di Gastone Breccia
Nell’inverno del 2002 la Durand Line si ritrovò al centro dell’attenzione dei comandi statunitensi incaricati di portare a termine l’operazione Enduring Freedom. Dopo la facile vittoria sui talebani fu subito chiaro che per raggiungere uno dei principali scopi della guerra iniziata in ottobre – la cattura o l’uccisione di Osama bin Laden, del mullah Omar e dei loro principali luogotenenti – sarebbe stato necessario sigillare il confine orientale afghano: una scomoda eredità del colonialismo europeo si trasformava così in un ostacolo imprevisto per la realizzazione dei disegni strategici degli Usa.
La prima dimostrazione dell’impossibilità di condurre a termine con successo un’azione militare a ridosso del confine tra Afghanistan e Pakistan si ebbe con la battaglia di Tora Bora tra il 12 e il 17 dicembre 2001. La presenza di Osama bin Laden e di un gruppo di seguaci era stata segnalata in un complesso di caverne fortificate; l’operazione, condotta da irregolari afghani coadiuvati da truppe speciali occidentali, si risolse in uno spettacolo pirotecnico senza alcun risultato tangibile. L’attacco su Tora Bora ebbe un seguito alcuni mesi dopo nella valle di Shah-i-Kot (‘il luogo del re’), a sud di Gardez, dove l’intelligence statunitense aveva individuato un’altra zona di raggruppamento dei combattenti talebani e jihadisti. Il comando Usa decise di mettere in atto un’operazione hammer and anvil (incudine e martello), nome in codice Anaconda. nel fondovalle, muovendo da occidente verso il confine, doveva avanzare la Task Force Dagger, ovvero la forza d’urto principale – il ‘martello’ – composta da un migliaio di afghani guidati da elementi delle unità speciali statunitensi; nelle stesse ore le creste montuose che dominavano le possibili vie di fuga dallo Shah-i Kot sarebbero state occupate dai tre battaglioni di fanteria avioportata della Task Force Rakkasan, fatti sbarcare dagli elicotteri a oltre 3000 metri di quota. Il nemico doveva essere spinto dal ‘martello’, con l’aiuto di pesanti bombardamenti aerei, verso le posizioni occupate dall’’incudine’, e decimato o costretto a deporre le armi. L’operazione scattò all’alba del 2 marzo 2002: ma l’avanzata del ‘martello’ fallì quasi subito quando una cannoniera volante AC-130 aprì il fuoco sui miliziani della Tf Dagger, scambiandoli per talebani in ritirata, causando gravi perdite e gettando nel panico i superstiti. Poche ore dopo il ‘martello’ era fuggito fino a Gardez, lasciando da soli gli uomini dell’’incudine’ a sostenere il peso della battaglia. Grazie alla schiacciante superiorità garantita dall’aviazione la Tf Rakkasan non correva il rischio di essere sopraffatta: era però costretta a combattere una battaglia più dura del previsto, perché i gruppi di guerriglieri che ripiegavano verso il confine non erano incalzati dalla Tf Dagger, ed erano quindi assai più liberi di manovrare lungo gli itinerari più vantaggiosi. Gli scontri continuarono fino al 12 marzo, quando la Tf Rakkasan venne rilevata da elementi della 10a Mountain Division incaricati di portare a termine il rastrellamento dell’area degli scontri. In dieci giorni erano state inflitte perdite pesanti al nemico: il generale Tommy Franks – allora alla testa del Centcom – parlò di 517 morti confermati e 250 probabili, ma i giornalisti invitati a visitare la zona trovarono appena una ventina di cadaveri. Come al solito, il body count si prestava a stime ottimistiche e difficili da verificare. Quale che fosse stato l’esito tattico dell’operazione, il punto essenziale era un altro: come a Tora Bora, quel che restava ai «vincitori» erano un pugno di cadaveri e una porzione di territorio inospitale, di per se stesso privo di significato – una valle tra i monti uguale a dozzine di altre, i cui sentieri potevano essere facilmente sostituiti da altri percorsi simili.
Nessuno degli scopi per i quali era stata pianificata Anaconda poteva dirsi raggiunto: nessun esponente talebano o jihadista di spicco era stato catturato o ucciso, nessuna importante base operativa distrutta, e non era stato nemmeno recuperato un quantitativo rilevante di armi e munizioni. Gli sconfitti si erano dileguati oltre la frontiera pachistana, dove potevano contare sull’appoggio della popolazione pashtun, e soprattutto dove godevano della protezione non dichiarata, ma reale, dei responsabili politici e militari di Islamabad. A partire dalla primavera del 2002 i guerriglieri neo-talebani poterono quindi riorganizzarsi, per poi tornare a far sentire la propria presenza in profondità nel territorio afghano. La mancanza di risultati tangibili di Anaconda venne attribuita non soltanto alle prevedibili difficoltà di coordinamento tra le forze terrestri e l’aviazione, ma soprattutto al divieto assoluto per gli uomini della Tf Rakkasan di spingersi oltre il confine. Il fallimento di una delle più complesse operazioni lanciate nel corso di Enduring Freedom può essere considerato un effetto dell’esistenza della Durand Line e della situazione geopolitica del Pakistan: fin dal 1947 il governo di Islamabad si sforza di rimediare alla mancanza di profondità strategica mantenendo il controllo delle regioni orientali afghane, oltre il confine tracciato dal Foreign Secretary britannico alla fine del Diciannovesimo secolo.