L’opera tra tagli e nuovi talenti
Il 7 dicembre 2010 apertura alla Scala della stagione d’opera 2010-11. Per tradizione è l’unica data del calendario della musica col privilegio di entrare l’indomani nelle prime pagine dei quotidiani. Di solito vi campeggia la cronaca: chi c’era, come era vestito, le contestazioni fuori dal teatro e alla fine sì, anche come è andato lo spettacolo, se approvato o no dal pubblico, loggione compreso.
Ma questa volta, per la prima volta, non va così.
Daniel Barenboim, il direttore che alle 18 in punto dovrebbe scendere in buca e staccare l’acceso Preludio della Valkiria di Wagner, si fa strada tra i leggii dell’orchestra, saluta i musicisti, stringe la mano al violino di spalla Francesco De Angelis e poi – una cosa mai successa – apre lo sportellino della balaustra coperto di velluto rosso ed esce verso la platea.
Ha il microfono, parla a braccio. Con tono severo, amaro, cita l’art. 9 della Costituzione italiana, richiama il dovere dello Stato di promuovere la cultura nel nostro paese. «Nostro», dice Barenboim. Lui, 68 anni, nato a Buenos Aires, radici russo-ebraiche, otto lingue parlate correntemente, quattro passaporti, compreso il doppio opposto di Israele e Palestina. Nostro paese, e ci dà un brivido alla schiena che le quattro ore successive, sfolgoranti di musica, non riusciranno a surclassare.
Nel 2011 il timore comune tra i sovrintendenti delle belle sale a palchetti che punteggiano lo Stivale è il taglio progressivo
al contributo pubblico delle istituzioni, che va a colpire, paradossalmente, proprio una stagione d’opera che vede manifestarsi nuovi titoli, prime esecuzioni, riscoperte, con interpreti di prestigio internazionale e una risposta di pubblico sempre più affezionato, partecipe. I festeggiamenti unitari sono occasione non solo per il debutto di nuove opere dedicate, come Senso di Marco Tutino al Massimo di Palermo o Risorgimento! di Lorenzo Ferrero ai Comunali di Modena e Bologna, ma anche per un ripreso afflato patriottico nei teatri.
Ne sono emblema I vespri siciliani di Verdi, con le loro inquiete riflessioni rilanciate con grande attualità in due allestimenti, al Regio di Torino, che li attualizza nella Palermo di Falcone e Borsellino, e al San Carlo di Napoli, che ne riscopre l’autentica vena civile nella lingua originale, il francese. Intolleranza di Luigi Nono, pagina simbolo della musica politica degli anni Sessanta, viene ripresa alla Fenice di Venezia e definitivamente storicizzata. Conferma della rinnovata vitalità dei teatri sono anche le numerose prime esecuzioni che punteggiano tutte le stagioni, con produzioni importanti, come quelle di Luca Francesconi e Fabio Vacchi, che debuttano nella stessa settimana con le rispettive novità: Quartett alla Scala e Lo stesso mare al Petruzzelli, a Bari. Ma se in Italia continua a latitare l’insegnamento della musica nei licei, né viene favorita la crescita delle orchestre nei conservatori, come invece si fa nelle scuole di tutto il mondo, uno straordinario esempio dei risultati ottenuti dall’investimento sui giovani lo offrono la Mozart e la Cherubini, le orchestre fondate e cresciute, a breve distanza, da Claudio Abbado e Riccardo Muti. Dovrebbero essere elette a modello, estese a macchia d’olio, anche a nutrimento futuro delle nostre compagini sinfoniche. Prima fra tutte, per concerti, dischi e premi internazionali, si conferma la ceciliana orchestra di Antonio Pappano: Guglielmo Tell di Rossini a Roma e Deutsches Requiem di Brahms in ospitalità alla Scala sono pietre preziose di una stagione feconda e intensa.
La Filarmonica scaligera rinsalda i legami con una famiglia prestigiosa di bacchette internazionali, lancia programmi curiosi, come la prima a Milano di Metropolis. La Nazionale RAI di Torino è in fase di semina e ha un direttore principale, Juraj Valcˇhua (n. Bratislava, 1976), trentenne di grande talento. In questo panorama, che visto nell’insieme appare più segnato dalle energie positive degli artisti che dai tagli dello Stato, la continuità col grande passato e la possibilità di guardare avanti hanno il nome di Andrea Battistoni, clamorosa affermazione all’ultimo Festival Verdi di Parma, ventitré anni, di Verona. In quel di Busseto (se ci sono destini nella storia, qui si sono incrociati) ha diretto un Attila che dal minuscolo Teatro Verdi è rimbalzato in Italia.
Ora è nei cartelloni di tante prossime stagioni, dall’Arena alla Scala. Che il suo nome apra la strada a nuovi pianisti, eredi di Maurizio Pollini, a nuovi quartetti, eredi del Quartetto Italiano, a nuove voci, eredi di Luciano Pavarotti e di Mirella Freni, è l’augurio che affidiamo alla sua bacchetta.
Le proteste sul podio
di Mauro Mariani
Riccardo Muti, nonostante il suo carattere forte, deciso e all’occorrenza battagliero, non è solito scendere in campo con dichiarazioni pubbliche, a meno che non vi sia costretto da motivi particolarmente gravi e pressanti, com’è accaduto il 12 marzo 2011 al Teatro dell’Opera di Roma, quando, salito sul podio per la prima del Nabucco, si è rivolto al pubblico con un breve discorso: «Nel marzo 1842 il Nabucco preannunciava il Risorgimento italiano, impediamo che nel marzo 2011 preannunci invece la morte della cultura italiana». Con la stessa potente e icastica essenzialità del suo gesto direttoriale quando dà vita alle partiture di Verdi, Muti scolpiva con poche parole la drammatica situazione della musica e più in generale della cultura nel nostro paese in seguito ai tagli annunciati dal governo. In quella stessa occasione Muti ha preso la parola una seconda volta, dopo ‘Va’ pensiero’, interrompendo l’uragano di applausi e di richieste di bis, per invitare tutti a cantare insieme, pensando che presto gli italiani avrebbero potuto veramente dire «o mia patria sì bella e perduta», come gli ebrei nel Nabucco. Allora, nella penombra della sala, 1500 spettatori hanno intonato questo coro e gradualmente, uno a uno, si sono alzati in piedi, mentre dal loggione cadeva una pioggia di volantini tricolori: una regia collettiva e spontanea, emozionante e catartica, paragonabile a quell’indimenticabile scena del Trovatore con cui Luchino Visconti, in Senso, riuscì a riassumere in poche immagini lo spirito risorgimentale che centocinquant’anni fa animava gli italiani e infiammava la musica di Verdi.
Pochi giorni dopo accadeva quello che sembrava impossibile: il governo aumentava i finanziamenti per la cultura. Muti era riuscito a raggiungere un risultato che né le proteste politiche né la mobilitazione del mondo culturale avevano ottenuto.
Tocar y luchar con l’Orquesta Sinfónica Simón Bolívar
di Leonardo Salemi
Suonare e lottare’ è il motto di José Antonio Abreu. Un motto che in lingua originale ha dato il titolo a un film-documentario del 2005 che offre l’opportunità di toccare con mano la grandezza di un’idea. Abreu è un economista appassionato di musica di origine italiana, nipote di un musicista arrivato nel 1896 in Venezuela accompagnato da 46 strumenti a fiato dai quali non si seppe separare. A Monte Carmelo, dove si stabilì, fondò una banda musicale. L’idea, semplice e lucida è questa: «[…] la musica permette di crescere spiritualmente e mentalmente. È l’arte che riesce a riconciliare la volontà e l’anima. Il giovane diventa artista e ottiene un riconoscimento sociale, diventa l’orgoglio della famiglia e ha il suo riscatto». Parole di Abreu. Nel 1975 egli pose le basi di quella che diventerà la Fundación del Estado para el Sistema Nacional de las Orquestas Juveniles e Infantiles de Venezuela, universalmente conosciuta come El Sistema.
Attraverso questo ‘Sistema’ Abreu è riuscito a creare una rete coordinata ed efficiente che gestisce circa 150 orchestre giovanili e 140 infantili, coinvolgendo tra i 250.000 e i 300.000 ragazzi tra i 5 e i 25 anni. La metodologia di insegnamento e la gestione organizzativa di un economista hanno permesso al ‘Sistema’ di essere sostenuto con continuità dai governi succedutisi in Venezuela dal 1975. Nel 1996 il ‘Sistema’ è diventato Fondazione di Stato; da allora supporta la Orquesta Sinfónica de la Juventud Venezolana Simón Bolívar, suo fiore all’occhiello, la Orquesta Sinfónica Nacional Infantil y Juvenil de Venezuela, la Banda Sinfónica Juvenil Simón Bolívar, tutte le orchestre giovanili distribuite sul territorio nazionale, i gruppi corali, da camera, jazz, di musica popolare e i numerosi centri educativi e didattici, anche accademici e conservatoriali.
Andrea Battistoni
Nato a Verona nel 1987, Andrea Battistoni è uno dei giovani emergenti del panorama musicale internazionale. Dal gennaio 2011 è primo direttore ospite del Teatro Regio di Parma, posizione che occuperà per tre anni e che prevede due produzioni operistiche e due concerti sinfonici ogni anno. Ha intrapreso giovanissimo una rapida carriera direttoriale che lo ha portato a esibirsi in importanti teatri.
Diego Matheuz
Nato a Barquisimeto (Argentina) nel 1984, nel 2005 ha iniziato gli studi di direzione d’orchestra sotto la supervisione di José Antonio Abreu: rappresenta uno degli esiti più felici del ben noto ‘Sistema’ venezuelano. Ha debuttato con l’Orchestra Mozart nell’ottobre 2008, dirigendo i concerti inaugurali nelle stagioni 2009 e 2010, anno in cui è stato nominato direttore ospite principale. Nella stagione 2011-12 sono previsti debutti a Vienna, Parigi, Amsterdam e in Spagna. Nel novembre del 2011 dirigerà l’Orchestra Giovanile Simón Bolívar sia a Caracas sia in tournée in Italia, quindi il 1° gennaio 2012 il prestigioso Concerto di Capodanno presso il Teatro La Fenice.
Daniel Harding, la bacchetta incantatrice
Nato a Oxford, in Inghilterra, nel 1975, è il tipico esempio dell’enfant prodige che ha mantenuto tutte le promesse. Dopo aver studiato la tromba alla Chetham’s School of Music di Manchester, a tredici anni è entrato a far parte della National Youth Orchestra britannica e a soli diciassette è stato nominato da Simon Ratte suo aiuto alla City of Birmingham Symphony Orchestra. Un anno dopo è stato chiamato da Claudio Abbado presso i Berliner Philharmoniker, dove ha esordito come direttore d’orchestra all’età di ventuno anni, iniziando così l’irresistibile ascesa che lo ha portato a ricoprire incarichi prestigiosi in tutto il mondo, dalla Svezia al Giappone, dalla Svizzera all’Italia, in particolare al Teatro alla Scala di Milano, dove è ormai quasi ‘di casa’ dopo aver diretto l’Idomeneo di Mozart alla prima del 2005.
Le ‘Vie dell’Amicizia’
di Mauro Mariani
Il 14 luglio 1997 con un concerto a Sarajevo nascevano le ‘Vie dell’Amicizia’, ideate da Muti in collaborazione con il Ravenna Festival per fare arrivare un messaggio di pace e fratellanza alla città martire della Bosnia. Negli anni seguenti Muti ha portato quest’iniziativa a Beirut, Gerusalemme e Mosca. Nel 2001 l’appuntamento è stato doppio, a Istanbul ed Erevan, per gettare un ponte ideale tra Turchia e Armenia. Nel 2002 è stata la volta di New York, che ancora mostrava le profonde ferite degli attentati dell’11 settembre 2001. Poi il Cairo, Damasco, El Jem, Meknes, Roma, Mazara del Vallo, di nuovo Sarajevo, Trieste e nel 2011 Nairobi. Quando è stato possibile, ai complessi italiani – di volta in volta quelli della Scala, del Maggio musicale fiorentino e della Cherubini – si sono sempre aggiunti musicisti locali. «I viaggi dell’Amicizia – ricorda Muti – sono un arricchimento per chi, come il sottoscritto, li ha compiuti, e per coloro che riescono a cogliere la straordinarietà della musica come strumento che unisce persone di cultura e religione differenti. Ho potuto vedere artisti culturalmente e ideologicamente distanti tra loro esprimere attraverso la musica gli stessi sentimenti per raggiungere obiettivi di identica armonia».