L'italiano nelle regioni
Un indicatore fondamentale dello stato di aggregazione delle regioni italiane è costituito dal grado di integrazione linguistica, ovvero dal ‘coefficiente di penetrazione’ dell’italiano nel tessuto linguistico di regioni storicamente dialettali, dopo 150 anni dal raggiungimento dell’unità di quell’Italia che Alessandro Manzoni (1785-1873) proclamava/auspicava «una d’arme, di lingua, d’altare, di memoria, di sangue, di cor» (“Marzo 1821”, 1821), e a mezzo secolo dall’istituzione delle regioni.
Non si dispone di dati certi e aggiornati sulla presenza reale dell’italiano nelle regioni, ma di indagini a campione e di indicatori di vario tipo, il cui esame integrato, arricchito dai dati di conoscenza sulle specificità storiche, linguistiche e sociolinguistiche di ogni area, può dare risposte articolate e soddisfacenti a tale domanda.
L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) conduce periodicamente indagini multiscopo su un campione rappresentativo della società italiana, per rilevare i comportamenti e gli aspetti più importanti della vita quotidiana.
L’indagine più recente risale al 2007 (dati 2006) ed è stata condotta su un ampio campione, composto da 24.000 famiglie, per un totale di 54.000 italiani distribuiti su 853 comuni, di varie dimensioni (ISTAT 2007). Uno dei settori del questionario riguarda l’uso esclusivo o alternato della lingua italiana, del dialetto o di un’altra lingua sia in seno alla propria famiglia sia nei rapporti con gli amici e con gli estranei. La lettura di questi dati offre più di uno spunto di riflessione per un’analisi correta della reale diffusione della lingua italiana negli usi linguistici effettivi, oggi. In altre parole, diventa un indicatore abbastanza attendibile del ‘coefficiente di penetrazione’ della lingua all’interno delle diverse regioni italiane.
È un dato importante perché, dopo un secolo e mezzo di storia unitaria, caratterizzata senza soluzione di continuità da una forte e determinata politica di italianizzazione generalizzata attraverso tutti i canali a disposizione – dalla scuola al cinema, alla stampa, alla televisione, alla comunicazione digitale e, da ultimo, multicanale – ci si aspetta di vedere certificato un uso, se non generalizzato, almeno maggioritario dell’italiano, in modo pressoché omogeneo nelle diverse regioni italiane. Questa ipotesi nei rilevamenti dell’ISTAT non viene verificata; anzi, a ben guardare, si riscontra una differenziazione areale decisamente significativa.
I ‘contesti relazionali’ valutati nelle indagini ISTAT sono tre: in famiglia, con amici, con estranei. Il più interessante è il primo: infatti se nel rapporto con gli estranei – e, in parte, con gli amici – la scelta del codice è condizionata da fattori esterni, come l’opportunità di utilizzare l’italiano come ‘lingua franca’ e la diffusa tendenza a offrire un’immagine di sé schiacciata sull’italofonia, nei rapporti interni alla famiglia il comportamento è spontaneo, o quanto meno più libero da condizionamenti esterni.
Complessivamente il 45,5% dell’intero campione dichiara di parlare in famiglia solo o prevalentemente italiano, e solo il 16% afferma di usare il dialetto. Il rapporto è quasi di 3:1, e di per sé sembra indicare un grado avanzato di italianizzazione.
In realtà il 45,5% di italofonia dichiarata risulta dalla media fra regioni notevolmente differenziate, all’interno di una ‘forchetta’, che va da un minimo del 20,4% della Calabria a un massimo del 68,5% della Liguria, se non si vuole considerare la Toscana, con il suo 83,9% (fig. 1).
A nord-ovest Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Lombardia si attestano in un intervallo tra 55-70% di italofonia dichiarata, mentre a nord-est il Trentino e il Veneto non raggiungono il 30%. Il Centro, a eccezione della Toscana, presenta situazioni variegate: Marche e Umbria sono intorno al 40%, Emilia-Romagna e Lazio fra il 55-60%. A sud e nelle isole solo la Sardegna supera la media nazionale, mentre sono di segno opposto i comportamenti della Campania – dove la percentuale degli italofoni supera di poco il 25% – e della Calabria, ferma al 20%. Sono perfettamente simmetrici i dati della dialettofonia: a nord-ovest Piemonte, Valle d’Aosta e Lombardia restano sotto la soglia del 10%, mentre il Veneto registra la percentuale di gran lunga più alta di tutte le regioni d’Italia, sfiorando il 40%. Il Centro si aggira intorno al 10-15%; nel Sud e nelle isole la Sardegna ha una percentuale irrisoria, mentre le altre regioni si collocano fra il 25 e il 30%.
Alcune regioni presentano però fisionomie peculiari, da considerare con attenzione in sede di commento dei dati. In Trentino-Alto Adige domina un terzo idioma, il tedesco, usato in famiglia da un parlante su tre (ma nella provincia di Bolzano dal 65,5%): i dati sono dunque utilizzabili solo con molta cautela. In Friuli Venezia Giulia è molto diffusa la denominazione di lingua per l’idioma locale: il 10,7% dice di usare il ‘dialetto’, ma il 30,9% degli intervistati dichiara di usare ‘un’altra lingua’. Si tratta in entrambi i casi del friulano: basta pensare che nel 2000 un’altra indagine ISTAT (2002) attribuiva al 54,4% la conoscenza del friulano. Anche in questo caso i dati della dialettofonia non sono dunque direttamente confrontabili con quelli delle altre regioni. Lo stesso si può dire per la Sardegna, dove il 14,7% dichiara di usare ‘un’altra lingua’, cioè il sardo. Del resto il dato assolutamente inverosimile che riguarda l’uso del dialetto in famiglia (1,9%) conferma questa lettura. Minoranze linguistiche sono presenti in varie regioni: le percentuali più significative sono quelle dell’albanese in Molise (11%), Basilicata (6,3%), Calabria (2,2%), del franco-provenzale in Valle d’Aosta (17,7%), del ladino in Trentino-Alto Adige (7,7%, con una punta del 12% a Bolzano), del grico in Puglia (1,2%). Le percentuali inusualmente basse della Toscana e del Lazio si spiegano con le note ragioni storiche, che consentono ai parlanti di identificare la loro parlata materna con l’italiano, o comunque di non attribuirle l’etichetta di ‘dialetto’: il 2,8% e il 6,6% della colonna ‘dialetto’ sono da attribuire, rispettivamente, al vernacolo e alla varietà ‘bassa’ del romanesco (T. De Mauro, L. Lorenzetti, Dialetti e lingue del Lazio, in Storia delle regioni dall’Unità ad oggi, 10° vol., Il Lazio, a cura di A. Caracciolo, 1991, pp. 306-64). In ogni caso il rapporto che intercorre fra i codici del repertorio è completamente diverso da quello di tutte le altre regioni, e dunque anche in questo caso i dati richiedono letture e interpretazioni specifiche. Le percentuali vanno comunque considerate con larga approssimazione, a causa di fenomeni distorsivi oggettivi (indice di penetrazione di ogni codice, attivazione di importanti iniziative antidialettali o filodialettali, azione della scuola e di altre agenzie di socializzazione, caratteri linguistici e ideologie dei mass media ecc.), conversazionali (spazio e tempo dell’intervista, rapporto fra intervistatore e intervistato, tendenza dell’intervistato a presentare un’immagine di sé convergente, cioè in ipotesi gradita all’interlocutore, o divergente, ecc.) e soggettivi (livello di sensibilità metalinguistica, pregiudizi, livello di scolarità, grado di collaborazione all’intervista e altri elementi ancora).
Se si intende tenere conto di queste – e di altre – riserve di carattere metodologico-fattuale, nel delineare il quadro dei rapporti fra dialetto e lingua nelle regioni d’Italia è bene prudenzialmente limitarsi a considerazioni generali, su cifre significative. Per es., si può osservare che complessivamente, per quanto riguarda la dialettofonia, superano la media nazionale di almeno 5 punti percentuali una regione nordorientale, il Veneto, e 5 regioni meridionali: il Molise, la Campania, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia. Sono queste le regioni in cui più si conserva l’uso del dialetto in famiglia. Simmetricamente, le regioni in cui l’uso del dialetto è di almeno 5 punti inferiore alla media nazionale sono tutte nell’Italia centro-settentrionale: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lazio.
Il quadro generale, al netto delle riserve precedentemente accennate, è dunque quello di una concentrazione del dialetto nel Mezzogiorno e soprattutto nel Veneto, e di un’avanzata italianizzazione nel Nord-Ovest (dove il dialetto in famiglia è usato più o meno da un decimo della popolazione) e in Sardegna, con presenze significative di parlate alloglotte in molte regioni.
Per avere un’idea delle linee di tendenza attualmente operanti si possono paragonare questi dati a quelli raccolti nel 2000 (ISTAT 2002) con la stessa metodologia e su un campione simile. Regione per regione, fra l’istantanea del 2000 e quella del 2006 si riscontrano le seguenti variazioni nell’uso del dialetto e dell’italiano in famiglia (fig. 2).
È molto evidente la generale simmetria e complementarità delle due tendenze: nell’intervallo considerato (2000-06) aumenta l’uso dell’italiano e diminuisce quello del dialetto. Si possono fare alcune notazioni interessanti. L’abbandono del dialetto è più rapido e consistente nelle regioni meridionali tradizionalmente più dialettofone: Calabria, Sicilia e Campania, oltre che nel Friuli. In Sardegna la presenza e l’uso dell’italiano, già a livelli molto elevati, subiscono un ulteriore incremento, arrivando ai livelli delle regioni settentrionali. Il leggero aumento della voce ‘dialetto’ è probabilmente legato alla variazione delle fortune delle ideologie identitarie, molto attive nell’isola. Nel Mezzogiorno le variazioni nell’uso del dialetto in famiglia sembrano muoversi in controtendenza solo in Basilicata, dove l’italiano retrocede e il dialetto avanza in misura significativa. Per quanto riguarda l’italiano, Umbria, Abruzzo e Sardegna registrano un incremento abnorme: da 6 a 10 punti percentuali in soli sei anni. Le spiegazioni possono essere diverse: l’Umbria probabilmente risente di una specie di ‘sindrome dell’Italia mediana’, che porta a classificare il comportamento linguistico di volta in volta come italofono o dialettofono, a causa della vicinanza strutturale fra l’idioma locale e la lingua nazionale. Ancora per l’italiano: in Valle d’Aosta, Lombardia ed Emilia-Romagna si ha un pur lieve decremento dell’uso della lingua nazionale nel contesto familiare. In queste regioni il raffronto fra i dati del 2000 e quelli del 2006 è alterato dall’incremento delle ‘altre lingue’, che sono quelle degli immigrati: rispettivamente +4,2%, +3,7%, +3,7%.
In generale, il fenomeno molto rilevante dell’immigrazione da Paesi di lingue diverse è un fattore di alterazione della dinamica lingua-dialetto, così come si è conosciuta sino alla fine del 20° secolo. Gli effetti sono difficilmente prevedibili.
La diffusione della lingua italiana negli usi quotidiani è dunque un processo tutt’altro che concluso. Nelle diverse regioni d’Italia sono ancora in uso anche i dialetti, in misura varia, con modalità e coefficienti di penetrazione diversi, con una dinamica chiara – verso la generalizzazione dell’italiano – ma difforme, a volte contraddittoria, a volte fortemente rallentata, a volte addirittura incerta.
Le indagini dell’ISTAT forniscono anche un altro dato, che aiuta a far luce sul processo di italianizzazione del repertorio linguistico italiano. Oltre alle due alternative ‘solo o prevalentemente italiano’ e ‘solo o prevalentemente dialetto’ ne era prevista una terza: ‘sia italiano che dialetto’. Il senso di questo item è ambiguo: si può trattare dell’uso alternato di italiano e dialetto (per es.: italiano con gli estranei, dialetto in famiglia; oppure: dialetto per scherzare, italiano per parlare seriamente, o altro ancora) o dell’inserimento di parole o battute in dialetto all’interno di un parlato in italiano (mistilinguismo) o dell’uso di un italiano ricco di interferenze dialettali (italiano regionale). In ogni caso questa voce, percentualmente molto rilevante, registra alcune modalità del comportamento linguistico di una comunità che in molte aree ha a disposizione due codici, e li usa entrambi, alternativamente o sequenzialmente: a volte per incerto possesso di uno dei due (per lo più l’italiano), a volte per sicuro possesso di entrambi (in questi casi il parlante utilizza l’alternanza per aggiungere potenziali di espressività e di forza comunicativa ai suoi messaggi).
Nei rilevamenti del 2006 sono positive le risposte a questo item nel 32,5% dei casi: in altre parole, un italiano su tre dichiara che nel parlare in famiglia attinge sia all’italiano sia al dialetto. Anche in questo caso le differenze fra regione e regione sono numerose: gli estremi della forbice sono costituiti dalla Liguria (17,6%) e dalla Campania (48,1%). Per avere un’idea generale della distribuzione geografica, anche in questo caso vengono prese in considerazione le regioni più fortemente caratterizzate. Superano la media nazionale di almeno 5 punti percentuali tutte le regioni centromeridionali, dall’Umbria alla Sicilia (tranne la Toscana e il Lazio, per le note ragioni), mentre sono di almeno 5 punti inferiori alla media nazionale tutte le regioni settentrionali (tranne il Veneto, tuttora fortemente dialettofono, e il Trentino-Alto Adige, in gran parte germanofono).
Una distribuzione nettissima, che, almeno per quanto riguarda l’ultimo decennio, collega questo comportamento ‘intermedio’ alle regioni a persistenza dialettale. In generale, sembra di poter sostenere che là dove si compie solo attualmente il momento decisivo del passaggio dal dialetto alla lingua si vive una fase intermedia, segnata dal possesso e dall’uso – parallelo o alternato – di entrambi i codici, mentre, là dove l’italianizzazione è più avanzata, questa fase intermedia è in corso di superamento. Il confronto fra i dati del 2000 e quelli del 2006 conferma questa interpretazione, che sembra dunque si possa estendere al primo decennio del 21° secolo.
Il quadro generale è dunque quello di un’Italia tuttora impegnata nella fase del passaggio dal dialetto alla lingua, in modi e con tappe assai diverse da regione a regione. Un’Italia nella quale si sovrappongono e coesistono fasi che tradizionalmente vengono attribuite a momenti cronologicamente molto lontani tra loro: la dialettofonia esclusiva (tutti parlano dialetto in ogni occasione e con tutte le persone), l’italofonia esclusiva, la coesistenza di lingua e dialetto anche con i codici importati nel repertorio italiano dai recenti movimenti migratori.
Perché, a 150 anni dall’Unità d’Italia, si prospetta una situazione così varia? Perché, tanto per citare uno dei molti dati che richiamano l’attenzione, in ben 8 regioni distribuite su tutto il territorio nazionale – Trentino-Alto Adige, Veneto, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia – l’italiano è usato, in famiglia, solo da un parlante su tre?
Per rispondere a queste domande bisogna risalire alle condizioni linguistiche dell’Italia al momento dell’Unità, e seguire le strade del processo di italianizzazione, così come si è sviluppato negli ultimi 150 anni di storia italiana.
Fra i programmi di governo dell’Italia unita uno dei più ambiziosi fu indubbiamente l’unificazione linguistica. Non solo si trattava di rendere omogenee entità territoriali storicamente, culturalmente, linguisticamente molto eterogenee, avvezze a considerarsi reciprocamente estranee, il più delle volte nemiche, ma di avviare un poderoso processo di alfabetizzazione in una nazione che il primo censimento nazionale aveva scoperto per il 78% analfabeta – con sacche di analfabetismo quasi integrale – e di farlo in una lingua che per la maggior parte degli italiani era incomprensibile, e che comunque 9 italiani su 10 non padroneggiavano affatto. I calcoli che è possibile fare sulla base dei dati disponibili oscillano, per il 1861, fra un minimo di 600.000 e un massimo di poco più di 2.000.000 di italofoni su un totale di 25.000.000 di italiani. Situazione drammatica, tanto più se si pensa che nel Mezzogiorno gli analfabeti erano più del 90%, con le donne analfabete che sfioravano il 100%, e se si considera che nel complesso in Italia si registrava la percentuale di analfabeti più grande d’Europa (in Prussia, tanto per fare un paragone, non superavano il 20%).
La Commissione, creata dal ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio (1814-1892) per individuare i mezzi idonei a unificare linguisticamente l’Italia e presieduta da Manzoni, elaborò un programma ambiziosissimo di alfabetizzazione e di italianizzazione forzosa delle masse. Scelta opportuna, non solo per il prestigio di cui Manzoni già godeva come scrittore, ma perché aveva già riflettuto sul problema della lingua in Italia, anche se non nella prospettiva della pianificazione, e aveva mostrato di saper interpretare la questione come un problema sociale, superando l’impostazione letteraria sino ad allora dominante (quando si parlava di lingua si tendeva a identificarla tout court con la lingua degli scrittori). Convinto che la lingua unitaria dovesse essere in primo luogo «il mezzo d’intendersi Italiani con Italiani», alla ricerca di un «istrumento sociale» da utilizzare nel poderoso progetto di alfabetizzazione che vedeva nel futuro degli italiani, Manzoni aveva identificato come varietà più adatta allo scopo la lingua dell’uso vivo di Firenze, com’era realizzata dai fiorentini colti. Una soluzione molto avanzata rispetto alle teorie correnti, perché teneva conto della tradizione colta e della centralità storica di Firenze, ma allo stesso tempo avvicinava la lingua scritta al parlato, preoccupandosi di diffondere non la lingua – scritta – degli intellettuali, ma quella dell’uso vivo.
Forte di questo fondamento teorico, la Commissione Broglio, sotto la guida di Manzoni, propose una serie di provvedimenti che, in una prospettiva fortemente dirigistica, erano finalizzati ad affermare in tutta Italia «la buona lingua e la buona pronunzia». Gli strumenti più importanti erano due: l’allestimento di strumenti di base e di consultazione, da utilizzare come quadro di riferimento – vocabolari del fiorentino vivo e dizionari dialettali, utili per apprendere l’italiano partendo dai mille dialetti d’Italia – e una grandiosa politica di colonizzazione linguistica attraverso la scuola, che aveva il suo fulcro nell’invio di maestri toscani in tutto il resto del Paese e di maestri non toscani a Firenze, per apprendere e poi insegnare la lingua viva.
Il progetto si rivelò generoso, ma velleitario, anche perché finì nelle mani di pedissequi e mediocri esecutori, capaci di progettare anche operazioni insensate, come quella di far sposare mille operaie toscane con altrettanti operai dell’Italia settentrionale e meridionale, ovvero mille operai toscani con altrettante non toscane.
In realtà le condizioni economiche, culturali e sociali della nazione erano troppo arretrate, il sistema scolastico era inefficiente e il divario culturale fra le classi dominanti, che avevano elaborato il progetto, e la grande massa degli italiani, analfabeti e impegnati in una dura lotta per la sopravvivenza, era immenso. La scuola, che sottraeva alle famiglie preziosa forza lavoro, era percepita, soprattutto nelle aree più arretrate del Paese, come un sopruso da parte dello Stato, allo stesso livello della coscrizione obbligatoria, e registrava percentuali elevatissime di evasione dall’obbligo, specialmente nell’Italia meridionale.
Le storie pregresse di una scolarizzazione fortemente differenziata nei diversi Stati dell’Italia preunitaria si riversarono e si perpetuarono nelle strutture del nuovo Stato italiano. La differenza fra territori già sviluppati e alfabetizzati, come consistenti aree di Piemonte, Lombardia e Veneto, e territori di diffuso e cronico analfabetismo, soprattutto in quello che era il Regno delle due Sicilie, era molto forte, e faceva presagire una difficoltà estrema nel recupero dell’handicap. Ciò appare evidente nella relazione di Carlo Matteucci (Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia. Relazione generale presentata dal Ministro del Consiglio superiore di Torino, 1865), che offriva l’impietosa fotografia di un’Italia arretrata, ma in modo geograficamente differenziato, in dipendenza evidente da fattori storico-geografici e sociali, che affondavano le loro radici nell’organizzazione economica e sociale degli Stati preunitari. A Torino «nelle scuole elementari dei capoluoghi si usa la lingua italiana e si parla con mediocre correttezza […]»; a Bologna «si parla sempre la lingua italiana»; nella provincia di Portomaurizio (l’odierna Imperia) «nelle scuole non s’usa il dialetto che coi bambini che entrano affatto nuovi nelle scuole; e con loro si parla anche la lingua italiana salvo che per spiegare le parole che eglino non intenderebbero se non fossero spiegate nel dialetto natìo»; viceversa nella provincia di Napoli «gli insegnanti vecchi usano il dialetto e quei pochi che parlano in scuola in italiano parlano assai scorretto»; e nel Cagliaritano «nelle scuole usasi in generale la lingua italiana e questa parlasi con abituali scorrezioni che originano dal dialetto».
Tutte le regioni, indistintamente, sono caratterizzate da una notevole differenza tra scuole urbane e scuole rurali: a Palermo «nelle scuole urbane si usa la lingua italiana: ma in gran parte delle scuole rurali non si è ancora potuto smettere l’usanza del dialetto», però anche a Torino «nelle scuole dei piccoli comuni, e delle borgate, l’uso del dialetto è ancora un po’ comune; col pretesto che i fanciulli non intendono l’italiano, i maestri parlano sempre il piemontese» e a Milano «sgraziatamente nelle scuole, intendo sempre le rurali, si usa il dialetto. La lingua italiana i maestri non la conoscono o non vogliono adoperarla difendendosi con la scusa che i loro alunni non la intendono».
L’italiano dunque entrava con difficoltà, o non entrava affatto, nelle scuole – e di conseguenza nella vita – delle regioni più arretrate dal punto di vista socioeconomico e, all’interno di ogni regione, nelle scuole rurali che raccoglievano la maggior parte della popolazione. I motivi erano vari, sia di ordine pratico-organizzativo sia di ordine politico-intellettuale.
Gli insegnanti erano stati addestrati frettolosamente, con due anni di corso sui diritti e sui doveri dei cittadini (le donne sui ‘lavori donneschi’) ed erano perciò troppo spesso impreparati, sino al limite del semianalfabetismo: moltissimi in classe parlavano in dialetto e avevano difficoltà nello scrivere. Insegnavano in classi sovraffollate – sino a 60-70 allievi, con punte di 90-100 – dove quasi sempre si accalcavano bambini di età diverse, in scuole fatiscenti, non attrezzate, fredde e inospitali. Da una scuola così scadente potevano solo uscire bambini poco e malamente alfabetizzati, candidati al fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, tipico di coloro che nella vita di tutti i giorni hanno poco a che fare con la lingua appresa a scuola. Lo attestano i dati dei censimenti nazionali compiuti a intervalli di dieci anni a partire dal 1871: nello stesso anno nel Mezzogiorno gli analfabeti erano più dell’80%; nel 1901 – quarant’anni dopo l’Unità d’Italia – la percentuale oscillava ancora fra il 60 e l’80 % e nel 1931 – settant’anni dopo – fra il 40 e il 60%.
Responsabilità del grave ritardo vanno addebitate anche allo scollamento fra il mondo della cultura e le scelte ministeriali, ovviamente più sensibili a orientamenti di segno politico che educativo, su un tema cruciale per la diffusione della lingua italiana nella scuola: la considerazione del dialetto e del suo ruolo nel processo di apprendimento, in una scuola in cui gli allievi erano quasi esclusivamente dialettofoni.
Dopo l’Unità d’Italia si fronteggiarono a lungo due orientamenti opposti, l’uno favorevole a una considerazione comparativa del rapporto italiano-dialetto, rispettosa delle parlate e delle culture materne, l’altra decisamente orientata all’estirpazione della ‘malerba dialettale’, in nome della raggiunta unità anche linguistica della nazione italiana. Il primo orientamento prevaleva presso gli intellettuali, educatori e linguisti di primo piano, come Ciro Trabalza, Ernesto Monaci, Giuseppe Lombardo Radice, Cesare De Lollis, sino a Benvenuto Terracini, Benedetto Croce e Giacomo Devoto; il secondo caratterizzò sempre più specificamente la classe politica dominante, che la fece totalmente sua nell’ideologia fascista (la cui influenza non si esaurì affatto nel ventennio).
Fu così che si instaurò e si radicalizzò un forte contrasto ideologico fra lingua e dialetto, soprattutto a opera della scuola, che per lo più interpretò il compito affidatole in chiave fortemente conflittuale: per un secolo circa condusse una lotta senza quartiere ai dialetti, nell’errata convinzione che solo eliminandoli si potesse diffondere il buon uso della lingua unitaria. I programmi ministeriali, inizialmente sfiorati da tentazioni contrastive, o quanto meno comparative, diventarono ben presto, e via via in forma sempre più accanita, antidialettali: lo erano già i programmi del 1888 e del 1894, lo furono esplicitamente quelli del 1905 che imponevano «[...] massime nelle prime tre classi, una speciale cura nella correzione fonetica dialettale e dell’uso di idiotismi». Seguendo questi precetti «il maestro elementare, per insegnare italiano, prima sbandisce dalla scuola il dialetto, cercando di sradicare dalla mente dell’alunno ogni ricordo del parlare materno, talora mettendo perfino in derisione quel linguaggio che è naturale in ognuno sin dalle fasce» (E. Monaci, Lettera a Pasquale Villari, [1909], poi in G. Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia. Da Casati a Gentile, 1974, p. 241).
L’acme della lotta ai dialetti fu raggiunto durante il fascismo. Mentre la pedagogia più accorta, fino dagli anni Venti, introduceva nelle scuole il metodo cosiddetto Dal dialetto alla lingua che, tenendo conto del background linguistico dei bambini li avviava progressivamente ad affiancare al dialetto la lingua italiana, il regime – attraverso i suoi atti di indirizzo di vario tipo, dalle veline ai giornali e all’Ente italiano per le audizioni radiofoniche (EIAR), sino alle direttive agli ispettori scolastici – diede costantemente precise indicazioni antidialettali, che di fatto rafforzarono la stigmatizzazione dei dialetti e la colpevolizzazione dei dialettofoni. Negli anni Trenta e Quaranta la politica linguistica del fascismo raggiunse il livello massimo dell’antidialettalità. A tale riguardo, fra le Note di servizio per la stampa, è interessante ricordarne alcune: «I quotidiani, i periodici e le riviste non devono più occuparsi in modo assoluto del dialetto» (22 sett. 1941). «Non occuparsi del teatro vernacolo. Questa disposizione ha carattere tassativo e permanente» (2 sett. 1942). «Non occuparsi di produzioni dialettali e dialetti in Italia, sopravvivenze del passato che la dottrina morale e politica del fascismo tende decisamente a superare» (14 giugno 1943).
L’efficacia di questo sforzo violento di annientamento del dialetto fu pressoché nulla, ma in compenso l’intransigenza antidialettale della scuola, generale e sistematica, pur senza giovare in modo tangibile alla causa dell’italofonia, finì con il creare non solo nella scuola, ma in tutta la società, un pregiudizio generalizzato sfavorevole al dialetto.
La guerra ai dialetti nella scuola non si concluse con la caduta del fascismo, ma continuò, sia pure in toni via via più smorzati, addirittura sino alla soglia degli anni Ottanta del Novecento: solo con i programmi scolastici del 1978 si riconobbe la pluralità di tradizioni linguistiche e di funzioni d’uso della lingua, e si iniziò anzi a considerarla non un limite, ma una ricchezza.
Si può dunque dire che nei primi 150 anni dell’Italia unita la pregressa e in gran parte persistente condizione di analfabetismo della maggior parte della popolazione, attenuata, ma non superata da una scuola per molti versi arretrata e improntata a una dialettofobia didatticamente sterile, ritardò in modo significativo la diffusione della lingua, mentre il persistere nel tempo delle forti differenziazioni regionali preunitarie si estendeva anche al grado di penetrazione dell’italiano, la cui profondità rimase condizionata per lungo tempo, e in parte sino ai giorni nostri, dal livello di italianizzazione degli Stati preunitari.
Anche la diagnosi sociolinguistica su cui si fondava la politica di italianizzazione delle masse nel primo secolo di unità della nazione era, se non sbagliata, insufficiente.
Le costruzioni teoriche su cui si basava la rigida contrapposizione lingua/dialetto si fondavano su un presupposto errato: a disposizione dei parlanti non c’era – o quanto meno non c’era sempre – l’alternativa netta fra i due codici, ma al contrario italiano e dialetto erano i due poli estremi di un asse che al suo interno presentava varietà intermedie di italiano più o meno dialettizzato e di dialetto più o meno italianizzato, varietà disposte non come pioli di una scala (gradatum o discretum), ma come aree confinanti e in parte sovrapposte, in continuità l’una rispetto all’altra (continuum). Nella produzione linguistica spontanea la scelta del codice da usare veniva presa attingendo volta a volta all’una o all’altra delle aree del continuum, o anche a più d’una, in funzione di variabili sociali, comunicative ed espressive, secondo regole più probabilistiche che deterministiche. In altre parole, l’impiegato, il prete, il maestro, ma spesso anche il bracciante, disponevano sia del dialetto – a sua volta tutt’altro che unitario e monolitico – sia di una o più varietà – in diverso modo ridotte o semplificate – dell’italiano, e attingevano all’una o all’altra a seconda degli interlocutori, dell’argomento, dell’intenzione comunicativa (scherzosa, grave, espositiva ecc.) e così via.
Questa zona intermedia del continuum dialetto-lingua, a torto ignorata nelle descrizioni dell’italiano, era forse la più importante. Ancor più che sulla fortuna dell’italiano, sul variare dell’orientamento di questa zona verso l’uno o l’altro polo si giocavano le sorti dei dialetti e della lingua e si caratterizzava l’intero processo di italianizzazione.
Non si può pertanto considerare il tempo che va dall’Unità d’Italia alla Seconda guerra mondiale come un periodo omogeneo, costantemente caratterizzato da un’élite di italofoni e da una massa di dialettofoni; e neppure come un rapporto di netta distribuzione di ruoli e ambiti d’uso: il dialetto usato solo in famiglia e l’italiano unicamente in contesti ufficiali e con estranei (diglossia). La maggior parte degli italiani navigava nel mare immenso dell’oscillazione fra dialetto e italiano, orientandosi ora verso l’uno ora verso l’altro dei due poli, con la tendenza a privilegiare, nel tempo, l’italiano, che via via si andava estendendo ad ambiti d’uso prima riservati esclusivamente e integralmente al dialetto (dilalia).
Questo accadeva per due ragioni: a) nell’uso linguistico l’italiano e il dialetto si alternavano, con una presenza della lingua unitaria via via crescente, man mano che aumentavano la scolarizzazione e gli usi formali e semiformali, orali e scritti, dell’italiano; b) i codici linguistici a disposizione del parlante – l’italiano e il dialetto, ma anche gli stadi intermedi del continuum, dal dialetto appena un po’ italianizzato all’italiano con venature e prosodia dialettali – si alternavano non solo nello stesso parlante, ma anche nel medesimo discorso, nella stessa frase e persino nella medesima parola.
La produzione sempre più diffusa di messaggi, in cui un codice succedeva all’altro o con esso si incrociava o in esso si innestava, portò a un’evoluzione nelle competenze linguistiche, nelle quali si conquistò uno spazio sempre maggiore una varietà linguistica intermedia, caratterizzata da interferenze e incroci – a volte ricercati, ma di norma involontari e inconsapevoli – fra italiano e dialetto: l’italiano regionale.
La dinamica è su per giù ricostruibile in questo modo: il parlante dialettofono, nell’apprendere l’italiano, conserva in un primo tempo lo scheletro – grammaticale, testuale, persino fonologico – del suo idioma materno, e intorno a esso ricostruisce organi e tessuti nuovi, desunti dall’italiano. Fuori di metafora, aggiunge alla sua competenza linguistica pezzi via via più consistenti del lessico, della flessione e della derivazione della seconda lingua (L2). In un secondo tempo interviene sulla sintassi e sulla fonologia (sullo scheletro), costruendo una specie di ‘grammatica intermedia’, che dà prodotti accettabili da parte di parlanti sia dialettofoni sia italofoni e che, con il passare del tempo, se continua l’esposizione alla lingua italiana, si evolve avvicinandosi sempre più alle strutture anche profonde della lingua. Una varietà intermedia, ma non statica, una varietà interlinguistica in progress sia nelle biografie individuali sia nella società.
Il grado diverso di avvicinamento all’italiano dipende da tre tipologie di fattori.
Fattori individuali: la scelta dell’italiano regionale è frutto di evoluzione delle competenze linguistiche individuali, ed è per questo legata al repertorio linguistico di partenza – più o meno caratterizzato da dialettofonia – e al percorso di acquisizione dell’italiano; ma può anche essere, per chi ha acquisito una competenza multipla, una scelta stilistica individuale, dettata da ragioni espressive, da convergenza o divergenza conversazionale.
Fattori storici e geografici: il diverso background linguistico e sociolinguistico delle regioni si protrae ben oltre l’unificazione d’Italia. Le condizioni generali dell’italofonia sono perciò molto diverse, per due cause principali. La prima è la diversa caratterizzazione dei sistemi linguistici: l’area toscana, ma anche più in generale quella mediana, è per definizione avvantaggiata, e presenta dagli inizi un tasso elevato di italianizzazione; al contrario aree con sistemi linguistici strutturalmente lontani dal toscano – come per es. il Piemonte o la Lucania – pervengono all’italiano attraverso una trafila interlinguistica lunga, lenta e impegnativa. La seconda causa è il diverso profilo sociolinguistico delle regioni, quale si è venuto configurando nei processi storici ben differenziati: basta pensare al Lombardo-Veneto, di recente ma penetrante impronta austriaca, al Piemonte strettamente collegato alla Francia, al Mezzogiorno borbonico, e così via.
Fattori sociali: dove persistono condizioni sociali che favoriscono una dialettofonia generalizzata e mancano, o sono accidentali e limitate, le occasioni di esposizione alla lingua italiana, la penetrazione di quest’ultima è affidata alle poche e scarsamente stimolanti opportunità offerte da una scuola in parte disinteressata in parte arretrata, perciò lenta, parziale, tardiva. Due fenomeni tipici delle fasi di contatto fra lingue sono particolarmente rilevanti, in questa fase di rapporti continui e intensi fra dialetto e italiano e di faticoso avvicinamento alla lingua unitaria: il cambio di codice e la presenza significativa di forme di italiano popolare.
L’uso sia del dialetto sia dell’italiano all’interno del discorso si realizza in forme diverse: tipicamente, nel code switching e nel code mixing.
Il code switching è il passaggio dal dialetto alla lingua – o viceversa – all’interno della stessa situazione comunicativa, e avviene al confine tra una frase e l’altra. Si possono citare alcuni esempi. «Poi io che in tutta innocenza che poveretto, che non ne sapevo niente, tirai quelle battute quindi vennero contestualizzate come … un attacco a D. Infatti… D. c’è rima … Boh! Ma chi ci pozzu fari?» (siciliano: ma che ci posso fare?); «Infatti come ho visto vento dico: “Osce giurnata de allergia”» (salentino: oggi giornata di allergia); «Grazie a lei. Cerea, madamìn» (piemontese: buongiorno, signora).
Il code mixing è la commistione di italiano e dialetto all’interno della frase, o persino della parola. Per es.: «Devi andare rittǝ poi, quandu camini un … cinquantina di metri vai a destra, nchiani sopra, a na decina di metri c’è il Municipio» (salentino).
Il risultato di cambi di codice, incroci, sovrapposizioni fra italiano e dialetto nello stesso discorso è il parlato mistilingue, nel quale i due codici si intrecciano continuamente:
Mancu! Cchi schifiu! O puru putissi nèsciri senza reggipettu!... Na volta, di carnevale, avevo diciotto anni, non è ca rici era vecchia, e m’aveva comprato, mia mamma me l’aveva regalato, un vestito. Era bellissimo, però era molto scollato di dietro, davanti no. Sti serate di carnevale. Pecciò, e facev specie un bocale che si vedeva di dietro. Picciò u reggipettu nun m’u puteva mèttiri (G. Alfonzetti, Il discorso bilingue. Italiano e dialetto a Catania, 1992, p. 120).
Le persone poco scolarizzate, e che hanno scarsa dimestichezza con la lingua, realizzano di solito – nel parlato, ma anche nello scritto – un italiano ‘zoppicante’, che riflette l’imperfetta acquisizione delle forme e delle regole della lingua: è il cosiddetto italiano popolare, nel quale si riscontrano forme e costruzioni come le seguenti: le lezioni, poi ogni maestra fa come vuole; sono persone che non ci puoi ragionare molto; si prepariamo e veniamo; a me fa male uguale; siccome che ero tutto bagnato; mentre che vieni, portami anche la sale; grazie, sto più meglio in piedi; c’ho le reume («i reumatismi») e la diabete, e così via.
Le parole percepite come difficili vengono reinterpretate, semplificate e a volte ricondotte a un lessico più familiare: vorrei la tassa dei tic («ticket»), dove fanno le visite per la prostituta («prostata»)?, è ancora celebre («celibe»), vadi alla comparativa («cooperativa»), atto parlante («altoparlante»), a scorcia gola («a squarciagola»).
Nelle produzioni degli incolti è facile trovare tanto tratti di italiano popolare quanto tratti di italiano regionale anche fortemente dialettizzato.
Forme intermedie fra dialetto e lingua si sono registrate fin dai primi tempi della diffusione del toscano come lingua nazionale, in tutte le regioni d’Italia. Si tratta in prevalenza – ma non solo – di testimonianze scritte, perché il modello fiorentino si affermò definitivamente nel corso del 16° sec. come lingua letteraria e – in gran parte – come lingua degli usi scritti formali. I modelli linguistici della scrittura conobbero, in linea di massima, un processo evolutivo di questo tipo: a partire dalle varietà locali di volgare, alla fine del Medioevo si costituirono coinè regionali e sovraregionali che nel corso del 15° sec., là dove c’era un potere politico forte e una burocrazia consolidata furono adoperate per gli usi ufficiali, cancellereschi e notarili. L’esempio tipico è quello della coinè di base lombarda della cancelleria visconteo-sforzesca. Su queste scritture di base volgare locale si innestò fra il 15° e il 16° sec. il processo di toscanizzazione, che portò alla produzione di testi che spesso lasciavano trapelare – volontariamente o involontariamente – il volgare regionale sottostante. L’affioramento della base locale fu ancora più frequente sui ‘piani bassi’ del repertorio linguistico scritto (usi scritti occasionali gestiti da semicolti), nei quali il toscano si affermò pagando il pedaggio di una lunga fase di ancoraggio alle ‘lingue locali’ delle diverse regioni italiane.
Hanno questa origine le prime testimonianze di italiano regionale. In alcuni casi è possibile disporre i testi secondo una scala di maggiore o minore grado di regionalità, in funzione del loro diverso grado di formalità. Giuliano Gasca Queirazza, studiando tre testi cinquecenteschi della stessa località, Fossano (in provincia di Cuneo), li ha potuti disporre su tre livelli: a) il diploma con cui Emanuele Filiberto concesse a Fossano il titolo di città è redatto in un italiano molto vicino alla ‘norma’ toscana; b) la Cronaca di Pietro Barroto (testo narrativo) presenta molti regionalismi; c) la regola della Confraternita dei raccomandati (un testo normativo a uso interno) è fortemente dialettizzato (Lingua e dialetto in Fossano sulla fine del Quattrocento e nel primo Cinquecento, «Bollettino per la società degli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo», 1967, 56, 1, pp. 3-16).
Generalizzando, si può ragionevolmente sostenere che l’italiano ‘normato’ fosse riservato alla produzione letteraria e ai documenti ufficiali, mentre per tutte le altre produzioni scritte fosse ampiamente ammesso un italiano regionale, più o meno intriso di dialetto.
Non si pensi, del resto, che il parlato fosse escluso da questa dialettica, in quanto di dominio esclusivo del dialetto. Non solo alcuni livelli di conversazione richiedevano l’italiano, ma anche nell’uso del parlato si trovano tracce precoci di discussioni sull’accettabilità di forme regionali. L’affiorare del substrato locale nella conversazione di stile ‘sostenuto’ fu teorizzato e ben argomentato anche sul piano teorico. Nella seconda metà del Cinquecento ebbe grandissima fortuna in tutta Europa un trattato di Stefano Guazzo di Casale Monferrato, nel quale l’autore teorizzava per la ‘civil conversatione’ fuori di casa l’uso di una ‘favella mista’ per la quale dava questa ricetta:
Nel formar la favella mista bisogna che si scuopra principalmente il segno della natìa favella e s’usi quella discreta maniera che fate voi, il quale tingendo alquanto il pennello della vostra lingua nel candido colore della Toscana favella, andate coprendo l’oscure macchie della nostra materna, ma tanto leggiermente che si lascia conoscere per favella lombarda (La civil conversatione del Sig. Stefano Guazzo, gentilhuomo di Casale di Monferrato, 1574, p. 65).
Addirittura, auspicava l’uso di un italiano locale che si caratterizzasse come «casalasco» utilizzando molte parole «le quali sono proprie del nostro paese e non di tutta la Lombardia». Un italiano quasi microregionale, un «toscano del Monferrato» (p. 69).
Non solo, dunque, esistevano varietà di italiano più o meno dialettizzato, ma ne era ampiamente diffusa la piena consapevolezza. Era marchigiano Mambrino Roseo, che nella seconda metà del 16° sec. traduceva dallo spagnolo un trattato di agricoltura (G.A. de Herrera, Agricoltura tratta da diuersi antichi et moderni scrittori, 1579): l’editore avvertiva il dedicatario (padovano) che avrebbe trovato nella traduzione «vocaboli così non regolari e secondo la buona lingua toscana» e lo invitava a non meravigliarsi perché lui stesso non aveva ritenuto opportuno intervenire. Ed era lombardo Claudio Corte, autore de Il cavallerizzo (1562), trattato di equitazione e veterinaria dello stesso periodo, nel quale egli avvertiva che aveva scritto nella «lingua nostra comune italiana» e aggiungeva «non curandomi di toscaneggiarlo, per esser’io Lombardo» (p. V).
Per i secoli successivi le testimonianze di quello che sarebbe poi stato etichettato come ‘italiano regionale’ sono ancora più abbondanti, in tutte le regioni d’Italia. Le più interessanti riguardano il livello medio e medio-basso della scrittura – documenti e testi funzionali – perché testimoniano una presenza tutt’altro che occasionale ed elitaria (letteraria) del fenomeno. Per es., sono numerosi in tutta Italia gli elenchi dei beni che la sposa portava in dote, documenti ufficiali, ma scarsamente formali, che contenevano liste di oggetti spesso denominati in forme molto dialettizzate (tab. 1).
I testi rivolti alle autorità erano impregnati di formule di stile burocratico-formale, che attingevano a una tipologia testuale di grande tradizione, ma lasciavano filtrare anch’essi un certo numero di regionalismi. Si veda questa supplica di una coppia di anziani a Bologna nel 16° sec.:
Il Guardiano della Compagnia de’ poveri della Nosadella hanno sgaliato [carpito] dui scudi dalle mane di Bartolomeo Bertoldi et sua moglie sotto pretesto di haverli a guarire dalle doglie [dolori], ma che voleva un scudo per busolo [vasetto] d’unto, promettendo guarirli in capo di otto giorni, et hormai è un mese et stanno peggio che mai (F. Foresti, Profilo linguistico dell’Emilia-Romagna, 2010, p. 167).
In più regioni il fenomeno fu così diffuso che si pervenne a una piena consapevolezza metalinguistica, e in certi casi a una descrizione precisa delle caratteristiche delle varietà regionali di italiano. A Napoli all’inizio del Settecento il giurista Niccolò Amenta nel trattato Della lingua nobile d’Italia (1723-1724) elencava casi di interferenza dialettale nell’italiano parlato; un secolo dopo Carlo Mele, a scopo didattico, ne faceva un elenco accurato, tanto del livello fonetico quanto di quello lessicale (N. De Blasi, Profilo linguistico della Campania, 2006, 20092, pp. 107-108).
Giuseppe Baretti, nella Scelta delle lettere familiari fatta per uso degli studiosi della lingua italiana (1779), parlava degli «scannati gergacci mal toscaneggianti» di chi «toscaneggia quel suo dialetto alla grossa» e così «viene a formare una lingua arbitraria». Osservazioni simili facevano Ugo Foscolo, Giuseppe Gioacchino Belli e altri.
La piena consapevolezza metalinguistica dell’italiano regionale maturò nella seconda metà dell’Ottocento, quando si impose l’esigenza di creare strumenti adatti all’insegnamento della lingua italiana in una società dialettofona. Dalla legge Coppino (1877) in poi, per soddisfare le nuove esigenze didattiche, ci fu un florilegio di manuali, manualetti e prontuari che, basandosi su elementari analisi contrastive italiano-dialetto, fornirono a insegnanti e alunni elenchi di errori da evitare assolutamente. Per la maggior parte si trattava di fenomeni di interferenza lingua-dialetto, e così questi manualetti diventano per noi vere e proprie ‘Appendix Probi’, che attestano non solo l’esistenza, ma anche l’uso frequente di forme di italiano regionale – nate, appunto, dall’interferenza tra i due codici a contatto – che qui sono raccolte e presentate in modo più sistematico che in ogni altro tipo di testo. Questi manualetti sono organizzati spesso in forma di dialogo, e mettono in scena, tipicamente, due personaggi: un alunno, che nel corso dei dialoghi produce forme scorrette, e un maestro – o un compagno toscano o toscaneggiante – che lo corregge.
Modelli di manualetti di questo tipo e prontuari di grammatica italiana furono due dialoghetti di Carlo Lorenzini (Collodi), Giannettino e La grammatica di Giannettino, editi a Firenze rispettivamente nel 1877 e nel 1883. Il format di Collodi fu replicato e declinato regionalmente un po’ in tutta Italia, quasi sempre riprendendo anche i nomi dei protagonisti: negli anni Ottanta ebbe grande successo, per es., il libro di lettura per le scuole elementari Il buon Giannetto di Pasquale Fornari (in più edizioni). Uno dei tanti manualetti fu pubblicato nel 1877 a opera di Luigi Mancini, maestro a Cerignola, con il titolo Intorno ad alcuni vocaboli e modi di dire derivanti dai dialetti pugliesi. Dialoghetti e letterine ad uso delle scuole elementari. Fra i personaggi vi sono il maestro e gli alunni pugliesi Giannetto, Luigi e Alfredo. La trama è la seguente: un maestro corregge gli errori degli allievi ragionando con loro e avvalendosi saltuariamente dell’aiuto di Giannetto, che è stato per qualche tempo in Toscana. Ecco uno scambio di battute fra il maestro e Giannetto sull’uso del voi di rispetto:
Giannetto: Voi mi avete detto che nelle vacanze doveva venire in vostra casa […]
Maestro: Prima di tutto però devi levare codesto voi avete detto, e in vostra casa, perché non istà bene dare del voi al maestro, né a qualunque superiore.
Giannetto: È vero, ma qui si usa così, io …
Maestro: Qui non usa niente di ciò; vuoi dire forse che nei più c’è l’abitudine di dare del voi anche a persone ragguardevoli e non intrinseche: io per altro ti esorto a smettere codest’abito, poiché chi ama parlare e scrivere garbatamente non deve incorrere in siffatte inesattezze. I superiori, le persone di riguardo e tutti quelli coi quali non si ha una certa famigliarità, gl’Italiani sogliono trattarli col Lei, e non col voi come fanno i Francesi (I. Tempesta, Un repertorio di varietà. Prime attestazioni dell’italiano regionale in Puglia, «La nuova ricerca», 1994, 3, p. 15).
La contrapposizione giusto-sbagliato dominò le pubblicazioni di questo periodo, non solo a livello didattico, ma anche nelle discussioni teoriche: a un estremo erano i manzoniani ‘integralisti’, che compilavano liste di proscrizione dei termini non toscani, e un intellettuale come Edmondo de Amicis (1846-1908), che condannò aspramente l’uso di «un italiano compassionevole, d’un tessuto tutto piemontese, ricamato d’ogni specie d’idiotismi e di modi di conio gallico», all’estremo opposto educatori come Fedele Romani (1855-1910), che davano di questa intransigenza una valutazione politica, riconducendo le condanne pure e semplici dei regionalismi al conservatorismo della cultura italiana, che accusavano di eccessiva esposizione a destra.
La tecnica dell’Appendix Probi ebbe successo: nel primo ventennio del secolo scorso si pubblicò, con una qualche fortuna, una serie di saggi in cui si raccoglievano i ‘provincialismi’ – per lo più lessicali – di varie regioni: Veneto (Gianni Mussini), Trentino (Daniele Franco), Toscana (Fedele Romani), Abruzzo (Romani), Calabria (Romani), Sardegna (Romani), Sicilia (Matilde Franco).
È la certificazione del fatto che l’italiano in realtà si sta diffondendo in strati sociali sempre più ampi, e che i risultati del suo incontro-scontro con il dialetto non sono più eventi occasionali o rari, ma qualificano e differenziano il modo di usare la lingua in aree di diverso sostrato dialettale: in altre parole, non sono più fenomeni isolati, ma veri e propri tratti costitutivi di varietà regionali di italiano. Come dice Giacomo Devoto, sono «l’etichetta italiana di un mondo linguistico dialettale» (La norma linguistica nei libri scolastici, «Lingua nostra», 1938, 1, p. 60).
La prima ricerca sistematica sulle varietà regionali di italiano è però relativamente tarda, e non è condotta da italiani: è lo studio pubblicato nel 1956 a Colonia da uno studioso zurighese, Robert Rüegg, con il titolo Zur Wortgeographie der italienischen Umgangssprache. Fotografa in modo nitido una realtà linguistica caratterizzata in tutta Italia, per quanto riguarda il lessico, da una forte sinonimia, prodotta proprio dalla coesistenza, in Italia, di una varietà ‘standard’ e di tante realtà regionali, quasi sempre di matrice dialettale.
Rüegg sottopose a 124 persone, provenienti da 54 province italiane, un elenco di 242 nozioni comunemente usate nell’italiano parlato, appartenenti a diversi settori: famiglia, infanzia e giochi, corpo e salute, cibo, abbigliamento, lavoro e professioni, commercio e denaro, vita sociale, tempo, ristorante, scuola e Chiesa, Stato e patria, città e traffico. Per ogni nozione chiese agli intervistati di elencare i termini che conoscevano per esprimerlo e di dichiarare se ne facevano un uso esclusivo, prevalente o alternante.
I risultati evidenziarono una ricchezza di sinonimi regionali veramente straordinaria. Uno solo dei 242 concetti proposti era espresso in tutta Italia con un unico termine: il ‘caffè forte’, che era chiamato dovunque ‘espresso’. Degli altri concetti, l’11% disponeva di due varianti lessicali a distribuzione spaziale (geosinonimi) e ben l’88% di più di due, fino a un massimo di 13.
Non solo, in 46 casi intere regioni – o anche grandi aree interregionali – si opponevano al resto d’Italia, con una variante che le caratterizzava nettamente. Alcuni esempi di tali opposizioni sono: vera (Nord) ~ fede; in collo (Toscana) ~ in braccio; asse (Toscana) ~ tavola; cappuccio (Nord) ~ cappuccino; monaca (Toscana) ~ suora; villa (Sud) ~ giardino pubblico.
Nel panorama disegnato da Rüegg si percepiscono sullo sfondo gli ultimi echi della battaglia del toscano, che si illude ancora di espandere i suoi geosinonimi sino a occupare tutta la nazione. Non ci riuscì più, perché la Toscana aveva ormai perduto la sua spinta propulsiva e il suo italiano regionale si era allineato, per forza espansiva, alle altre regioni d’Italia. Nei primi anni Cinquanta, secondo Rüegg, pigione e ciotola erano ancora geosinonimi ‘forti’, cioè dotati di buona capacità di espandersi nelle altre regioni; ma ben presto si rinchiusero nei propri confini ‘naturali’, cedendo il passo nelle altre regioni rispettivamente ad affitto e a scodella (al Nord) e tazza (al Sud). Così pure sciocco e anello non uscirono dai confini del Granducato di Toscana, perché nel resto d’Italia si diceva rispettivamente insipido/scipito/poco salato e ditale.
Nei rilevamenti di Rüegg, al di fuori della Toscana l’area di diffusione dei geosinonimi è molto varia: alcuni tipi lessicali hanno una dimensione provinciale, come per es. aghetti («stringhe, lacci») limitato al fiorentino, altri sono regionali o addirittura interregionali: santolo («padrino») è conosciuto solo nel Veneto, mentre compare è diffuso in tutto il Mezzogiorno, ma non oltre; formaggio occupa tutto il Nord, cacio tutto il Sud. Nella seconda metà del 20° sec. la forza espansiva dell’italiano regionale toscano si indebolisce ancora: è sostenuta sempre più debolmente dalla scuola e, in generale, dal mondo della cultura (il neorealismo ha lasciato il suo segno, portando alla luce anche la multiforme realtà regionale della lingua italiana), e risente negativamente del nuovo clima di scambi linguistici e culturali che le migrazioni interne impongono ai rapporti fra le regioni d’Italia. Ma a questo indebolimento del toscano non risponde l’affermazione di modelli diversi. Le polemiche sui centri irradiatori della ‘buona’ lingua sono abbandonate, e quella che si afferma nell’Italia ormai alfabetizzata si configura come una lingua policentrica, ma soprattutto ricca di sfaccettature e sostanzialmente pluridimensionale. Non si afferma questa o quella varietà regionale, ma le varianti sia lessicali sia morfosintattiche e persino fonologiche si dispongono nel panorama sociolinguistico secondo linee di forza extralinguistiche: le varianti lessicali, per es., seguono le sorti dell’oggetto che designano, sorti a loro volta determinate da una tumultuosa evoluzione tecnologica, e seguono gli esiti delle rivoluzioni che avvengono nella storia della cultura materiale. Sono inoltre condizionate dal cambio dei modelli di riferimento negli stili di vita, dalle variazioni di forza e di orientamento subite dal prestigio dei vari centri più o meno ‘forti’.
Agiscono oggi due forze in parte contrastanti: l’avanzamento del processo di standardizzazione degli usi linguistici, legato al processo di industrializzazione e di ammodernamento della società italiana, e la persistenza di declinazioni locali della lingua, più o meno vicine ai vari dialetti, non solo non contrastate dall’azione di centri unificatori forti, ma confluite nell’ultimo quarto del secolo in un processo di riscoperta e valorizzazione delle identità locali, che ne ha incrementato la visibilità e l’accettabilità sociale.
Quante sono dunque, oggi, le varietà di italiano regionale? È difficile rispondere a questa domanda, soprattutto per tre motivi: per la difficoltà di attribuire la stessa etichetta di ‘italiano regionale’ a varietà che presentano coloriture dialettali di intensità molto varia; per la dinamicità delle varietà, che sfumano l’una nell’altra lungo confini – spaziali e temporali – ampi e mobili, e per l’articolazione interna in sottovarietà di difficile perimetrazione.
Alcuni studiosi (per es. Giulio Lepschy in Lepschy, Lepschy 1977) hanno proposto una classificazione che ricalca le regioni amministrative (varietà piemontese, lombarda, veneta ecc.), ma la proposta non ha avuto seguito, perché sono troppo numerosi i casi in cui le due partizioni non sono affatto sovrapponibili, in quanto rispondono a criteri che coincidono solo in piccola parte; altri (come Canepari 1980,19832) hanno suggerito più ragionevolmente di tenere conto della distribuzione sul territorio delle principali famiglie dialettali d’Italia (fig. 3); altri, infine (De Mauro 1963), hanno tenuto conto della centralità della questione Roma-Firenze, e hanno identificato quattro varietà ‘maggiori (settentrionale, toscana, romana, meridionale) e un certo numero di varietà ‘minori’: piemontese, lombarda, veneto-giulia, emiliano-romagnola, umbro-marchigiana, abruzzese-molisana, siciliana, sarda.
La classificazione che segue (tab. 2) tiene conto sia dei diversi sostrati dialettali sia dei confini storico-amministrativi regionali, con l’avvertenza che il riferimento alle regioni amministrative è puramente orientativo.
Vengono elencati di seguito alcuni dei tratti morfosintattici e lessicali che caratterizzano le principali varietà limitatamente ai livelli morfosintattico e lessicale, con l’avvertenza che essi sono rappresentativi, in quanto sono radicati nel sostrato dialettale dell’area e usati con relativa frequenza, ma hanno una diffusione molto variabile: alcuni sono limitati a un’area interna della regione a cui sono attribuiti, altri la ricoprono solo parzialmente, altri infine sono noti e usati anche al di fuori dell’area.
Varietà settentrionali
Morfosintassi. Si possono ravvisare fra i tratti pansettentrionali i seguenti elementi: la netta preferenza per il passato prossimo, anche là dove al Centro e nel Mezzogiorno si usa il passato remoto; l’assenza dell’articolo determinativo davanti ai pronomi possessivi che si riferiscono a nomi di parentela, come mia mamma; il rafforzamento della negazione con mica, come in non fa mica freddo; l’uso frequente dei verbi sintagmatici, cioè di verbi formati non da una voce, ma da una locuzione verbale, come andare su, scendere giù, e, in particolare, per rendere alcuni aspetti verbali, come ero dietro a lavorare («stavo lavorando»), non pensarci su («non esitare»), non stare a ripetere («non perdere tempo a ripetere»), tira su i gomiti («alza i gomiti»).
Fra i tratti piemontesi si ravvisano: solo più, forma avverbiale per «ormai soltanto», come in ho speso tutto: ho solo più dieci euro; alcuni dei cosiddetti verbi sintagmatici, come rimanere lì («stupirsi»), dare indietro («restituire»), farsela bene («spassarsela»); costrutti del tipo faccio che andare («vado subito»), non stare a preparare il tavolo («non darti la pena di apparecchiare»); la particella neh!, che completa una domanda.
Fra i tratti lombardi sono presenti: l’articolo il davanti al nome proprio, come il Paolo, la Lina; le costruzioni come mai che mi faccia un bel regalo (con valore di ottativo); con seguito da un’altra preposizione, come un libro con su un bel racconto.
Fra i tratti veneti si ricordano: l’uso degli articoli il, i e un davanti a parole che iniziano per z, sc, gn o s + consonante, come il zucchero, i scalini, i gnocchi, il sport, un spettacolo; l’uso, per i diminutivi, di -etto piuttosto che di -ino, come un pochetto; forme particolari di deissi temporale, come il giorno dietro («il giorno dopo»).
Fra i tratti friulani si ravvisano: l’uso di lui come pronome di cortesia, in corrispondenza del lei standard, come che cosa ne dice lui? («lei che cosa ne pensa?»); la doppia negazione, come nessuno non lo sopportava; alcuni verbi sintagmatici, come prender su («raccogliere»), mettere vicino («accostare»), venir su («ricordare»).
Tratti emiliano-romagnoli sono: il superlativo spesso reso con l’espressione essere di un …, come questo gelato è di un buono!; il suffisso -izia/-isia è molto produttivo, come cretinisia («stupidità»), bruttisia («bruttezza»), stufisia («stanchezza»); il verbo rimanere è transitivo, come ho rimasto cento euro da Paolo («Paolo mi deve cento euro»).
Lessico. Fra i tratti pansettentrionali si ravvisano: vera («fede, anello matrimoniale»), terrina («zuppiera»), verza («cavolo verzotto»), paletò («cappotto»), anguria («cocomero rosso»), piano terra («pianterreno»), messa bassa («messa non cantata»), ometto («gruccia»), busecca («trippa»), braghe («calzoni»), sberla («schiaffo»), perifrasi come ha un bel dire («parla inutilmente»).
Sono tratti piemontesi pelare («sbucciare»), buono («capace»), comprare («avere un figlio»), cicles («gomma da masticare»), grilletto («insalatiera»), riga («scriminatura»), cabaré («vassoio»), piola («osteria»), cicchetto («rimprovero»), fare schissa/fare magno / tagliare («marinare la scuola»).
Fra i tratti lombardi si ravvisano michetta («panino»), fare i mestieri («riordinare»), stortare («torcere, rendere storto»), balordo («sciocco, malavitoso»), baùscia («fanfarone»), ghisa («vigile urbano»), trani («osteria»).
Sono tratti veneti risi e bisi («riso e piselli»), franchi («lire»), ombra («bicchiere di vino»), sgabello («comodino»), balcone («finestra»), pamaplugo («babbeo»), taci! come interiezione con il valore di «per fortuna!».
Sono tratti friulani santolo («padrino»), spandere («versare»), fare baruffa/baruffare («litigare»), andare dietro a («dar retta a»), finire gli anni («compiere gli anni»), slavinare («diluviare»).
Sono tratti emiliano-romagnoli bugno («foruncolo»), lavoro («faccenda incredibile»), gnola («lamentela»), bagaglio («oggetto di poco valore»), fessa («cerniera dei pantaloni»), squasso («gran quantità»), per es. nell’espressione è venuto giù uno squasso d’acqua.
La varietà toscana gode di uno statuto particolare. Nel repertorio linguistico toscano non ci sono varietà dialettali e lingua, ma – per le note ragioni storiche – due varietà di italiano: una ‘alta’ e una ‘bassa’. Quest’ultima comprende forme toscane che non sono transitate nell’italiano o, dopo esservi entrate, sono retrocesse, e forme altamente espressive, in parte etichettabili come ‘italiano popolare’. Viene qui fornito un breve elenco di forme che, pur essendo (state) raccomandate dalle grammatiche prescrittive come forme di buon italiano, non sono in effetti entrate nell’uso comune, e oggi sono percepite dal parlante non toscano come proprie dell’‘italiano di Toscana’.
Morfosintassi. Si ricordano il sistema dei dimostrativi a tre termini: questo, codesto, quello; codesto è entrato nell’italiano comune solo nell’uso burocratico, come in mi rivolgo a codesto ufficio per …; me e te in funzione di soggetto, come lo dici te; costruzioni del tipo noi si pensava («noi pensavamo»); voci verbali che, non essendo entrate nell’italiano dell’uso comune, non sono accettate come corrette, neppure in Toscana, nei registri medio-alti, come dasti («tu desti»), stassi («stessi»), dicano («dicono»), dichino («dicano»).
Lessico. Molte forme non sono entrate nell’italiano comune, ma sono correntemente usate in Toscana: acquaio («lavandino»), gota («guancia»), grullo («sciocco»), anello («ditale»), il tocco («ore tredici»), pigiare («premere»), mesticheria («negozio di vernici»), moccichino («fazzoletto»), cannella («rubinetto»), cencio («straccio»), chicche («dolciumi»), gattoni («orecchioni»), piattola («scarafaggio»), pigione («affitto»), regio («re nelle carte da gioco»), sciocco («poco salato»).
Nella morfosintassi della varietà romana molti verbi sono accompagnati da clitici, che ne modificano il significato, come piantarla/farla finita («smettere»), marciarci («approfittare»). L’imperfetto congiuntivo nel romanesco ha spesso valore esortativo: facesse il suo dovere! Se ha le prove le tirasse fuori!. La perifrasi stare a + infinito (tronco) equivale a «stare + gerundio», come che stai a ffà? («cosa stai facendo?») e che domandi a fare? («perché lo domandi?»); nel periodo ipotetico il doppio imperfetto indicativo viene usato in riferimento non solo al passato, ma anche al presente, come se volevi te lo imprestavo. Inoltre, gli avverbi meglio e peggio possono essere usati come aggettivi: la meglio gioventù, le peggio cose.
Per quanto riguarda il lessico, voci di origine romanesca sono ormai entrate nel lessico panitaliano: fasullo, bufala, burino, frocio, fico («molto bello, attraente»), sgamare, stracciatella, fettuccine, porchetta. Altre sono prevalentemente caratterizzate come di area romanesca, ma vengono più o meno occasionalmente usate anche altrove: impunito («sfrontato»), non esiste, allargarsi, coatto, una cifra, che macello!, capoccia, zinne, puntarelle («cicoria»), grattachecca («granita»), scrauso («scarso»), rosicare («provare invidia»), capace che («probabile che»). Di uso ormai ampio espressioni come non me ne po’ fregà de meno, m’ha detto bene! («mi è andata bene»), niente niente («per caso»).
Per l’area meridionale bisogna parlare di una ‘varietà di varietà’: l’area è particolarmente eterogenea dal punto di vista dialettale, per questo non presenta un unico italiano regionale, ma più varietà di italiano locale in rapporto con i diversi dialetti (E. Radtke, Napoli, ma non solo Napoli, «Italiano e oltre», 1998, 13, 3-4, pp. 189-97).
In particolare, Salento, Calabria centromeridionale e Sicilia presentano caratteri peculiari relativamente unitari, perché è unitario il sostrato dialettale su cui si innesta la varietà locale di italiano. Si parla per l’insieme di queste regioni di area meridionale estrema. Di seguito vengono elencati i caratteri generali dell’area meridionale e quelli specifici di tre subaree: napoletana, salentina e siciliana.
Morfosintassi. Sono panmeridionali i cambi di genere, come lo scatolo, la ascensore, la capo; l’uso preferenziale del passato remoto, anche in riferimento a eventi di un passato recente; la costruzione transitiva di verbi intransitivi, come entra il motorino, scendimi le chiavi, sali il paniere, entra il cane, non uscire il bambino, adesso lo telefono; l’uso del congiuntivo in espressioni esortative come venisse qua! («venga qua!»), la costruzione del complemento oggetto con la preposizione a: ho visto a Maria, salutami a Pasquale; la posposizione del possessivo, come la comare mia, il libro mio; l’uso di senza come avverbio di negazione, davanti a un participio passato, come ho lasciato il letto senza fatto; l’uso di sto con gerundio per indicare un’azione imminente, come sto venendo («sto per venire»); l’uso sovraesteso della preposizione a, come è andato all’America, sono amico a Peppino; l’uso dell’aggettivo in funzione di avverbio, come pare brutto; la sopravvivenza, fra i pronomi di cortesia, del voi, che marca una certa distanza sociale.
Si possono ravvisare fra i tratti napoletani i seguenti elementi: la diffusione dei nomi deverbali, cioè originati da voci verbali, come scazzo («litigio»), spiega («spiegazione»), allucco («urlo», da alluccà), scasso (da scassare, «luogo di raccolta delle auto rottamate»); l’uso esteso di verbi intransitivi usati transitivamente, come la voglio bene; l’uso ulteriormente esteso (o diverso da quello comune) di a, come beato a te! gelato a limone; gli usi deittici specifici di giù, dentro e sopra: abita giù Napoli (al centro di Napoli, visto da chi sta nei quartieri più elevati), sopra il Vomero (nella prospettiva inversa), dentro la Sanità, sopra lo stadio («allo stadio»); il complemento di paragone realizzato senza introduttori, come la tratta una schiava.
Fra i tratti salentini si ravvisano: la copula spesso dislocata a destra, come La Giovanna sono; il superlativo formato ripetendo l’aggettivo, come mio nonno è vecchio vecchio; gli scambi di funzioni e di reggenze fra le preposizioni, come di Pasqua, di Natale, insieme da noi, scarpe di ginnastica, si è vestita di principessa; il verbo al singolare con soggetto al plurale, come c’è degli alberi; le forme verbali irregolari regolarizzate, come dissimo («dicemmo»), decisimo («decidemmo»), vidimo («vedemmo»), ottenerono, venirono; l’allocuzione inversa con nomi di parentela, come vieni qui, la mamma (detto dalla madre al bambino).
Si possono ravvisare fra i tratti siciliani i seguenti elementi: l’inversione della coppia pronominale ci e si, come non si ci vede niente; il participio passato con valore di frase dipendente, dopo il verbo volere, come voglio fatto un piacere, lo vuoi comprato un gelato? questa stanza vuole pulita; l’uso di quanto con valore consecutivo-finale, come ora parto, quanto vado a divertirmi; aspetta quanto arrivo; l’uso di senza come particella negativa, come il caffè senza macinato («non macinato»); la ripetizione di una forma verbale con valore concessivo-modale, per es. in come fai fai, ti sbagli sempre.
Lessico. È entrata nell’italiano comune una parte del lessico, conservando però una decisa connotazione meridionale: acchiapparsi («litigare»), pastetta («imbroglio»), cacciare («mandar fuori»), scarrozzo («passo carrabile»), scorno («vergogna»), scugnizzo («ragazzo»), compare («padrino»), ciuccio («asino») sgarrupato («fatiscente»), imparare («insegnare»), tenere («avere»), ritirarsi («tornare a casa»), mo («adesso»).
Altri termini sono ristretti all’area meridionale, e si tratta prevalentemente di termini che si riferiscono ad aspetti della cultura materiale: boccaccio («recipiente di vetro»), buatta («scatoletta di latta»), coppola («berretto»), coppino («mestolo»), faticare («lavorare»), pittare («tinteggiare»), villa («giardino pubblico»), putipù («strumento musicale»), quartino («appartamento»), scapece («tipo di salsa marinata»), giovane («aiutante»).
Altre voci, per lo più usate in senso figurato e con funzione espressiva, hanno una diffusione variabile all’interno dell’area meridionale: corto («basso»), chiattona («grassa e bassa»), purpo («persona brutta, polpo»), schiattare («soffrire», letteralmente «scoppiare»), scostumato («maleducato»).
Fra i tratti napoletani sono diffuse limitatamente all’area napoletana: coviglia («semifreddo»), prussiana («pasta sfoglia caramellata a forma di ventaglio»), bombolone («lecca lecca»), inguacchio («pasticcio»), chiavica (detto di persona orrenda, letteralmente «fogna»), intalliarsi («perdere tempo»), lazzaro («giovinastro»), posteggiatore («cantante che intrattiene i clienti nei caffé»), sconocchiare («venir meno»), ed espressioni come fare una tarantella («discutere»), pigliare una nziria («avere un capriccio»).
Fra i tratti salentini: le fritte («panzerotti fritti»), lo zangone («il tarassaco»), spurchia («sfortuna»), pure («anche»), aggiustare tavola («apparecchiare»), alzare tavola («sparecchiare»), alla girata («alla curva»), costume («abito maschile»), scasare («traslocare»), aggiustare («addobbare»), dire parole («rimproverare»), mangiarsi la testa («arrovellarsi il cervello»).
Sono tratti tipicamente siciliani: ammucciarsi («nascondersi»), carnezzeria («macelleria»), sciarra («lite»), vucciria («baldoria»), locco («stupido»), babbiare («scherzare»), gioco di fuoco («fuochi d’artificio»), annervarsi («innervosirsi»), vastasaria («maleducazione»), stranizzarsi («stupirsi»), tovaglia («asciugamano»), zinegga («riloga»), buttarsela/fare Sicilia («marinare la scuola»), scotolare la tovaglia («scuotere la tovaglia»), essere di matrimonio («dover partecipare a un matrimonio»).
Occupa un posto a sé e per diffusione areale è limitata all’isola, ma presenta peculiarità tali che non la si può ricondurre a nessuna delle varietà ‘maggiori’.
Morfosintassi. I verbi occupano spesso la posizione finale della frase, soprattutto nelle interrogative dirette, come il tablet ti sei comprato? Pronto sei?; il gerundio, quando indica un’azione che si sta compiendo, non si costruisce con stare, ma con essere, come sono mangiando («sto mangiando»); il gerundio ha anche la funzione di participio presente, o di completiva relativa, come l’ho visto correndo («l’ho visto che correva/mentre correva»); stare + gerundio non ha lo stesso valore aspettuale dell’italiano, come sto partendo non significa «in questo momento parto», ma «sto per partire»; davanti a nomi di professione seguiti da un cognome si omette l’articolo, come l’assistente di professor Margiotta; nelle interrogative dirette dopo un pronome si aggiunge un ridondante tutto, a indicare l’insieme degli elementi, come chi tutto c’era?; si usano formule antifrastiche sconosciute alle altre varietà di italiano, come piccolino lo sforzo! per indicare uno sforzo sovrumano.
Lessico. Sono ricalcate sul dialetto parole ed espressioni come merdona («sorcio»), dire cosa («rimproverare»), troppo in funzione di superlativo, come troppo bello! («bellissimo!»), fregola («tipo di pasta»), barracello («guardia campestre»), aiò («andiamo!»), crastula («pettegola»), ficchetto («impiccione»). Alcune parole hanno significati almeno in parte diversi dall’italiano comune: in continente («nella penisola italiana»); cacciare/rivedere («vomitare»), brutta voglia («nausea»), sera («parte della giornata compresa fra il pranzo e la cena»), notte («parte della giornata successiva alla cena»), cercare («dare fastidio»), canadese («tuta sportiva») limitato all’area campidanese.
Nello schema classico del repertorio linguistico nazionale l’italiano regionale confina nella parte superiore con l’italiano dell’uso comune e nella parte inferiore con il dialetto. Si tratta di un confine tutt’altro che impermeabile: oltre alla ‘risalita’ di forme dialettali dal basso si riscontra anche un flusso di forme che ‘salgono’ dall’italiano regionale sino all’italiano dell’uso comune e sono accettate come intrinseche alla lingua. Il fenomeno è rilevante, ma non è costante né prevedibile: le variazioni del tasso di regionalità della lingua italiana non sono una variabile indipendente nella storia degli usi linguistici, ma sono strettamente legate alla presenza e al prestigio del dialetto. Si è dunque di fronte a un fenomeno storico che può essere descritto, ma non previsto, come dimostra la storia dell’ultimo mezzo secolo.
Fra italiano regionale e italiano dell’uso comune. Per seguire, almeno in modo approssimativo, le tappe della ‘risalita’ di regionalismi lessicali nella lingua si può osservare l’andamento del numero di regionalismi entrativi ‘ufficialmente’ nell’ultimo mezzo secolo, utilizzando i dati forniti dal Grande dizionario italiano dell’uso (2007), ideato e diretto da Tullio De Mauro (rielaborati in P. Trifone, Storia linguistica dell’Italia disunita, 2010, pp. 155-62). La tabella 3 riporta per ogni decennio il numero delle parole nuove di origine regionale o dialettale registrate nel vocabolario della lingua italiana.
Nella seconda metà del 20° sec. il decennio più ricco di regionalismi è il primo: su 1664 nuove accessioni complessive ben 691 risalgono a quel periodo. Era la fase della ripresa economica, che portava con sé un’intensificazione dei contatti fra aree diverse, anche lontane, della penisola, e una conseguente spinta alla standardizzazione, anche linguistica. L’italiano si sovrappose al dialetto, in una società ancora poco scolarizzata e in grandissima prevalenza dialettofona: aumentarono le occasioni di uso alternato, incrociato, misto dei due codici, creando le condizioni più favorevoli alla produzione di interferenze, ovvero di forme di italiano regionale, che divennero così numerose da trasformarsi in costituenti stabili della lingua.
Il decennio successivo era ancora in buona parte caratterizzato dal boom economico e, linguisticamente, dall’ingresso di regionalismi nell’italiano comune; ma il processo di italianizzazione avanzava a marce forzate, anche perché la scuola media unica obbligatoria (1962), in nome dell’indispensabile diffusione della cultura di base, accompagnava il processo di italianizzazione delle masse con il rafforzamento del pregiudizio antidialettale (molti pensavano che parlare dialetto fosse un grave ostacolo all’apprendimento della lingua), e questo spinse i parlanti ad autocensurarsi nei confronti di tutto ciò che aveva a che fare con il dialetto. Questa linea di tendenza riduttiva proseguì, anzi si rafforzò nel decennio 1971-80, nel quale ben pochi regionalismi entrarono nella lingua italiana. Con gli anni Ottanta iniziò a indebolirsi il pregiudizio antidialettale, con un processo che portò ben presto non solo allo ‘sdoganamento’ del dialetto, ma addirittura a misure di sostegno per la riscoperta e la valorizzazione delle culture/lingue/dialetti locali. Questo ebbe come conseguenza una risalita del numero – e soprattutto delle percentuali – dei regionalismi che, non più bloccati da filtri antidialettali, entrarono nell’italiano.
Non si raggiunsero più le percentuali dell’Italia postbellica, né poteva accadere, perché nel frattempo la dialettofonia si era drasticamente ridotta e gli usi del dialetto erano cambiati. I dialetti contribuirono alla creazione di parole nuove nell’italiano, ma per una parte minima: fra gli anni Ottanta e Novanta derivarono specificamente dal dialetto solo il 2% delle parole che venivano registrate dai vocabolari come parole nuove (A. Bencini, E. Citernesi, Parole degli anni Novanta, 1992).
A seconda del periodo e delle circostanze del loro ingresso nella lingua dell’uso comune – ma anche del vuoto lessicale che venivano eventualmente a colmare – i regionalismi hanno avuto, e hanno, una fortuna molto varia, non prevedibile a priori, ma solo registrabile e interpretabile a posteriori. Come tutti i fenomeni storici. A un estremo ce ne sono alcuni il cui uso si è così esteso che sono entrati nell’italiano comune, dove la loro origine si è progressivamente oscurata: chi si ricorda più dell’origine dialettale di parole come tavolino da notte, panetteria, stampella, serranda, grissino, fasullo, scippare? All’estremo opposto ci sono i regionalismi che si sono affacciati all’uso comune in tempi di bilinguismo e di interferenza da contatto, ma poi sono stati progressivamente abbandonati, e sono rientrati – o sono destinati a rientrare – nei ranghi del dialetto: chi accetterebbe come forme italiane i piemontesi chiamare («domandare»), lea («viale»), tampa («osteria») o i meridionali petrosino («prezzemolo») e imparare («insegnare»), che pure per il passato godono di testimonianze d’uso rilevanti?
Fra italiano regionale e dialetto. Rispetto al flusso di forme che dall’italiano regionale ‘salgono’ verso l’italiano dell’uso comune risulta avere una portata ben maggiore il flusso che arriva all’italiano regionale dal dialetto, ma è anch’esso tutt’altro che costante e regolare. Molti tratti, com’è naturale, rimangono ancorati al dialetto, altri se ne distaccano, con storie e fortune molto diverse. Si possono citare anche in questo caso due esempi estremi di diffusione massima e minima: da una parte, gli aggettivi possessivi mia, tua, sua che possono concordare con sostantivi maschili plurali (sono fatti sua, «sono fatti suoi») in tutta l’Italia centro-meridionale; dall’altra la prostesi di g davanti a parole che iniziano per vocale (due ganatre, «due anatre»), che è segnalata in letteratura solo in due località: Muro Lucano e Bella, in Basilicata.
A volte l’estensione avviene a macchia di leopardo, in relazione alle differenti condizioni dialettali: in Campania il vocalismo atono dell’italiano regionale presenta soluzioni varie, perché risente del fatto che le vocali finali nel napoletano danno luogo alla cosiddetta indistinta (la e muta del francese), mentre nell’area nocerino-sarnese cadono e nel resto della Campania hanno esiti ancora diversi: danno luogo all’indistinta solo le vocali -e e -o.
Di conseguenza, se si sovrappone una carta delle varietà regionali di italiano a una carta dei dialetti d’Italia (fig. 3) si può osservare che la coincidenza delle aree è spesso parziale, e comunque non sistematica.
Confrontando l’estensione di un dato fenomeno in dialetto e in italiano regionale, infatti, non si rileva solo coincidenza, ma anche, in molti casi, espansione o recessione dell’italiano rispetto al dialetto. Si possono elencare alcuni esempi di livello fonologico.
I passaggi di -nc- a -ng- e di -nt- a -nd- (cinquanta › cinguanda) caratterizzano i dialetti di tutta l’area meridionale non estrema, salendo a nord fino alla parte meridionale dell’Umbria e della Marche e scendendo a sud fino al confine con il Salento e la Calabria. Vi è coincidenza pressoché perfetta tra l’area ricoperta dallo stesso fenomeno nell’italiano regionale e nei dialetti meridionali. Analogamente, la pronuncia del gruppo -ttr- quasi come -cci- (quattro › quaccio) occupa tutta la Sicilia, la Calabria centro-meridionale e il Salento centro-meridionale sia in dialetto sia in italiano (fig. 4).
Lo stesso si può dire per la pronuncia meridionale del tipo bùono per buòno, per la quale c’è piena coincidenza fra area del dialetto e area dell’italiano regionale (fig. 5).
È diverso il caso dello scempiamento delle doppie (o intense), del tipo tera («terra»), fenomeno pansettentrionale, ma anche centro-orientale e laziale (fig. 6). Qui c’è sovrapposizione di aree, tranne che per il Lazio, dove l’area dello scempiamento in italiano regionale è più ampia della corrispondente area dialettale. Questa estensione è dovuta al fatto che l’appartenere alla parlata romana ha dato al fenomeno un prestigio e un potere di espansione particolarmente forte, che ha allargato l’area italiano-regionale rispetto a quella dialettale.
Un fenomeno analogo di estensione si riscontra in Sardegna. Nelle parlate logudoresi il singolare e il plurale sono distinti non solo dalla vocale finale, ma anche dalla vocale tonica, che è aperta al singolare e chiusa al plurale: signòre ~ signori (metafonesi ridondante). Il tratto passa nell’italiano regionale, ma non si limita al logudorese: si estende a nord, sino a comprendere il Sassarese e il Gallurese. Anche questo caso ha a che fare con una questione di prestigio: il tratto si diffonde perché il logudorese è la varietà dialettale di maggior prestigio della Sardegna centro-settentrionale, tanto che i parlanti rivendicano per essa l’etichetta di ‘lingua’.
Molti sono i casi di recessione, cioè di restringimento dell’area nel passaggio dal dialetto all’italiano e riguardano tutti i casi in cui una parola, o un suono, o un morfema, è percepito dal parlante come tipicamente dialettale: nella maggior parte dei casi la valutazione negativa ne ostacola il passaggio all’italiano e, in prospettiva, ne favorisce il graduale abbandono. Per esempio, al latino ce/ci (che in italiano dà luogo a ce/ci: centum › cento) nei dialetti dell’Italia settentrionale – a eccezione della Lombardia – succede il dialettale se/si o ze/zi: sento/zento. In italiano regionale l’area di s/z è molto più limitata (fig. 7), e si va restringendo sempre più.
Una dinamica simile riguarda, nel Mezzogiorno estremo, tratti dialettali avvertiti come nettamente marcati: i tipi pacato («pagato»), vado sul comune («vado al Comune»), è la meglio cosa che puoi fare («è la cosa migliore che tu possa fare») sono fortemente interdetti – soprattutto dall’azione della scuola – e perciò sono ormai in fase regressiva: sono presenti a macchia di leopardo o sporadicamente o solo in pochi parlanti anziani.
Un grande dinamismo caratterizza dunque sia i rapporti dell’italiano regionale con la lingua sia quelli con il dialetto, sia l’estensione negli usi e nelle funzioni sia la distribuzione geografica. La dimensione regionale della distribuzione si incrocia con l’azione di altre variabili altrettanto influenti. A ben vedere, l’etichetta di ‘italiano regionale’ per queste articolazioni locali risulta in definitiva insufficiente, se non fuorviante.
I fattori socioculturali che in modo più determinante incidono sulla presenza, sull’uso e sulla consistenza delle varietà regionali sono: il rapporto città-campagna, l’età e la scolarità dei parlanti.
Città e campagna. La diffusione dell’uso dell’italiano è un processo ancora in corso in tutta Italia; però nei paesi – soprattutto del Mezzogiorno, ma in misura rilevante anche in molte aree del Nord – l’uso del dialetto è ancora frequente nelle interazioni quotidiane, mentre nelle città, soggette a un processo di italianizzazione più precoce e avanzato, tende a lasciare il posto a un italiano che, in forma più o meno marcata, ha i caratteri dell’italiano regionale. Qui, infatti, le occasioni di uso alternato o mescidato di dialetto e italiano – e dunque di forme interferite dei due codici – sono maggiori rispetto ai centri minori, nei quali l’uso del dialetto è più frequente, se non prevalente.
Una recente ricerca (Sobrero, Miglietta 2004) in nove località del Salento sulla distribuzione di 25 tratti dialettali transitati nell’italiano regionale salentino ha rilevato che ogni fenomeno presentava un numero diverso di realizzazione dei tratti, da un minimo di 7 a un massimo di 20 per punto, con una netta concentrazione delle presenze nei due capoluoghi di provincia: 16 a Brindisi, 20 a Lecce, a fronte di una media dei centri minori ferma a 13.
Le inchieste del progetto La lingua delle città (LINCI), condotte nei primi anni del 2000 in 18 città italiane, dai centri più piccoli e appartati (Oristano) alle metropoli (Roma), mostrano stati di oscillazione e panorami di variazione molto marcati, in ogni tipo di realtà urbana. Per la capitale, per es., D’Achille rileva che «l’italiano parlato a Roma presenta un notevole grado di variabilità […]. A nessun livello di analisi linguistica sembra potersi individuare una linea veramente unitaria» (La lingua delle città, a cura di P. D’Achille, A. Viviani, 2003, p. 43-44). Nella stessa provincia romana, come osserva Claudio Giovanardi, «la prima impressione è che per buona parte del lessico testato il comportamento di centri periferici quali Ladispoli, Torrimpietra e Cerveteri sia analogo a quello che si registra a Roma», ma in molti casi «la periferia si rivela più vicina allo standard rispetto a Roma» (p. 54) (uovo al tegamino, tovagliolo e prugna a Roma hanno uno o più geosinonimi, mentre in queste località dominano incontrastati) e in altri ancora emergono meridionalismi ignoti a Roma (coppino, «mestolo», arruffato/ammappuciato/arrocchiato, «gualcito»). La variabilità ormai inerente del repertorio linguistico di una società complessa come quella, almeno in una metropoli e nel suo hinterland, sembra prevalere, ormai, sulle regole ‘classiche’ del prestigio.
Le città e i loro modelli storici. A queste considerazioni di tipo sincronico bisogna aggiungerne altre, fondamentali, di tipo diacronico.
In un’Italia di recente unificazione, caratterizzata per secoli non da una storia, ma da tante piccole storie, una per ciascuna delle tante entità statuali distribuite sul territorio, il rapporto fra i codici in gioco in un repertorio linguistico è fortemente condizionato anche dal passato, o meglio dal persistere – per una sorta di inerzia storica – dell’azione modellante di schemi e paradigmi di comportamento linguistico, appunto, ultrasecolari, che hanno differenziato fortemente e differenziano ancora le regioni, le subregioni e soprattutto le città.
Si possono citare due esempi. Torino ha una lunga storia di rigida contrapposizione tra francese, italiano e dialetto. L’italiano venne imposto per legge, nelle aule del tribunale, da Emanuele Filiberto fino dal 1561, e già nel Settecento si diffuse anche tra le classi sociali più basse grazie alla scuola, ma il francese rimase il contrassegno di classe: sino alla metà dell’Ottocento «nel più degli istituti d’educazione femminile, massime i diretti da monache, si parlava esclusivamente il francese, e se s’insegnava l’italiano, era in concorrenza dell’inglese, considerandolo niente più che qual lingua straniera» (G. Vegezzi Ruscalla, Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli della provincia di Torino, 1861, p. 22). Nell’Ottocento l’italiano diventò strumento della lotta politica, nella quale assunse un valore altamente simbolico: era il vessillo dell’unità, e da una parte venne imposto nelle scuole – con corollario di campagne repressive anche violente contro l’uso del dialetto – dall’altra si concentrò nella capitale sabauda, lasciando il dialetto alle campagne. Italiano e dialetto si affrontarono, si scontrarono nelle scuole e nelle officine, ma convivevano in forme miste o alternanti nelle altre occasioni sociali e nelle campagne; erano i due poli del repertorio, che si confrontavano o si integravano in modo diverso nelle differenti realtà sociali. La ‘vocazione’ oppositiva fra due codici in gioco (prima il francese e il dialetto, poi l’italiano e il dialetto), ciascuno con le sue connotazioni ideologiche e sociali, diede un imprinting di tipo nettamente differenziante anche ai rapporti fra dialetto e italiano nel repertorio odierno; attualmente a Torino «abbiamo una situazione che chiamerei ‘polarizzata’: italiano e dialetto sono distinti e ben separati sia nella struttura che nell’uso, e costituiscono i due poli di riferimento del repertorio, i confini dei domini sono netti e ben allocati» (G. Berruto, in Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila, 2006, p. 10).
Napoli ha una storia linguistica ben diversa. Fin dall’antichità è stato luogo di confluenza di dialetti diversi: «Molti provinciali si sono per secoli diretti verso la capitale, contribuendo a una crescita demografica che è stata costante ed eccezionale […]; la sua influenza linguistica quindi si sarebbe svolta non tanto imponendo il proprio dialetto all’esterno, quanto proponendosi come luogo di confluenza di dialetti diversi» (N. De Blasi, Profilo linguistico della Campania, 2009, p. 69). Dopo l’Unità d’Italia, in controtendenza rispetto alle altre grandi città d’Italia, qui aumentò il prestigio del dialetto, che si diffuse a tutti i livelli della piramide sociale non – come altrove – attraverso la scuola, cioè ‘dall’alto’, ma attraverso la canzone, il teatro, la letteratura scritta e poi il cinema. Il rapporto fra dialetto e italiano non è mai dicotomico: i due codici convivono negli stessi vicoli, coabitano nella stessa casa, nella stessa situazione, nello stesso parlante. Di conseguenza, nel repertorio, si ravvisa un italiano regionale che trascolora lentamente e quasi inavvertitamente nel dialetto, e un dialetto che quasi inavvertitamente – e inconsapevolmente – scivola nell’italiano regionale. Attualmente a Napoli, ben diversamente da Torino, c’è «un’ampia zona diffusa, dai confini incerti sia quanto alle strutture sia quanto agli usi, con una distinzione assai minore fra varietà di lingua e varietà di dialetto, un tipico continuum con sovrapposizioni» (G. Berruto, in Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila, 2006, p. 10).
Il diverso rapporto fra dialetto e italiano che si riscontra nelle due città si spiega dunque – oltre che con l’influenza dei noti fattori socioeconomici – anche con l’azione di lungo periodo di modelli storici, che proiettano nell’assetto linguistico odierno rapporti fra i codici del repertorio storicamente molto diversi, perché scaturiti dalle storie diverse delle due antiche città-capitale. Lo stesso modello di analisi si può estendere ad altre realtà urbane importanti, con risultati altrettanto peculiari. Si considera che da questa specificità storica di lunga durata non si possa prescindere, nel descrivere le varietà di italiano all’interno del repertorio linguistico italiano.
Età e scolarità. Molte ricerche della seconda metà del 20° sec. (a partire da L. Giannelli, L.M. Savoia, L’indebolimento consonantico in Toscana, «Rivista italiana di dialettologia», 1979-80, 2, pp. 39-101) hanno dimostrato che l’italiano regionale era presente soprattutto nel parlato delle persone più anziane e meno scolarizzate: in queste categorie si riscontrava la percentuale più alta di dialettofoni funzionali – cioè di coloro che usavano il dialetto in quanto codice di base della loro competenza linguistica – e questo spiegava perché, quando passavano all’italiano, anziani e poco scolarizzati si servivano di forme maggiormente interferite con il dialetto.
La situazione è attualmente più complessa. Accanto all’uso funzionale del dialetto, in calo costante, è sempre più diffuso un uso ludico-espressivo: con inserti o sequenze dialettali l’italofono – anche giovane, anche acculturato – arricchisce le sue possibilità espressive, utilizzandolo quasi come un registro in più del suo parlato. E la scuola ha molto attenuato la rigidità della censura nei confronti del dialetto. Di conseguenza è fortemente diminuito il peso dei due fattori – età e scolarità – ormai consegnati a un ruolo di rilevanza storica.
Il processo ha seguito lo stesso andamento che si è rilevato a proposito dell’ingresso dei regionalismi nell’italiano. La condizione di anziani e di persone poco scolarizzate ha favorito la realizzazione di produzioni in italiano regionale nella fase di ‘scontro’ fra i due codici, quando l’interdizione della scuola per il dialetto era pesante e induceva a un uso forzato dell’italiano: chi non lo possedeva adeguatamente, o per età o per ridotta frequenza della scuola, realizzava un’interlingua ricca di interferenze dialettali. Venuta meno la conventio ad excludendum del dialetto – nell’ultimo scorcio del 20° sec. – sono cambiate anche le sue funzioni ed è cambiato il suo status: oggi è accettato e a volte addirittura ricercato per usi espressivi e persino – nuovamente – funzionali. E non c’è più motivo per cui l’età e la scolarità influiscano in modo significativo sulla frequenza di produzioni in italiano regionale.
Il ricambio generazionale. I dati ISTAT citati all’inizio sono basati su autovalutazioni: non sono disponibili altri dati generali sull’uso effettivo di un italiano più o meno interferito dal dialetto, e sulle dimensioni della sua alternanza con il dialetto e con le altre varietà dell’italiano dell’uso comune (gerghi, lingue speciali, italiano popolare, colloquiale e così via) in relazione a variabili di tipo demografico e sociale. Sono utili per comprendere meglio il fenomeno e per coglierne la dimensione i risultati di alcune ricerche svolte in varie regioni d’Italia, con metodologie tra loro diverse, ma complementari.
Una di queste è stata condotta nel 2009 presso l’Università del Salento: si sono raccolti dati sulle variazioni di comportamento linguistico nel passaggio da una generazione all’altra (Miglietta, Sobrero 2011). A 300 studenti è stato somministrato un questionario sociolinguistico nel quale, fra l’altro, si chiedevano notizie sul codice linguistico utilizzato dai loro genitori nei dialoghi fra di loro e in quelli con i figli, e sul comportamento linguistico dei nonni. In questo modo si è ottenuto un quadro non solo dell’evoluzione intergenerazionale, ma della volontarietà delle scelte, legata al prestigio riconosciuto a ogni codice. Le alternative erano cinque: ‘solo italiano’, ‘prevalentemente italiano’, ‘italiano con interferenze dialettali’, ‘prevalentemente dialetto’ e ‘solo dialetto’. La prima e l’ultima riflettono una netta scelta di codice, la seconda e la quarta l’uso alternato dei due codici, con la preferenza – e la prevalenza – di uno dei due, il terzo l’uso di enunciati misti con base italiana, o l’uso dell’italiano regionale.
La distribuzione delle risposte alla domanda ‘come parlano i tuoi genitori fra di loro’ (fig. 8) rivela nella generazione dei cinquantenni salentini una forte resistenza del dialetto (l’uso del medesimo come codice esclusivo o prevalente supera il 40% dei casi), mentre l’italiano con interferenze dialettali è praticato solo dal 25% delle persone.
Ben diverse sono le scelte linguistiche delle stesse persone nei confronti dei figli (fig. 9): l’uso prevalente o esclusivo del dialetto è praticato solo dal 25% dei genitori, mentre tutti gli altri – i tre quarti dei genitori – si sforzano di offrire ai figli un modello di italofonia. È evidente lo sforzo di accelerare il passaggio dalla dialettofonia all’italofonia, percepita come condizione non solo desiderabile, ma necessaria per il futuro dei figli.
La tendenza è ancora più marcata se si confrontano le scelte linguistiche dei genitori con quelle dei nonni nei riguardi, rispettivamente, del figlio e del nipote (fig. 10).
A fronte dell’affermazione del modello almeno tendenziale di italofonia offerto dai genitori, nei nonni domina ancora l’uso prevalente o esclusivo del dialetto (68%). Il dato più interessante è costituito dalla presenza delle forme miste (italiano dialettizzato o parlato mistilingue italiano-dialetto): limitata all’8,5% nei nonni, ma sei volte più numerosa nei genitori, i quali evidentemente convergono sull’italiano al limite delle loro competenze in lingua, e oltre. In questa fascia si riscontra la concentrazione più alta di forme di italiano regionale, realizzate da una generazione di per sé dialettofona, ma fortemente motivata a fornire ai figli l’italiano come lingua della socializzazione primaria.
La percezione della regionalità. Un passaggio così rapido dal dialetto alla lingua, nelle competenze e nel repertorio di una comunità, produce effetti importanti sulla coscienza linguistica dei giovani. Stimolati da modelli diversi attivi contemporaneamente in famiglia e nella società, essi vivono un momento in cui l’uso incrociato e anche simultaneo di registri diversi nella conversazione – ma anche in molte occasioni di produzione scritta – è ampiamente tollerato (anche la scuola ha attenuato il suo ruolo prescrittivo e sanzionatorio), e accade così che – in assenza di filtri all’entrata – la loro coscienza linguistica possa attribuire l’etichetta di ‘italiano’ anche a forme più o meno dialettizzate o addirittura dialettali, particolarmente frequenti nell’uso quotidiano. Lo dimostra il seguente esempio. A Palermo, sotto la guida di Giovanni Ruffino, è stato sottoposto all’attenzione di 500 studenti universitari un testo contenente una ventina di forme di italiano regionale (Sicilia, 2001, pp. 82-84). Agli studenti si è chiesto di individuare e correggere le forme giudicate ‘non italiane’. La tabella 4 riporta i risultati dell’indagine, per quanto riguarda i livelli morfosintattico e lessicale. Solo due sono i termini identificati come sicilianismi da almeno i due terzi degli studenti: babbiare e capoliato, oltre al costrutto era stato partito. Per il resto, almeno la metà di questo campione altamente scolarizzato (studenti universitari) considera forme pienamente italiane parole come lattoniere («carrozziere») o soffiarsi («farsi vento») e costruzioni come con tutto che il traffico era intenso, mettere avanti («avviare»). Addirittura, tre studenti su quattro attribuiscono allo standard italiano l’uso transitivo di verbi intransitivi, costrutto teoricamente in testa alle liste di proscrizione grammaticale nelle scuole meridionali, e solo uno su cinque considera forma di italiano regionale stranizzato, termine del tutto sconosciuto al di fuori della Sicilia. Nella generazione dei ventenni, età nella quale avviene in molte regioni d’Italia il passaggio di testimone dal dialetto alla lingua, molti elementi del lessico e della morfosintassi di provenienza dialettale sono entrati profondamente nelle strutture dell’italiano, dove attingono livelli che oltrepassano la consapevolezza del parlante. È una fase di passaggio, alla quale si può ipotizzare che succedano modalità diverse di evoluzione. Le più probabili sembrano al momento due: la stabilizzazione delle forme di provenienza dialettale nell’italiano dell’area, o il loro graduale abbandono, con il completamento del processo di italianizzazione integrale. La situazione attuale di altre regioni, nelle quali il processo è più avanzato della Sicilia, fa intravvedere anche una terza possibilità, forse più realistica: il mantenimento selettivo di alcune forme di italiano regionale, che si stabilizzano ed estendono la loro area, se non di uso, almeno di comprensibilità, nella prospettiva di una variazione geografica dell’italiano viva, ma meno accentuata di ora. Una italianizzazione ‘a metà’, forse una standardizzazione ‘all’italiana’.
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