L'onomastica
L’inclusione dell’onomastica (ovvero l’insieme dei nomi propri di un sistema linguistico e, al contempo, la scienza specialistica che se ne occupa) all’interno di un volume nel quale si parla di identità regionali in una prospettiva essenzialmente contemporanea, merita una disamina preventiva che chiarisca, anche alla luce della collocazione teorica di questo particolare settore della lingua, il senso, l’interesse e i limiti della trattazione che seguirà.
Il particolare statuto di cui i nomi propri godono all’interno dei sistemi linguistici è stato ripetutamente affrontato dalle scienze del linguaggio, mettendone di volta in volta in luce le peculiarità semantiche (relative al particolare tipo di significato veicolato dai nomi propri), quelle pragmatiche (preordinate allo speciale valore dell’atto di nominazione in relazione ai diversi atti linguistici compiuti dall’uomo) e, infine, quelle antropologiche (correlate alla funzione che i nomi propri svolgono all’interno del corpo sociale).
Nella prospettiva semantica, si esordisce notando come, secondo alcune impostazioni tradizionali della linguistica, segnatamente quella filosofico-linguistica di autori come John Stuart Mill ‒ che nel suo A system of logic, ratiocinative and inductive (1843) definiva perentoriamente i nomi propri come «meaningless marks set upon things to distinguish them from one another» (cioè «segni senza significato», cit. in Caprini 2001, p. 19, ripreso da A. Gardiner, The theory of proper names, 1954) ‒, ma anche secondo l’applicazione più riduttiva della teoria dei segni di Ferdinand de Saussure (che nel suo Cours de linguistique générale, 1916, non affrontava in realtà il problema del nome proprio), si possa addirittura mettere in dubbio che il nome proprio possieda un significato.
Le formulazioni più mature (anche attraverso il dibattito filosofico che a cavallo fra 19° e 20° sec. vide in posizione contrapposta, fra gli altri, Gottlob Frege e Bertrand Russell) chiariscono meglio la natura del significato dei nomi propri. La qualità specifica del processo referenziale connesso all’uso del nome proprio sta nel fatto che esso comprende anche il referente, ovvero l’oggetto individuale associabile (per es. Argo, il cane di Ulisse), il quale invece nel nome comune (cane) transita attraverso un processo di generalizzazione (Wilmet 1988, p. 838), che lo rende membro di una classe di referenti convertibile in un significato mentale (tutti gli oggetti cui si può attribuire quel nome comune, ovvero ‒ in termini linguistici ‒ l’estensione di un significato; oppure, l’insieme dei caratteri ‒ mammifero, quadrupede, domestico, che abbaia, ‒ che definiscono il significato ‘cane’, cioè la «intensione» di un significato). In questo senso, come lo stesso Saussure sembra suggerire negli appunti inediti conosciuti come Notes item e recentemente studiati (si veda Testenoire 2008, pp. 1007-08), si può dire che per il nome proprio valga eccezionalmente la concezione ‘triadica’ del segno linguistico e del processo referenziale, aristotelica e tradizionale (significante, significato, referente; ovvero, ‘le parole servono a denominare le cose’) piuttosto che quella ‘diadica’ e totalmente convenzionale (significante e significato indipendenti dai realia e costruiti attraverso un’operazione cognitiva: ‘le parole servono a denominare i significati’) valida per tutti gli altri nomi.
Si dovrà poi aggiungere che, se con significato s’intende il livello fondamentale del processo referenziale, ovvero quello linguistico (o denotativo), nei nomi propri, che pure originariamente ne sono quasi sempre dotati, esso tende spesso ad affievolirsi, a opacizzarsi fino (di frequente) alla scomparsa totale; e questo a vantaggio di nuovi significati, collegati a insiemi di conoscenze condivise dalla società ospitante, che possono anche fare del nome proprio un emblema di valori e disvalori, di identità personali o collettive.
Per fare alcuni esempi noti nel campo dell’antroponimia personale, il significato originario del nome Francesco («francese») non contribuisce certamente a spiegare il suo successo postmedievale in tutta Europa (spagnolo Francisco, francese François, inglese Francis, tedesco Franz), dovuto invece ovviamente al culto del santo di Assisi e alla diffusione dell’ordine che da lui prese il nome. Che il personale Adolfo significhi originariamente (al livello cronologico dell’antico germanico Athawulf da cui deriva) «nobile lupo», poco dice in realtà della motivazione del suo uso per i pochi italiani che lo portano (Rossebastiano, Papa 2005, ad vocem) fino alla fine degli anni Trenta del 20° sec., quando, sull’onda del patto Roma-Berlino, esso aumentò significativamente le sue attestazioni. Nella toponomastica, la frequenza di microtoponimi come America – fra le altre attestazioni Pocapaglia (Cuneo), Adria (Rovigo), Grizzana Morandi (Bologna), Amerique a Quart (Aosta) – o Abissinia – Lenno (Como), Riccione (Rimini), Albenga (Savona) – raccoglie certamente l’eco di vicende storiche condivise dalla società italiana (l’emigrazione, le guerre coloniali) al di là del significato linguistico che i nomi portano, siano essi intesi nel senso proprio dei toponimi esotici cui si riferiscono, o (come alcuni etimologisti pensano) derivino da rietimologizzazioni di significati originari, collegati invece a voci come mariscus («paludoso») o bissa («biscia»).
Da questo punto di vista, si può dire che una porzione consistente del significato dei nomi propri attiene dunque piuttosto a quel livello che il linguista inglese John Lyons ha definito in termini di ‘significato sociale’ (l’aspetto del significato connesso alle relazioni sociali fra i parlanti, come ‘saluto di commiato’ per arrivederci o ‘meraviglia’ per accidenti!), nella misura in cui la riutilizzazione di un nome proprio dipende in larga misura dai nuovi significati sociali e culturali che a esso vengono associati con il passare del tempo, i quali tendono a svuotare il significato linguistico originale e a prevalere su di esso (Raimondi 2012, pp. 11-16).
Sotto il profilo pragmatico, invece, è rilevante notare che l’atto di ‘nominazione’ (cioè l’imposizione di un nome proprio a un referente, come è per es. la scelta di un nome di battesimo per il proprio figlio), pur rappresentando in effetti un caso specialissimo del processo più generale e frequente della ‘denominazione’ (l’istituzione di un rapporto fra un nome e un significato), è dotato di una particolare salienza percettiva nell’ambito della cultura umana, in ragione di due fatti.
Da un lato, esso rappresenta l’unico atto denominativo che l’essere umano sperimenti realmente nel corso della propria vita linguistica, dato che, mentre le denominazioni comuni provengono all’uomo per via ereditaria e come frutto di una contrattazione linguistica che è già avvenuta precedentemente nella comunità sociale dei parlanti, l’imposizione di un nome proprio (ai figli, ai propri animali domestici, alle coordinate topografiche della nostra vita, come chiamare la propria casa Villa Ada, il proprio negozio Da Renato, ecc.) comporta indubbiamente il ruolo linguistico attivo del soggetto denominatore. In questo senso è indicativo che molte formulazioni culturalmente prototipiche dell’atto denominativo (come per es. il racconto biblico della denominazione adamitica in Genesi 2, 19: «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome») si conformino in realtà alla prassi dell’atto individuale di nominazione, più semplice, lineare e comprensibile rispetto alla propria (astorica) dinamica interna.
In maniera complementare, la valenza della nominazione scaturisce anche dalla percezione della sua potenza pragmatica, derivante dagli effetti ‘perlocutivi’ (secondo la terminologia propria della teoria degli atti linguistici di John L. Austin e John Searle) che essa visibilmente produce, nella misura in cui è capace di agire sulla realtà, mutando lo stato di un referente da indeterminato (un cane qualunque) a determinato (Orso, il mio cane), di individualizzarlo e di collocarlo stabilmente e durevolmente nello spazio sociale pertinente del soggetto nominante.
Infine, la posizione del nome proprio è rilevante anche rispetto ai rapporti che collegano la lingua con la funzione eminentemente antropologica (già considerata da Claude Lévi-Strauss nel suo La pensée sauvage del 1962, secondo il quale il nome proprio rappresenta nell’ambito del processo tassonomico attraverso cui l’uomo categorizza la realtà «le dernier niveau classificatoire: celui de l’individuation»; cit. in Caprini 2001, pp. 33-49) che il linguaggio svolge al fine di ordinare e interpretare tassonomicamente lo spazio culturale delle società umane.
Da questo punto di vista, l’inclinazione della specie umana a definire attraverso gli atti di nominazione un particolare ‘ancoraggio’ della lingua ai contesti reali dell’esperienza comunitaria (i luoghi, le famiglie, i singoli individui che ne costituiscono il tessuto) ha prodotto in ogni epoca e in ogni luogo la costruzione, attraverso la creazione, l’adozione e la trasmissione dei nomi propri, di un ‘paesaggio onomastico’, da considerare come funzionale all’appropriazione culturale dello spazio circostante e alla costruzione della categoria (peraltro estremamente sfuggente, critica e controvertibile) della ‘identità’ culturale. A seconda delle epoche e della costruzione differenziata, su scale più ampie o più ristrette, degli spazi politici ed economici di azione delle comunità umane, tale identità si è sviluppata in dimensioni che vanno dalla visione globalizzante degli imperi o di tutte le forme politiche sovranazionali, a quella sovralocale collegata alla fase della costruzione delle identità (e contemporaneamente delle coscienze linguistiche) degli Stati nazionali moderni, a quella soggiacente, ma sempre attiva (soprattutto in nazioni come l’Italia) delle sfere identitarie regionali e locali.
Riprendendo il quadro teorico sinora esposto, la particolare concretezza referenziale (determinata sia da ragioni strutturali semantiche sia dalle funzioni antropologico-culturali appena evidenziate) e il marcato valore sociale e culturale della categoria dei nomi propri (connesso a sua volta al particolare tipo di significato sociale veicolato dalla loro scelta, alla loro valenza autoaffermativa a livello pragmatico, alla loro natura antropologica di simboli identitari) rendono dunque questo settore della lingua particolarmente interessante ai fini di una delineazione complessiva del paesaggio culturale italiano, così come esso può declinarsi alla luce del parametro della ‘regionalità’.
Sul piano della variazione ‘diatopica’ (ovvero la variazione delle lingue nello spazio geografico) è infatti evidente che i percorsi storici differenziati che, dall’antichità ai giorni nostri, le diverse aree dell’Italia (a partire dal 1970 identificate anche amministrativamente come regioni) hanno compiuto, hanno segnato profondamente il carattere del loro paesaggio onomastico tradizionale. La differenziazione regionale onomastica ricalca in buona parte, da questo punto di vista, la differenziazione dialettale, e le sue ragioni discendono quindi anche (oltre che dalle normali dinamiche evolutive interne ai diversi sistemi linguistici) dai fattori interlinguistici (influenze di ‘sostrato’, di ‘adstrato’ e di ‘superstrato’) che si è soliti richiamare per la seconda, per cui sarà possibile parlare (volta a volta) di toponimi di etimo celtico, etrusco, greco oppure germanico o arabo; e di nomi personali o familiari analogamente derivanti da matrice germanica, greca, normanna, angioina, e via dicendo, riferendosi in pratica allo strato ‘etimologico’ dell’onomastica e alludendo implicitamente al suo carattere ‘relittuale’.
Da un punto di vista ‘diacronico’ (cioè relativo alla variazione della lingua sull’asse del tempo), tuttavia, questa stratificazione linguistica agisce in maniera differenziata sui tre principali settori dell’onomastica (toponomastica, antroponimia personale, antroponimia familiare), in relazione sia alla collocazione cronologica degli atti di nominazione che spiegano le forme attualmente note, sia alla differente ‘semiosi’ (il processo di attribuzione di significato) che li caratterizza.
Per i toponimi e per i nomi di famiglia, l’attribuzione di significato avviene attraverso una contrattazione linguistica che si svolge nel quadro delle comunità sociali e linguistiche di riferimento. Per i primi essa è avvenuta in epoche differenziate, che vanno dalla remota antichità (come per i toponimi prelatini che la romanizzazione ha accolto nel suo panorama toponimico, trasmettendole alla posterità) fino potenzialmente alla contemporaneità (per es. per i nomi delle aree urbane); e si è svolta su scale comunitarie differenziate, potendo per es. riconoscere nelle due grandi categorie dei ‘macrotoponimi’ e dei ‘microtoponimi’ gli estremi della contrattazione linguistica ‘intercomunitaria’, valida su scala sovralocale, e di quella ‘intracomunitaria’. Per i nomi di famiglia, invece, il periodo di creazione si colloca per la penisola in un arco di tempo definito (fra 9° e 16° sec. circa), corrispondente al periodo storico in cui l’istituzione del cognome nacque e si consolidò.
Anche se le mitologie di fondazione delle città (come quelle medievali relative a Milano, che ne collegano il nome a due personaggi immaginari, Medio e Lano, o alla presenza di un maiale ‘per metà lanuto’ al momento della fondazione) spesso spiegano la nascita del toponimo attraverso una sorta di battesimo da parte di un eroe o di una divinità, riproducendo in un certo senso il già citato mito adamitico della nominazione, lo studio etimologico mostra sempre la presenza di una motivazione concreta e denotativa, e quindi convenzionalmente valida (come è nella natura stessa del linguaggio) e ‘socialmente contrattata’ – nel caso specifico, la posizione della città in medio lano («in mezzo alla pianura»), dal celtico lano affine al latino planum («pianura»; cfr. Marcato 2009, pp. 109-11, anche per i casi analoghi delle mitologie riguardanti Roma, Firenze e Venezia).
Un’analoga condivisione sociale della denominazione vale per i nomi di famiglia, creati appositamente per individuare i nuclei familiari all’interno dei borghi medievali (gli Alighieri, cioè i discendenti di un Alighiero; i Portesi, cioè quelli che abitano vicina alla porta; i Marescalchi, cioè coloro che hanno come attività familiare la mascalcia; i Grandi, cioè quelli alti di statura) e quindi, proprio per questa ragione genetica, necessariamente dotati anche di un valore linguisticamente riconoscibile e condiviso da tutti.
Questa motivazione semantica socialmente condivisa (che nei toponimi e nei nomi di famiglia finisce in effetti per far coincidere, nell’atto di nominazione, il significato linguistico del nome proprio con quello sociale) è invece molto più debole al momento della scelta di un nome di battesimo da parte dei genitori. In questo specifico contesto, infatti, balza in primo piano il significato sociale, determinato dalle motivazioni culturali, etiche o estetiche parent-oriented, cioè viste in prospettiva genitoriale, di chi compie l’atto linguistico (Marcato 2009, pp. 60-61): la tendenza al mantenimento di tradizioni onomastiche locali o, viceversa, all’originalità e alla libertà antroponimica; la minore o maggiore attenzione al significato e al valore (nuovamente culturale, etico o estetico) che la collettività attribuirà a quel nome, sono le componenti che guidano la scelta genitoriale all’interno del repertorio di nomi personali disponibili e che spiegano la natura di quel vero e proprio ‘atto semiotico’ che è il battesimo molto più che non l’individuazione dello strato linguistico di origine di un nome (ebraico, latino, greco o germanico), che pure è il presupposto indispensabile a spiegarne il significato linguistico (sempre presente, come per i toponimi e i nomi di famiglia).
Un aspetto generale accomuna invece toponimi, nomi personali e nomi di famiglia, anche se con ricadute diverse: per tutte tre le categorie, le forme linguistiche attuali dipendono da una dialettica storica fra forma orale e forma scritta, dato che proprio la tendenza alla trasmissibilità che caratterizza i nomi propri comporta anche che essi in un determinato momento – sia esso quello della documentazione toponimica antica, o quella degli atti notarili e dei documenti fiscali medievali, o quella più moderna dei registri battesimali postridentini, dei catasti e delle anagrafi (Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 44-49) – debbano essere messi per iscritto. Da questo momento in poi, la divaricazione fra le forme linguistiche del nome proprio (quella originaria, che magari continua a essere in parte tramandata per via orale; quella cristallizzata nello scritto, anch’essa passibile di variazioni in prospettiva) aumenta, in direzione sia di una progressiva opacizzazione del significato, sia della perdita delle relazioni etimologiche intercorrenti fra le diverse forme. Il cognomen latino Augustus, per es., è con tutta evidenza l’antecedente etimologico del nome di battesimo italiano Augusto (Rossebastiano, Papa 2005, ad vocem), che ne riprende integralmente la forma tramandata dagli scritti latini; parallelamente, tuttavia, lo stesso nome genera a livello volgare il diminutivo Agostino (e non Augustino), che oggi (almeno a livello di sensibilità comune) risulta indipendente dal primo, mostrando una trafila orale parallela a quella che nella nostra lingua porta da feriae Augusti (le festività estive introdotte dal primo imperatore romano) alla parola ferragosto. Analogamente, in campo toponomastico, Augusta (Siracusa), fondata dallo stesso imperatore in Sicilia, riprende il suo nome integralmente latino solo nel 1860, perché prima è attestata fin dal Medioevo come Agosta (Marcato 2009, p. 142); mentre Augusta Praetoria delle Alpi (Aosta) mantiene a livello ufficiale il nome italianizzato (e francesizzato, Aoste) che non rappresenta né la forma scritta originaria latina, né l’esito orale locale (ùta in francoprovenzale).
Quanto delineato evidenzia i limiti intrinseci di un discorso che volesse affrontare la descrizione del paesaggio onomastico italiano sotto l’esclusiva prospettiva della ‘produttività’ contemporanea di questo settore della lingua. Per i nomi di luogo e di persona, in effetti, solo lo scavo etimologico consente di delineare il preciso quadro di riferimento culturale in relazione ai significati linguistici e a quelli sociali, ai ‘momenti denominativi’ e a quelli ‘nominativi’, nell’ambito della millenaria trafila formativa dei toponimi e degli antroponimi italiani.
Un segno di questo particolare profilo epistemologico della discilina onomastica è rappresentato dalla storia degli studi italiani del settore che, incardinandosi fin dagli inizi alla nascita della moderna linguistica storico-comparativa, ha prodotto a partire dalla fine dell’Ottocento una grande quantità di contributi scientifici, per i quali si rimanda alle bibliografie contenute nelle opere più moderne e generali (in particolare Pellegrini 1990; Gasca Queirazza, Marcato, Pellegrini et al. 1990 per i toponimi; Rossebastiano, Papa 2005 per i nomi personali; Caffarelli, Marcato 2008 per i nomi familiari) utilizzate come base documentaria e anche per i riferimenti etimologici, semantici e storici dei nomi citati (quando non diversamente indicato) nelle parti successive.
Il filo rosso che si è deciso di seguire qui, per la reductio ad unum di una materia così complessa, è invece quello di una trattazione che cerchi di collegare il passato alla contemporaneità, mostrando da un lato le analogie fra il costituirsi storico del patrimonio onomastico e i margini di operatività che la modernità ancora riserva ai processi di semiosi che lo hanno determinato. Si inizia quindi con il delineare per sommi capi il quadro d’insieme della tradizione onomastica italiana, nelle sue componenti dei nomi di luogo, dei nomi di battesimo e dei nomi di famiglia, analizzati sia (per toponimi antichi e nomi di battesimo) sulla base della stratificazione linguistica, sia (per toponimi di matrice volgare, microtoponimi e cognomi) a partire da una classificazione funzionale a illustrare i processi fondamentali della semiosi onomastica, osservata in base alle due modalità principali entro cui essa pare svolgersi: quella ‘descrittiva’, che utilizza i termini della lingua comune trasformandoli in nomi propri, e quella ‘onimica’, che si serve, riutilizzandoli per nuovi fini identificativi, di nomi propri già esistenti.
Alla descrizione del patrimonio onomastico tradizionale, la cui conoscenza è indispensabile per comprendere come la moderna ‘Italia delle regioni’ si sia con esso confrontata (accogliendolo e conservandolo, innovandolo, reinterpretandolo), si farà seguire una serie di approfondimenti incentrati su quattro aspetti della contemporaneità: la ricezione della facies toponomastica italiana in rapporto al concetto di ‘identità’ regionale; la produttività toponimica delle epoche più recenti; le tendenze ultime (dagli anni Settanta in poi) dell’onomastica battesimale italiana; il cambiamento recente nella connotazione di ‘regionalità’ dell’insieme dei cognomi nelle diverse aree italiane.
Dal punto di vista referenziale, i toponimi si suddividono innanzitutto in ‘macrotoponimi’ (i nomi di luogo riferentisi a regioni istituzionali o geografiche, i nomi di fiumi e laghi, di montagne, di città e paesi) e ‘microtoponimi’ (piccoli insediamenti abitativi e frazioni, località interne al comune, corsi d’acqua minori, toponomastica urbana). La terminologia specifica individua poi le sottocategorie dei ‘coronimi’ (nomi di regioni o di aree territoriali), dei ‘poleonimi’ (nomi di insediamenti umani, quali città, paesi, frazioni ecc.), degli ‘idronimi’ (nomi di fiumi e torrenti), dei ‘limnonimi’ (nomi di laghi) e degli ‛oronimi’ (nomi di rilievi e montagne).
Come si è già detto, la conservatività connaturata ai nomi di luogo determina per la toponomastica un processo di vera e propria stratificazione, al contempo linguistica e culturale, il cui risultato è rappresentato dalla facies toponimica attuale del territorio italiano. Da un punto di vista storico, i toponimi italiani possono essere classificati in relazione allo strato linguistico entro cui hanno avuto la loro origine prima, e si è soliti distinguere in linea molto generale fra: toponimi ‘di sostrato’ (quelli originatisi molto anticamente nel quadro delle lingue che hanno preceduto l’impiantarsi del latino, divenuto poi la matrice delle varietà linguistiche endemiche della penisola); toponimi ‘di epoca romana’ (di fondazione latina, nati nel quadro della romanizzazione della penisola, che a seconda delle aree va dall’8° sec. a.C. all’anno zero, e in età imperiale); toponimi ‘di superstrato’ (riconducibili a momenti fondativi e a strati linguistici successivi all’impiantazione del latino, come sono per il periodo altomedievale quelli determinati dallo stabilirsi sul territorio italiano di popolazioni di ceppo germanico, arabo o neogreco, cioè bizantino). A parte è qui considerata la categoria dei toponimi ‘delle aree alloglotte’ (escludendo però l’area alpina occidentale e quella retica, le cui parlate ‒ occitane, francoprovenzali e ladine ‒ si pongono entro un continuum dialettale romanzo e presentano pertanto una situazione stratigrafica simile a quella del territorio italiano, insieme al quale verranno trattate), dove l’antichità o la pervasività della presenza alloglotta ha determinato una per lo meno parziale rifondazione del repertorio toponimico e dove, quindi, i rapporti di stratificazione fra le lingue sono mutati.
A questa quadripartizione seguirà poi una sintesi basata su un differente quadro classificatorio di carattere semiotico, funzionale a illustrare la varietà delle motivazioni semantiche collegate alla creazione dei toponimi e a esemplificare la loro variazione regionale. Anche se quanto sarà esposto vale in realtà (a livelli diacronici diversi) per tutta la toponomastica, in questa parte ci si concentrerà essenzialmente sulla ‘toponomastica neolatina’, che per sua natura si sottrae alla lettura puramente stratigrafica.
Al sostrato più antico sono ascrivibili basi etimologiche genericamente qualificabili come ‘preindoeuropee’, ovvero anteriori agli spostamenti dei popoli di lingua indoeuropea dall’Asia centrale, nel quadro della cosiddetta teoria kurganica, migrati verso ovest fra il 4° e il 2° millennio a.C. Si tratta di basi (per un elenco delle quali, preceduto e seguito dalle opportune cautele glottologiche sulle nozioni stesse di preindouropeo e mediterraneo, si veda Pellegrini 1990, pp. 43-44) generalmente ad ampia diffusione italiana (e talvolta europea), apparentemente non riconducibili agli strati linguistici successivi, quali carra («sasso») – Chieri (Torino), Carro (La Spezia), forse Carrara e Cremona, da una variante carm-, che si ritrova anche negli oronimi liguri come Monte Carmo –;mel- («monte, rilievo»), in molta microtoponomastica alpina, lama («acquitrino»), nuovamente in microtoponimia sia nel Nord, in Piemonte e Veneto, sia nel Sud, come San Marco in Lamis (Foggia). Sono preindoeuropei anche tipi affioranti nella macrotoponomastica, come alba («rilievo» o «città posta su un rilievo») – da cui il nome delle Alpi –, che compare nei nomi già antichi di città liguri come Ventimiglia (Imperia; Album Intemelium, cioè «città degli Intemeli»), Albenga («città degli Ingauni») e Albisola (Savona; Alba Docilia), in Piemonte Alba (Cuneo; Alba Pompeia); oppure, negli idronimi, il tema dor- («fonte, corso d’acqua») che si ritrova in un’area estesa dal Piemonte e Valle d’Aosta (Dora Baltea, Dora Riparia), alla Francia (Durance, Adour), alla Penisola Iberica (Duero e basco iturri «fonte»; cfr. Raimondi 2003, p. 25). Nel Nord-Ovest d’Italia questo strato finisce spesso per confondersi con la nozione di ‘sostrato ligure’, in riferimento alla più conosciuta delle popolazioni prelatine dell’area; ma anche con lo stadio successivo in cui i Liguri e i successivi Celti (o Galli) si fusero probabilmente in un’unica etnia. Tipicamente ligure è però ritenuto il suffisso -asco, che si trova soprattutto in Piemonte (Grugliasco, Torino; Cherasco e Bagnasco, Cuneo) ancora più che in Liguria (Borzonasca, Genova).
Passando allo strato indoeuropeo, l’Italia del Nord risente principalmente della presenza di due popolazioni, i Celti (nel Nord-Ovest, lungo tutta la fascia alpina e nella Pianura Padana fino al limite di Senigallia, Ancona, Sena Gallica, appunto) e i Veneti (in una larga fascia costiera del Nord-Est).
Sono di stampo celtico nomi di città come in Piemonte Ivrea (Torino; in latino Eporedia, dal celtico epo, «cavallo» e reda «carro») e Susa (Torino; Segusia, da sego, «forza»), in Veneto Belluno, dove si ravvisa uno dei formanti celtici più sicuri, e cioè dunum, «fortezza», riscontrabile anche in Verduno (Cuneo), Induno Olona (Varese) e in altri noti nomi di antiche città celtiche come Augustodunum, l’odierna Autun in Francia, e Singidunum, antico nome di Belgrado, in Emilia Bologna, da bona («fondazione»), sulla preesistente Felsina di origine etrusca; oppure idronimi come l’emiliano Reno, da rino («fiume»), da cui anche Rino, torrente nel Bresciano, e l’omonimo e maggiore Reno tedesco; o basi ricorrenti in microtoponomastica come briga («monte»), anche in macrotoponimi come Briga Alta (Cuneo), Briga Novarese e Briona (Novara) e nel coronimo Brianza (da un derivato Brigantiam), così come in voci dialettali come il ligure briccu o il piemontese bric («altura»; cfr. Marcato 2009, p. 140). È ritenuta di origine celtica, inoltre, la presenza nei toponimi di suffissi quali -ate (soprattutto nel Piemonte orientale e in Lombardia: Biandrate, Novara; Carugate, Milano; Olgiate, Varese, ecc.) e -ago, -igo (da -acum, -icum: Cambiago, Milano e Inverigo, Como). Più limitata l’influenza venetica, che si riscontra in una base come terg- («mercato»), da cui Opitergium (oggi Oderzo, Treviso) e anche il nome di Trieste (Tergeste). Il Nord-Est è contrassegnato anche da un influsso celtico – i cosiddetti Gallo-Carni (Pellegrini 1990, 129-30) – riscontrabile nella presenza del suffisso -acum in esiti però peculiari del territorio, quali -acco (Martignacco, Cargnacco, Udine) e -asio (Vendasio, Udine).
Nel Centro-Italia vanno menzionati gli Etruschi, di origine orientale, e le popolazioni italiche degli Osco-Umbri, dei Falisci e dei Piceni, tutti affini ai latini e complessivamente stanziati fino alla Calabria settentrionale. Al di là della sicura origine etrusca di poleonimi dell’area tosco-laziale come Volterra (Pisa), Populonia (Livorno), Vetulonia (Grosseto), Velletri (Roma), lo stato attuale di conoscenza dell’etrusco suggerisce per ora corrispondenze toponimiche con la sua onomastica personale: al gentilizio Velzna attestato nelle iscrizioni etrusche, sarebbero per es. accostabili toponimi come Bolsena (Viterbo) e Felsina, antico nome etrusco di Bologna (entrambe «città dei Velzna»). Al sostrato etrusco è in genere ricondotta anche la suffissazione in -ena, -enna (Bolsena, Ravenna). Osca è invece l’origine di Todi (Perugia; da tuder «confine»), di Città di Castello (anticamente Tiferno, nome in cui compare il tipico esito osco del lat. Tiber alla base dell’idronimo Tevere), ma anche di poleonimi come Pompei (da pompe, forma italica del latino quinque, «cinque», forse «unione di cinque villaggi»; cfr. Pellegrini 1990, pp. 60-78).
Per la Sardegna, il sostrato di riferimento è rappresentato dal cosiddetto ‘paleosardo’, di impronta prelatina e mediterranea, cui sono riconducibili basi come gon(n)- («collina», in Goni, Cagliari, e Gonnesa, Carbonia-Iglesias) e cuccuru («cima»), in oronimi come Cuccuru Nieddu nel Nuorese.
Nell’Italia meridionale, oltre alla già citata presenza degli Osci e degli altri popoli italici – rispetto ai quali si ricorda che il nome stesso di Italia risalirebbe alla denominazione riservata originariamente dai Greci alla Calabria, Uitulìa cioè «terra dei vitelli» o «degli Itali» (Pellegrini 1990, p. 69) –, sono da ricordare i Messapi, popolazione indoeuropea stanziata nella Pensiola salentina, cui si deve la fondazione di Manduria (Taranto; da mando, «cavallo») e della stessa Bari (da una base baur- «casa, riparo»).
A metà strada fra il sostrato e le influenze di ‘adstrato’ (cioè all’influenza da contatto linguistico in sincronia) si colloca poi l’apporto di due popoli con i quali i Romani ebbero rapporti costanti di vicinato, e cioè i Greci e i Puni o Cartaginesi. Mentre per la lingua semitica dei secondi si può fare sicuro riferimento quasi esclusivamente a toponimi antichi come Tharros («scoglio»), i cui resti si ammirano oggi a Cabras (Oristano), o Enosim («isola degli avvoltoi»), nome punico dell’Isola di San Pietro (Carbonia-Iglesias), alla lingua greca si rifanno innazitutto i nomi di diverse importanti città siciliane di fondazione o di dominio greco come, fra le altre, Palermo (Pànormos, «grande porto»), Trapani (Drèpana, «falce»), Cefalù (da kefalé, «testa»); ma segni toponomastici della colonizzazione greca si ritrovano in tutta la Sicilia, nella Calabria ionica e nel Salento – Gallipoli (Lecce, da Kallìpolis, «città bella»; Pellegrini 1990, pp. 78-83) – fino al limite settentrionale adriatico di Ancona, dal greco àncon («gomito»), riferito al promontorio del Conero.
Nella categoria dei toponimi latini in senso stretto (Marcato 2009, pp. 141-45) si menzionano innazitutto le città di fondazione (o di rifondazione) romana, secondo moduli linguistici ricorrenti come il ‘nome augurale’: Placentia › Piacenza, Faventia da faveo («sono favorevole») › Faenza (Bologna), Florentia › Firenze, Valentia da valeo («sto bene») › Valenza Po (Alessandria); o la dedica: le varie Augusta, da cui Aosta, Torino (già Augusta Taurinorum), Augusta (Siracusa); e anche Forum Livii › Forlì. Impronte particolari della modalità romana di gestione territoriale si ritrovano poi in alcune tipologie toponimiche, quali i cosiddetti ‘toponimi prediali’, costruiti sul nome personale dell’assegnatario di un praedium («fondo agricolo»), presenti in larga parte della penisola e riconoscibili per la forma suffissale aggettivale, in genere in -anus – fundus Gratianus («fondo di Gratus») › Gressan (Aosta), Carminianus («fondo di Carminius») › Carmignano di Brenta (Padova), Octavianus («fondo di Octavius») › Ottaviano (Napoli) –, o anche con suffissazione regionale specifica (in -asco nell’area nord-occidentale, in -ago e -ate dalla Lombardia al Veneto, in -acco in Friuli); oppure nei toponimi ‘da centuriazione’, conseguenti cioè alla misurazione dei fondi da assegnare, espressi attraverso numerali come quadringenta (iugerum › Quargnento , Alessandria), ducenta (› Dugenta, Benevento), nonaginta (Nonantola, Modena); o ancora nei toponimi indicanti la distanza miliaria da un centro maggiore, come Settimo Torinese, Sesto San Giovanni, Milano, Tricesimo, Udine (trentesimo miglio da Aquileia), a volte meno riconoscibili per evoluzione fonetica locale, come Nus (‹ nonus) e Diémoz (‹ decimus) presso Aosta, Tavo (frazione di Vigodarzere, Padova) e Occhiate (frazione di Brugherio, Milano, con aggiunta del suffisso collettivo -ate), all’ottavo miglio rispettivamente da Padova e Milano.
Nelle epoche successive, la toponomastica italiana ha ricevuto il contributo degli strati linguistici sovrappostisi a quello latino (‘superstrato’), differenziati anch’essi spesso per area geografica.
La toponomastica di stampo germanico interessa una larga parte del territorio italiano e può riferirsi a diverse tipologie. A un primo livello si possono menzionare gli etnici dei diversi popoli germanici: per i Goti Goito (Mantova), Monghidoro (Bologna, ‹ Mons Gothorum) o Sant’Agata dei Goti (Benevento); per i Longobardi, Lombardore (Torino, ‹ castrum Longobardorum) e molto probabilmente anche formazioni dell’Italia meridionale come Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino), che può però anche riferirsi al significato che lombardo («abitante dell’Italia settentrionale») assunse poi nel Medioevo (Marcato 2009, p. 146); per le popolazioni minori si tengano presenti toponimi come Verolengo (Torino) dal popolo degli Eruli, Soave (Verona) dagli Svevi, Sassinoro (Benevento, e anche località a Sant’Arcangelo di Romagna, Rimini) dai Sassoni, o Bolgheri (Livorno) dai Bulgari, popolazione slava ma discesa in Italia a seguito dei Longobardi. Tipicamente germanici sono poi (Raimondi 2003, pp. 66-67; Marcato 2009, pp. 148-49) alcuni toponimi d’insediamento come Fara (con riferimento al nome longobardo dei corpi di spedizione di cui questa popolazione si serviva per la colonizzazione migratoria), che si ritrova nella macro- e nella microtoponomastica italiana dal Nord – Farra d’Isonzo (Udine), Fara Gera d’Adda (Bergamo), Fara Novarese – al Sud – Fara San Martino (Chieti), fino al limite meridionale di Serra Fara Cafiero, Genzano di Lucania (Potenza) – oppure, Gualdo, da wald («bosco da taglio»), da cui Gualdo Tadino e Gualdo Cattaneo (Perugia), ma anche Gallo (Caserta), Gualdum nei documenti medievali, o gahagi («bosco recintato»), presente come Gazzo, Gaggio al Nord, come Cafaggio in Toscana e nel Centro-Italia, come Cafaio o Caio nell’area dell’antico Ducato di Benevento (Pellegrini 1990, p. 274). Al superstrato germanico rimontano anche le forme suffissali -ingo, -engo, spesso applicate a personali come Odalengo (Alessandria), Bodengo (Sondrio) con funzione prediale («terra di Odalo, di Bodo»).
I lasciti degli Arabi sono naturalmente copiosi in Sicilia, per es. nei vari macrotoponimi che contengono i tipi qal‛a («castello»), come Caltanissetta, Calatafimi (Trapani), Calatabiano (Catania), ǧabal («monte»), come Gibellina (Trapani), e il nome antico dell’Etna, Mongibello, oppure marsā («porto»), come Marsala (Trapani). L’arabo ha inoltre lasciato tracce importanti nella veste fonetica moderna assunta da toponimi più antichi, per es. greci come Pànormos, che è attestato per la prima volta nella sua forma attuale, con passaggio da -n- a -l-, proprio dai documenti arabi (Balarm; Pellegrini 1990, pp. 295-96).
Lo strato bizantino (7°-9° sec.) si sovrappone e si confonde spesso con quello greco nell’Italia meridionale. Di fondazione bizantina è però sicuramente Gerace (Reggio Calabria), da gheràki («sparviere»), e indicativi dell’apporto grecofono di questo periodo sono nella Calabria meridionale i molti microtoponimi con terminazione in -à, -ò, -ì, come per il tipo Platì («largo»), da cui l’omonimo macrotoponimo odierno in provincia di Reggio Calabria, o in -ace/-aci. Un’influenza bizantina è ravvisabile anche nella toponomastica religiosa della Sardegna, data la forte presenza di agiotoponimi costruiti con nomi di santi greci, come Sant’Antioco (Carbonia Iglesias), e in microtoponomastica San Basilio, San Procopio, ecc. (Pellegrini 1990, pp. 85-86).
Per quanto riguarda le aree alloglotte italiane, la loro caratterizzazione stratigrafica dipende dall’epoca di stanziamento delle rispettive popolazioni non romanze. Laddove lo stanziamento (come per i Walser, in Valle d’Aosta e in Piemonte intorno al Monte Rosa, e per le popolazioni tedesche di Trentino, Veneto prealpino ‒ minoranza cimbra ‒ e Friuli) è avvenuto dall’11° sec. in avanti, la toponimia preesistente (prelatina, latina e latino-volgare) è stata conservata integralmente, come per Gressoney (Aosta), fitotoponimo dal francoprovenzale cresson («crescione»), o più raramente adattata, anche attraverso reinterpretazioni; è per es. il caso di Slege/Schläge, nome dialettale cimbro e tedesco standard di Asiago (Vicenza), in realtà un prediale latino-gallico del tipo Aciliacus, da cui le testimonianze medievali del tipo Asigliagum (Pellegrini 1990, pp. 408-10), risemantizzati a partire dal termine Schlege («taglio dei boschi»). Una situazione analoga si verifica nelle isole alloglotte del Sud dell’Italia (serbo-croate in Molise, albanesi in varie regioni del Sud, greche in Calabria e Salento), dove l’influenza produttiva delle alloglossie si riverbera essenzialmente sul settore della microtoponomastica (Pellegrini 1990, rispettivamente pp. 303-304 e pp. 404-406).
Un adattamento più capillare, unito alla presenza maggiore di denominazioni autonome, come per Colle Isarco (Bolzano), in tedesco Gossensass («insediamento di Goti»; il nome italiano è una creazione di inizio Novecento), si osserva invece per l’Alto Adige, popolato da germanofoni tirolesi a partire dal 10° secolo. In questo caso la crasi fra forme latine e neolatine preesistenti da un lato, tedesche dall’altro, si mostra più marcata: si pensi a Welshnofen/Nova Levante (Bolzano), dove il nome tedesco è composto dal germanico Welsh («latino, non germanico»), riferito ai ladini che la abitavano, e dal latino novae («terre dissodate») adattato foneticamente al tedesco (Pellegrini 1990, p. 415).
Più complessa la situazione per l’area alloglotta slovena del Friuli, dove la toponimia di fondo sloveno e quella di fondo romanzo creano un mosaico molto complesso, con toponimi di matrice esclusiva slava (Pellegrini 1990, pp. 296-303), come per la stessa Gorizia dal diminutivo sloveno gorica («piccolo monte, collina»), influenze slave che travalicano il limite attuale dell’alloglossia, com’è per Gradisca (Gorizia), dallo slavo gradišče («fortezza»), ma anche presenza di toponimi precedenti adattati, come Cormons (Gorizia), da una forma sicuramente non slava Cormones, o il microtoponimo sloveno Mažerole, Torreano (Udine), adattamento sul friulano Masarolis dal latino maceria («rudere»), oppure dotati di doppia e indipendente denominazione, come Lusevera/Bardo (Udine), il primo da (pars) lucifera («posta a oriente»), il secondo dallo sloveno brdo («colle»).
A una disamina puramente stratigrafica si sottrae invece la grande massa di toponimi (nella categoria particolare dei microtoponimi, praticamente la totalità) formatisi nel quadro del graduale cambio linguistico che ha trasformato il latino volgare di età tardoimperiale nei volgari medievali (6°-11° sec.) e poi nelle lingue e nei dialetti odierni (11°-21° sec), che si possono per brevità definire ‘toponimi neolatini’.
Nell’obiettiva difficoltà di rendere rapidamente conto della complessità dell’insieme, determinata dal duplice piano della numerosità tipologica e della grande variazione diatopica delle forme, si intende proporre ora un approccio classificatorio semplificato rispetto alla tradizione di studi toponomastici (Raimondi 2003, pp. 27-31; Marcato 2009, pp. 155 e segg., pp.167 e segg.), incentrato sul processo semiotico soggiacente all’atto di nominazione originario del luogo, i cui significati verranno espressi, per comodità, utilizzando i tipi toponimici italiani (e quindi ‘trasparenti’) corrispondenti. Verrà abbinato, poi, qualche rapido esempio che renda conto della grande variazione possibile su scala regionale dei tipi lessicali ed etimologici utilizzati.
Si precisa anticipatamente che questo approccio, qui applicato al solo sottoinsieme dei toponimi neolatini, è in realtà applicabile alla spiegazione semiotica di tutta la toponomastica, e che le singole tipologie semiotiche possono sempre essere usate in combinazione l’una con l’altra: per fare un solo esempio, nel toponimo Grottaminarda (Avellino), citato successivamente, la prima parte è costituita da un ‘toponimo descrittivo ambientale’ (Grotta), la seconda da un ‘toponimo onimico antroponimico‘ (Minardo, dal personale germanico Maynard).
Una prima categoria semiotica generale è costituita da quelli che si possono definire toponimi descrittivi, coniati cioè con l’intenzione di esprimere il carattere saliente di un luogo. Per il loro legame con il livello della lingua comune in uso nel contesto diacronico e diatopico entro cui è avvenuto l’atto di nominazione, i toponimi descrittivi presentano spesso un grado di elevata opacità, dovuto sia alla loro dialettalità, sia alla loro arcaicità.
All’interno della categoria sono compresi innanzitutto i toponimi descrittivi ‘ambientali’, riferibili all’aspetto morfologico che caratterizza il luogo (per es., Rocca, Valle, Piano, Palude/Padule, Grotta, ecc.), al tipo di vegetazione presente (‘fitotoponimi’: Querceto, Frassineto, Saliceto, ecc.), alla presenza di animali (‘zootoponimi’: Lupara, Caprara, Corvara, ecc.). Per questo sottoinsieme la varietà regionale italiana può essere illustrata dal significato «grotta, cavità naturale», che registra almeno otto tipi lessicali testimoniati dalla toponomastica: accanto a grotta ‹ crupta, forma tarda del latino crypta (in macrotoponimia diffuso soprattutto nel Centro-Sud: Grottaferrata, Roma; Grottaglie, Taranto; Grottaminarda, Avellino), si registrano infatti come tipi alternativi i prelatini balma/arma (alpino-occidentale: Balme, Torino; Balmuccia, Vicenza; Barmasc, Ayas, Aosta; Arma di Taggia, Imperia) e klapa (alpino-orientale: friulano claupa, «incassatura fra le rocce», ma anche «grotta», in microtoponimia Claupa di sopra, Ampezzo, Udine), lo sloveno jàma (Monte Jama, presso Chiusaforte, Udine), nonché una serie di forme concorrenti latine variamente diffuse sul territorio, come antrum (Landro, Bolzano, in tedesco Höhlenstein, letteralmente «pietra della caverna»; e microtoponimi in Veneto e Friuli, come Le Landre, Vittorio Veneto, Treviso; Antro, Pulfero, Udine), conca (letteralmente «conchiglia» in Sardegna, con microtoponimi come Conca de Mesu, Ollastra, Oristano; si veda oltre per il significato prevalente di «testa»), foramen (microtoponimi in Veneto, come Forame, Asiago, Vicenza, e Foran/Foram in Friuli), spelunca (Sperlonga, Latina, e Sperlinga, Enna, e frazione di Chiaramonte Gulfi, Ragusa).
Seguono i toponimi descrittivi ‘antropici’, motivati dal riferimento alle attività umane che si sono svolte funzionalmente all’antropizzazione (Scasso, «dissodamento del terreno», Tagliata, Bruciata; oppure i toponimi romani da centuriazione riportati sopra in lettura stratigrafica) o successivamente a essa (Stazzo, Granaio, Fabbrica «opificio», Orto), o dalla funzione del luogo (Castello, Pieve, Casale); in quest’ultimo gruppo si collocano per es. le formazioni trasparenti del tipo Villafranca/Francavilla, Villanova, Borgofranco, riferite a centri urbani sorti nel Medioevo centrale sull’onda dell’espansione demografica o come insediamenti dotati dal signore locale di speciale regime fiscale («franchige»), e alcune delle Terranova (per es. Terranova di Pollino, Potenza) dell’Italia del Sud. Come esempio di variabilità onomasiologica del gruppo dei toponimi descrittivi antropici, si può proporre il significato «ovile», che accanto al tipo latino ovile (in Piemonte Oviglia, a Lanzo, Torino, e Capriglio d’Asti, Asti; in Veneto Costa de Vil, Rocca Pietore, Belluno; in Alto Adige Flitt, Luson/Lüsen, Bolzano, dal ladino flitt ‹ ovilettum; in Sardegna, Villagrande Strisaili, Ogliastra, dove la seconda parte del nome rappresenta il sardo tres aìles, «tre ovili») offre sul territorio italiano i seguenti tipi: falda, di superstrato germanico, nel senso che ebbe nel basso latino di «recinto per le pecore» (Fardella, Potenza; e molti microtoponimi come Falda, Vittorio Veneto,Treviso, in Veneto); fetaria, da (ovis) foeta letteralmente «pecora gravida» (si vedano in Trentino tipi come Fedàre e il Passo Fedaia); iaceus da iacere, attestato nell’Italia del Sud con il tipo iazzo, «ovile» (in Puglia Iazzo San Giovanni, Brindisi, Iazzo Rivolta, Palagianello, Taranto, Jazzo Pagliara, Ruvo di Puglia, Bari; in Sicilia Iazzo Rosso, Paternò, Catania); pecorile da pecora (Pecorile in Toscana ed Emilia; Pegorile in Veneto); vervecarius/-a, da vervex, «pecora» (in Calabria Verbicaro, Cosenza; in Veneto microtoponimi come Barbegara, Bovolenta, Padova, o Barbeghera, Crespadoro, Vicenza).
La seconda categoria semiotica generale è invece rappresentata dai toponimi ‘onimici’, i nomi di luogo creati cioè attraverso la riutilizzazione di materiale onomastico preesistente. Il riutilizzo determina generalmente una maggiore trasparenza semantica del toponimo, inversamente proporzionale però alla sua antichità.
La categoria più produttiva (ma anche la meno trasparente, quando il personale in questione non sia riconoscibile) è costituita dai toponimi ‘antroponimici’ (tradizionalmente ‘antropotoponimi’), creati in genere per mezzo di forme suffissali applicate a un nome di persona, con il quale ci si vuole riferire generalmente all’individuo cui il luogo è collegato, per possesso, abitazione o altro tipo di relazione. Di questa categoria fanno parte ovviamente i prediali, cui si è precedentemente accennato, sia propriamente latini, sia di strato germanico, nei quali il suffisso è nuovamente (per le ragioni stratigrafiche delineate sopra) indice di regionalità; in epoche successive il riferimento può avvenire al cognome della famiglia insediata nel luogo, attraverso la composizione con determinanti del tipo Tetti (soprattutto in Piemonte; per es. Tetti Scaglia o Tetti Olli, Piossasco,Torino) o Cascina (in Lombardia: Cascina Costa, Cascina Elisa a Samarate, Varese).
Una seconda e più limitata serie è costituita dai toponimi ‘toponimici’, che riutilizzano un nome di luogo preesistente per la creazione di un nuovo nome di luogo, in relazione di esplicita dipendenza dal primo. Questa tipologia comprende uno strato antico poco trasparente (per es. Émarèse, Aosta, e la sua frazione Sommarèse, formati sul microtoponimo Éresaz, con imum- «sotto» e summum- «sopra»; o Sordevolo, Biella, in dialetto Surdèivu, cioè «sopra all’Elvo», il torrente che scorre sotto di essa) e uno generalmente più recente e più facilmente leggibile (Cesena › Cesenatico, Forlì-Cesena, di fondazione medievale; Ossola, il torrente e la valle omonima › Domodossola, Verbania; Dormello, comune autonomo fino alla fine dell’Ottocento, poi parte di Dormelletto, Verbania, toponimo secondario formato dal primo). Della categoria fanno parte anche i cosiddetti ‘toponimi di riporto’ (Marcato 2009, pp. 189-90), con la creazione di microtoponimi come Milano Due, Milano Tre (a Segrate, Milano) o Milano Marittima (Cervia, Ravenna), e un buon numero di casi di casi della neotoponomastica ‘disambiguante’, soprattutto successiva all’Unità d’Italia (per es. la serie delle Villanova d’Asti, Villanova d’Albenga, Savona, Villanova sull’Arda, Piacenza, ecc.).
In questo quadro di riutilizzo di materiale onomastico precedente si possono trattare anche separatamente le nominazioni ‘simboliche’, provenienti da atti encomiastici e simbolici di tipo civile, religioso o culturale, come per le denominazioni di Manfredonia, Foggia (fondata da Manfredi, figlio di Federico di Svevia), Alessandria (fondata alla fine del 12° sec. e così chiamata in onore del papa Alessandro III), Pienza, Siena (Corsignano, prima dell’ampliamento voluto dal corsignanese papa Pio II nel 15° sec.) e Margherita di Savoia, Barletta-Andria-Trani (già Saline di Barletta, così dal 1879 in onore della prima regina d’Italia), e soprattutto l’ampia categoria degli ‘agiotoponimi’, che riprendono generalmente il nome proprio dell’edificio religioso di riferimento. In quest’ultimo caso, l’etichetta onomastica utilizzata (ovvero il nome del santo) disegna spesso aree interessanti relative alla diffusione di culti a carattere regionale, come per es. si può vedere in figura 1, relativamente ai santi (da nord a sud) Zeno o Zenone (vescovo medievale di Verona, riscontrabile come toponimo in diverse province settentrionali), Romano (di area toscano-umbra ed emiliano-romagnola), Costantino (fra gli altri San Costantino albanese; San Costantino di Rivello, Potenza; San Costantino calabro, Vibo Valentia), Venera (leggendaria santa di Acireale, attestata anche come Santa Venerina nella toponomastica della Sicilia orientale).
Gli antroponimi si distinguono su base referenziale nelle due grandi categorie dei ‘nomi di battesimo’ (o ‘nomi personali’ o ‘nomi’) e dei ‘nomi di famiglia’ (o ‘cognomi’), insiemi onomastici che si differenziano notevolmente in relazione a modalità di formazione (storicamente profonda e al contempo aperta a continue innovazioni per i primi; delimitata cronologicamente e, da un certo momento in poi, stabilizzata per i secondi) e semiosi specifica (rinnovata continuamente attraverso l’atto linguistico della scelta del nome per un nuovo nato nel primo caso, rintracciabile solo nell’atto della creazione onomastica originaria nel secondo). Da questa differenza deriva la diversa struttura espositiva che verrà adottata per delineare i caratteri dei due sottoinsiemi.
Accanto alle due categorie principali, costituiscono poi tipologie distinte su base diafasica (in quanto correlate a contesti di enunciazione socialmente delimitati e privi dell’ufficialità tipica della restante onomastica) gli insiemi rispettivi dei ‘soprannomi’, nomi aggiuntivi validi all’interno di un gruppo ristretto (Marcato 2009, pp. 89-104), e dei ‘blasoni popolari‘, come ambrosiano per «milanese», crucco per «tedesco» (Marcato 2009, pp. 202-06), tipologie che qui non verranno trattate.
Il costituirsi dei nomi di battesimo in un repertorio determinato dalle spinte culturali succedutesi nella storia della civiltà italiana permette una classificazione di tipo stratigrafico sulla base della lingua e della cultura entro cui si sono originariamente generati.
In corrispondenza con il percorso della storia culturale italiana, si può assumere come livello di partenza l’originale mistura ‘sincretica’ di elementi romani, ebraici e greci rappresentata dal mondo latino tardoimperiale e successivo all’affermazione del cristianesimo, che nell’ambito dell’onomastica personale ebbe (e avrà anche nei secoli successivi) un ruolo importantissimo.
Nell’onomastica tardolatina confluiscono infatti, da un lato, l’onomastica romana e italica, con prenomi come Marco, Elio, Paolo, ma soprattutto attraverso la trasformazione in personali di originali nomi gentilizi (cioè denominazioni delle gentes di appartenenza, come Giulio, Valerio, Aurelio, Fabio, Fabrizio) e soprannomi (Fausto, Felice, Massimo, Adriano, Martino); dall’altro i nomi di tradizione ebraica veterotestamentaria (Abramo, Davide, Giacobbe, Michele, Sara) e soprattutto neotestamentaria (Giovanni, Matteo, Luca, Pietro ‒ calco latino sull’ebraico Kephas, «pietra» ‒, Bartolomeo, Tommaso, Anna, Maria, Maddalena); infine nomi di tradizione greca (come Stefano, Giorgio, Ambrogio, Eugenio, Eusebio, Sofia, Barbara). Parallelamente alla diffusione di questi nomi, veicolata nei secoli successivi dal culto dei primi santi, l’onomastica cristiana tardolatina contribuì al repertorio con la creazione di nomi ispirati dalle virtù cristiane (Vitale, Vincenzo, Bonifacio, Prudenzio) o teoforici (Domenico e Ciriaco, costruiti rispettivamente sulla forma latina dominus e greca kyrie degli appellativi divini).
Lo strato successivo è rappresentato dall’onomastica germanica, il cui patrimonio estremamente ricco si diffuse, da un lato, attraverso il culto per nuovi santi e sante di epoca medievale con nome già germanico (come Adalberto, Bernardo, Anselmo, Berta, Gertrude), dall’altro, e soprattutto, sull’onda del prestigio della nuova classe dominante che si formò a seguito del predominio franco sull’Europa occidentale successivo all’epoca carolingia (Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 82-86). Da qui l’affermarsi di nomi di largo successo come Carlo, Guglielmo, Ugo, Guido, Lodovico (poi nella forma di stampo francese Luigi), Roberto, Enrico, Riccardo, Leonardo, Adelaide e Adele, Brigitta, Eleonora, Elisa, Matilde. In parallelo cronologico alla spinta del mondo germanico, alcuni nomi di etimo greco si diffusero nuovamente per tramite bizantino, come per i femminili Elena, Caterina e Agata e per alcuni nomi maschili piuttosto rari come Calogero (eremita a Sciacca, Arigento, nel 6° sec.; di qui la sua frequenza in Sicilia), Basilio e Damiano.
L’aspetto sematicamente trasparente rivela la formazione già volgare di alcuni nomi che si diffusero in Italia a partire dal Medioevo, come (oltre al già citato Francesco) Bonaventura e Benvenuto, oppure come i più fortunati femminili Chiara, Gioia, Diletta, Beatrice e anche Laura: nonostante l’etimo e la forma latina, il suo uso italiano come personale si ricollega proprio alla creazione letteraria petrarchesca. Per l’Italia del Sud, in questo periodo si formò, sull’onda della predicazione francescana, la tradizione di nomi mariani come Assunta, Immacolata, Concetta.
Le tre linee generative evidenziate contribuirono a determinare la parte più ampia (almeno in termini di frequenza d’uso) del patrimonio tradizionale dei nomi di battesimo italiani, anche sulla base del chiaro orientarsi dell’antroponimia italiana su rose ristrette di personali fin dal tardo Medioevo (Raimondi 2012, pp. 69-81; Marcato 2009, pp. 35-36), cioè ben prima che le indicazioni del Concilio di Trento (1545-1563) indirizzassero i fedeli verso la scelta esclusiva dei nomi di consolidata tradizione religiosa o comunque tutelati da un santo. La conseguenza onomastica più visibile del clima postridentino fu invece la diffusione del nome Giuseppe, in precedenza di uso quasi esclusivo presso le comunità ebraiche, che (a seguito del rinnovato culto della Sacra Famiglia) diventò uno dei nomi più comuni nei secoli successivi in tutta Europa. Per il resto, fra Trecento e Novecento l’innovazione del patrimonio antroponimico è stata limitatissima, registrando solo circa 2000 nomi nuovi (Rossebastiano, Papa 2005, p. XXIV), e l’onomastica personale dell’Età moderna offre poche sorprese, fatti salvi fenomeni come la diffusione dell’utilizzo anche nelle classi medie dei personali doppi (si pensi alla frequenza di questa tipologia nei nomi di Casa Savoia, come Carlo Emanuele, Carlo Felice, Emanuele Filiberto, Vittorio Emanuele ecc.; per la Valle d’Aosta del Settecento si veda Raimondi 2012, p. 88), il mantenimento ancora nel Settecento di alcune tradizioni onomastiche locali legate all’agionimia (Berardino, vescovo medievale di Teramo, per Morro d’oro, Teramo, Anna e Oronzo, patroni della cittadina, per Vernole, Lecce; cfr. D’Acunti 1994, p. 825; Pantaléon, Grat, Joconde e Cassian, tutti santi a devozione locale, in Valle d’Aosta; cfr. Raimondi 2012, pp. 89-103), l’irruzione fra Ottocento e Novecento dell’onomastica ideologica prima risorgimentale, poi libertaria o modernista, ampiamente illustrata da De Felice (1987).
Tale tendenza rimase stabile fino agli inizi degli anni Sessanta del 20° sec., quando cominciò quella che De Felice (1987, p. 193) ha definito «la rivoluzione del repertorio onomastico italiano», che egli descrive in termini sia di conformismo generale (con il ridursi a 300-400 dei circa 10.000 nomi di alta e media frequenza del repertorio precedente), sia di livellamento geografico, con la perdita della ben radicata tradizione familiare dell’onomastica ancestrale (imporre al figlio il nome del nonno) e l’abbandono dell’onomastica tradizionale regionale. A queste tendenze omologanti si è poi sommata l’influenza delle mode culturali più recenti (cinema, canzone e soprattutto mondo televisivo), che hanno introdotto nel repertorio (anche se essenzialmente ai suoi bassissimi livelli) una propensione all’esotismo linguistico prima sconosciuta.
Su questa base di inquadramento, e su altre e più aggiornate basi di dati, verranno articolate più avanti alcune riflessioni sugli sviluppi recentissimi dell’onomastica personale.
L’onomastica familiare nacque e si sviluppò in un periodo di tempo circoscritto al Medioevo e alla prima Età moderna e, per le motivazioni semantiche che la caratterizzano, a stretto contatto con la lingua comune e con i contesti linguistici di produzione.
L’attribuzione di un ‘nome aggiunto’ (Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 44-49) a un singolo individuo nella forma del soprannome individuale trasmissibile alle generazioni successive, o direttamente a un gruppo familiare, è un procedimento attestato in Italia a partire dal 9° sec., che mostra in certe aree, come Venezia (D’Acunti 1994, pp. 833-34), una qualche stabilizzazione documentaria già nell’11° sec., in altre, come per es. in Toscana, una fluttuazione che continua fino al Cinquecento. Oltre che delle differenze linguistiche originarie, conseguenza della variabilità linguistica dialettale dei contesti generativi, la forma che il cognome assunse risente anche del processo di fissazione documentaria (Marcato 2009, pp. 67-69), che avvenne attraverso adattamenti a un codice scritto (per un largo periodo il latino degli atti documentari) spesso non corrispondente, o corrispondente solo in modo approssimativo (come è stato a lungo l’italiano per larga parte della penisola), al codice dell’uso parlato. Questo «adattamento diglottico» (Raimondi 2012, pp. 43-46) ha contribuito alla forte variazione in diatopia dell’aspetto linguistico dei cognomi italiani.
Nel processo di fissazione, il sistema dei cognomi italiani ha sviluppato una tipologia morfosintattica che esprime in vari modi la funzione ‘determinante’ (ovvero di specificazione restrittiva) di questa componente dell’antroponomastica. I Tipi morfosintattici cognominali (TMC) evidenziabili sono i seguenti: TMC ‘a grado zero’, formati cioè con la semplice giustapposizione del determinante al nome personale, come Milano oppure Fabbro; TMC ‘derivativi’, formati con l’aggiunta di un suffisso derivativo, come Milanese oppure Fabretto; TMC ‘preposizionali’, formati con l’utilizzo della parte del discorso basilare nell’espressione della determinazione, la preposizione, come Da Milano, Del Fabbro; TMC ‘collettivi’, formati attraverso la pluralizzazione del determinante, come Milani, Fabbri (Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 108-14).
Anche rispetto alla forma assunta, il repertorio dei cognomi italiani presenta una marcata variazione diatopica. Da un lato, l’adozione differenziata dei primi due tipi determinò l’opposizione fra un’area continua ‘centrale’ (che ha il suo epicentro in Toscana e comprende le altre regioni centrali, ma anche l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Trentino; si veda Marcato 2009, p. 73, anche per le eccezioni) con prevalenza di cognomi collettivi in -i, e le aree ‘laterali’ del Meridione, del Nord-Ovest (Piemonte e Liguria) e, in misura minore, del Nord-Est (soprattutto Veneto), dove invece prevalgono le terminazioni singolari in -o, -a. Un’altra marcata specificità regionale si osserva rispetto al secondo tipo, con la presenza di suffissi (e in misura limitatissima di prefissi) nuovamente tipici delle aree periferiche del dominio italiano. Una rassegna (tratta da Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 106-107; Caffarelli, Marcato 2008, pp. XVI-XIX; Marcato 2009, pp. 74-75) potrebbe così selezionare per l’Italia del Nord il suffisso -oz, -az per la Valle d’Aosta (Contoz o Curtaz, soluzione tradizionale puramente grafica per indicare la pronuncia parossitona in opposizione alla norma del francese; Raimondi 2012, pp. 111-14); per il Piemonte, -ero (nei nomi di mestiere come Barbero, Ferrero), -esio (per gli etnici come Milanesio, Pavesio), -audo (Gribaudo, Giraudo) e -oglio (Fenoglio, Badoglio), generici; per la Lombardia e l’Emilia -atti (Bonatti, Felisatti; anche nel Piemonte settentrionale, Togliatti, Alasonatti); in Veneto, Trentino e Friuli le ben conosciute terminazioni in nasale per i suffissi derivativi -ino, -one, -ano (Visentin, Marangon, Brusegan; in realtà presenti anche nel Nord-Ovest gallo-romanzo; cfr. Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 23-25) e nel Veneto in particolare -ato (Toniato, Favarato, Mussato); in Friuli i suffissi di strato slavo come -ic e -ig (Bastianic, Zorzettig) e il derivativo-diminutivo -utti (Cargnelutti, Cantarutti). In Sardegna, suffissi cognominali tipici sono -eddu/-edda (Cubeddu, Pischedda) e predominano le terminazioni in -s proprie dei plurali sardi (Piras, Melis). Per il Sud si segnalano il suffisso -iello per Campania e aree limitrofe (Iacoviello, Quagliariello), gli etnici di stampo greco -ota, -oti (Liparota, Squillacioti) e -iti, -itano (Catanzariti, Sciacchitano) in Sicilia e in Calabria, e di stampo latino -iso, -isi (Lecciso, Puglisi) nel Salento, in Calabria e Sicilia; le terminazioni ossitone in -à in nomi di mestiere (Barillà, Cannistrà, soprattutto in Calabria) e in -ace (Iannace, Cacace) e -aci (Staraci), suffissi derivati da -às e -àkio(n), in Campania e in altre zone del Meridione di superstrato neogreco o bizantino. Per la Sicilia, infine, si rileva la presenza dei prefissi inter-, intra- (Interbartolo, Intraguglielmo) e in- (Ingianni, Indomenico, Ingrassia) in cognomi formati da personali (per Ingrassia il personale è Garsia, di importazione aragonese; Marcato 2009, p. 75).
Dal punto di vista semantico il legame forte che i cognomi istituiscono all’origine con il contesto linguistico e con la semiosi sociale li rende accostabili più ai toponimi che non ai nomi di battesimo, permettendo così di riprendere anche per questa categoria onomastica il quadro classificatorio già precedentemente utilizzato e di ricollocare in questa prospettiva le più articolate categorie motivazionali della tradizione di studi precedente (si veda Marcato 2009, pp. 79-84 per un sunto delle principali). All’interno di questo schema classificatorio, si esprimeranno i significati attraverso la forma dei cognomi italiani più trasparenti delle singole categorie, aggiungendo poi qualche esempio di variazione onomasiologica regionale.
Nella categoria generale degli antroponimi familiari ‘descrittivi’ rientrano i cognomi formati attraverso l’attribuzione di un carattere denotativo, al singolo individuo o alla famiglia, espresso attraverso il lessico comune. Tale carattere può appartenere alla sfera fisica (Grandi, Magri, Rossi, Mancini) oppure morale (Allegri, Stanchi) ed essere espresso anche attraverso epiteti metaforici (dal mondo animale, come Corvi per «nero», o degli oggetti, come Stanga per «magro« o «alto», ecc.) o attraverso composti (Beccalossi, con riferimento all’avarizia; Fiaccavento «stanca (o spezza) vento», con riferimento all’instancabilità o alla loquacità, ecc.); la categoria, pertanto, dei ‘soprannomi’, secondo la tradizione. Oppure la determinazione può riferirsi al mestiere (nomi di mestiere: Fabbri, Fornari, Tintori, Mezzadri, Soldati, Dottori) o, più in generale, alla funzione (Degan, «decano, membro anziano», Vicario) per cui si è conosciuti all’interno della comunità, anche in questo caso eventualmente attraverso sineddoche (Spada per «soldato», Monaci per «famiglia al servizio di una abbazia», Capra per l’attività di «allevatore di capra») e composti (Battilana per «follatore»). Ancora, l’attribuzione può avvenire mediante la collocazione dell’individuo o della famiglia all’interno della topologia comunitaria, mettendo in evidenza il luogo (evidentemente un microtoponimo) dove vive (Della Porta, Dalla Chiesa), anche attraverso fitonimi (Dall’Olmo, Rovere) o altri elementi generici del paesaggio (Di Sopra, Capo, inteso come «estremità del villaggio») quando essi rappresentino comunque punti di riferimento condivisi.
La variazione regionale dei significanti che veicolano queste denotazioni è ovviamente notevole. Prendendo per es. la nozione di «zoppo», accanto al cognome Zoppi, diffuso in maniera abbastanza uniforme al Centro e al Nord, si riscontrano tipi equivalenti e molto frequenti, come nel Veneto Zotto (e soprattutto Dal Zotto), che riprende il tipo dialettale (ma anche antico italiano) ciotto «zoppo», che si ritrova anche nel cognome Ciotti, di area centrale (Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo). Ma a difetti di deambulazione possono alludere anche cognomi come il piemontese Gambarotta (frequenti nella stessa area, e più in generale nel Nord-Ovest, Gamba e Gambetta, o in Liguria i tipi Caviglia, Cosce, Calcagno, anch’esse possibili sineddochi per il concetto), il ligure Ranghi (rangu «zoppo» in dialetto), o i tipi Scianca (in Piemonte, Liguria e Lombardia) e Schianchi (tipico di Parma), sulla stessa base dell’italiano sciancato; oppure, nel Sud, i palermitani Loverso e Laversa, formati sul siciliano versu «storto». E, come metafore scherzose e un po’ crudeli (ammissibili però all’interno della comunità), come escludere il calabrese Tripodi, letteralmente «treppiede», con possibile allusione all’uso di un bastone o di una stampella per camminare, e qualche occorrenza per antifrasi del panitaliano Grillo?
Per i nomi di mestiere, anche la nozione ‘sarto’ offre un notevole panorama di varianti. A fianco dei tipi nazionali Sarti (diffuso nell’area centrale dei cognomi in -i, per cui vedi sopra) e Sarto (complementare per diffusione nelle zone con il primo confinanti), il Nord si distingue per la maggior frequenza di forme più o meno appoggiate sul dialetto come Sartori (tutto il Nord e il Centro, fino all’altezza di Roma), la latinizzazione Sartoris (Piemonte e Liguria) e i più localizzati Sartore (Veneto da un lato, Piemonte, Liguria e Lombardia occidentale dall’altro, su forme dialettali come il ligure e il piemontese sartù) e soprattutto Sartor, tipicamente veneto; inoltre, la Lombardia soprattutto (ma anche il Piemonte e la Liguria occidentale) presentano in concorrenza con le prime le forme Sertore, Sertori e Sertorio, con mutazione fonetica palatale della -a- pretonica in -e-. Per il Nord, si segnalano ancora la forma equivalente tedesca Schneider, fra i cognomi più comuni in Alto Adige, che si ritrova anche come Sneider in Veneto e, soprattutto, come Snaidero in Friuli, dove è entrata come voce dialettale a indicare il «sarto viaggiante», spesso di origine austriaca. Nel Sud i tipi lessicali cambiano. In alcune aree il tipo specifico per «sarto» non proviene dalla base latina sartor, ma da cucire (etimo peraltro presente anche nel cognome trentino Coser) ed è attestato nei cognomi Cositore (proprio del Napoletano), Cucitore (Abruzzo, Lazio e Campania). In Puglia (Custodero) e soprattutto in Calabria e Sicilia (Custureri) si trova infine il tipo custureri, prestito di epoca normanna e angioina dall’antico francese cousturier (oggi couturier), nonché in Rafti (cognome del Palermitano) il residuo cognominale del termine di adstrato bizantino e neogreco raphtés («sarto»).
Sul versante semiotico complementare, si riscontrano gli antroponimi familiari ‘onimici’, che riutilizzano, per la formazione dei cognomi, materiale onomastico preesistente, consistente nell’antroponimo personale del genitore o del capostipite familiare (cognomi ‘da nomi di persona’) oppure nel toponimo che colloca l’individuo e il gruppo familiare nel quadro di una topologia questa volta ‘extracomunitaria’ (cognomi ‘da nome di luogo o etnico’). Un’operazione sostanzialmente meno dispendiosa dal punto di vista semiotico, tanto che i due gruppi etimologici rappresentano in effetti la maggioranza dei cognomi italiani, secondo i calcoli di De Felice, rispettivamente il 38 e il 37% (Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 114, 118).
Nel primo sottoinsieme sono riportati dunque gli antroponimi familiari ‘antroponimici’, che possono essere riferiti al progenitore maschile (‘patronimici’) o femminile (‘matronimici’), in proporzione variabile a seconda dei contesti regionali (Raimondi, Revelli, Papa 2005, pp. 56-58 per la frequenza particolare di matronimici per es. in Piemonte e Valle d’Aosta). Esprimibili attraverso l’apposizione diretta del personale (Bartolomeo, Agnese), l’espressione della discendenza diretta attraverso preposizione (De Bartolomeo, D’Agnese) o attraverso varie forme di resa del concetto di discendenza collettiva quali la pluralizzazione (Bartolomei, Agnesi), la suffissazione derivativa (Bartolometti, Agnesini) o altro (Bartolomeis, De Bartolomei e De Bartolomeis), i familiari antroponimici sono più o meno trasparenti a seconda della maggiore o minore regionalità delle forme e dell’utilizzo (spesso correlato alla precedente variabile) dei cosiddetti ‘ipocoristici‘, forme abbreviate per il nome personale, come sarebbero Bartolo e Bortolo, Tolomeo, Tomeo, Meo e il regionale Fumeo (Veneto) per Bartolomeo.
Generalmente trasparenti sono anche gli antroponimi familiari ‘toponimici’, fra cui si trovano spesso cognomi ad alta diffusione locale, come Parodi a Genova (da Parodi Ligure, Alessandria), Brambilla a Milano (da Brembilla, Bergamo), Cargnelutti a Udine (etnico e diminutivo per gli abitanti della Carnia), Capuano a Napoli, Puglisi a Catania e Messina, Messina a Palermo e Catania. Da notare che l’attribuzione di questi cognomi alla categoria in questione vale sempre etimologicamente, ma può essere discussa dal punto di vista motivazionale, in quanto la loro frequenza nelle città sede di migrazione si spiega spesso con l’adozione di questi soprannomi per indicare in realtà ‘categorie di persone’ e non ‘provenienza’. Per Parodi, per es., si deve tener presente che l’Alessandrino era il tradizionale bacino di reclutamento della milizia della Repubblica di Genova, per cui Parodi poteva benissimo valere a Genova come «soldato arruolato nell’entroterra»; Brembilla, piccolo centro della Val Brembana, può essere semplicemente rappresentativo del flusso migratorio che periodicamente, nelle alterne vicende dei conflitti fra Milano e la Repubblica di Venezia, si riversava dai centri contesi del bergamasco su Milano; infine, cargnello a Udine identificava non tanto gli abitanti della Carnia, quanto i tessitori professionisti che esercitavano questo mestiere in tutta la Pianura Padana (Marcato 2009, pp. 65-66). In questi casi si sarebbe in presenza prima di una parziale ‘deonimizzazione’ (passaggio di nome proprio a nome comune), poi di una nuova ‘onimizzazione’ in funzione di nome aggiunto e di famiglia.
Come esempio significativo di variazione regionale dal primo gruppo di antroponimi familiari onimici, si può qui proporre l’esame dei continuatori del nome Domenico. Oltre ai tipi Domenici o Dominici (Toscana, Lazio e Umbria), il gruppo dei cognomi coetimologici deve includere le forme derivate dall’esito regionale settentrionale Domenego (Domeneghetti, Domeneghini e Domenghini, in Lombardia e Veneto) o francoprovenzale Domaine, per la Valle d’Aosta, del nome pieno. A questi si aggiungeranno le serie derivate dagli ipocoristici centrosettentrionali Menego (Meneghetti, Meneghini e Meneghin, Menegoni, Menegatti, Meneguzzi, Menegazzi, tutti frequentissimi in Veneto, Lombardia ed Emilia; con le varianti locali Melegoni e Meliconi, soprattutto emiliane, e Melegatti, veronese), Mengo (Menghi, romagnolo e marchigiano, Menghini, centrosettentrionale, Mengucci, Marche; Mengacci, pesarese, e Mengoli, bolognese) e Mingo (Minghi, Toscana e Lazio, Mingardi, emiliano e lombardo, Mingoni, Umbria e disperso nel Centro-Nord), con una serie minore e parallela dall’ipocoristico sempre settentrionale Nico (Niccoz, Valle d’Aosta, Nichetti, Lombardia); quindi i centro-meridionali Menico (Menichelli, Menichetti, Menicocci in Lazio, Umbria e Toscana), Minico (Minichini e Minichiello, in Campania), Minco (Minchi e Minchella, Lazio; Mincone, Mincarini e Mincarelli, tutti tipici dell’Abruzzo, Mincuzzi, barese), Mincio (Minciarelli, Umbria; Mincione, Campania), Mimmo (nel Foggiano). E tutto ciò nella certezza di averne comunque dimenticati diversi.
Un ultimo cenno classificatorio va fatto su una categoria particolare di cognomi, quelli assegnati dalle strutture deputate all’infanzia abbandonata (le ruote, gli ospedali, gli ospizi). Contrassegnati da abitudini onomastiche diversificate per epoca e per luogo, che vanno dall’adozione di forme standardizzate e significanti, come sono quelli più antichi, che hanno creato cognomi di ampia diffusione come Venturino nel Nord, Proietti a Roma, Esposito a Napoli, Trovato in Sicilia (Marcato 2009, pp. 82-83), all’impiego di prontuari alfabetici che riportavano cognomi estranei all’antroponimia locale (come dall’epoca napoleonica fino alla Seconda guerra mondiale), alle tendenze ‘mimetiche’ più recenti, i cognomi imposti per questa via possiedono uno statuto del tutto particolare, che li colloca in uno spazio più vicino all’antroponimia personale che a quella familiare, essendo infatti privi del carattere essenziale del nome aggiunto, che è la dimensione sociale e comunitaria dell’atto di semiosi generativo.
Tracciate le linee generali del patrimonio onomastico italiano, in questo capitolo conclusivo viene presentata una serie di approfondimenti tematici, due per il settore della toponimia, due per quello dell’antroponimia, incentrati su alcuni temi che sembrano interessanti in relazione, da un lato, alle modalità di ricezione di questo patrimonio osservabili per l’Italia contemporanea, dall’altro, ai settori dell’onomastica recente più attivi e semioticamente produttivi.
Il primo aspetto preso in esame riguarda il rapporto fra la toponomastica e i caratteri linguistici e culturali regionali, così come esso si declina alla luce della percezione del valore identitario che i nomi dei luoghi, come segni linguistici, possono rivestire ancora oggi.
Un primo e più adeguatamente definito livello di interazione fra identità nazionale e locale può riferirsi alle situazioni di bilinguismo ufficiale e costituzionale, sancito per le minoranze linguistiche collocate sul confine settentrionale della nazione, come sono quella tedesca dell’Alto Adige, quella slovena del Friuli, quella valdostana. Nei primi due casi l’esistenza di comunità bilingui nel senso stretto del termine ha orientato anche ben presto verso il bilinguismo della toponomastica, che ha comportato, per es., l’adozione di cartelli stradali bilingui (come Bressanone/Brixen, Adige/Etsch, Val Pusteria/Pustertal, Passo del Rombo/Timmelsjoch per l’Alto Adige; Drenchia/ Dreka, Opicina/Opčine, Grimacco/Garmak per le aree di confine italo-sloveno) e, anche se in misura differenziata, il recepimento dei toponimi in tedesco e sloveno nella cartografia ufficiale (Linee guida per la normalizzazione dei nomi geografici ad uso degli editori di cartografia ed altri editori, 2004, pp. 41-46).
Più particolare il discorso per la Valle d’Aosta, dove la situazione di ‘bilinguismo endocomunitario’ (ovvero di una singola comunità fatta di potenziali bilingui, e non di due comunità monolingui in contatto) governato dai principi della diglossia fergusoniana (Raimondi 2012, pp. 31-35) ha determinato una toponomastica per così dire ‘sincretica‘: in questa le originali forme dialettali francoprovenzali, evolvendosi attraverso il filtro linguistico del francese amministrativo, si sono nel tempo stabilizzate (fatto salvo il breve tentativo di italianizzazione integrale di epoca fascista, in cui Courmayeur, La Thuile o Châtillon vennero ribattezzate Cortemaggiore, Porta Littoria e Castiglione Dora) in una forma unica non bilingue, spesso però variabile rispetto sia alla grafia sia soprattutto alla pronuncia dei parlanti, orientata di volta in volta verso le regole del patois locale, del francese o dell’italiano (Revelli 2013). In questo senso, le recenti determinazioni dell’amministrazione regionale (deliberazione della Giunta regionale 20 apr. 2012 nr. 828, Critères à suivre pour la graphie des dénominations de la toponymie locale) si pongono su una linea coerente con la tradizione, stabilendo principi di base che, da un lato, accolgono le convenzioni grafiche sedimentatesi attraverso la trafila francese (per es. la trasformazione delle affricate tipiche del francoprovenzale nelle fricative corrispodenti del francese, come in Chatillon da Tsâteillon o in Montjovet da Mondzouèt), dall’altro tengono conto della matrice francoprovenzale dei toponimi valdostani e della loro specificità ‘intramontana’, prevedendo regolarmente (in opposizione alla norma francese) la restituzione grafica di -z finale a indicare la pronuncia parossitona di toponimi come Bionaz o Parléaz, di -x e -d per quella ossitona di Arnad o Morgex, di -s per indicare la conservazione della consonante finale in Donnas e Verrès.
Lo status di lingua minoritaria, conferito dalla l. 15 dic. 1999 nr. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche) anche alle isole alloglotte collocate in parti diverse dell’Italia ha poi, in anni più recenti, ampliato il campo della toponomastica bilingue. Nei comuni arbëresh della Calabria, la toponomastica minoritaria è stata così recuperata con fini al contempo identitari e turistici, affiancandola a quella italiana ufficiale; con il curioso risultato che, accanto a Shën Vasil per San Basile, Frasnitë per Frascineto, Firmosë per Acquaformosa (tutti in provincia di Cosenza) è ricomparso sulla segnaletica stradale anche il toponimo Purçilli (Porcile nella toponomastica italiana di inizio 19° sec., frazione di Frascineto), abbandonato negli anni Trenta a vantaggio di un più neutro Eianina, neoformazione onimica sul nome del torrente Eiano, che bagna l’abitato, (Pellegrini 1990, p. 405), ora riabilitato sulla base dell’etimo reale (porticillis cioè «piccoli portici», e non porcilem) su cui si era innestato l’adattamento linguistico arbëresh.
Laddove lo status reciproco delle varietà linguistiche in gioco è meno definito, il rapporto fra toponomastica e identità sembra invece destinato a creare frizioni, prestandosi a prese di posizione che rivelano un’impronta ideologica più marcata. In Friuli, per es., il passaggio del friulano da dialetto a varietà di una «minoranza linguistica storica» ha avuto come controversa conseguenza la decisione di introdurre, con la l. reg. 17 febbr. 2010 nr. 5, art. 8, la segnaletica bilingue italiano-friulano nella regione (e trilingue italiano-sloveno-friulano, nelle aree di confine), cui la società civile ha reagito in maniera contraddittoria e che ha visto addirittura un segnale di arresto iniziale della Corte costituzionale alla legge stessa. In Lombardia la segnaletica bilingue italiano-lombardo è diventata l’occasione di una diatriba fra le parti politiche, con gli ormai tipici ‘cartelli marroni’ con le diciture Lecch (Lecco) e Palasöl (Palazzolo sull’Oglio, Brescia) installati e poi rimossi a seconda dell’orientamento politico della giunta di turno. Anche in Sardegna, che, sebbene non fosse ufficialmente sede di una minoranza linguistica prima del 1999, già godeva della situazione oggettiva di una toponimia quasi interamente modellata sullo strato linguistico originario (Linee guida 2004, pp. 49-50), le polemiche relative all’utilizzo dei cartelli marroni per segnalare inizio e fine dell’abitato mostrano come, soprattutto laddove si sia in presenza di configurazioni repertoriali dibattute (come appunto lo statuto di ‘lingua’ o di ‘dialetto’ del sardo), le tensioni sociali possano fare la loro comparsa.
Nessuna attenzione riceve invece un terzo aspetto dell’identità toponomastica delle aree regionali, che (come spesso succede) è invece più sostanziale. Si fa qui riferimento al problema della sopravvivenza odierna del patrimonio linguistico locale in relazione alla leggibilità di una serie di appellativi a carattere regionale, connessi sia alla morfologia del territorio sia all’insediamento umano, a volte divenuti nomi propri, ma comunque dotati di un valore semantico importante per la comprensione del paesaggio.
In questi appellativi succede di imbattersi sovente percorrendo le strade e le autostrade italiane, dove i nomi di gallerie e viadotti spesso traggono il loro nome dalla microtoponomastica delle zone su cui insistono. C’è da domandarsi quanto rivelino alla coscienza linguistica dei moderni abitanti del luogo appellativi geomorfologici che fanno riferimento al rilievo (preso qui come unico esempio; per altre denominazioni del genere si veda Marcato 2009, pp. 155-57) come timpa (Toponomastica 2004, p. 702), diffuso dalla Basilicata (Timpa Castelluccio), dove indica i rilievi d’altopiano separati dalle gravine («dirupi franosi»), anch’esso termine geomorfologico originariamente ‘parlante’ e correlato a una base grava («ghiaia»), da cui anche Gravina in Puglia, Bari (Gasca Queirazza, Marcato, Pellegrini et al. 1990, ad vocem), alla Calabria (Timpa Grande presso Crotone) e fino alla zona etnea in Sicilia (La Timpa, Acireale, Caltanissetta), dove invece questo termine di origine prelatina significa «burrone, dirupo»; oppure serie toponomastiche come Serra/Ser/Serre/Saretto (Raimondi 2010, pp. 441-42), che nel Piemonte occidentale significa «pianoro su una modesta altura», probabilmente autonoma dal noto tipo serra («catena montuosa»), metaforicamente dal latino serram («sega»; cfr. Pellegrini 1990, pp. 201-202), o ancora Bric/Bricco e Truc/Trucco/Trucchi («altura») in Liguria e Piemonte, Monna («rilievo spoglio») nel Lazio; Pesco («pietra, rocca») attestato in macrotoponimi come Pescocostanzo (L’Aquila), Pescopagano (Potenza) in un’ampia area che va dall’Abruzzo, al Molise, alla Campania interna e alla Basilicata; oppure in Sardegna Conca, raramente associabile al termine geomorfologico italiano corrispondente, ma piuttosto all’uso metaforico per le alture del termine conca («testa») – Conca ‘e Gattu («testa di gatto»), Teulada (Cagliari), Conca Arrubia («testa rossa»), Arbus (Medio Campidano), e così via – oppure, sulla base del significato originale («conchiglia, guscio»), per le grotte, come Conca de Janas («grotta delle fate»), Lula (Nuoro).
Sul fronte della toponomastica da insediamento umano (Toponomastica 2004, pp. 710-14) un’analoga opacizzazione di significato possono oggi aver subito originali appellativi come massa («fondo, podere»), da cui numerosi macrotoponimi dal Veneto, all’Emilia, alla Toscana e a tutta l’Italia centrale, con propaggini in Campania e Calabria; grangia («edificio rurale, cascina»), ben attestato nella microtoponomastica del Piemonte e, come Grange, in Valle d’Aosta, ma anche in Veneto e nell’Italia centrale, come Grancia ‹ latino granica («granaio»), mandra («recinto per il ricovero del bestiame») e pagliara («capanna per ricovero dei pastori») nel Molise, a Carovilli (Isernia) e Isola del Gran Sasso (Teramo) fra le altre, e nell’Avellinese; oppure lestra («radura disboscata con capanne») in provincia di Latina (Lestra Finocchio, Lestra Ricelli, Lestra Maone).
Dal punto di vista della ricezione del patrimonio culturale rappresentato dal tesoro toponomastico dell’Italia e di una riappropriazione reale del territorio, più che tante battaglie ‘di bandiera’ della dialettalità, perseguite attraverso la difesa di un cartello, la società italiana potrebbe forse, e più sostanzialmente, riappropriarsi di questa particolare, e importante, parte di lessico toponimico.
La fase generativa della toponomastica italiana si è consumata in larga parte in epoche storiche lontane da quella attuale, dato che la fondazione di nuove città è piuttosto improbabile in un territorio di già capillare urbanizzazione storica come l’Italia. In alcuni specifici settori minori dell’onomastica, tuttavia, anche la contemporaneità può sperimentare il fenomeno della creazione di un toponimo e analizzare le modalità culturali, alcune delle quali verranno prese ora in esame, attraverso cui si manifesta questo atto semiotico e linguistico.
A livello di macrotoponimi è un fenomeno potenzialmente ancora attivo la ridenominazione di centri urbani preesistenti o, soprattutto, costituitisi a partire dall’unione di due comuni. Fra i più recenti, Marcato (2009, pp. 187-88) segnala il comune di Porto Viro (Rovigo), nato nel 1995 dall’unione dei preesistenti Donada e Contarina, toponimo ‘onimico toponimico’ che riprende il nome proprio del canale costruito negli anni Trenta, che ne delimita il territorio, il Taglio di Porto Viro, dal latino veterem («vecchio»). Ma quantitativamente più significativi sono i casi di costituzione di nuovi macrotoponimi correlati all’urbanizzazione dei litorali per fini turistici balneari, a partire dalla fondazione di Lignano Sabbiadoro (Udine), formatosi come frazione di Latisana a seguito della bonifica della penisola antistante e poi divenuto nel 1959 comune (aggiungendo al toponimo preesistente l’appellativo descrittivo di sabbiadoro), per arrivare alla costituzione di coronimi celebri o delle molte Marine dell’Italia meridionale (Cirò Marina, Crotone, parte del comune di Cirò fino al 1952, oggi secondo centro della provincia per densità abitativa). In molti casi l’urbanizzazione dei litorali si è accompagnata (come nel caso di Cirò sopra ricordato) a fenomeni di semplice ‘riporto’ di toponimi dall’interno alla costa (Marina di Pietrasanta, Pietrasanta, Lucca; Squillace Lido, Squillace, Catanzaro), sul modello del riporto ‘a lunga gittata’ effettuato nei primi anni del 20° sec. per la costruzione della già citata Milano Marittima; oppure, in altri casi, ha comportato l’affioramento della microtoponomastica litoranea locale, come nel caso di Golfo Aranci (Olbia-Tempio Pausania), reinterpretazione paretimologica sul gallurese Golfu di li Ranci, (cioè «dei granchi»), comune dal 1979, ma prima località di Olbia, oppure, a livello di toponomastica intracomunale, in Liguria Capo Mele (fra Laigueglia e Andora, Savona) e Torre del Mare (fra Bergeggi e Spotorno, Savona), aree di sviluppo residenziale turistico sviluppatesi a partire degli anni Cinquanta.
Un settore della toponomastica ancora molto produttivo è rappresentato poi dall’onomastica stradale o odonomastica, e cioè dalla toponomastica di livello ‘infracomunale’. L’onomastica stradale rappresenta spesso un patrimonio storico-linguistico che contrassegna il vissuto urbano, come per le vie o le zone storiche delle città italiane, quali Giudecca a Venezia o Giovecca a Ferrara, in relazione all’appellativo giudeo, ma anche (per il secondo toponimo) alla professione di conciatore di pelli, frequentemente svolta dalle comunità ebraiche nelle città medievali (Marcato 2009); oppure a Palermo i quartieri del Cassero (dal prestito di ritorno latino castrum › arabo qasr «fortezza») e della Vucciria (dal francese normanno boucherie «macelleria»); o ancora Piazza Bra (dal longobardo braida «orto suburbano», «fondo agricolo», ma anche «prato» o «pianura», da cui toponimi come Bra, Cuneo, e il quartiere di Brera a Milano) a Verona. Ma anche a livello degli appellativi comuni che le diverse realtà urbane o regionali utilizzano per indicare le tipologie stradali, le peculiarità regionali si dimostrano evidenti; si pensi alle calli, ai campi e ai campielli («piazza»), alle fondamenta («vie lungo i canali»), alle salizade («strade lastricate» da silicem «silice» e poi «selce, pietra») di Venezia; oppure ai canti, cioè agli incroci viari che originariamente servivano più delle vie a segnare i punti di riferimento della città antica di Firenze; al senso specifico che assumono a Torino i termini borgo, in relazione ai quartieri operai (Borgo Vanchiglia, Borgo San Paolo, Borgo Dora) sorti fra Ottocento e Novecento in prossimità delle fabbriche, o barriera («area di confine doganale della città», specificata in genere da un macrotoponimo di orientamento; da cui i tipi Barriera di Milano, denominazione oggi riferita al quartiere nord-est della prima periferia, un tempo localizzata nell’attuale Piazza Francesco Crispi; oppure, verso sud, Barriera di Nizza per le attuali zone di Piazza Carducci e Piazza Bengasi).
Nella seconda metà del Novecento la denominazione delle strade è passata attraverso le scelte delle amministrazioni comunali e può contrassegnare anche onomasticamente il territorio, soprattutto nel caso della costruzione di nuovi quartieri nelle grandi città. I due quartieri operai della seconda cintura settentrionale costruiti a Torino fra gli anni Cinquanta e Settanta presentano un’onomastica stradale ispirata a nomi botanici: specie arboree per le due Falchere, Vecchia e Nuova, fiori per le Vallette, quartiere che ospitò anche il nuovo carcere. Meno univoca (ma comunque contrassegnata dalla preferenza per nomi geografici internazionali) la scelta odonomastica per il quartiere EUR (poi Quartiere Europa) di Roma, progettato in epoca fascista, ma realizzato solo a partire dagli anni Cinquanta.
Proprio in quanto terreno privilegiato di verifica delle tendenze onomastiche della società contemporanea, l’odonomastica gode oggi di una particolare attenzione da parte degli studiosi, come testimoniano recenti filoni di studio internazionale sullo spazio sociosemiotico delle denominazioni urbane più recenti (come i ‘non luoghi’ che emergono per es. dalla nuova toponimia degli spazi di aggregazione giovanili in prossimità dei centri commerciali periferici) o sulle regole da applicarsi per le nuove nominazioni stradali, come è stato per il Convegno promosso dalla Provincia autonoma di Trento nel 2002 e curato da Carlo Alberto Mastrelli (Odonomastica. Criteri e normative sulle denominazioni stradali, Atti del Convegno, 2005). Segni di una sensibilità del tema sono anche le piccole e grandi polemiche mediatiche cui si è assistito talvolta, in anni recenti, a seguito di operazioni che mostrano l’irrompere di pulsioni in qualche modo ideologiche nelle scelte odonomastiche delle amministrazioni. La scelta condivisa da molte città italiane di intitolare una via alla giornalista Ilaria Alpi, scomparsa nel 2007 (fra le altre Parma, Forlì, Mantova e Olbia), o ai Martiri di Nassiriya (a Trapani, Casale Monferrato, Capua, Valenzano), o ai Martiri delle Foibe (Reggio Emilia, Monza, Bari, Assisi) e, per converso, le polemiche seguite alla proposta del 2009 del consigliere comunale di Roma, Marco Siclari, per l’intitolazione di una via a Rosa Bossi Berlusconi, madre dell’allora premier morta nel 2008, come «simbolo di tutte le mamme d’Italia», mostrano che, al di là delle appartenenze e delle convenienze ideologiche o politiche, un limite deve essere posto fra ‘eventi’ e ‘storicizzazione degli eventi’; e che solo nel secondo caso l’atto semiotico rappresentato dall’intitolazione di una via sembra avere un senso.
Il dominio dei nomi di battesimo si correla in modo particolare ai cambiamenti culturali della società, per ragioni che ineriscono alla natura stessa e alla frequenza dell’atto di nominazione battesimale, nonché all’indubbio significato sociale (in termini di proiezione dell’orizzonte culturale dei genitori sul nome di un figlio) di cui esso è portatore.
Per il repertorio italiano su base regionale della seconda parte del Novecento, un punto di partenza può essere rappresentato dai 30 nomi maschili e femminili più comuni forniti da De Felice nel 1982 (I nomi degli italiani. Informazioni onomastiche e linguistiche, socioculturali e religiose) e riportati da Marcato (2009, pp. 39-40). Accanto a nomi maschili di tradizione panitaliana pressoché uniforme (qui nell’ordine di frequenza: Giuseppe, Giovanni, Antonio, Mario, Luigi, Francesco, Angelo, Carlo, Franco, Bruno, Paolo, Michele, Giorgio, Aldo, Luciano, Roberto, Vittorio, Alberto, Renato, Enrico, Guido), alcuni nomi più frequenti mostravano una certa localizzazione, soprattutto meridionale, come Vincenzo, 8 per rango (r.) assoluto e accentrato in Campania e Sicilia, Salvatore (r. 10, siciliano), Domenico, Pasquale e Nicola (rispettivamente r. 13, 23 e 27, in Abruzzo, Campania e Puglia), Antonino (r. 30, calabrese e siciliano) e, a ranghi più bassi, Gaetano, Carmelo, Gennaro e Carmine, tipici della Campania, Rosario, Calogero e Alfio, siciliani. A testimonianza di una generale maggiore caratterizzazione onomastica dell’Italia del Sud, molti meno erano i nomi orientati geograficamente verso il resto della penisola: Sergio e Gino (r. 19 e r. 28), fra Nord e Toscana, e (ma a ranghi inferiori) Dino, Elio, Maurizio, Walter, Amedeo, Nello (quest’ultimo localizzato in Emilia-Romagna e Centro Italia), Danilo, Fabio e Fulvio. Nei nomi femminili, ai 30 ranghi più alti De Felice registrava quasi eslusivamente nomi panitaliani (Maria, Anna, Giuseppina, Rosa, Angela, Giovanna, Teresa, Lucia, Anna Maria, Francesca, Caterina, Antonietta, Carla, Elena, Rita, Margherita, Franca, Paola, Luisa, Laura, Lina, Antonia, Ida, Luigia, Bruna, Silvana, Adriana). Tre altri nomi frequenti (r. 9 Carmela, r. 16 Concetta, r. 27 Giuseppa) avevano caratterizzazione meridionale, come altri in posizione inferiore nella scala fra cui Rosaria, Rosalia e Agata, siciliani, Annunziata e Immacolata, campani. Fra i femminili centrosettentrionali si segnalavano Rina, Gina, Ines, Elsa e alcuni nomi, come Daniela, Loredana e Stefania, destinati negli anni successivi a perdere del tutto ogni connotazione areale. Al di sotto dei ranghi più alti la caratterizzazione locale può farsi maggiormente marcata con nomi esclusivi o quasi di un’area per ragioni generalmente connesse ai culti e alle devozioni legate al territorio (Marcato 2009, pp. 55-57; Rossebastiano, Papa 2005, ad voces). È il caso di personali maschili e femminili come Grato (Valle d’Aosta e Piemonte) e Cassiano (Valle d’Aosta e Trentino Alto-Adige; il riferimento è a san Cassiano da Imola, patrono di La Salle in Valle d’Aosta e di San Cassiano in Alto Adige: cfr. Raimondi 2012, pp. 89-90, 99-101), Chiaffredo, Baudolino o Valerico (Piemonte; l’ultimo è san Valerico, compatrono di Torino con san Giovanni), Abbondio, Ambrogio e Colombano (Lombardia), Prosdocimo (Veneto), Verena (Trentino-Alto Adige; Verena è una santa collegata alla tradizione semileggendaria alpina della Legione tebea), Ermete (Emilia), Ceccardo e Valfredo (Toscana, Marche, Umbria; il secondo è san Valfredo della Gherardesca, venerato a Lucca), Emidio (Marche), Feliciano (Umbria), Grimoaldo (Lazio, in particolare nel Frusinate, dove veicola il culto di san Grimoaldo), Antioco, Efisio e Gavino (Sardegna), Zopito (Abruzzo), Aniello, Sossio/Sosio e Ciro (Campania: san Ciro è compatrono di Napoli insieme a san Gennaro), Oronzo e Cataldo (Puglia; il secondo è san Cataldo, patrono di Taranto di origine longobarda), Filomena (Molise, dove è oggetto di culto particolare in provincia di Isernia, Campania e Basilicata), Agata e Catena (Sicilia; il secondo nome è in relazione con il culto di santa Maria della Catena, ipostasi mariana di origine medievale e meridionale, che proteggeva contro la schiavitù e cui sono dedicati molti luoghi di culto in Sicilia).
Questo dunque il quadro al 1981; un prospetto che sostanzialmente disegnava le scelte onomastiche dell’Italia della prima metà del Novecento, anche sulla scorta del fatto che i dati di De Felice provenivano dagli elenchi telefonici ed erano quindi rappresentativi di un campione di adulti.
Informazioni sugli orientamenti successivi possono essere tratte innanzitutto dai dati contenuti nel testo di Rossebastiano e Papa (2005), che registrano le nascite fino al 31 dicembre 1994 (p. XVII); poi da informazioni riassunte nel libro di Marcato (2009); infine da alcuni dati recentissimi dell’inchiesta dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI), condotta da Enzo Caffarelli (ANCIComuniCare 2012).
Si può anticipatamente sintetizzare che, come è anche facilmente prevedibile, la direzione delle scelte onomastiche italiane procede sicuramente verso l’eliminazione o, almeno, la forte attenuazione delle specificità regionali. Infatti la verifica dei dati quantitativi riportati nello studio di Rosebbastiano e Papa (2005) relativamente alle attestazioni di frequenza fra il 1980 e il 1994 evidenzia costantemente curve decrescenti per tutti i nomi prima riportati come esempio di regionalità; e questo vale non solo per quelli più localizzati e poco frequenti già in tutto il 20° sec. (come Abbondio, Baudolino, Chiaffredo o Grato, attestati isolatamente al massimo fino al 1992), ma anche per i nomi di area meridionale ancora frequenti nel 1981 o per quelli localizzati, ma di salda diffusione. A fronte di un lieve decremento del tasso di natalità nazionale nel periodo (dall’11,1 al 9,8‰ fra 1981 e 1991; dati dei censimenti in ISTAT, Italia in cifre. 2011, 2011), un personale siciliano tradizionale come Concetta scende per es. da circa 1100 a 362 occorrenze, riducendosi a un terzo; appena meglio il napoletano Ciro, da 810 circa a 395. Anche per il nome sardo Gavino, che ha cominciato già negli anni Cinquanta un inesorabile declino, il largo decennio osservato determina il passaggio dalle quasi 50 occorrenze del 1981 alle sole 5 del 1994.
Parallelamente a questa uniformazione, prosegue nel periodo più recente la tendenza all’assunzione di modelli onomastici veicolati dai mezzi di comunicazione di massa. Il fenomeno non è certo nuovo, dato che già l’impennata delle Alida negli anni fra il 1940 e il 1960 (in concomitanza con la notorietà di Alida Valli) o delle Vanessa a partire dal 1966 (anno di uscita del film Blow up! di Michelangelo Antonioni, interpretato da Vanessa Redgrave) rimanda sicuramente al fascino delle due attrici; nel secondo caso, oltretutto, lanciando in Italia un nome di tradizione anglosassone, fino ad allora praticamente sconosciuto. Ma più recenti nomi di successo (come quelli elencati da Marcato 2009, pp. 49-51, che riprende anche da De Felice 1987), soprattutto se femminili e se ‘esotici’, portano spesso sicuramente lo stigma della celebrità mediatica. È per esempio il caso della ripresa di nomi già medievali come Selvaggia (nome di una delle figlie di Federico II di Svevia, che ritornò in voga nel 1975, in concomitanza con la nascita di Selvaggia, figlia dell’attrice Paola Quattrini) o Azzurra (il rilancio del nome avvenne dopo il 1970, anno di nascita di Azzurra De Lollis, figlia dell’attrice felliniana Sandra Milo); di esotismi come Christian o Kevin (gli attori Christian De Sica e Kevin Costner; cfr. Marcato 2009, pp. 40-42); oppure del successo rinnovato di nomi piuttosto tradizionali, ma prima rari come Aurora (rilanciato dalla scelta onomastica, e dal contemporaneo hit single, del cantante Eros Ramazzotti per la figlia nata nel 1996) o Sara (rilanciato nel 1978 dalla canzone omonima di Antonello Venditti), spinti da motivazioni imitative e proiettive nei confronti di un mondo che, piaccia o meno (molto critico si mostrava De Felice già nel 1987), svolge oggi la funzione di ‘élite culturale’ per una parte della società contemporanea.
Sulla base dei pochi dati più recenti disponibili, le scelte onomastiche personali degli italiani del 21° sec. mostrano la tendenza a una selezione ulteriore del tesoro antroponimico, che si svolge su basi ‘estetiche’ piuttosto chiare. I dieci nomi femminili più usati nel 2004 (Giulia, Martina, Chiara, Sara, Alessia, Francesca, Sofia, Giorgia, Elisa, Alice, secondo Marcato 2009, p. 40), così come quelli maschili emergenti dall’indagine dell’ANCI (ANCIComuniCare 2012) – a Firenze Lorenzo, Niccolò, Matteo; a Genova i primi dieci sono Andrea, Lorenzo, Matteo, Pietro, Davide, Filippo, Gabriele, Francesco, Alessandro, Leonardo – mostrano una tendenza stabile alla scelta di nomi, da un lato ben radicati nell’onomastica italiana, dall’altro non troppo accostabili a tradizioni locali (anche se Niccolò a Firenze e Andrea a Genova sono anche nomi di rilevante tradizione cittadina) né d’altra parte usurati dalla ripetitività dell’onomastica religiosa dei secoli precedenti.
Il dato qualificante del periodo più recente della storia italiana è rappresentato indubbiamente dal mutamento della composizione del tesoro antroponimico familiare di alcune regioni italiane.
I dati riassuntivi proposti da Enzo Caffarelli nel volumetto prodotto per SEAT-Pagine Gialle (I cognomi italiani. Storia, curiosità, significati e classifiche, 2° vol. I più frequenti e tipici regione per regione, 2000), tratti dagli elenchi telefonici del primo semestre di quell’anno, costituiscono un termine di riferimento per la generazione di coloro che a quella data avevano costituito un nucleo familiare autonomo (e quindi presumibilmente i nati prima del 1975). Essi mostravano un panorama di antroponimia familiare ancora sostanzialmente tradizionale, dato che nei 30 cognomi più frequenti delle 20 regioni italiane comparivano ancora a ranghi altissimi quelli più fortemente contrassegnati dalla categoria della ‘regionalità’ endemica. Il confronto con quelli invece derivanti da due ricerche rese note quasi contemporaneamente nel 2012 – la prima, quella già citata svolta dallo stesso Caffarelli (ANCIComuniCare 2012) e seguita da una vastissima eco nei mass media italiani, la seconda (Boattini, Lisa, Fiorani et al. 2012) di impronta antropologica e genetica, svolta da un team italo-francese – sembra evidenziare alcune importanti novità che meritano sicuramente una riflessione.
La ricerca italo-francese, condotta anch’essa sugli elenchi telefonici del 1993 elaborati statisticamente con il metodo delle reti neurali, ha potuto fornire un quadro d’insieme della ‘alloctonia cognominale’ delle regioni italiane, calcolando su una base di 17 milioni e mezzo di abitanti la percentuale di individui che portavano cognomi non originari della provincia in cui risiedevano nell’anno di riferimento.
I dati (sintetizzati in figura 2) evidenziano una grande differenza fra le aree del Paese, contribuiscono a modificare il quadro proposto nel 2000 da Caffarelli e in parte smentiscono forse alcune attese. Se infatti confermate risultano, da un lato la prevedibile funzione di polo migratorio delle aree urbane del Nord come Milano (e la vicina Varese), Torino (entrambe con percentuali di cognomi alloctoni fra il 70 e l’80%) e Genova (fra il 60 e il 70%), e della capitale (Roma supera l’80%, con la vicina Latina), dall’altro emerge anche come i restanti valori superiori al 70% siano registrati da aree in parte inattese, come le tre restanti province liguri (Imperia, Savona, La Spezia), quella di Alessandria in Piemonte, le province tirreniche della Toscana (Pisa, Livorno e Grosseto) e la provincia di Latina, caratterizzata, come è noto, da una forte presenza di cognomi veneti in seguito all’immigrazione conseguente alla bonifica dell’Agro Pontino degli anni Trenta; mentre altre aree di più recente sviluppo industriale, che si supporrebbero quindi attrattive per l’emigrazione recente (come le province venete e quelle lombardo-orientali di Brescia e Bergamo), rimangono invece sempre al di sotto del 50% di alloctonia cognominale.
Le aree più conservative risultano in generale quelle dell’Italia del Sud (in particolare Bari, Lecce, Reggio Calabria, Trapani e Ragusa), della Sardegna e della provincia di Venezia, mentre alcune province settentrionali (Cuneo, Bergamo, Vicenza, Belluno, Udine) e il Trentino-Alto Adige appaiono decisamente meno marcate dal cambiamento (percentuali inferiori al 40%) del resto del Nord.
I picchi delle grandi aree urbane e delle altre zone in colore più scuro, nonché l’altissima percentuale media generale di alcune aree, mostrano che, uscendo dai primi 30 ranghi di frequenza evidenziati da Caffarelli nel 2000, il panorama dei cognomi delle regioni italiane doveva già nel 1993 (e quindi in un momento addirittura precedente al suo sondaggio) essere molto più variegato, con una grande presenza di cognomi alloctoni attestati magari a ranghi medi o medio bassi, ma che rappresentavano quantitativamente una fetta rilevante della popolazione, anche in contesti (come la Liguria occidentale) non urbani e non ritenuti fulcro di grande mobilità territoriale in ingresso.
L’inchiesta più recente di Caffarelli, importante anche perché è la prima condotta sulle anagrafi comunali e non sugli elenchi telefonici, aggiunge invece dati di grana più fine, che confermano le inferenze possibili a partire dall’articolo di Boattini, Lisa, Fiorani et al. (2012), e alcune altre novità. A Torino e Milano si rafforza la presenza dei cognomi di origine meridionale, con Russo che diventa primo cognome del capoluogo piemontese, sesto in quello lombardo e quinto a Roma (ma è nei primi 15 cognomi anche a Novara, Genova, Bologna, Trieste; oltre che primo a Latina); e accanto a Russo, che sulla base della sua presenza diffusa in tutto il Meridione (è primo cognome in Sicilia, secondo in Campania, Puglia e Calabria) diventa il primo cognome italiano scalzando l’omologo centro-settentrionale Rossi, si trova il napoletano Esposito (ancora e saldamente primo cognome nella città partenopea), che si colloca ai ranghi 12 a Milano e Torino, 14 a La Spezia, 15 a Trieste, 7 a Latina, città, quest’ultima, che con Russo come primo cognome vede nuovamente mutare la sua facies antroponimica, in direzione questa volta meridionale. Particolare poi il caso della città di Aosta, dove la forte immigrazione dall’area reggina degli anni Cinquanta-Sessanta (collegata alla cantieristica infrastrutturale di quegli anni) ha determinato un particolare quadro antroponimico urbano, con 6 cognomi tipicamente calabresi (Mammoliti, Fazari, Giovinazzo, Raso nei ranghi da 1 a 4; Romeo, Agostino e Tripodi da 8 a 10) fra i primi 10. Fra le grandi città del Nord, solo Genova, pur a fronte della presenza massiccia di cognomi non locali, attestata dalla ricerca precedente e testimoniata dal rango 3 di Russo, 11 del siciliano Castro, 23 del napoletano Zambrano e dalle alte attestazioni di diversi cognomi sardi come Sanna e Pinna, mantiene una prevalenza di tipi cognominali tradizionali coincidenti con i dati proposti da Caffarelli del 2000 – con i tipici Parodi, Canepa, Bruzzone, Traverso, Repetto, Pastorino, Ferrando, Gaggero, Ottonello, Piccardo ancora nei primi 20 cognomi per numero di portatori (Il signor Parodi resiste, Rodriguez può attendere, titola infatti «Il secolo XIX», 18 apr. 2012) – a testimonianza probabilmente di un’immigrazione demograficamente più varia e, soprattutto, numericamente meno consistente che a Torino e Milano.
La provincia lombarda, veneta, emiliana e friulana non mostrano (salvo qualche caso isolato come Varese e Trieste) particolare permeabilità alla migrazione interna e conservano generalmente un panorama tradizionale e locale, con evidenze di migrazione casomai a breve raggio come a Bergamo, dove aumentano in proporzione i cognomi genericamente lombardi o settentrionali (Colombo, Villa, Moretti, Brambilla e altri) e quelli provenienti dalle aree periferiche della provincia (come Belotti e Pesenti).
Analoga situazione per quasi tutta l’Italia centrale, dove si registra semmai (come a Livorno) una diminuzione di cognomi schiettamente locali (che però predominano ancora a Siena, con Brogi e Pianigiani, a Perugia, con Fiorucci, a Macerata con Giustozzi) a vantaggio di altri a diffusione più generale centro e nord-italiana (Ricci, Bertini, Donati, Moretti). Particolaremente conservativa la Sardegna, che registra in tutte le province esclusivamente movimenti interni delle graduatorie.
Anche nel Sud la tendenza conservativa si registra ovunque, dall’Abruzzo (con i tipici cognomi patronimici in forma preposizionale come D’Angelo e Di Paolo), alla Puglia (dove nei centri principali aumentano addirittura le forme cognominali più locali, come rispettivamente i foggiani Scopece, Padalino, Gramazio, il brindisino Guadalupi e il barlettese Filannino), alla Basilicata (Telesca, Santarsiero e Pace sono ancora i primi tre cognomi a Potenza; Andrisani, Festa, Montemurro a Matera), alla Sicilia, dove i cognomi dominanti sono sempre quelli locali a Messina (Arena, Russo, Costa e Cucinotta; per la città dello Stretto si nota semmai un aumento di cognomi calabresi meridionali, come Romeo, Morabito e Laganà), a Catania (Giuffrida, Privitera, Spampinato, Platania), a Ragusa (Cascone, Criscione e Guastella).
Questi dati confermano la previsione ricavabile anche dall’articolo di Boattini, Lisa, Fiorani et al. (2012): i rilevamenti telefonici degli anni Novanta, se analizzati solo nei cognomi di maggior frequenza, nascondevano la realtà numerica dell’apporto cognominale extraregionale, resosi evidente a un approccio statistico basato sulle nuovissime generazioni, come quello dell’ANCI (ANCIComuniCare 2012).
Più che dai dati sulla migrazione interna, tuttavia, le reazioni alla ricerca di Caffarelli sono state suscitate dalle notizie relative al quarto e decimo posto raggiunto dai cognomi cinesi Hu e Chen a Milano (Mi chiamo Chen e sono di Milano, «L’Avvenire», 19 apr. 2012), al vertice della graduatoria raggiunto a Prato nuovamente da Chen, scavalcando l’autoctono Gori (Il mio nome è Chen e a Prato comando io, «Il Tirreno», 18 apr. 2012), allo stesso primato del pakistano e indiano Singh a Brescia (Brescia “capitale” dei cognomi stranieri, «Brescia oggi», 18 apr. 2012), all’affermazione di cognomi stranieri nei piccoli comuni industriali del Vicentino (Chen, Singh e Hossain insidiano Rossi Bullo e Schiavon, «Il Mattino di Padova», 18 apr. 2012); e notazioni fra l’interessato, il curioso e il preoccupato in merito alla varia presenza sul territorio nazionale di cognomi stranieri si ritrovano in tutta la rassegna stampa, lasciando emergere il rapporto che l’opinione pubblica ancora intravede fra onomastica e identità.
Tuttavia, si dovrà sottolineare che la conoscenza di un semplice dato strutturale dell’onomastica cinese dovrebbe portare a limitare le affermazioni in questo senso. Secondo le ricerche del genetista cinese Yuan Yida, infatti, il patrimonio dei cognomi cinesi ha subito, nel corso della sua evoluzione, una selezione drastica che ha portato oggi alla presenza di un numero piuttosto ristretto di forme, estesosi a danno di altre tradizionali. Per dare un’idea della differenza, basti pensare che Yida ha stimato nel 2007 14.000 cognomi su una popolazione di 270 milioni di persone, mentre per l’Italia il dizionario di Marcato e Caffarelli (2008) recensisce circa 60.000 cognomi su una popolazione di 60 milioni: in Italia il numero medio di abitanti che portano un determinato cognome (detto statisticamente ‘indice di dispersione media’) è dunque 100, in Cina sfiora i 20.000. Fra questi cognomi anche Chen (quinto in assoluto, che è il cognome maggioritario nel Sud della Cina) e Hu (tredicesimo in assoluto).
Lo stesso vale per il primato del cognome Singh a Brescia: l’appellativo («leone») non è infatti un vero e proprio cognome, ma un attributo che accompagna il primo nome di tutti i Sikh maschi indiani e pakistani (per le donne l’equivalente è Kaur «principessa»).
Scriveva il filosofo del linguaggio Andrea Bonomi:
I nomi propri non possono introdurre nuove entità nel discorso, ma hanno una natura per così dire conservativa nei confronti dello spazio conoscitivo, limitandosi a contrassegnare luoghi già individuati di questo spazio o, se volete, limitandosi a fissare dei punti fermi a partire dai quali è possibile un orientamento in quello spazio (Le vie del riferimento. Una ricerca filosofica, 1975, p. 102).
Quanto evidenziato dalle notazioni riportate nella parte conclusiva di questo saggio sembra in effetti mettere in luce una sostanziale differenza nell’impatto che i due settori dell’onomastica, quello dei nomi di persona e quello dei nomi di luogo, producono, rispetto alla loro natura di punti fermi o di ‘ancoraggio referenziale’, sulla sensibilità semiotica degli italiani di oggi, con riguardo particolare al concetto di identità nazionale e regionale.
Da un lato, la presenza di antroponimi familiari esotici viene vissuta spesso come un attentato all’identità locale e, viceversa, la conservazione del panorama tradizionale dei cognomi come un rassicurante segno della permanenza dei valori in cui la comunità si riconosce. Dall’altro, il valore identitario connesso invece alla toponomastica non solo resiste, ma diviene addirittura strumento di una ricerca che spesso si dedica a percorrere a ritroso la storia per ritrovarvi i semi di un’identità che si vuole primigenia, connessa quanto più possibile alle radici della storia microcomunitaria. Tutto ciò anche quando (come nel caso di certo ‘celtismo’ che imperversa sulla rete Internet, e che ritrova lo stigma celtico in qualsiasi toponimo posto al di sopra della linea Massa-Senigallia) questo significa saltare in breve tempo duemila anni di mondo latino storicamente ben documentato, per ritrovarsi in un’antichità mitologica e sfocata, in cui i confini fra le popolazioni (mediterranee, preindoeuropee, galliche, liguri), e l’idea stessa di stratificazioni successive, vengono peraltro messe in dubbio dalle più recenti scoperte archeologiche (come la teoria archeologica della ‘dispersione neolitica’ dell’inglese Colin Renfrew o quella linguistica della ‘continuità’ di Mario Alinei).
Eppure, anche operazioni latamente ‘culturali’ di questo tipo sono a ben vedere contrassegnate dalla semiosi caratteristica dei nomi propri, che Bonomi ravvisava giustamente nella loro natura di ‘punti fermi’ e referenzialmente incontrovertibili dello spazio conoscitivo. Così, anche nelle nostre mutevoli città, luoghi (o ‘non-luoghi’) come i grandi centri commerciali («ci si vede davanti alla Coin»; o «davanti al Carrefour», in qualsiasi periferia urbana) diventano elementi di orientamento come e più delle vie, delle piazze e dei monumenti storici, in grazia della semioticità dirompente delle loro insegne; mentre le stesse insegne, se scritte in alfabeti diversi da quello latino, diventano i segni preoccupanti di un’alterità culturale e antropica («ormai qui son quasi tutti di loro», si sente dire spesso dai vecchi torinesi parlando del quartiere storico, oggi emblema della multiculturalità della città, di Porta Palazzo) con la quale pare difficile venire a patti.
Questa differente percezione è però, in defintiva, il segno di una irriducibile diversità fra i due sottoinsiemi lessicali (la toponimia e l’antroponimia) che si è cercato (sulla scorta di una tradizione di studi che ha invece metodologicamente valorizzato ciò che li accomuna, e cioè la loro ‘relittualità’ linguistica) di tenere insieme in questa illustrazione, e che risiede probabilmente in una semplice, ma sostanziale differenza fra le classi di referenti che ciascuno dei due sottoinsiemi è chiamato a identificare: la fondamentale ‘staticità’ dei luoghi e, viceversa, la contemporanea e altrettanto fondamentale ‘mobilità’ degli uomini.
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