L'Odissea di marmo: la grotta di Tiberio a Sperlonga
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra i complessi più scenografici dell’arte e dell’architettura di epoca imperiale, la grotta di Sperlonga, fulcro di una sontuosa residenza attribuita all’imperatore Tiberio, propone un’eccezionale sintesi di messaggi politici e di suggestioni culturali, riplasmando con abile artificio un paesaggio naturale, quello della grotta, ricco di fascino e di risonanze mitiche, legate alle figure di Ulisse e di Circe.
Il suggestivo paesaggio del litorale laziale tra Terracina e San Felice Circeo è uno degli angoli più incantevoli dell’intera costa tirrenica; qui, sul sinus Amyclanus, il golfo di Gaeta, così chiamato nell’antichità perché da queste parti veniva localizzata la mitica città di Amyclae fondata da coloni Dori guidati dai Dioscuri, Strabone (Geografia V. 3,6) testimonia dell’esistenza di “immense grotte che sono state trasformate in vaste e sontuose residenze”. Una delle grotte cui fa riferimento il geografo greco si apre sul mare ai piedi del monte Ciannito, inglobata nelle strutture di una grande villa che si distende in più livelli dal pendio collinare fino al mare.
Siamo a Sperlonga, e la grotta, nella tradizione orale di questa zona, è da sempre nota con il nome di “grotta di Tiberio”: in essa è da riconoscere, con ogni probabilità, il teatro di un drammatico episodio che coinvolge l’imperatore Tiberio nel 26 d.C. e di cui parlano sia Svetonio (Tiberio, 39), che lo ambienta in un praetorium cui Speluncae nomen est nei pressi di Terracina che Tacito (Annali IV, 59). Nel corso di un banchetto, un improvviso crollo di massi uccide diverse persone, mettendo a repentaglio la vita dello stesso Tiberio, che si salva grazie al pronto intervento del prefetto del pretorio Seiano, che gli fa scudo con il proprio corpo. Questa dimostrazione di fedeltà e di coraggio consegna di fatto a Seiano il governo per i cinque anni successivi, mentre Tiberio si ritira a Capri: non tornerà mai più a Roma. L’effettiva appartenenza del complesso di Sperlonga all’imperatore Tiberio è stata talvolta messa in dubbio, ma la pertinenza imperiale dell’insieme villa-grotta è confermata da una serie di elementi, tra cui basti ricordare l’uso del termine praetorium (che generalmente individua la residenza dell’imperatore) da parte di Svetonio nel brano già citato, e la presenza sul sito di una vasta caserma, con ogni probabilità destinata ad accogliere i pretoriani, cioè la guardia imperiale. La caserma appare realizzata nell’ambito di ampi rifacimenti che hanno interessato, agli inizi del I secolo, le strutture originarie della villa, databili all’età tardorepubblicana sulla base della tecnica muraria. La ristrutturazione di età augustea ha interessato anche la grotta, trasformandola in un ninfeo fronteggiato da un triclinio acquatico (stibadium) e rimodellandone le pareti interne con incrostazioni, mosaici in pasta vitrea verde e blu e conchiglie, in modo da sottolinearne il carattere marino, esaltando i riflessi dell’acqua sulle pareti rocciose. Un ambiente misterioso e selvaggio, destinato ad ospitare uno straordinario complesso di sculture, che la grotta ha iniziato a restituire nel 1957.
Gli sforzi congiunti di archeologi e restauratori hanno ricomposto in quattro gruppi scultorei, di cui due colossali, le enormi quantità di frammenti marmorei frutto del solerte orrore per le immagini pagane di una comunità di monaci insediatasi nelle strutture della villa agli inizi del VI secolo e impegnatisi nella distruzione sistematica dell’arredo scultoreo della grotta. L’antro non appare concepito semplicemente come un ambiente gradevole e fresco, adatto ad ospitare banchetti nei mesi estivi, e decorato di statue: qui le opere d’arte costituiscono un insieme, in cui ogni elemento è disposto in modo da produrre un effetto visivo coerente. Il filo conduttore che collega le sculture tra di loro è la materia omerica, e la figura mitica le cui azioni costituiscono i soggetti dei gruppi scultorei è quella di Ulisse. Il programma iconografico della “Odissea di marmo”, come l’ha definita Hans Peter L’Orange, comprende la rappresentazione di due episodi precedenti alla caduta di Troia, e necessari alla vittoria degli Achei secondo il vaticinio dell’indovino Eleno, che hanno Ulisse come protagonista: il primo è il ratto del Palladio, la statuetta lignea di Atena che protegge la città, e il secondo è il recupero del cadavere di Achille, le cui armi sono necessarie al figlio, Neottolemo, per ottenere la caduta di Troia. Due sono anche gli episodi che rappresentano nella grotta le traversie e i pericoli che Ulisse dovrà affrontare nel corso del suo travagliato ritorno ad Itaca, episodi che maggiormente hanno colpito l’immaginazione degli antichi e risvegliato l’interesse degli artisti figurativi: l’accecamento del Ciclope Polifemo (Odissea IX, 371-394) e il terribile incontro con Scilla (Odissea XII, 201-259). L’ingresso della grotta è sovrastato da una grande statua di Ganimede rapito in volo dall’aquila di Zeus, che va forse interpretata come allusione alla causa prima della guerra di Troia e delle disavventure di Ulisse: la gelosia di Era per il bellissimo figlio del re di Troia, che la spinge ad inviare alla città Paride il quale poi, con il ratto di Elena, ne provocherà la sventura (Antipatro di Tessalonica in Antologia Palatina, IX, 77).
Ad una analisi più approfondita del programma iconografico e delle sue ragioni occorre premettere l’osservazione che un episodio come quello di Polifemo costituisce un soggetto particolarmente azzeccato sia per l’arredo di una grotta (e a Sperlonga il soggetto risulta sfruttato in modo particolarmente scenografico) sia per quello di un luogo destinato ad ospitare banchetti, costituendo una glorificazione del potere del vino (il mezzo con cui Ulisse vince il Ciclope) ma anche un ammonimento a non abusarne (è infatti l’ingordigia di Polifemo a condurlo alla rovina).
L’episodio del Ciclope (anche se in genere viene scelto il momento precedente all’accecamento, quello dell’offerta del vino) compare infatti già nei ninfei di ville di otium in età tardorepubblicana, come hanno dimostrato i rinvenimenti di Colle Cesarano presso Tivoli e di Tortoreto, anche se in proporzioni e in materiali ben più modesti rispetto al gruppo scultoreo della grotta di Sperlonga. Inoltre, lo stesso soggetto aveva già ispirato le sculture frontonali di un tempio ad Efeso dedicato a Dioniso, voluto da Marco Antonio, che proprio come nuovo Dioniso intendeva presentarsi, intorno al 42 a.C. e poi reimpiegate in un ninfeo monumentale di età domizianea. Il medesimo tema tornerà, probabilmente modellandosi proprio sull’esempio di Sperlonga, in altri ninfei-grotta di residenze imperiali: da quello dell’imperatore Claudio di Punta Epitaffio a Baia; a quello di Nerone nella Domus Aurea (in cui Ulisse che offre il vino al Ciclope compare nel grandioso mosaico del soffitto a volta); al cosiddetto Ninfeo Bergantino della Villa di Domiziano a Castel Gandolfo (in origine una cava di tufo riattata a grotta); fino alla piscina del Canopo di Villa Adriana a Tivoli: qui un gruppo statuario raffigurante l’episodio, di cui sono stati recuperati vari elementi, sembra essere stato sostituito, a seguito della morte di Antinoo, il favorito di Adriano, avvenuta nel 130, da un gruppo di statue raffigurante la resurrezione di Osiride alla presenza di divinità egizie e di statue colossali del giovane bitinio. Ma in questi esempi più tardi il tema sembra assumere il carattere di omaggio ad una tradizione consolidata, come se l’antrum Cyclopis fosse ormai un elemento in qualche modo obbligatorio all’interno di una residenza imperiale. Nella grotta di Tiberio, invece, l’episodio del Ciclope è intimamente connesso agli altri gruppi scultorei che caratterizzano l’allestimento dell’antro, e che risultano strettamente legati sia al particolare luogo in cui la grotta è collocata, sia alla stessa personalità di Tiberio.
Il luogo, innanzitutto. In questo tratto di costa laziale, alla geografia reale si sovrappone una geografia mitica, legata principalmente alla materia omerica: la tradizione localizzava nei dintorni di Formia la mitica terra dei Lestrigoni, in cui Ulisse aveva corso una delle sue più terribili avventure e perduto tanti dei suoi compagni di viaggio (Odissea X, 80-132); e, soprattutto, individuava l’isola Eea, la favolosa terra di Circe, nel promontorio del Circeo, che sembra veramente un’isola, alta sul mare a chi si trovi all’interno della grotta di Sperlonga, e sul quale si trovano i resti di un antico santuario dedicato alla maga.
Da queste parti si incrociano dunque il percorso di Enea, che fugge da Troia per giungere nel Lazio e dare inizio a una storia che condurrà alla fondazione di Roma, e quello di Ulisse, che giunge da Circe dopo l’episodio dei Lestrigoni, per trattenersi presso la maga per un anno, concependo con lei un figlio, Telegono, destinato ad essere celebrato come il mitico fondatore della città laziale di Tusculum (Tito Livio, Storia di Roma, I, 49, 9, Festo, 116 L). L’episodio di Circe è fondamentale nell’economia dell’Odissea: da qui Ulisse ripartirà preparato, grazie ai consigli e agli ammonimenti della maga, ad affrontare i pericoli che costellano il suo percorso verso Itaca, primo fra tutti Scilla, l’orribile mostro che la nave dell’eroe deve sfiorare in modo da evitare le terribili Plaktai, le pietre vaganti che distruggono tutte le navi. Tutte, tranne la nave Argo, che, tornando dalla terra di Eeta, ne esce indenne grazie alla protezione di Era (Odissea XII, 69-72). Una versione del mito degli Argonauti voleva che Giasone e i suoi compagni fossero passati da Circe, per sottoporsi ad un rito di purificazione prima del ritorno. Un altro percorso mitico, quindi, quello degli Argonauti, che si intreccia a quello di Ulisse e a quello di Enea su queste coste fatali: e che viene ricordato all’ingresso della grotta di Sperlonga, dove una prua di nave scolpita nella roccia reca il nome della nave Argo in un piccolo mosaico a tessere policrome. Il programma iconografico sotteso all’arredo scultoreo della grotta va letto tenendo presente non solo la geografia leggendaria del sito, ma anche la personalità e la cultura di Tiberio. L’imperatore, innanzitutto, è un accanito lettore dei poemi omerici e un attento conoscitore dei miti, sui più peregrini particolari dei quali spesso pone imbarazzanti quesiti ai suoi commensali (Svetonio, Tiberio 70): non stupisce certo che egli dedichi una cura del tutto particolare ad un luogo che su di lui esercita sicuramente una potente fascinazione letteraria, e di cui entra probabilmente in possesso per via ereditaria (il nonno di sua madre Livia, Marco Aufidio Lurcone, era originario di Fondi e aveva nella zona ampi possedimenti).
Dobbiamo però tenere presente anche la sua psicologia e la sua vicenda umana: Tiberio diventa ufficialmente erede al trono solo nell’anno 4, dopo la morte di tutti i suoi rivali (Marcello, Gaio e Lucio) e dopo il lungo, volontario esilio sull’isola di Rodi, quando Augusto lo adotta. Attraverso quest’atto ufficiale, Tiberio diventa un membro della gens Iulia, che fa risalire le proprie origini mitiche fino ad Enea e alla sua madre divina, Afrodite, che nella propaganda di Cesare e poi di Augusto diventa Venere Genitrice: una genealogia leggendaria che si intreccia indissolubilmente a quella dell’intero popolo romano (discendente dei Troiani), come illustra nel modo più eloquente il complesso programma iconografico del Foro di Augusto a Roma, inaugurato nel 2 a.C. Ma anche la famiglia di origine di Tiberio, la gens Claudia, può vantare antichissime, prestigiose origini, e un capostipite mitico: si tratta, appunto, del già citato Telegono, figlio di Ulisse e di Circe, fondatore di Tusculum. Non a caso, Tiberio e Livia a Tusculum possiedono una villa (della quale sono stati individuati i resti), dove l’imperatore soggiornerà saltuariamente alla fine della sua vita. Appare dunque chiaro che, con l’“Odissea di marmo”, Tiberio intende celebrare le origini mitiche della propria famiglia, ma anche il proprio ruolo di predestinato, in cui la schiatta di Enea e quella di Ulisse si uniscono: tra le molte sculture accessorie che nella grotta circondano i gruppi principali compare non solo una graziosa statuetta raffigurante Circe, mitica antenata di Tiberio, ma anche un bassorilievo con l’immagine di Venere Genitrice ed un’erma raffigurante Iulo Ascanio, figlio di Enea: i mitici antenati dei Giulii.
I convitati distesi a banchetto sui letti tricliniari dello stibadium di fronte alla grotta di Sperlonga vedono dispiegarsi davanti a sé, in un grandioso palcoscenico naturale, alcuni degli episodi più rappresentativi delle imprese di Ulisse.
Alla loro sinistra, su un pennacchio che segna l’inizio dell’andamento semicircolare del bacino, il ratto del Palladio: Diomede stringe convulsamente la statuetta arcaica, mentre Ulisse al suo fianco indietreggia, in un moto di spavento. È qui raffigurato il momento in cui, secondo la Piccola Iliade (Fozio, Bibliotheca 137 a), dopo che Diomede ha trafugato la statua, Ulisse medita di ucciderlo, per prendersi da solo il merito dell’impresa: la statua però prende improvvisamente vita, spaventando l’eroe e sventando il delitto. Nel gruppo di Sperlonga, animato da una notevole tensione nel corpo dei due eroi, l’effetto dinamico doveva essere accresciuto dalla vivace policromia del Palladio, parzialmente conservata.
Sull’estremità opposta del limite del bacino circolare si erge un altro gruppo a due figure: di questo si sono conservati solo pochi frammenti, ma è stato possibile ricostruirne l’aspetto grazie al confronto con le numerose copie di un gruppo scultoreo di età ellenistica tra i più amati in epoca romana, il cosiddetto Pasquino, dall’appellativo assunto dalla replica che si trova a Roma sull’esterno di Palazzo Braschi e sul cui zoccolo si apponevano scritti satirici anonimi relativi alla situazione dello Stato pontificio, le “pasquinate”; tra le migliori repliche del tipo occorre citare quella conservata presso la Loggia dei Lanzi a Firenze. Il gruppo del Pasquino rappresenta il momento culminante del XVII libro dell’Iliade, quando Menelao solleva pietosamente il corpo privo di vita di Patroclo per portarlo via dal campo di battaglia, ma viene fermato dall’intervento divino di Apollo. La replica di Sperlonga presenta un importante particolare, che fa ipotizzare la ripresa dello stesso modello, ma con una mutazione semantica: il piede sinistro del caduto (di cui restano solo le gambe fino ai glutei) è ferito, e il tallone assume una posizione talmente innaturale da far supporre la recisione del tendine di Achille, la ferita che causa la morte del Pelide. Secondo Bernard Andreae, l’insigne studioso tedesco che ha dedicato anni della sua attività allo studio delle sculture di Sperlonga, nel morto sarebbe da riconoscere proprio Achille, e nell’eroe che lo solleva Ulisse: questo momento, raccontato da Ovidio (Metamorfosi XIII, 280 ss.) è preliminare al recupero delle armi del Pelide, necessarie per la conquista di Troia.
Sul fondo della grotta si aprono due cavità secondarie: in quella a destra rispetto allo spettatore ideale accomodato sul triclinio è collocato, in una spettacolare mise en scène, il gruppo scultoreo di Polifemo. I frammenti del gruppo sono stati ricomposti dai restauratori grazie al confronto con un rilievo di sarcofago del II secolo, conservato a Catania: l’enorme corpo del Ciclope ebbro si adagia su una base in forma di roccia; ai suoi piedi, due compagni di Ulisse sollevano da dietro il palo, mentre Ulisse, avanzato, ne spinge la punta contro l’occhio di Polifemo; a destra, il compagno con l’otre di vino assiste in spasmodica tensione. La straordinaria testa di Ulisse ritrovata nella grotta è stata ipoteticamente ricondotta a questo gruppo: diventata un po’ il simbolo dell’intero complesso tiberiano, rivela una perfetta coesione di forza e tensione in una sorvegliata resa di superiore qualità formale e compositiva. Lo schema piramidale dell’insieme è tipico di certe composizioni scultoree di età ellenistica, tra cui il Toro Farnese.
La complessità del gruppo di Polifemo offre una pluralità di punti di osservazione, di cui lo spettatore antico nella grotta può godere avvicinandosi alla grotticella camminando lungo la stretta banchina che fiancheggia la parete rocciosa, oppure in barca. E la barca consente anche di girare intorno all’isoletta artificiale al centro del bacino che ospita il gruppo di Scilla che assale la nave di Ulisse.
Ricomposta da oltre 7000 frammenti, la scultura illustra il momento in cui la nave di Ulisse fila a tutta velocità sfiorando Scilla: l’ibrido mostro marino, volto e petto di fanciulla e intrico di code pisciformi, creste, tentacoli e protomi di cani feroci dalla vita in giù, rotea con furia la barra del timone già tolta alla nave con la mano sinistra, mentre con la destra afferra per i capelli il timoniere, il cui volto terrorizzato ha pochi eguali in tutta l’arte classica; i sei cani famelici che le spuntano dai fianchi divorano ognuno un marinaio già sottratto alla nave. L’intrecciarsi di membra umane e di appendici ferine, l’audacia compositiva delle posizioni dei compagni assaliti dai cani, il pathos emotivo dei volti, l’abilità con cui è simulato il moto della nave, rendono questa scultura un grande capolavoro; e proprio sulla nave del gruppo di Scilla gli scultori che hanno eseguito i quattro gruppi, Atenodoro, Agesandro e Polidoro di Rodi, hanno lasciato la propria firma.
Il ritrovamento di questa firma ha suscitato un enorme dibattito, tuttora aperto dopo 50 anni: i nomi degli scultori, infatti, e il loro etnico, compaiono identici nella notizia di Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXVI, 37) sugli artisti autori del Laocoonte, la cui datazione e la cui natura di originale o di copia in marmo da originale in bronzo costituiscono problemi tra i più discussi nell’ambito della storia dell’arte antica. Ripercorrere l’annoso dibattito in questa sede è impossibile: è sufficiente soffermarsi su alcuni elementi relativi alle sculture di Sperlonga. L’audacia delle soluzioni compositive e la presenza di puntelli invitano a ritenerle copie marmoree di originali in bronzo. I tre scultori di Rodi potrebbero dunque essere dei copisti, in grado però di rielaborare i modelli in modo originale, calibrandoli in base al soggetto e al messaggio richiesti dal committente (e abbiamo visto il caso del gruppo di Menelao e Patroclo che diventa gruppo di Ulisse e Achille) ed armonizzandoli tra loro per una mise en scène unitaria.
Tiberio trascorre gli anni del suo volontario esilio, tra il 6 a.C. e il 2 d.C., a Rodi, isola che vanta una grande scuola di scultura e a cui va probabilmente ricondotta la tradizione dell’inserimento di sculture all’interno di settings naturali, come i giardini, di cui basta citare come esempio la sistemazione originaria della Nike di Samotracia (opera riconducibile ad un artista rodio) nell’esedra scavata, sul pendio di una collina, a specchio di un basso bacino d’acqua.
È dunque possibile che Tiberio, amante dell’arte ellenistica come testimoniano le fonti letterarie, abbia potuto apprezzare a Rodi le mises en scène paesistiche della scultura, ed abbia anche conosciuto gli scultori Agesandro, Atenodoro e Polidoro: forse a Rodi ha avuto inizio il progetto per la sistemazione della grotta di Sperlonga, poi portato a termine probabilmente negli anni tra il 4 (quando Tiberio viene adottato da Augusto) e il 26, anno in cui avviene l’incidente nella grotta, a seguito del quale l’imperatore sceglie di ritirarsi a Capri, forse perché non si sente più sicuro a Sperlonga. Ma non rinuncia a inglobare grotte nelle proprie residenze, e a popolarle di sculture: a Capri possono essere ricondotte a Tiberio la grotta del Castiglione, quella dell’Arsenale, quella di Matermania e la celebre grotta Azzurra, tutte provviste di una decorazione scultorea di cui restano frammenti: una di queste ha anche restituito una base con la firma di Atenodoro, che suffraga l’ipotesi che gli artisti rodii abbiano continuato a lavorare per Tiberio per un certo numero di anni.
Come sopra accennato, i gruppi di Sperlonga sono attualmente considerati, dalla maggior parte degli studiosi, copie marmoree da originali in bronzo: per il ratto del Palladio si è proposto un originale di scuola pergamena databile agli inizi del II secolo a.C.; pergameno, ma più tardo di almeno un trentennio, il supposto originale del gruppo di Polifemo, al cui maestro va probabilmente ricondotto anche l’originale in bronzo del gruppo del Pasquino. Il gruppo di Scilla, infine, è stato ricondotto ad un originale in bronzo realizzato a Rodi tra il 188 e il 168 a.C. per celebrare i caduti della guerra contro i pirati, e trasportato a Costantinopoli in età tardoantica per essere esposto nell’Ippodromo, come sappiamo da fonti tarde. Questa complessa ricostruzione è frutto del lavoro del già citato Bernard Andreae, al quale si deve anche una delle più suggestive ipotesi relative al gruppo del Laocoonte. Lo studioso interpreta quest’opera come la copia marmorea di età tiberiana da un originale in bronzo realizzato a Pergamo intorno al 140 a.C.: gli scultori rodii avrebbero ripreso questo modello per simboleggiare, attraverso l’immagine del sacrificio del sacerdote troiano che voleva impedire l’accesso del cavallo di legno nella sua città, l’ineluttabilità della caduta di Troia, affinché Enea ne fuggisse e Roma, erede della grandiosa Ilio, potesse sorgere; la medesima interpretazione del mito di Laocoonte che compare nell’Eneide virgiliana, in cui l’episodio è descritto in versi celeberrimi (Eneide II, 199-227).
La creazione dell’originale in bronzo del gruppo del Laocoonte sarebbe da ricondurre al momento della missione diplomatica romana, guidata da Scipione Emiliano, che tra 141 e 139 a.C. tocca tutti i principali paesi orientali, tra cui anche Pergamo, il regno ellenistico che si presentava come erede universale dell’antica Troia, e che anzi ne comprendeva il sito all’interno dei propri confini, governato al momento da Attalo II. L’opera doveva ricordare sia ai Romani che agli stessi Pergameni le comuni origini troiane, rafforzando negli uni e negli altri la convinzione della necessità dell’amicizia tra i due popoli, amicizia che gli Attalidi sentivano già dai tempi della seconda guerra macedonica (200-197 a.C.) come l’unica possibilità per Pergamo di mantenere la propria indipendenza nella intricata situazione politica che fa da sfondo alla conquista romana del Mediterraneo orientale.
All’epoca della visita di Scipione Emiliano, però, le mire imperialistiche romane in Oriente si sono palesate ormai compiutamente, e la violenza della conquista romana ha fatto vittime illustri, come Corinto e Cartagine, distrutte nel 146 a.C.: è lecito pensare dunque che la missione diplomatica romana susciti timori e preoccupazioni, cui a Pergamo si intende rispondere con un’opera d’arte che insista sulle comuni radici troiane, raffigurando nel sacrificio mitico di Laocoonte la superba, patetica, sconvolgente metafora della distruzione di Troia che segna la mitica origine sia di Roma che di Pergamo. Il destino di Troia non deve ripetersi per Pergamo; il Laocoonte è dunque una sorta di supplica figurata, rivolta ad un romano come Scipione Emiliano, profondamente imbevuto di cultura greca, e certo in grado di coglierne il messaggio. Con la copia marmorea del Laocoonte, voluta forse, come sostiene Andreae, dal consiglio di stato imperiale, il significato iconologico del gruppo si focalizza sul nesso tra la caduta di Troia e l’origine di Roma, celebrando dunque indirettamente, in un monumento ufficiale, la figura del pius Enea, antenato del popolo romano e soprattutto della gens Iulia, di cui Tiberio per adozione è ormai diventato membro. Ma nel suo buen retiro privato di Sperlonga, l’imperatore preferisce celebrare l’antenato mitico della propria famiglia di origine, la gens Claudia: Ulisse, eroe intelligente, coraggioso e curioso.