Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Affermatasi nel XVII secolo con Lully come l’emblema della monarchia assoluta, la tragédie lyrique conosce nuovi fasti nel Settecento grazie all’opera di Rameau. Per tutto il secolo intellettuali e musicisti si appassionano al dibattito sul primato della musica francese o italiana che tocca i vertici della polemica con querelle des bouffons.
La Francia, tra Sei e Settecento, è l’unica nazione europea che vanta una tradizione del melodramma in grado di opporsi al teatro musicale all’italiana. Il protezionismo rigido dell’apparato statale e la forte carica ideologica di cui sono investiti gli spettacoli sottraggono la musica francese agli influssi stranieri; una certa resistenza alla penetrazione del dramma per musica all’italiana, inoltre, è causata dalla forte matrice razionalista della cultura: difficile, per il pubblico d’Oltralpe, accettare la complessità e l’irrazionalità degli intrecci italiani, troppo ricchi di azioni e di episodi secondari; diverso è anche il gusto in materia di vocalità, dal momento che al timbro dei castrati il pubblico francese preferisce l’haute-contre, il registro maschile di testa. In ogni caso, è lo stesso fondo fortemente celebrativo dello spettacolo d’opera francese a essere incompatibile coi modi di produzione e di ricezione del teatro italiano.
Con Lully il teatro musicale francese aveva trovato una perfetta canonizzazione: la forza normativa del musicista è tale che per un altro secolo tutto il teatro musicale francese ne è condizionato. La sua produzione lascia l’impronta soprattutto sul genere della tragédie lyrique, detta anche tragédie en musique: perfetta fusione di musica, poesia, danza e scenografia (tutti gli elementi, su un piano di parità, concorrono a un effetto complessivo), è l’emanazione più autentica e prestigiosa della monarchia. Col suo carattere aristocratico e raffinato, convenzionale e fortemente celebrativo, la tragédie lyrique incarna l’idea dell’opera come istituzione di Stato.
Scomparso Lully nel 1687, e venute meno le circostanze che ne avevano accompagnato la produzione artistica, l’opera francese fatica a mantenersi in vita. La pompa e la magnificenza regali dell’età di Luigi XIV cedono il passo alla galanterie, al nuovo gusto che domina la reggenza e il regno di Luigi XV. Nei primi anni del Settecento elementi dello stile italiano iniziano a infiltrarsi nell’opera francese: arie col “da capo”, arie su testo italiano o ariette francesi ma in stile italiano, procedimenti armonici d’importazione, linee vocali espressive o fiorite si cominciano a notare qua e là nel corpo delle tragédies lyriques francesi.
Sintomo di un gusto che muta è anche la nuova forma spettacolare in voga, il genere ibrido dell’opéra-ballet: d’ambientazione esotica o pastorale, è articolato in due o tre atti, chiamati entrées; ogni atto riunisce episodi diversi, accomunati da un legame tenue quale per esempio un tema generale.
Basata sullo sfarzo coreografico, l’opéra-ballet alterna semplici canti a danze; lo stile musicale è improntato alla galanterie e indulge al gusto descrittivo-pittorico. Fra i successi maggiori si colloca Les fêtes de Thalie (1714), su musica di Jean-Joseph Mouret, che resta in repertorio fino al 1764, ma è con Rameau che il genere tocca l’apice.
A Rameau si deve anche la rivitalizzazione della tragédie lyrique. Esteriormente le sue opere non si allontanano dalle regole dettate da Lully: adottano soggetti mitologici, si articolano in numerose scene con balli, cori, brevi arie e recitativi, declamano con la massima cura il testo poetico. Eppure Rameau investe il genere di una carica innovativa che suscita vivaci polemiche tra i contemporanei, alcuni dei quali lo accusano di aver disatteso la tradizione francese aderendo allo stile italiano. A partire da Hippolyte et Aricie (1733), l’intensa drammaticità, l’audacia armonica, le ampie scene descrittive delle tragédies lyriques di Rameau sconcertano una parte del pubblico, abituato al linguaggio dei predecessori. Sono molti, d’altra parte, gli elementi che paiono contrastare con la tradizione lulliana, a cominciare da un recitativo più vario e raffinato, dai cori più brillanti e possenti, dagli inserti strumentali di rilievo, dalla maggiore varietà formale, dalla commistione stilistica che non disdegna le forme e il virtuosismo canoro degli italiani, tanto che la pubblica opinione si divide tra i sostenitori e i detrattori della musica di Rameau, accusata dagli ultimi di “artificiosità” in opposizione alla “naturalezza” della musica di Lully.
In Francia la tragédie lyrique, grazie ai suoi presupposti ideologici e al suo particolare sistema produttivo, si sottrae ai condizionamenti dell’opera italiana, vale a dire alle pretese dei virtuosi di canto e alle esigenze del teatro impresariale in genere. Non ha diffusione al di fuori di un ambito tutto sommato ristretto, nel quale l’organizzazione degli spettacoli dipende direttamente dall’autorità statale. Oltre che presso la corte francese, la tragédie lyrique ha qualche sviluppo presso alcune corti minori cosmopolite – soprattutto in Germania e nell’Italia del Nord – aperte al gusto e all’influsso della cultura francese. Nel corso del Settecento si registrano tentativi di trapiantare il genere, o almeno di dare origine a un’opera in cui il testo poetico e la musica del dramma all’italiana si coniughino agli schemi drammatici della tragédie lyrique francese, al gusto per la declamazione, la spettacolarità, il pathos. Fra questi tentativi è senz’altro degno di nota il caso di Parma.
Intorno alla metà del secolo, assunta l’intendenza degli spettacoli di corte, il primo ministro Guillaume Du Tillot invita alcune compagnie teatrali francesi nella piccola capitale e vi fa allestire un’opera di Rameau; nel 1758 chiama a corte Tommaso Traetta e gli commissiona due opere su libretti di Carlo Innocenzo Frugoni, che prendono a modello altrettante tragédies lyriques di Rameau. Il tentativo di “riforma”, che si ispira alle idee di Algarotti, coinvolge opere d’impianto sostanzialmente metastasiano, nelle quali però i cinque atti comprendono cori e danze secondo l’uso francese. Quello di Frugoni e Traetta è un ambizioso tentativo, solo in parte riuscito, di fondere la tragédie lyrique con l’opera italiana.
La polemica tra i sostenitori della musica francese e di quella italiana, in Francia, è un luogo ricorrente del dibattito intellettuale per tutto il Settecento; lo scontro tra le due opposte fazioni è di vecchia data, in quanto gli argomenti in favore di una musica o dell’altra compaiono già nella querelle des anciens et des modernes. All’inizio del secolo l’abate François Raguenet, con il Parallèle des Italiens et des François en ce qui regarde la musique et les opéras (1702), prende le difese degli Italiani: sostiene infatti il primato di una musica meno noiosa perché più ricca e ardita nella scrittura vocale e nell’accompagnamento. L’abate riconosce, tuttavia, che l’opera francese si avvale di libretti più accurati, di recitativi più interessanti, di allestimenti grandiosi per l’impiego del coro e della danza, di orchestre migliori e più precise.
La polemica prosegue per molti anni: a Raguenet controbatte, nel 1704, Jean-Laurent Lecerf de La Viéville con la Comparaison de la musique italienne et de la musique française.
L’opinione pubblica è divisa nel gusto musicale, ma la lacerazione si fa ancor più palese intorno alla metà del secolo, quando scoppia violenta la querelle des bouffons.
Nel 1752 la compagnia dell’impresario Eustachio Bambini allestisce all’Opéra – nel tempio della tragédie lyrique di Lully e Rameau – l’intermezzo La serva padrona di Pergolesi, che era stata rappresentata già sei anni prima all’Hôtel de Bourgogne ed era passata inosservata. Le rappresentazioni scatenano una accesa disputa sulla supremazia della musica francese o italiana, che passa alla storia sotto il nome di querelle des bouffons.
L’opinione pubblica e la cultura francese sono divise: gli intellettuali, gli illuministi in particolare (fra cui Diderot e Rousseau), parteggiano in blocco per la musica italiana, nella quale identificano – per le sue melodie gradevoli e spontanee – l’emblema della naturalezza. Per la musica francese prendono posizione i musicisti di professione e i tradizionalisti: della tragédie lyrique vantano l’attenzione per la declamazione e la verosimiglianza dell’impianto drammatico.
Numerosi gli interventi che si registrano in merito: nella querelle intervengono letterati, pubblicisti, intellettuali, musicisti. Rousseau, e con lui i filosofi illuministi, ammirano la naturalezza e la semplicità dell’opera buffa italiana, che ritengono più espressiva e spontanea della tragédie lyrique.. Con la Lettre sur la musique française (1753) Rousseau postula l’inadeguatezza musicale della lingua francese: per ragioni storiche, quest’ultima è inadatta alla musica in quanto pesantemente condizionata dalla civiltà, che occulta il legame originario tra linguaggio verbale e linguaggio musicale; l’Italia, invece, ha conservato nella sua lingua la melodicità delle lingue primigenie, e nella sua musica l’espressività che le deriva dal predominio della melodia e dall’aver mantenuto il rapporto originario col linguaggio.
L’impegno di Rousseau non si limita al dibattito intellettuale: seguendo i principi dell’opera buffa italiana, nel 1752 compone un intermezzo, Le devin du village (1752), che allestisce a Fontainebleau e riprende all’Opéra nel 1753. Vi riunisce ariette semplici e gradevoli, che conoscono grande fortuna popolare ed europea; sulle scene parigine Le devin du village rimane fino ai primi dell’Ottocento.
Nel dibattito si inserisce anche Diderot, che nel Discours sur la poésie dramatique, espone le sue idee sulla drammaturgia teatrale. Raccomanda che la rappresentazione abbia un orientamento realistico, che le passioni e le situazioni siano forti ed esemplari, il soggetto essenziale e privo d’artificio, l’espressione dei personaggi semplice e naturale. Tutto ciò affinché lo spettatore si possa identificare nelle situazioni poste sulla scena.
Dal campo francofilo rispondono Jacques Cazotte, l’abate Claude de Fuzée Voisenon e altri, con una difesa della musica di Rameau; Voisenon si fa coinvolgere nella polemica con le Observations sur notre instinct pour la musique (1754), che replicano alle tesi della Lettre sur la musique française di Rousseau.
Intanto la compagnia di Bambini, probabilmente stupefatta dal polverone sollevato da un semplice intermezzo italiano, approfitta della situazione: mette in scena intermezzi napoletani e opere buffe di Pergolesi, Leo, Jommelli e altri. Alcuni di questi lavori vengono messi in circolazione in versione francese e hanno, in questa veste, un’ampia diffusione.
La polemica, nel frattempo, si spegne lentamente; ma una ventina d’anni più tardi viene di nuovo rilanciata: questa volta l’occasione è fornita dall’allestimento parigino delle opere “riformate” di Gluck, che nella capitale francese destano profonda impressione. È lo stesso compositore, con un’abile azione pubblicitaria, che ne fornisce il pretesto: dalle colonne del “Mercure de France”, infatti, riprende i vecchi argomenti sul primato della musica francese o italiana che vent’anni prima avevano animato il dibattito intellettuale parigino. Marmontel e gli altri letterati che rispondono a Gluck gli contrappongono l’italiano Niccolò Piccinni, nel quale identificano l’emblema della naturalezza, della vena melodica felice e spontanea; ma la nuova querelle tra gluckisti e piccinnisti non riesce ad appassionare gli animi più di tanto, e si esaurisce in sostanza nell’ambito di un dibattito accademico.