L'oratoria
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’oratoria è un prodotto tipico della democrazia ateniese, nella quale compaiono per la prima volta veri e propri specialisti del discorso. I luoghi della comunicazione collettiva, l’assemblea, i tribunali, feste e cerimonie pubbliche, hanno ognuno la propria forma di discorso: la demegoria, l’oratoria giudiziaria, l’epidittica. I protagonisti di questa nuova disciplina hanno storie diverse, dal meteco Lisia, celebrato logografo e conferenziere alla moda, a Isocrate, la cui scuola rappresenta un punto di svolta per l’affermazione della retorica in ambito pedagogico, a Demostene, passionale politico e figura tragicamente emblematica del declino della polis di fronte al trionfo macedone.
L’oratoria come genere letterario ha la sua sede naturale nell’Atene classica. È qui che si sviluppa una produzione specifica di discorsi per i diversi momenti della vita pubblica nella polis ed emergono personalità professionalmente dedite alla loro composizione; è qui che l’oratore diventa un protagonista della politica. Già il mondo antico lo riconobbe, con il canone alessandrino dei dieci oratori attici e l’affermazione di Cicerone sull’esclusività ateniese dell’eloquenza greca classica. La forza dell’oratoria come strumento di comunicazione non è, tuttavia, scoperta attica.
Essa appare già nei poemi omerici: nel libro IX dell’Iliade Nestore, Odisseo e Fenice, nel fallito tentativo di convincere Achille a tornare a combattere, pronunciano discorsi che rappresentano altrettanti modelli di stile oratorio. Achille ribatte alle loro argomentazioni e mantiene il suo rifiuto. Anche il guerriero per antonomasia conosce l’arte della parola, il cui dominio sapiente è attributo esclusivo degli eroi. Nella prospettiva tutta aristocratica dei poemi, solo a loro è concesso legittimamente di usarla, come dimostra il caso di Tersite. L’autorità di chi pronuncia il discorso è premessa decisiva alla possibilità stessa di esporre pubblicamente i propri argomenti: un rigoroso filtro sociale seleziona i potenziali oratori.
In una società immersa nella comunicazione orale, la capacità di organizzare un discorso diventa strumento potente nei rapporti di potere. Fino a quando tale strumento resta possesso esclusivo delle élite aristocratiche, esso si trasmette come parte integrante della loro formazione, senza porsi come specializzazione. La svolta si ha con la creazione di una disciplina capace di raccogliere le nozioni e i precetti utili a costruire il discorso; una disciplina che può essere insegnata come conoscenza autonoma, svincolata da un bagaglio complessivo di saperi: la rhetorikè téchne, l’arte del discorso. La tradizione antica ne pone la nascita in Sicilia, a Siracusa, nel 476 a.C., dopo la caduta della tirannide di Trasibulo e l’instaurazione di un regime democratico. Cicerone, nel Brutus (12, 46-48), sulla scia di Aristotele, ne racconta l’atto di nascita: di fronte alla necessità dei Siracusani di rivendicare la legittima proprietà dei beni privati, violati dalla tirannide, Corace e Tisia avrebbero composto la prima raccolta di precetti sull’arte del dire.
Si tratta di una genesi che può apparire sorprendente. La retorica non muove da aspirazioni di carattere artistico, ma come strumento al servizio di cittadini impegnati in controversie legali. Nei suoi primi passi, si colloca all’interno di quella che Roland Barthes chiamava “la socialità più nuda” e ha come premio la vittoria in tribunale e l’assegnazione di una proprietà. La precettistica che la muove insegna a riconoscere le diverse parti che strutturano il discorso e a maneggiare gli elementi centrali dell’argomentazione. L’atteggiamento complessivo è di tipo razionale, incentrato sulla logica dell’argomentazione e su una corretta disposizione ed esposizione formale. Altri elementi entrano tuttavia in gioco nella comunicazione verbale, legati al potere evocativo della parola pronunciata in pubblico. A fianco della selezione e disposizione degli argomenti, si andava elaborando, in particolare in ambito pitagorico, una retorica di tipo psicagogico, capace cioè di condurre a sé l’animo dell’ascoltatore.
È tuttavia ad Atene che le prime riflessioni sulla parola e l’arte del discorso trovano risposte metodologiche sistematiche, per opera dei sofisti, in particolare Protagora, Gorgia, Ippia. Gorgia rappresenta uno spartiacque per Atene, dove giunge nel 427 a.C. come ambasciatore della sua città, Leontini. Il suo discorso all’assemblea lascia gli Ateniesi letteralmente a bocca aperta, incantati dalla ritmica musicalità impressa alle parole, dall’uso spregiudicato di figure retoriche (anafore, antitesi, sinonimica) che trasmettevano una inconsueta carica seduttiva alla sua eloquenza. Questa abilità poteva essere trasmessa e insegnata, perché le sue regole si andavano codificando in modo sempre più preciso. Così nella seconda metà del V secolo a.C. ad Atene troviamo i primi importanti autori di trattati e manuali di retorica: non solo Gorgia, ma anche Trasimaco, Teodoro, Polo. I sofisti dedicano allo studio del linguaggio una attenzione nuova e insegnano i risultati di tali ricerche, facendosi pagare lauti compensi. Tra le virtù del cittadino della democrazia ateniese la padronanza del linguaggio diventa presto irrinunciabile. Solo due manuali di retorica d’età classica sono conservati: la Retorica ad Alessandro di Anassimene di Lampsaco e la Retorica di Aristotele, della seconda metà del IV secolo a.C.
Quella nuda socialità individuata da Barthes alle origini della retorica si ritrova pienamente operante nell’Atene democratica. L’abilità oratoria non è solo un elemento della formazione culturale del cittadino: è una necessità. Le relazioni principali all’interno della polis infatti si sviluppano intorno alle parole, ai discorsi, alla capacità persuasiva. Le occasioni previste dagli organismi e dalle procedure della democrazia ateniese identificano diversi luoghi della comunicazione, l’assemblea e i tribunali, che a loro volta determinano tipologie distinte di discorso: il genere giudiziario (dikanikos logos) per il tribunale e quello politico (la demegoria, letteralmente “il parlare al popolo”) per l’assemblea. La retorica individuò un terzo genere oratorio, quello epidittico, destinato a cerimonie e feste pubbliche, legata all’esortazione, alla lode, al biasimo, più che alla persuasione.
Nell’ekklesia i politici si contendono il consenso dei concittadini grazie alle qualità oratorie. Nel V secolo a.C. i leader ateniesi hanno nel proprio bagaglio la capacità di ben parlare. Che siano democratici convinti, moderati o fieramente aristocratici, rappresentano tuttavia una ristretta cerchia e provengono, fino allo scoppio della guerra del Peloponneso, dalle migliori famiglie della nobiltà, con un accesso naturale a un’educazione superiore. Non sono oratori specialisti: usano l’oratoria al servizio della propria attività politica. È a partire dall’ultimo quarto del V secolo a.C. che la figura del politico va progressivamente identificandosi con quella dell’oratore, spesso assumendo la connotazione del demagogo: nel IV secolo a.C. sono i rhetores a dominare la scena politica, erodendo il potere degli strategoi (i generali). Il sistema assembleare, che valorizza le abilità comunicative, finisce per mettere al proprio centro la figura dell’oratore. Non è un caso se non possediamo alcun testo che registri i discorsi dei politici del V secolo a.C. (se si eccettuano quelli riportati da Tucidide, dove tuttavia l’intervento autoriale è certo significativo). In parte perché, come ha messo in rilievo Luciano Canfora, i politici del V secolo a.C. non scrivono, ma parlano semmai attraverso i decreti o altri documenti ufficiali che riprendono le loro proposte. In parte perché non si sono ancora sviluppate le scuole di retorica, che saranno le grandi raccoglitrici e custodi dei testi dei discorsi, utilizzati come modelli da far studiare agli allievi aspiranti oratori. Comunque l’oratoria politica si inserisce a pieno titolo all’interno dell’universo della retorica, come sua specializzazione, solo nel IV secolo a.C.
L’urgenza di utilizzare la nuova arte del discorso trae origine piuttosto, come già a Siracusa, dal sistema giudiziario ateniese, basato su tribunali popolari. Introdotti secondo la tradizione da Solone, rilanciati da Clistene e insediati stabilmente al centro dell’universo processuale attico da Efialte e Pericle, i tribunali sono uno dei caratteri distintivi più tipici del sistema democratico. L’amministrazione della giustizia è messa in mano ai cittadini che formano le giurie, create per sorteggio: sono loro a emettere le sentenze senza alcun intervento esterno di giudici o magistrati “specialisti”. Inoltre, per le parti in causa vige il principio dell’autodifesa: il cittadino si presenta di persona a sostenere le proprie ragioni di fronte ai giurati. Una condizione che dà luogo a un circuito comunicativo del tutto particolare, nel quale gli elementi giuridici da soli non bastano ad assicurare il successo. L’assenza di una giuria di specialisti del diritto (iura non novit curia) rimanda a una chiara scelta nell’attribuzione della funzione giudicante: il semplice cittadino porta i suoi valori (che si immaginano aderenti a quelli della comunità) assieme ai vincoli normativi come criterio di giudizio. Nel processo le parti presentano le proprie ragioni di fronte a un uditorio di giurati piuttosto vasto (da un centinaio a più di mille giurati, a seconda dell’importanza dei processi) e diseguale per composizione, cultura, conoscenze, sensibilità. Un uditorio che va catturato e persuaso nel breve arco del discorso, entro precisi limiti temporali. La capacità di presentarsi in modo appropriato si rivela decisiva: non solo per la conoscenza della materia giuridica e delle procedure, che costituiscono premessa vincolante, ma anche per la sapienza nel porsi, nell’attrarre la simpatia dell’uditorio, instaurando con esso un legame solidale ed empatico, nell’apparire complessivamente più attendibili e affidabili della controparte. Non tutti i cittadini sono in grado di farlo: nasce così una categoria di specialisti di oratoria forense, i logografi, che compongono i discorsi che i clienti reciteranno in tribunale; una funzione non troppo diversa da quella degli avvocati, fatta salva l’impossibilità per i logografi di apparire in tribunale. Tra i loro compiti è quello di istruire i clienti a presentare la causa e interpretare i testi scritti per loro: una condizione che avvicina chi parlava in tribunale a un attore, perché il discorso, una sorta di mise en scène della vicenda a uso dei giurati, presenta un’alta componente di performance. La dinamica della ricezione orale di un testo scritto (auralità) era peraltro ben nota agli oratori: secondo un aneddoto riportato da Plutarco, Lisia, a un cliente che lo rimprovera perché il suo discorso, a prima lettura solido e convincente, risultava sempre più debole a ogni rilettura, rispose ridendo “Perché? Quante volte intendi pronunciarlo in tribunale?”.
L’attività logografica poteva essere praticata tanto da cittadini quanto da stranieri meteci sono Lisia e Iseo, due dei massimi esponenti del genere –; le demegorie invece sono riservate ai cittadini. Questo elemento, insieme a una diffusa diffidenza contro gli “specialisti del tribunale” e al fatto che gli autori di discorsi forensi lavoravano a pagamento, procura alla logografia giudiziaria un pregiudizio piuttosto radicato nella società ateniese. Molti dei principali oratori politici ateniesi, quali Isocrate e Demostene, disconoscevano o minimizzavano con imbarazzo il loro passato da logografi, benché tale percorso, dai tribunali all’agone politico, fosse assai comune. Il pregiudizio si è a lungo mantenuto anche tra gli studiosi moderni, fino al punto di liquidare la logografia come “ideale da meteci”, specializzazione tutta tecnica e cavilli; o addirittura definire la democrazia ateniese una “repubblica di avvocati”. Solo in anni relativamente recenti la logografia ha conosciuto un parziale riscatto, in quanto testimonianza ricca e complessa della società e della cultura della democrazia ateniese.
I primi nomi rilevanti di oratori appartengono agli anni finali del V secolo a.C. Si tratta di personalità molto diverse tra loro.
L’aristocratico Antifonte, compositore di orazioni giudiziarie relative a delitti di sangue, si tiene lontano da assemblee e tribunali: il suo ruolo è quello di autore di discorsi e consigliere legale e politico. È uomo colto e raffinato, forse anche tragediografo, di spiriti radicalmente oligarchici e filospartani; coinvolto marginalmente nella vicenda degli Ermocopidi del 415 a.C., sarà l’eminenza grigia dei “golpisti” del 411 a.C. Alla caduta del regime dei Quattrocento, è processato e condannato a morte, ma la sua autodifesa, che purtroppo non si è conservata, è giudicata memorabile da Tucidide, suo fervente ammiratore. Anche Andocide proviene da una famiglia aristocratica e anche lui è coinvolto, in maniera più diretta, negli intricati affari del 415 a.C.: la sua orazione Sui misteri, composta nel 399 a.C., rappresenta una viva testimonianza dei fatti. Dopo un lungo periodo di rapporti travagliati con la sua città, ottiene incarichi politici rilevanti, in particolare in campo diplomatico: l’orazione Sulla pace si inserisce nelle complesse trattative con Sparta per porre fine alla guerra di Corinto (395-386 a.C).
Un profilo biografico assai diverso presenta Lisia, il più importante esponente dell’oratoria a cavallo tra V e IV secolo a.C. Nato ad Atene poco dopo la metà del V secolo a.C., è un meteco. Il padre Cefalo, sollecitato – pare – da Pericle, si trasferisce da Siracusa in Attica e vi fonda una fabbrica di scudi che lo rende ricchissimo, come testimonia la sua lussuosa casa al Pireo, descritta da Platone nella Repubblica. Lisia è dunque uno straniero, ma appartiene all’élite economica e culturale della città. Grazie al suo status, riceve un’educazione di prim’ordine tra Atene e Thurii, dove si trasferisce per diversi anni, frequentando probabilmente la scuola retorica di Tisia, per ritornare frettolosamente in Attica dopo l’espulsione della componente filoateniese dalla colonia. Degli anni successivi non abbiamo molte notizie, se non che Lisia doveva già essersi guadagnato un nome come abile conferenziere, frequentatore della buona società ateniese: nel Fedro platonico la sua maestria nel discorso, che tanto affascina il giovane protagonista, è richiamata non senza ironia da Platone, che lo elegge a rappresentante di punta della nuova cultura della parola così di moda negli anni finali del V secolo a.C.
Nel 404 a.C. la vita di Lisia si intreccia drammaticamente con le vicende ateniesi: il violento attacco contro i meteci e le loro ricchezze messo in atto dai Trenta Tiranni (404-403 a.C.) coinvolge pesantemente la famiglia dell’oratore, il cui fratello Polemarco viene ucciso. Lisia si salva rifugiandosi a Megara, da dove finanzia generosamente i democratici di Trasibulo, rientrando ad Atene dopo la loro piena vittoria. Gli anni successivi alla restaurazione democratica sono tutti dedicati alle accuse contro i Trenta e i loro complici: vedono così la luce le orazioni Contro Eratostene e Contro Agorato, vero atto di denuncia verso quel regime, con la vivida rappresentazione delle umiliazioni subite dai meteci. L’orazione Contro Eratostene rappresenta, secondo l’autore stesso, il suo esordio in tribunale ed è l’inizio di una brillante carriera di logografo che si conclude con la sua morte, da collocare dopo il 380 a.C. Lisia si impone come un modello di stile oratorio chiaro e nitido, semplice e conciso, caratterizzato da un vivace realismo nella narrazione e da un uso misurato delle figure e degli ornamenti retorici. La solida consistenza degli argomenti e il loro fluire secondo una successione logica apparentemente inesorabile faceva dire a Dionigi di Alicarnasso, grande ammiratore della sua “grazia”, che “Lisia sembra convincente anche quando ha torto”. Nella sua orazione forse più famosa, Per l’uccisione di Eratostene, legata a una vicenda di adulterio, spicca tra le altre l’abilità di Lisia nella ethopoìa, la caratterizzazione dell’ethos del cliente.
La tradizione antica contava un numero impressionante di orazioni a suo nome, più di 400, la metà delle quali erano considerate spurie già nell’antichità. A noi resta un corpus di 31 discorsi, quasi tutti relativi alla sfera giudiziaria, con l’eccezione di due epidittici, l’Epitafio per i caduti della guerra di Corinto, peraltro di dubbia attribuzione, e il Discorso olimpico, il cui proemio è conservato in una citazione di Dionigi di Alicarnasso. Difficile determinare un eventuale indirizzo politico di Lisia, che, come avviene ai logografi, nasconde la propria personalità sotto la necessità mimetica di creare caratteri che i suoi clienti impersoneranno.
Di qualche anno più giovane rispetto a Lisia è Isocrate, la cui attività rappresenta un caso unico nel mondo degli oratori. Nato ad Atene nel 436 a.C., cresciuto in una ricca famiglia, Isocrate riceve un’accurata educazione dai massimi esponenti della sofistica (Protagora, Prodico, Gorgia). Negli anni della guerra del Peloponneso tuttavia il patrimonio paterno si assottiglia ed è forse per questo che Isocrate si accosta al mestiere di logografo, esercitato tra gli anni finali del V secolo a.C. e il primo decennio del IV e testimoniato dalle sei orazioni giudiziarie conservateci. Di quest’attività Isocrate rimuove successivamente ogni traccia, perfino nell’orazione Sullo scambio, nella quale ripercorre la sua carriera in una sorta di apologetica autobiografia intellettuale, nonostante Aristotele, non senza malizia, affermi che presso i librai circolavano sue orazioni giudiziarie in abbondanza.
Il successo e i guadagni che ottiene gli permettono comunque di aprire, intorno al 390 a.C., una scuola di retorica che dirige fino alla morte, nel 338 a.C., e con la quale costruisce una macchina culturale di prima grandezza. Il principio formativo è la centralità della retorica quale regina delle technai, in particolare se volta all’eloquenza politica, nella convinzione che per la politica esistano modelli e leggi codificabili e perciò trasmissibili. La virtù è estranea all’orizzonte pedagogico isocrateo in quanto non insegnabile; tuttavia Isocrate pretende che la sua disciplina abbia il nome di philosophia. Inevitabile dunque la frattura con Platone e, in seguito, con Aristotele, che produce una polemica aspra e accesa; anche i sofisti, cui pure Isocrate è per molti versi debitore, sono nel suo mirino, dal momento che il testo che definisce le sue convinzioni è intitolato, significativamente, Contro i sofisti.
Isocrate è retore che non parla. Le sue orazioni del periodo post 390 a.C. sono tutte rivolte a occasioni fittizie e immaginarie, in realtà destinate a un ristretto e selezionato pubblico di lettori. Egli si muove nel regno della parola scritta, non pronunciata – cosa di cui si giustificherà adducendo difetti di pronuncia e debolezza della costituzione. Qual è il suo scopo? Influenzare, si potrebbe dire in sintesi. I suoi testi sono pamphlet, che esprimono posizioni personali rispetto all’attualità politica. Isocrate propone, suggerisce, ammonisce, non sempre secondo una logica del tutto coerente. Nel 380 a.C. rilegge l’idea di pace comune emersa dalla pace di Antalcida (386 a.C.), per legarla a una ritrovata egemonia ateniese in funzione antipersiana (Panegirico), quasi prefigurando la nascita, di lì a poco, della seconda lega navale (377 a.C.). Nel 357-356 a.C. con l’Areopagitico propone un ripensamento piuttosto radicale dei rapporti interni alla democrazia in senso moderato, simboleggiato dal ritorno all’autorità del solenne tribunale dell’Areopago, anticipando di pochi anni la guerra sociale e la dissoluzione della lega. Nei due esempi citati Isocrate dà sostanza nuova a due topoi del dibattito politico coevo, la “pace comune” prima, la “costituzione avita” poi, riletti in una chiave personale che ne determinerà il significato successivo.
Appoggia Eubulo con il discorso Sulla pace per poi suggerire che, dopo la pace di Filocrate, Filippo II diventi l’egemone di una ritrovata unità panellenica contro il barbaro (Filippo, 346 a.C.).
Una produzione che si indirizza ai leader e alle élite greche, una via di mezzo tra un editorialista e il direttore di una scuola superiore di politica. Lo stile di Isocrate è ricco, complesso, molto attento al ritmo e alle clausole metriche, privo di iato (quasi un “marchio di fabbrica”); evita arcaismi o parole difficili e ricercate, privilegiando termini d’uso comune.
L’insegnamento di Isocrate ha lasciato una traccia profonda nella vita intellettuale greca e si può quantificare nello sterminato numero di allievi, per quanto non sempre verificabili come tali, che la tradizione gli attribuiva: non solo uomini politici e oratori ma anche storici, poeti, intellettuali di varia natura. La sua paideia segna il trionfo della retorica che crea anzitutto “buoni cittadini” di successo nei loro campi, in grado di intendere e assecondare la doxa della collettività e di tradurre in pratica questa conoscenza. Un modello nuovo di pedagogia umanistica che avrà larga fortuna, dal mondo romano (con Cicerone e Quintiliano) fino all’età moderna.
L’assimilazione progressiva tra oratori e uomini politici nell’Atene del IV secolo a.C. raggiunge il suo apice con Demostene. Figlio di un ricco fabbricante di letti e coltelli, esordisce nella carriera oratoria quando, divenuto maggiorenne, compone contro i tutori, accusati di aver dissipato il patrimonio familiare, i discorsi di accusa che gli assicurano la vittoria processuale ma non il recupero dell’intera sostanza.
Lo aveva aiutato in questa impresa Iseo, il più noto logografo dell’epoca, grande esperto di questioni di diritto ereditario, come mostrano le undici orazioni che di lui ci restano.
La tradizione ritiene Iseo maestro di Demostene e l’eco dello stile e del linguaggio del primo risuona frequentemente nei discorsi del giovane allievo. Per alcuni anni Demostene continua l’attività di logografo, ricavandone ricchezza ed esperienza. Ma le sue ambizioni sono altrove: avvicinatosi al gruppo politico di Eubulo, sfrutta le sue competenze giudiziarie per attaccare in tribunale avversari politici quali Androzione o Leptine. Una sorta di gavetta, che precede il debutto all’assemblea nel 354 a.C., con il discorso Sulle simmorie, una complicata proposta di riforma del sistema trierarchico ateniese. Inizia qui una carriera politica più che trentennale che vede Demostene protagonista, tra alti e bassi, della via politica.
Il suo grande avversario sarà Filippo II, contro il quale lancia l’allarme fin dal 351 a.C., anno in cui, pronunciando la prima delle quattro Filippiche conservateci, si pone a capo della fazione antimacedone. Attraverso i suoi discorsi si possono ripercorrere le tappe dello scontro, dalle tre Olintiache, all’orazione Sulla pace (dopo la pace di Filocrate), fino alla Risposta alla lettera di Filippo del 340 a.C., che apre la strada alla battaglia di Cheronea (338 a.C.), atto finale del conflitto. Di Filippo, Demostene coglie non solo la minaccia politica e militare, ma anche la forza seduttrice, la personalità forte; ne riconosce l’intelligenza e la grandezza – che però significano maggior pericolo per Atene; comprende inoltre il vantaggio del re di avere un comando solido, mentre Atene è impegnata nelle lungaggini procedurali e decisionali che la democrazia impone. Questo non deve stupire: Demostene, politicamente, è un moderato, spesso critico contro gli eccessi della democrazia, solidale con i ricchi e con il loro desiderio di “godersi le proprietà”. Non è lontano da una concezione paternalistica dei rapporti sociali quale Isocrate aveva espresso nell’Areopagitico. Il vero punto fermo della sua politica è la difesa del ruolo internazionale di Atene, fedele alla tradizione della sua città: perciò spinge alla guerra e mantiene sempre alta la tensione degli Ateniesi contro il macedone, rimproverandoli quando li vede rilassarsi nella lotta.
All’interno di Atene il principale avversario politico di Demostene è un altro politico-oratore, Eschine, a capo dei filomacedoni dopo aver militato, come Demostene, tra i seguaci di Eubulo. I due si scambiano in assemblea accuse che vanno oltre il merito delle questioni politiche, spesso formulando violentissimi attacchi personali, insulti, denigrazioni, calunnie, segno del cambiamento drastico nei toni della dialettica assembleare. Gli avversari politici sono presentati come traditori, corrotti, squallidi profittatori, modelli di vizi morali, di inadeguatezza intellettuale e sociale. Il processo per la corona civica (che avrebbe dovuto essergli assegnata per le sue benemerenze) del 330 a.C. rappresenta l’atto più spettacolare dello scontro: Demostene ne esce trionfalmente (ci restano, caso unico, le due orazioni della causa: Contro Ctesifonte di Eschine e Per la corona demostenico).
Il disastroso esito di Cheronea non piega Demostene. Morto inaspettatamente Filippo, l’oratore saluta Alessandro, suo successore, come “nuovo Margite”, cioè uno sciocco, prevedendo che si sarebbe limitato a passeggiare per Pella. Una previsione davvero imprudente, che Eschine non mancherà di rimproverargli. Negli anni successivi è al fianco di Licurgo e ne appoggia l’opera di risanamento finanziario e morale. Le vittorie del giovane re macedone, il crollo dell’impero persiano e la vicenda di Arpalo segnano il declino della politica di antagonismo sostenuta da Demostene. Condannato per corruzione è costretto all’esilio, dal quale torna per assistere alla vittoria di Antipatro contro l’ultimo sussulto anti-macedone, la guerra lamiaca (323-322 a.C.). Rifugiatosi nell’isoletta di Calauria, per sfuggire all’arresto si toglie la vita nell’ottobre del 322 a.C.
La figura di Demostene è tra quelle di più controversa interpretazione. Campione della libertà (Treves, Pickard-Cambridge, Cloché), ultimo baluardo della gloriosa tradizione della polis greca (Niebuhr), oppure politico figlio di una democrazia ormai morente (Montesquieu), irresponsabile attore della rovina di Atene (Cawkwell), fatuo oppositore del “senso della storia” (Droysen), patriota corrotto (Mossé). Superate facili e poco congrue letture ideologiche, sembra più appropriato sottolineare lo spessore politico del personaggio, capace di una visione complessiva dei rapporti di forza che lo affianca ad autori quali Tucidide o Polibio. Demostene è un vinto, storicamente e politicamente, ma ha ottenuto tuttavia fama imperitura dalle sue sconfitte. La sua affermazione come modello oratorio difficilmente può svincolarsi dalla sua personale parabola politica. L’eloquenza è solida, argomentata, precisa, spesso impetuosa. I suoi discorsi rappresentano modelli intramontabili di arte oratoria, ma una loro lettura scolastica, tutta incentrata sulle qualità stilistiche, ha rischiato di oscurare la profondità del loro valore come testimonianza storica.
Demostene non amava improvvisare: quando parlava in assemblea aveva sempre un testo scritto alle spalle, cosa che gli sarà rimproverata da molti avversari. La cultura dell’improvvisazione era ancora molto seguita nel IV secolo a.C.: basti pensare ad Alcidamante che, sulla scia di Gorgia, compose un esplicito Contro gli autori di discorsi scritti. C’è un pregiudizio positivo che la comunicazione della polis assegna all’estemporaneità: chi parla senza essersi apparentemente preparato pare più affidabile perché disinteressato nel suo discorso. Ma con l’affermarsi di professionisti della parola in campo politico, tale situazione diventa impensabile: il testo scritto è fase indispensabile nella costruzione di un discorso che sarà poi presentato all’assemblea “come se” fosse improvvisato. Resta il livello di performance cui la comunicazione assembleare non rinuncia: ma dietro c’è un ampio lavoro che di improvvisato ha davvero poco. I discorsi che ci sono giunti rappresentano la creazione di altrettanti modelli paradigmatici, da studiare e imitare. Difficile stabilire quanto somiglino a quelli realmente pronunciati o se subirono rifacimenti prima della loro pubblicazione, come appare più che probabile (e in alcuni casi certo). La moderna tradizione letteraria li ha progressivamente convogliati nell’alveo dei testi “da leggere”; ma non dobbiamo dimenticare che la loro prima funzione era invece quella di essere ascoltati.