crisi economica in Italia, a una continuità d’uso probabilmente con una gestione (e forse anche produzione) diversa, finalizzata per lo più all’autoconsumo. Finalmente, al termine del III e nei primi anni del IV secolo sembra che facciano ritorno nelle ville rustiche i ricchi padroni che se ne erano allontanati: nelle ville stesse, infatti, sono attestate fasi di ristrutturazione, con la creazione di nuove parti residenziali absidate e mosaicate. Per quanto riguarda i reperti, si nota una massiccia importazione di anfore e ceramica fine dai grossi centri di produzione africani e una loro diffusione fino ai siti più lontani.
Le villae maritimae invece sorgono immediatamente come vere e proprie ville di lusso. Anch’esse hanno subito delle trasformazioni già verso la fine del I sec. d.C., come dimostrano soprattutto gli esempi istriani. I porti collegati con le splendide ville istriane, da Cassiodoro (Var., XII, 2) confrontate con quelle di Baia, indicano che vi si svolgeva anche un’attività commerciale. Almeno a tale uso fa pensare una barca piuttosto grande trovata nel porto di una villa a Monfalcone. In effetti, oltre agli allevamenti ittici, vi si trovano anche torculari, depositi di anfore, grandi magazzini e fulloniche. La villa più ricca finora nota della costa giuliana si trova poco a nord di Trieste (Barcola). La villa, in cui si sono riconosciute tre principali fasi edilizie, comprendeva due imponenti corpi, uno dei quali dotato di un grande emiciclo rivolto verso il mare. Vi sono stati recuperati numerosi mosaici (in gran parte risalenti alla fine del I sec. a.C.) e una statua di Diadumeno, opera di una bottega eccellente, forse urbana. Alcuni pavimenti sono stati rifatti in età neroniana. Di particolare interesse è una villa vicino al mare, che non appartiene però alla tipologia della villa maritima, nei pressi delle cave di calcare ad Aurisina, sfruttate soprattutto nel I sec. a.C. I reperti rivelano un livello di vita molto alto e collocano la frequentazione dalla metà del I sec. a.C. fino al periodo tiberiano, quando la villa stessa venne, come sembra, abbandonata definitivamente. La sua funzione è stata vista in rapporto con l’estrazione della pietra: anzi, era questa probabilmente la residenza del conductor delle cave.
Una funzione particolare poteva avere anche un complesso architettonico presso l’acquedotto Randaccio a Duino, dove l’installazione di grandi terme (con vicino un acquedotto) fa pensare che forse non si trattava di una semplice villa rustica. Il complesso è stato interpretato come mansio con terme, forse in rapporto con le vicine foci del Timavo. Una situazione simile si ha probabilmente anche nel caso delle terme di Monfalcone, al margine sud-est del Lisert, che potrebbero essere state anche parte di un santuario extraurbano. Sicuramente, invece, era un luogo di culto di notevole importanza il santuario alle foci del Timavo: luogo legato al mito di Diomede, dove venivano venerate più divinità, tra cui certamente il dio fluviale detto appunto Timavo, Saturno e Spes Augusta. Da una notizia di Plinio (Nat. hist., III, 129) sappiamo inoltre che qui fu posta una statua del console T. Sempronio Tuditano, trionfatore sui Carni (129 a.C.). Allo stesso personaggio si riferisce inoltre la base di un monumento rinvenuta a Duino: la base sembra però troppo grande per una sola statua. Questo problema si pone in relazione con la discussione che si è sviluppata attorno a un altro prezioso documento, l’iscrizione aquileiese di Tuditano, il cosiddetto Pseudoelogio, dove si accenna a qualche opera eretta dal console al Timavo.
Per quanto riguarda l’urbanistica, va osservato che non ci sono modelli comuni per le varie città della regione. Le situazioni delle quattro fondazioni romane nel territorio dell’attuale Friuli-Venezia Giulia, in effetti, sono molto diverse l’una dall’altra. Evidentemente una colonia latina della prima metà del II sec. a.C. come Aquileia si distingue nettamente da una piccola colonia (o da un municipio) di età cesariana come Trieste, sorta presumibilmente sul luogo di un castelliere, o da centri minori come quello di Cividale (Forum Iulii), al margine della pianura friulana, e quello di Zuglio (Iulium Carnicum), la città più settentrionale dell’Italia, nelle Alpi Carniche. Recenti indagini archeologiche condotte in quest’ultimo centro hanno consentito di acquisire nuovi dati sia sulle fasi del foro in età imperiale sia sull’assetto dell’area in età tardorepubblicana (fase del vicus) e in epoca tardoantica-altomedievale, quando il complesso perse le sue funzioni. Al di là di un confronto piuttosto generico tra il foro di Aquileia (fase severiana) e quello di Zuglio, ambedue circondati da tabernae e con la basilica che occupa il lato corto meridionale del foro, non è possibile vedere rapporti urbanistici o semplicemente di forme architettoniche tra le varie città, anche a causa della scarsità dei dati di scavo.
Pochi resti insediativi e architettonici si segnalano nei centri minori, mentre alcuni ritrovamenti sono attribuiti all’insediamento militare noto con l’indicazione ad Tricesimum, presso l’attuale Gemona, e a una situazione doganale sulla strada per Virunum (nel Norico) all’ingresso del Val Canale (attuale Camporosso), identificata ora con la mansio di Larice ora con la statio Bilachiniensis. La scarsità di resti monumentali viene peraltro compensata da un cospicuo numero di stele funerarie di grandi dimensioni che rivelano l’esistenza di un gruppo di committenti facoltosi, situazione confrontabile – ma più modesta – con i ricchi resti della necropoli di Õempeter nella Pannonia occidentale, insediamento forse doganale sulla via dell’ambra.
Nel periodo tardoantico, con la rifioritura delle ville rustiche legate ovviamente a potentiores e grandi proprietà terriere, si diffondono anche i luoghi del culto cristiano. Molte delle sale absidate nelle ville sono state interpretate – analogamente a quelle nelle domus aquileiesi – come oratori e in generale sale adibite al culto cristiano. Il fenomeno si diffonde in modo particolare attorno ai grandi centri come Aquileia, il castrum di Grado, Trieste, Cividale (e naturalmente la vicina Iulia Concordia) ed è da vedere in rapporto con essi (di particolare interesse la basilica martiriale che sorge all’interno di una grande villa di proprietà dei Canti, in una località chiamata Aquae Gradatae, attuale San Canzian d’Isonzo). La diffusione del cristianesimo in tutto il territorio friulano, rilevabile attraverso numerosi ritrovamenti archeologici, segue un ritmo molto veloce; la mappa delle pievi in regione, particolarmente fitta già nel V sec. d.C., documenta una distribuzione capillare fino agli insediamenti più lontani.
È opinione comune che i frequenti centri fortificati con annesse strutture architettoniche per il culto cristiano abbiano le loro origini nelle strutture vicaniche. La maggior parte dei castella tardoantichi sorge però su una struttura prediale anche là dove il nucleo abitato, per motivi di sicurezza, veniva trasferito su una vicina collina (ad. es., le ville di Vidulis e Coseano furono abbandonate e spostate a San Daniele). Un discorso a parte va fatto per i castella distribuiti lungo il limes tardoantico. Essi sono collocati per lo più in siti di cui si conoscono anche resti protostorici; la loro funzione doveva essere prevalentemente difensiva.
Romanità del Trentino e zone limitrofe, Rovereto 1978-79.
R. Lunz, Archäologie Südtirols, Bozen 1981.
G. Ciurletti (ed.), II territorio trentino in età romana, Trento 1985.
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E. Cavada, L’Alto Garda nell’età romana, in Archeologia dell’Alto Garda, II, Riva del Garda 1988.
Id., Fiemme prima: le tappe della ricerca archeologica, in D. Magugliani (ed.), Fiemme, montagna che scompare, Milano 1992, pp. 13-36.
di Robert Matijašić
La penisola istriana, tra la regione di Trieste a ovest e il Quarnero a est, protetta a nord dalla catena montuosa dei Monti della Vena (Cicarija), era abitata già nel Paleolitico (San Daniele/Sandalja presso Pola), nel Neolitico (Pradisel, Leme), nell’età del Bronzo (Monte Codogno, Monte Orsino) e del Ferro (Nesazio, Pizzughi, Pola), quando già si può parlare degli Histri, la popolazione preromana di formazione culturale illirico-venetica. La cultura materiale dimostra il mantenimento di contatti culturali ed economici con le regioni dell’Adriatico occidentale (Venetia, Apulia), con l’Etruria, con la Magna Grecia e la Grecia, con l’arco alpino orientale (arte delle situle). Proviene da Nesazio un gruppo di sculture a tutto tondo (figure di cavalli, cavalieri, atleti e divinità) e di rilievi geometrici su lastre (spirali, meandri, ecc.) che illustra probabilmente il riflesso, attraverso la penisola italica, dell’arte arcaica greca (VI-V sec. a.C.).
Conquistata nel 177 a.C., l’Istria venne sottoposta a lenta e graduale romanizzazione dopo la fondazione delle colonie di Trieste (Tergeste, 54 a.C.) e Pola (Iulia Pola, 46-42 a.C.), dei municipi di Parenzo (Parentium, 30 a.C.; poi colonia di Tiberio) e Nesazio (Nesactium, presso Pola, municipio dei Flavi). Una parte della penisola, fino al fiume Arsa, venne inclusa nell’augustea regio X, mentre la zona orientale faceva parte della provincia Dalmatia, con i municipi di Alvona e Flanona. La viabilità terrestre, conosciuta nelle linee generali, ma non nei dettagli, è costituita da due rotte principali: la cosiddetta “via Flavia” (Aquileia- Trieste-Parenzo-Pola) e la strada orientale (da Pola a Nesazio e successivamente lungo la costa orientale attraverso il passo del Monte Maggiore fino all’odierna Rijeka/Fiume). La maggior parte dei traffici si svolgeva però lungo le rotte marittime attraverso gli scali principali (Pola, Parenzo) e i numerosi porticcioli nelle insenature della costa.
La zona dell’Istria che faceva parte dell’Italia venne divisa, entro i limiti dei territori delle colonie di Pola e Parenzo, in lotti rettangolari (centuriatio) i quali rappresentavano la base per il sistema prediale con possedimenti medio-grandi. Nell’Istria sono quasi 300 i siti archeologici del tipo villa rustica. Ne sono stati esplorati una ventina e su questa base si distinguono tre tipi di edifici: ville lussuose, palazzi con funzione prevalentemente di villeggiatura; ville produttive con vani di abitazione, edifici cioè con funzioni al tempo stesso di produzione e di svago; edifici di carattere esclusivamente produttivo. A parte un folto gruppo di tali località esplorate fino alla fine dell’ultima guerra, illustrano questi edifici rurali le ville di Sorna presso Parenzo (villa con vani disposti attorno a due cortili, con mosaici e affreschi, e con terme annesse, situata sull’istmo di una penisola), Katoro presso Umago (villa con mosaici), Cervera Porto presso Parenzo (villa produttiva con impianto di fornace e macchinari per la produzione dell’olio d’oliva), Barbariga presso Fasana (impianto produttivo per la produzione dell’olio d’oliva), il cosiddetto castrum sull’isola di Brijuni (Brioni; villa produttiva con peristilio, sulla quale sorse nella Tarda Antichità un insediamento fortificato).
A parte le necropoli della colonia di Pola, molto ben documentate, sono state recentemente esplorate due necropoli a Buzet (Pinguente) e una necropoli presso Kringa (Corridico), con tombe a incinerazione, e poi alcune tombe singole (Cavrano, Sikici, Vareski, Carpignano) d’epoca classica (incinerazione) e tardoantica (inumazione, tombe a pozzetto e sotto tumuli di pietre). Una parte di una necropoli tardoantica è stata rinvenuta nella località Burle presso Medolino, con quasi 40 tombe a inumazione. Abbastanza rari sono in Istria i rinvenimenti di tombe con monumenti funerari in situ. Alcuni rinvenimenti nei dintorni di Pola illustrano l’architettura funeraria monumentale (mausolei), mentre molto più numerose sono le tombe singole con iscrizioni funerarie. Alcuni monumenti d’arte figurativa e iscrizioni sono stati rinvenuti, riutilizzati o senza il contesto originario.
I rinvenimenti di monumenti funerari, epigrafi o iscrizioni con rilievi decorativi, sono numerosi in prossimità delle due città principali (Pola e Parenzo), ma meno attestati attorno agli abitati urbani minori, rari nelle zone agrarie e in questi casi solitamente sparsi in corrispondenza con la fisionomia del paesaggio nell’antichità. Da notare la densità di un gruppo di monumenti romani (iscrizioni e rilievi) nella zona interna dell’Istria (Pinguente, Roc/Rozzo, Draguc/Draguccio, Pazin/Pisino), fuori del territorio delle due colonie, dove traspare nelle iscrizioni una sopravvivenza dell’onomastica autoctona preromana (Abalicus, Laevicus, Moliavis, Turicus, Hospita, Mocolica, Ovia, Pepa, Volginia). Nello stesso tempo sono documentate, in un gruppo consistente di iscrizioni votive rinvenute sia nella parte italica sia in quella liburnica dell’Istria, divinità dal nome preromano (Boria, Histria, Ika, Iria, Iutossica, Nebres, Melosocus, Sentona, Trita).
La cultura materiale di età romana indica una chiara appartenenza dell’Istria alla sfera economica norditalica: le anfore olearie prodotte e smerciate da questa regione appartengono all’area altoadriatica e padana; la ceramica comune veniva importata quasi tutta dall’Italia (Campana B, terra sigillata, terra nigra, lucerne), mentre era quasi senza importanza la produzione locale; il vetro veniva importato dalla regione di Aquileia, benché si possa ipotizzare l’esistenza di officine anche in Istria meridionale. In Istria esistevano delle cave di pietra (calcare istriano) usate per l’estrazione di materiale da costruzione, prevalentemente per uso locale, ma impiegato anche nelle regioni limitrofe (Veneto, Emilia). La ricchezza economica dell’Istria si basava sulla produzione dell’olio di oliva (famoso per la qualità e la quantità: Plin., Nat. hist., XI, 8), del vino, del pesce e dei frutti di mare. Nelle regioni interne, dedite prevalentemente alla pastorizia, si produceva la lana.
La struttura sociale ricostruibile dall’analisi complessiva delle fonti storiche e archeologiche indica una romanizzazione, graduale e lenta, delle popolazioni autoctone a opera dei proprietari terrieri che, attivi nelle città, controllavano economicamente parte del territorio con il sistema delle clientele: sono numerose le iscrizioni di liberti di grandi famiglie italiche nelle zone rurali dell’Istria (Calpurni, Laecani, Settidi, ecc.). Non sono rare le testimonianze epigrafiche di servi e coloni rurali, indice del carattere prevalentemente agrario della penisola. Per la Tarda Antichità le fonti indicano una graduale restrizione delle attività economiche: in diversi ambiti si nota una regressione verso un’autarchia economica e culturale, ma la vita continua. Risparmiata dalle invasioni barbariche, l’Istria entra nella fase di transizione verso il Medioevo.
R. Matijašić, Roman Rural Architecture in the Territory of Colonia Iulia Pola, in AJA, 86 (1982), pp. 53-64.
Id., s.v.Venetia et Histria, in EAA, II Suppl. 1971-1994, V, 1997, pp. 1000-1002 (con bibl.).