L’ordine sociale costantiniano
Schiavitù, economia e aristocrazia
«Poi proseguì nell’abusare della memoria di Costantino quale sovversivo e perturbatore delle antiche leggi e dei costumi ricevuti dall’antichità, accusandolo apertamente di esser stato il primo ad elevare i barbari fino ai fasci e alla toga consolari»1. In questo modo, stando ad Ammiano Marcellino, Giuliano descriveva le politiche di suo zio Costantino. Più di un secolo e mezzo dopo, un altro pagano era ancor più esplicitamente ostile.
Costantino, in seguito alla rifondazione di Bisanzio, non solo procedette alla completa devastazione delle ricchezze dell’Impero con la generosità dimostrata a uomini indegni e inetti, ma divenne anche esigente nei confronti di quanti garantivano le entrate, mentre arricchiva quanti non contribuivano in niente. Considerava la prodigalità come una sorta di grandiosità; perciò egli fissò un’imposta in oro e argento su tutti coloro che avevano un interesse commerciale in qualsiasi luogo e su coloro che commerciavano nelle città, anche sui più poveri di loro, senza nemmeno escludere dalla riscossione della tassa le prostitute sfortunate […]. Le madri allora vendevano i propri figli e i padri mandavano le proprie figlie nei postriboli, a guadagnar soldi da un tal mestiere per pagare gli esattori delle tasse. Volendo anche escogitare qualcosa di penoso per coloro che avevano amato una condizione illustre, li dichiarò tutti quanti degni dell’ufficio di pretore2.
Certamente la figura di Costantino provocò reazioni forti, ma rimane da interrogarsi su che cosa possano realmente dirci simili testimonianze riguardo al governo imperiale del primo principe cristiano.
Sebbene ampiamente negative, queste fonti pongono, di fatto, in modo assai acuto i problemi che si trova ad affrontare chiunque cerchi di esaminare la figura di Costantino e la sua politica sociale. Si dovrebbe sapere che cosa Costantino pensasse della schiavitù o della povertà, del lavoro o della moneta. Tuttavia Costantino e i suoi contemporanei non pensarono al governo in termini di politica sociale (si discuterà qui, in maniera rilevante, di ‘politica sociale’, ma occorre sottolineare come questa sia una categoria prettamente moderna). Quando Giuliano accusò Costantino di essere stato il corruttore delle leggi, egli richiamava, in termini di prova, il tipo di uomini che Costantino promosse a incarichi importanti; quando Zosimo intese diffamare la memoria del primo imperatore cristiano, lo storico pagano si soffermò sulla creazione della nuova capitale da parte di Costantino, sulla sua promozione di ufficiali indegni, sulla sua prodigalità e sulle esazioni fiscali necessarie per sostenere un simile stile di governo. Queste accuse sono un utile promemoria allorché si cerchi di individuare gli elementi della politica sociale di Costantino e di verificare se le politiche di corte e le pressioni fiscali fossero i primi, benché non esclusivi punti di una riforma su larga scala. Giuliano e Zosimo avevano ragioni per esagerare, ma le categorie utilizzate nelle loro critiche sono accurate. La politica sociale di Costantino può essere considerata solo attraverso la lente delle preoccupazioni tradizionali di un antico imperatore.
Tenendo a mente queste cautele, inoltre, è giusto porsi le domande ricorrenti sul programma legi;slativo di Costantino, chiedersi cioè quali imperativi materiali e ideologici si celassero dietro le sue leggi e se il cristianesimo ispirasse nuovi generi di norme e interventi da parte dello Stato. Alcuni eccellenti lavori dell’ultima generazione di studiosi, relativi a quell’area di interesse che si potrebbe descrivere come ‘legge e società’, ci hanno avvicinati alla risposta a simili interrogativi, sebbene permangano ancora molte aree di incertezza3. Quel che questa ricerca ha mostrato è che il regno di Costantino, in primo luogo, deve essere compreso nel contesto delle politiche tetrarchiche e del nuovo stile di governo introdotto da Diocleziano4. Inoltre, il regno di Costantino fu quello di un riformatore tradizionale. Costantino, infatti, è opportunamente paragonato al primo imperatore, Augusto. Entrambi furono rivoluzionari in nome degli antichi valori. Entrambi rifondarono consapevolmente un ordine sociale. Entrambi misero in atto una politica sociale di ampia portata che interessava gli ordini elevati e quelli più bassi, e legata alla politica sociale fu una moralità strettamente connessa con un ideale conservatore di tipo gerarchico5. È quindi assai più facile delineare la politica sociale di Costantino all’interno di queste coordinate piuttosto che dell’ideologia cristiana, sebbene l’influenza di quest’ultima non debba essere del tutto disconosciuta.
Costantino il tetrarca, Costantino il fondatore, Costantino il riformatore conservatore: qui si cerca di comprendere la politica sociale di Costantino in questi termini. Dopo la discussione sui generi di fonti disponibili per lo storico moderno che desidera ricostruire le riforme di Costantino (e si enfatizzerà il fatto che si è alla mercé di ciò che è riuscito a sopravvivere), si prenderanno in considerazione alcune delle sue leggi sulla schiavitù, le sue politiche economiche e le sue riforme moralizzatrici dell’ordine sociale. Lo zelo di questo riformatore ambizioso e fermamente conservatore diviene ancor più appariscente nello stile e nella sostanza della sua politica sociale. Costantino può essere stato un innovatore e addirittura un perturbatore, ma deve aver inteso le proprie innovazioni principalmente come un ritorno alle vecchie tradizioni. Egli guardò con particolare serietà agli obblighi dell’imperatore di prendere posizione in favore dei veterani e dei contadini (certo, finché pagavano le tasse). Riorganizzò i sistemi di rango e privilegio, modificando in profondità i criteri di formazione dell’aristocrazia. Operò per rinforzare i valori degli ‘antenati’, e sembra che avesse sviluppato una radicale certezza del fatto che egli stesso avesse compreso e incarnasse l’antica tradizione6.
Le fonti che possono essere utilizzate per ricostruire le politiche sociali di Costantino non sono così abbondanti come ci si potrebbe aspettare. I papiri e le iscrizioni non sono molto ricchi, sebbene presentino alcune occasionali informazioni aggiuntive. Le fonti letterarie (che tendono a essere eccessivamente elogiative o eccessivamente ostili; la mancanza di qualcosa di intermedio rende la perdita dei primi libri di Ammiano Marcellino ancor più spiacevole) forniscono alcune idee sulla presentazione della politica imperiale; una fonte inusuale, scritta probabilmente una generazione dopo Costantino, offre un importante commento sull’economia costantiniana: l’anonimo De rebus bellicis7. Soprattutto, poi, la nostra immagine della politica sociale di Costantino è modellata dalle costituzioni superstiti nel Codex Theodosianus: un prisma assai imperfetto. Val la pena soffermarsi su alcuni limiti e di;storsioni del codice quale fonte per gli storici8.
Il Codex Theodosianus fu compilato sotto il regno di Teodosio II e promulgato come legge vigente nel 438 d.C. (entrando in vigore in Oriente nel 439)9. Fu la più ambiziosa collezione di leggi romane immaginata fino ad allora. Il legislatore (dopo alcune riorganizzazioni del proprio programma, che è possibile seguire nella legislazione attuativa) ebbe come fine quello di includere tutte le costituzioni imperiali di carattere generale valide a partire dal regno di Costantino in poi; ai compilatori fu dato il potere di eliminare gli ornamenti retorici dalle parti delle costituzioni rilevanti dal punto di vista legale; quando le norme configgevano fra loro, le leggi più recenti dovevano soppiantare quelle più antiche10. È chiaro che i compilatori del Codex Theodosianus affrontarono notevoli sfide per intraprendere il loro progetto, con conseguenze rilevanti dal punto di vista dello storico moderno. Non è chiaro, ad esempio, dove, in molte costituzioni, si interrompa la parte retorica e inizia la legge, dal momento che spesso lo stile del governo tardoantico era quello di una prosa arricchita piuttosto che di un’indicazione precisa11. Tuttavia molti problemi vanno ancora più in profondità.
In primo luogo, sebbene le leggi coprano il periodo 311-438 circa, è evidente che la raccolta diviene più attendibile per l’ultima parte del periodo, quando i compilatori sembrano aver avuto accesso agli archivi centrali12. Per il periodo di Costantino in particolare, la raccolta appare irregolare e incompleta, e anche il solo reperimento delle sue leggi deve essere stata un’impresa difficile. Alcune delle maggiori riforme di Costantino, semplicemente, non sono sopravvissute e deve esser sempre tenuto a mente che la raccolta è incompleta. Per offrire due esempi pertinenti ai temi di questo saggio, la creazione da parte di Costantino della manumissio in ecclesia e la sua riforma delle proibizioni augustee relative al matrimonio sono del tutto assenti dalla raccolta13. Si possono ricostruire in modo parziale dalle leggi successive che offrono indizi relativi al tempo e alla natura delle riforme originarie, ma il fatto che iniziative fondamentali come queste non siano attestate nel Codex Theodosianus ricorda quanto potrebbe essere andato perduto.
In secondo luogo, il Codex Theodosianus mira a incorporare tutte le costituzioni valide di carattere generale. Ma la generalitas non era un concetto ben stabilito, né rifletteva con precisione il processo legislativo dell’amministrazione romana14. Questo aspetto è importante per molteplici ragioni. Le due principali fonti della storia legale per il periodo dioclezianeo sono il Codex Gregorianus e il Codex Hermogenianus. Entrambi sono collezioni di rescritti imperiali: lettere scritte dalla cancelleria imperiale come opinioni autoritative in risposta a petizioni in casi specifici15. Questi documenti sono applicazioni particolari della legge romana. Diversamente, le costituzioni del Codex Theodosianus includono lettere di ufficiali imperiali, editti imperiali e discorsi al Senato. Alcuni, chiaramente, hanno un rilievo generale. Altri invece sembrano piuttosto particolari. Sicuramente casi individuali potevano dar luogo a leggi o decisioni valide sul piano generale, ma spesso non c’è ragione di credere che una lettera imperiale sopravvissuta nel Codex fosse nulla più di una risposta occasionale a un problema particolare in un determinato momento. Per offrire un altro esempio significativo, il Codex Theodosianus conserva una lettera in cui Costantino ordina a un amministratore di rivedere una divisione di proprietà che aveva separato delle famiglie di schiavi sulle proprietà imperiali in Sardegna. «È necessario che la divisione delle proprietà sia fatta in modo che i rapporti fra gli schiavi siano mantenuti intatti. Chi potrebbe accettare che i mariti siano separati dalle mogli, i fratelli dalle sorelle o i genitori dai figli?»16. Sebbene sia spesso considerato come un momento significativo nella storia della legislazione sulla schiavitù, non c’è in realtà alcuna ragione per credere che questa norma sia stata altro che una reazione contingente a disordini nelle proprietà imperiali in Sardegna – fino all’inclusione della legge nel Codex Theodosianus17.
In terzo luogo, i compilatori intervennero pesantemente, e talvolta non si può sapere in alcun modo quanto abbiano modificato le costituzioni. Essi avevano più informazioni a loro disposizione rispetto a noi, così che spesso dipendiamo dalla loro interpretazione – e dalla loro attendibilità – rispetto a ciò che una legge prescriveva18. Ad esempio, vi è una legge di Costantino che puniva le donne che avessero avuto rapporti sessuali con schiavi; i compilatori l’avevano posta sotto un titolo denominato «Sulle donne che si sono concesse ai loro propri schiavi»19. Solo il titolo specifica l’applicazione della legge agli schiavi propri delle donne e non è del tutto certo che questo fosse lo scopo originale della norma20. Più preoccupante, nei pochi casi in cui si può controllare il lavoro dei compilatori grazie ad altri canali di trasmissione, è il fatto che il loro ruolo nel dare alle leggi la forma che hanno nel Codex Theodosianus appare inaspettatamente esteso. Nel 390 Teodosio I promulgò una legge crudele che ordinava il pubblico rogo di tutti gli uomini che si prostituivano a Roma21. Una versione probabilmente completa della legge sopravvive in un manuale quasi contemporaneo, la Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum. La versione che sopravvive nel Codex Theodosianus non solo è assai più breve, ma non fa menzione del limite della legge ai soli uomini che si prostituiscono e sembra richiedere la pena di morte per tutti gli uomini sessualmente passivi22. Non avremmo alcuna idea della radicale riscrittura di questa norma che è avvenuta nel Codex Theodosianus se non fosse sopravvissuta per caso nella Collatio.
In breve, il Codex Theodosianus è tanto indispensabile quanto inaffidabile: attraverso di esso è possibile vedere la politica sociale di Costantino come attraverso un vetro oscurato. Tenendo presenti queste cautele, si può procedere a esaminare come sia possibile rimettere assieme i frammenti del mosaico per produrre un’immagine, per quanto imperfetta, del personaggio centrale le cui leggi sopravvivono disordinatamente in questa collezione.
Se si scopre che una donna ha una relazione segreta con uno schiavo, sia condannata alla pena capitale e lo schiavo reprobo sia condannato al rogo. E che ognuno abbia la facoltà di denunciare questo crimine pubblico, che sia un dovere pubblico farlo, che anche uno schiavo abbia facoltà di presentare un’accusa, che se vera gli sia concessa la libertà, se falsa una pena23.
Questa legge, molto enfatica, era diretta a colpire i rapporti sessuali fra donne libere e schiavi. Essa prevedeva severe pene – la deportazione e il rogo – per coloro che osavano violare le sue prescrizioni. Trasmessa come un editto «al popolo», probabilmente nel 329 d.C., la legge è, per molti aspetti, caratteristica della politica costantiniana relativa alle condizioni di vita e alla moralità. Si tratta solo di una delle molte leggi nelle quali l’imperatore tratta il problema delle unioni sessuali o matrimoniali fra donne libere e schiavi (si può dire che nessun altro imperatore abbia trattato il tema con una simile persistenza e forza). A cominciare da un passo del senatus consultum Claudianum del 52 d.C., la legge romana prescriveva regole che governavano alcuni aspetti delle possibili unioni fra donne libere e schiavi24. Gli interventi di Costantino su questo tema segnano un sottile ma importante momento di transizione e rivelano caratteristiche rilevanti del suo stile legislativo.
In primo luogo, è bene rilevare che questo provvedimento rappresenta una sorta di capovolgimento delle iniziali tendenze di Costantino. Più significativamente, in una importante legge promulgata nel 320 d.C., Costantino aveva di fatto abrogato le pene fissate dal senatus consultum Claudianum per le donne che ‘sposavano’ schiavi che appartenevano all’imperatore25. Sebbene rivestita della retorica della clemenza, la legge sembra evidentemente costruita per incoraggiare unioni feconde, che avrebbero potuto beneficiare le proprietà imperiali. Gli interessi del fisco, in questo caso, potevano sopravanzare l’avversione sociale e morale per matrimoni che superassero i limiti delle condizioni sociali. Nove anni dopo, tuttavia, Costantino stabilì che una donna «che abbia una relazione segreta con uno schiavo» dovesse soffrire severe pene. Questa norma apriva nuove strade. Mentre il senatus consultum Claudianum riguardava le unioni coniugali, Costantino si occupò in modo più diretto di un rapporto sessuale inappropriato in sé; mentre il senatus consultum Claudianum lasciava al padrone dello schiavo discrezione sul destino della donna, Costantino ordinava una serie di pene e, laddove tutta la precedente legislazione romana definiva il contesto in cui la donna poteva avere rapporti sessuali con i propri domestici come appartenente alla sfera privata, Costantino elevava l’onorabilità sessuale al rango di questione di pubblico interesse. Apparentemente, egli era decisamente intenzionato a sradicare un simile abuso. Le sue prime leggi avevano limitato la cerchia di quanti potevano denunciare un adulterio, ma qui Costantino ordinava esplicitamente la pubblica denuncia di un comportamento tanto inappropriato, di un simile «crimine pubblico»26. Anche agli schiavi, che si supponeva rimanessero fedeli ai propri padroni, in questa circostanza straordinaria, era richiesto di denunciare la propria padrona.
La legge è rappresentativa di un nuovo stile nella prassi di governo tardoromana. L’alto tasso di retorica sarebbe divenuto la regola. La volontà di imporre per legge la moralità sociale tradizionale in un modo più diretto che nel periodo classico della legislazione romana fu un tratto rilevante delle costituzioni post-classiche27. La novità di questa misura sta nel suo stile, non nella sua sostanza, dal momento che i valori – o pregiudizi – su cui si fonda la legge sono assai antichi. Nuovo era anche l’uso di pene atroci. Il primo Impero romano non era certamente un regime cortese o gentile, tuttavia l’uso di eccessivi tormenti fisici – come la condanna al rogo o allo smembramento – doveva diventare la procedura usuale, ciò che è stato definito «barbarie giudiziaria»28. Una tale violenza fu utilizzata per mantenere l’ordine sociale. In una legge che intendeva eliminare il perenne problema della fuga degli schiavi, Costantino ordinò: «Se schiavi fuggitivi sono catturati mentre fuggono in territorio barbaro, debbono esser mutilati mediante l’amputazione di un piede o inviati alle miniere pubbliche o fatti oggetto di qualsiasi genere di pena»29.
Il disprezzo di Costantino per i rapporti sessuali fra appartenenti a condizioni sociali diverse si estendeva solo al rapporto fra donne libere e schiavi. La società romana considerava accettabile lo sfruttamento sessuale di donne schiave, con poco dissenso. Le istituzioni romane accrebbero la vulnerabilità delle donne schiave nei confronti degli abusi sessuali30. Il controllo sessuale era di fatto parte dei poteri del padrone. Le dinamiche della condizione sociale erano racchiuse nei significati profondi di termini come adulterium e stuprum. Costantino non fece niente per modificare questi modelli, anzi le sue leggi servirono a dar forma a pregiudizi sociali contro i poveri e le donne vulnerabili. In una legge del 326 d.C., Costantino chiarì un punto ambiguo dell’applicazione della lex Iulia de adulteriis coercendis. Per definizione, la legge augustea sull’adulterio proteggeva l’onore sessuale delle donne rispettabili, le matres familias. Essa escludeva esplicitamente dalle pene previste per l’adulterio ogni donna che «apertamente trae o intenda trarre profitto dal proprio corpo»31. Questa formulazione lasciava volutamente alcune zone grigie dove i giudici potevano intervenire a loro discrezione per determinare quali donne si trovassero al di fuori della sfera dell’onore. Tuttavia Costantino fece chiarezza sulle linee di demarcazione fra rispettabilità e vergogna:
Se qualche donna commette adulterio, deve esser stabilito se ella era la padrona o la serva della taverna, vale a dire che, nel secondo caso, essa serve i vini dell’intemperanza in esecuzione del suo ruolo di serva. Quindi, se ella era la padrona della taverna, non deve essere esclusa dalle maglie della legge; se invece ella serve spesso a coloro che bevono, la donna che è accusata sarà esentata dall’accusa in ragione della sua bassa condizione sociale, e gli uomini che sono accusati saranno messi in libertà, dal momento che la regola del contegno sessuale è richiesta solo per quelle donne che sono vincolate dai lacci della legge, e quelle donne, per contrasto, che non sono considerate degne dell’attenzione della legge per la bassezza della loro vita saranno lasciate immuni dalla severità della giustizia32.
Le preoccupazioni della legge sono perfettamente tradizionali, i pregiudizi fermamente antichi. Il dato nuovo è la volontà di dettare per norma imperiale i limiti esatti delle esenzioni.
Mantenere i limiti tradizionali della condizione sociale fu una preoccupazione costante dell’imperatore, come lo era stata per Diocleziano e per molti imperatori prima di lui. Costantino promulgò un gruppo di leggi che emendavano la procedura che regolava le dispute riguardo alla condizione sociale (a giudicare dalle collezioni dei rescritti di Diocleziano, questo era un tema frequente nei conflitti legali33). Le leggi di Costantino sembrano rendere molto più difficile la possibilità di provare che una persona libera fosse uno schiavo. Sebbene queste riforme fossero procedurali e in alcuni casi assai tecniche, esse ci dicono molto. In una legge si ordinava che la nascita di un figlio, per una donna la cui condizione era in dubbio, non modificasse i limiti temporali dell’udienza (e il bambino doveva seguire la madre quanto a condizione sociale)34. In un’altra legge, Costantino permetteva a ogni persona libera, che si presumeva essere in realtà uno schiavo, di cercare un difensore (un adsertor, necessario in casi del genere) andando in giro per la provincia con indosso un segno che indicava la necessità di un tale garante. Ancora, se non lo si trovava in tempo e la persona era dichiarata uno schiavo, ma successivamente veniva trovato un garante, si poteva riaprire il caso con la presunzione che fosse un uomo libero: si trattava di un vantaggio rilevante35.
Con un’altra legge conservata sotto lo stesso titolo nel Codex Theodosianus, Costantino mirò ancora a creare regole che favorissero la libertà in casi ambigui. «Così devoti alla libertà erano i nostri antenati che i padri, a cui venne conferito il potere di vita e di morte sui loro figli, non avevano il potere di toglier loro la libertà»36. Questa affermazione alquanto grandiosa precede una legge piuttosto tecnica finalizzata alla protezione di quanti avessero una qualche giustificata rivendicazione di libertà che avesse origine nel periodo della loro minore età (ad esempio se essi erano stati affrancati da bambini, ma successivamente facevano azioni che destavano sospetti sulla loro condizione). L’invocazione dei valori tradizionali a protezione della libertà (richiamando il fatto che i padri non possono arbitrariamente modificare la condizione dei propri figli, anche se avevano il diritto ancestrale di ucciderli) riflette la volontà di Costantino di soddisfare il ruolo tradizionale dell’imperatore quale garante dei diritti del cittadino. In realtà, Noel Lenski ha proposto un forte e convincente argomento secondo cui, presentando sé stesso come il primo campione della libertas, Costantino era in grado di fare appello al tempo stesso ai valori tradizionali romani e a quelli cristiani37. In questo caso, in cui conservatorismo e cristianesimo si sovrapponevano, il sempre astuto politico Costantino colse l’opportunità di proporre sé stesso in modi che potevano piacere a gruppi diversi.
Gli impegni retorici e ideologici di Costantino per la libertas avevano anche dei limiti, e studiare alcuni di essi rivela molte cose, dal momento che mostrano i vincoli pratici dell’amministrazione romana. Per la legge romana, la libertà dell’uomo o della donna nati liberi era praticamente inviolabile e poteva essere persa solo in pochi e assai specifici casi. In generale, lo Stato romano mirava a mantenere le regole relative alla condizione sociale chiare e pubbliche. Nelle parole del giurista Callistrato, conservate nel Digesto: «Un patto privato non può rendere un uomo schiavo né liberto di chicchessia»38. Tuttavia, non era inusuale per i bambini abbandonati essere cresciuti per essere poi venduti al mercato degli schiavi; inoltre, la vendita dei bambini da parte dei loro stessi genitori in tempi di disperazione era del tutto comune39. Simili pratiche erano di fatto forme di riduzione in schiavitù da ‘mercato nero’, non legali ma a cui era permesso di persistere. In un rescritto emanato nel 315 d.C., Costantino esprime il suo impegno affinché la nozione tradizionale della condizione di uomo nato libero fosse inviolabile: «Non è affatto lecito che un bambino nato libero sia ridotto in schiavitù per un compenso e che ciò non venga sanzionato dai nostri tempi tranquilli, né che la condizione di nato libero possa essere ingiustamente ingiuriata per onorare una vendita»40.
Nonostante queste espressioni adamantine di purezza legale, nell’ultima parte del suo regno troviamo un Costantino che assume una posizione ben più pragmatica.
Secondo le promulgazioni degli ultimi imperatori, qualora qualcuno abbia acquistato in modo legittimo un neonato o si sia impegnato a nutrirlo, egli può rivendicare la facoltà di ottenere il suo servizio. Così che, dopo alcuni anni, se qualcuno vorrà intentar causa per la sua libertà o per rivendicare diritti di proprietà su di lui come schiavo, egli deve ricercare un sostituto dello stesso tipo o pagare il prezzo corrispondente al suo valore. Perciò chiunque abbia pagato un prezzo appropriato e abbia acquisito un titolo, ha diritti di possesso così certi che egli può liberamente impegnare lo schiavo in pagamento del suo debito41.
Colpisce il capovolgimento rispetto alla prima legislazione di Costantino. Il linguaggio della legge, come in molta parte della produzione legislativa di Costantino, è impreciso e retorico, laddove gli storici preferirebbero esattezza. Al centro della costituzione l’imperatore garantisce la potestas obtinendi eius servitii, che è una circonlocuzione per schiavitù; l’imprecisione ha incoraggiato gli storici moderni a tentare di riconciliare questa legge con le sue prime proclamazioni, sostenendo che l’espressione possa significare qualcosa d’altro rispetto alla schiavitù, ma il resto della legge suggerisce con forza che il compratore del bambino aveva i pieni diritti di proprietà sullo schiavo42. Resta da spiegare il perché di un tale voltafaccia.
Non è possibile ascrivere una simile promulgazione a una più generale parabola del ‘declino’ economico tardoantico, né essa può essere spiegata come una misura ‘orientaleggiante’, sebbene la legge possa rispecchiare, in un certo senso, costumi provinciali secondo i quali i padroni venivano compensati per gli schiavi che affrancavano. Piuttosto, il modo migliore per interpretare la legge è leggerla come una concessione al pragmatismo. Le regole classiche che regolavano l’inviolabilità della condizione di nato libero, di fronte a un sistema di schiavitù che si fondava sempre su rilevanti aiuti da parte dell’Impero, erano simbolicamente importanti, ma non riflettevano necessariamente la realtà amministrativa. L’Impero tardoantico era la sede di una società con cittadinanza universale e, sulla scia della costituzione antoniniana, più persone che mai prima di allora ebbero accesso ai canali legali romani e se ne servirono43. Gradualmente il mantenimento della purezza delle prime leggi cedette il passo all’approccio più pragmatico, che mirava a permettere l’affrancamento dalla schiavitù, in cambio di una compensazione per il padrone. Nel 331 Costantino si spinse ancora oltre in direzione di un rafforzamento dei diritti del possessore di schiavi, ordinando che i diritti di proprietà su un bambino abbandonato, acquistato in precedenza, non potessero essere indeboliti neppure a fronte di un compenso da parte dei genitori o di coloro che lo avevano precedentemente venduto: «Che cessino le molestie dei reclami verso chi, consapevolmente e di propria volontà, ha scacciato dalla propria casa dei neonati, siano questi figli liberi o schiavi»44. Il campione della libertà e poi lo stato di diritto erano perfettamente in grado di rinforzare i diritti di proprietà dei possessori di schiavi.
Le leggi sulle dispute relative alla condizione sociale e ai cambiamenti di tale condizione servono a ricordare i limiti propri dell’amministrazione della legge in un grande e caotico impero premoderno. Questi limiti tecnici dell’antica arte di governare formano una parte essenziale del retroterra di una delle principali innovazioni del periodo costantiniano: la manumissio in ecclesia45. La legge romana riconosceva numerose forme di manumissione, formale e informale46. L’affrancamento formale, in condizioni appropriate, conferiva all’ex schiavo la cittadinanza romana, con i relativi diritti e doveri. Questa era, relativamente parlando, una forma assai generosa di affrancamento, che poteva funzionare come un potente incentivo a suscitare una buona disposizione da parte degli schiavi. La manumissio formale, nell’alto Impero, poteva essere conferita mediante testamento o con una cerimonia che si svolgeva di fronte a magistrati romani qualificati; quella informale, che invece non richiedeva la presenza di un magistrato romano, deve esser stata assai comune nell’Impero. Quest’ultima trasformava lo schiavo in una persona libera, ma non in un cittadino. Conseguentemente, i requisiti procedurali erano assai più lassi e nell’Impero si diffuse un certo numero di modalità diverse e cerimonie, di fatto indipendenti dall’intervento dello Stato. Uno di questi metodi informali di affrancamento era quello sacrale, praticato in un tempio, supervisionato da sacerdoti e spesso implicante la consacrazione dell’ex schiavo alla divinità. I templi divennero luoghi importanti per l’affrancamento in tutto l’Impero romano. La scoperta fortuita di un tempio rurale coperto con iscrizioni che celebrano manumissiones della fine del II secolo d.C. o degli inizi del III nella Macedonia rurale rafforza l’idea che l’affrancamento sacrale fosse una parte importante del sistema della schiavitù47.
In modo del tutto simile, prima che Costantino riconoscesse la pratica i cristiani affrancavano i propri schiavi nelle loro congregazioni e nei loro luoghi di culto48. La manumissio cristiana al cospetto della Chiesa fu probabilmente solo uno degli elementi dell’animata vita sociale degli abitanti dell’Impero al di fuori del campo visivo del governo. Perciò, le leggi di Costantino sulla manumissio in ecclesia devono essere intese come il riconoscimento imperiale di un istituto preesistente piuttosto che come la creazione spontanea di un nuovo rituale ex nihilo. Né è necessario considerare la manumissio nella Chiesa cristiana come una gemmazione dall’affrancamento nei templi pagani o un suo esatto parallelo. Piuttosto, entrambe possono essere considerate come risposte istituzionali informali ai bisogni di una società schiavista in cui lo Stato operava entro stretti limiti tecnici e procedurali.
Costantino, come dice lo storico del V secolo Sozomeno, promulgò tre leggi sulla manumissio in ecclesia. La sua descrizione appare ben informata e acuta:
A causa della severità delle leggi e di molti intralci che si trovano sulla strada del desiderio del padrone di ottenere la miglior forma di libertà, che è chiamata cittadinanza romana, l’imperatore promulgò tre leggi con cui stabiliva che tutti coloro che erano liberati in chiesa con i sacerdoti come testimoni meritavano la cittadinanza romana49.
Sozomeno enfatizza, prima di tutto, gli ostacoli procedurali per ottenere la piena cittadinanza per lo schiavo libero – che, se acquisita inter vivos, significava dover trovare una magistratura competente. È degno di nota che Costantino non solo riconobbe la manumissio in ecclesia, ma garantì a essa la possibilità di creare cittadini, una delega eccezionale di un potere statale. Sozomeno, inoltre, enfatizzò l’importanza dei sacerdoti come testimoni. L’essenza dell’affrancamento cristiano, da una prospettiva istituzionale, non era il luogo sacro ma il popolo sacro: i chierici che operavano come funzionari dello Stato, virtualmente, nella creazione di nuovi cittadini romani.
Desta perplessità il fatto che, delle tre leggi che Sozomeno ricorda, solo due sopravvivono, una conservata nel Codex Theodosianus e l’altra nel Codex Iustinianus del VI secolo, che si basava sulla compilazione teodosiana. Ci sono diverse spiegazioni possibili: la ricostruzione più economica potrebbe sostenere che si stia dimenticando del tutto una delle leggi, il che non è affatto implausibile date le difficoltà che hanno caratterizzato la trasmissione dei testi del Codex Theodosianus50. Ancora, sembra verosimile che la legge mancante fosse la più antica, quella che per prima riconobbe l’affrancamento ecclesiastico. Deve essere stata attuata non troppo tempo dopo la conversione di Costantino al cristianesimo, dal momento che la prima delle due leggi giunteci risale al 316 d.C. e presume che la pratica fosse già legittima agli occhi dello Stato:
Da un certo periodo fino a ora è stato accettato che i padroni possano offrire ai propri schiavi la libertà nella Chiesa cattolica, se ciò è fatto di fronte al pubblico e con i sacerdoti cristiani presenti quali testimoni, in modo tale che una sorta di documento scritto venga prodotto nel quale essi firmano come testimoni per ricordare il gesto per conto di queste persone51.
Apparentemente nel 316 la pratica era stata riconosciuta già «da un certo periodo», cosa che implica che si fosse affermata assai presto nella ‘carriera cristiana’ di Costantino.
L’altra legge che sopravvive data al 321, e anch’essa è significativa. La sua realizzazione venne affidata a Ossio, consigliere di Costantino:
Coloro che, con animo riverente, vogliano garantire la meritata libertà ai propri schiavi in seno alla Chiesa, si vedano concedere questa nel rispetto del principio legale in virtù del quale, quando tutte le formalità sono osservate, la cittadinanza romana di norma è stata concessa. Ma questa libertà è concessa solo nel caso di coloro che possono concederla sotto la supervisione dei vescovi52.
La legge prosegue riconoscendo il diritto dei chierici di rendere liberi gli schiavi in loro potere:
Noi inoltre concediamo ai chierici, tuttavia, che, quando concedono la libertà ai propri schiavi, si possa dire che essi concedono il pieno godimento della libertà, non solo quando operano di fronte alla Chiesa e al pubblico dei fedeli, ma anche quando concedono la libertà per un ultimo testamento legale o comandano che venga concessa mediante parole, così che il giorno in cui la volontà è resa nota essi guadagnino la piena libertà, senza necessità di alcun testimone o intercessore di questo diritto53.
In realtà, è probabile che questa seconda condizione, che afferma il diritto dei chierici di stabilire la manumissio mediante testamento, fosse l’impulso che stava alle spalle di questa costituzione così come la leggiamo oggi. Nel 320 e 321 Costantino promulgò una serie di leggi che ponevano e regolavano questioni come i diritti di proprietà della Chiesa e i diritti di eredità degli uomini privi di figli; considerandolo a prescindere dal suo titolo e collocandolo nel contesto della restante legislazione di questi anni, Cod. Theod. IV 7,1 assume un aspetto diverso54. La natura del Codex Theodosianus è tale che la motivazione originaria di un provvedimento in vigore è spesso visibile solo in parte.
Il riconoscimento di Costantino della manumissio in ecclesia e la delega straordinaria del potere di creare cittadini romani non possono essere ascritti a un’ideologia di emancipazione cristiana. La manumissione era pienamente parte del sistema schiavistico, usata come un incentivo per gestire il lavoro degli schiavi. Il cristianesimo si era da tempo riconciliato con le realtà del regime schiavistico55. Certamente i cristiani celebravano l’affrancamento come un atto virtuoso, specialmente riguardo alla rinuncia alla proprietà da parte di una persona che ricercava la povertà volontaria. Sicuramente voci cristiane (in particolare Giovanni Crisostomo) potevano esortare i padroni a trattare con dolcezza i propri schiavi per prepararli alla libertà e poi per concedergliela56. Ma un consiglio simile non è quel che sta dietro alla creazione di questa nuova istituzione. Piuttosto, l’affrancamento in ecclesia, come creato da Costantino, contribuiva a legittimare la Chiesa e i suoi sacerdoti nella sfera pubblica. Il diritto di creare cittadini romani dava ai vescovi un potere parallelo a quello di un magistrato romano. L’affrancamento nella Chiesa dovrebbe essere visto come un complemento della audientia episcopalis, il riconoscimento dei vescovi come mediatori nelle di;spute57. In realtà, la connessione fra le due istituzioni – manumissio in ecclesia e audientia episcopalis – può essere considerata più che simbolica. Dal momento che le dispute patrono-liberti erano evidentemente comuni (a giudicare, ad esempio, dalla loro frequenza nei rescritti di Diocleziano), i vescovi possono aver avuto bisogno di più ampi poteri nella risoluzione delle dispute per gestire la pratica dell’affrancamento e i suoi effetti.
Il segno più chiaro del fatto che il riconoscimento da parte di Costantino della manumissio in ecclesia fosse motivato più dal desiderio di legittimare la Chiesa come istituzione pubblica che da qualche spinta rivoluzionaria è forse un’altra legge, emanata in un editto Ad Populum nel 320. Il cuore della legge (come elaborato nella ricostruzione di Manlio Sargenti) riguardava le relazioni fra patroni e liberti. Dal momento che questa costituzione è così rilevante, è opportuno citarla per esteso:
Se uno schiavo affrancato si dimostra ingrato nei confronti del proprio patrono e per qualche moto d’arroganza o disobbedienza leva la propria testa contro di lui o incorre nella colpa di un’offesa minore, egli deve essere ricondotto sotto il potere e l’autorità del proprio patrono, se il patrono può dimostrare che il liberto è ingrato in una causa portata davanti alla corte del governatore o davanti a giudici stabiliti. E ogni figlio che nascerà in seguito sarà schiavo, dal momento che i misfatti dei genitori non possono ricadere su coloro che sarà dimostrato essere nati durante il periodo in cui i genitori godevano della libertà.
Se qualcuno che ha perso la cittadinanza romana sarà fatto latino e morirà in questa condizione, il suo intero peculium sarà richiesto per il patrono o i figli del patrono o i nipoti che non hanno mai perso la loro legittima rivendicazione familiare58.
Si tratta di una misura severa, impossibile da riconciliare con qualsiasi immagine di Costantino come un liberatore cristiano. Tuttavia, per apprezzare la vera importanza della legge, essa deve essere collocata nel regime legale romano che regolava le relazioni patrono-liberti. I rapporti patrono-liberti erano effettivamente una questione delicata nella legislazione romana59. Ai patroni si doveva rispetto e gli stessi patroni potevano stabilire certi generi di servizi lavorativi da pretendere dai loro liberti. I governatori romani avrebbero ascoltato lamentele dei patroni contro i loro liberti, mentre il diritto dei liberti di intraprendere un’azione legale contro i propri patroni era indebolito60. Il patrono romano era influente, ma il suo potere non era assoluto e si confrontava con un limite esplicito: egli non poteva rendere di nuovo schiavo un liberto. I costumi nelle province orientali variavano e in alcuni casi il ricondurre a schiavitù era una punizione legittima. Stando a Tacito, il Senato romano nel principato di Nerone considerò di concedere ai patroni il diritto di rendere di nuovo schiavi i liberti, ma deliberò di non farlo61. Costantino ribaltò questa politica, permettendo di qualificare l’«arroganza» o la «disobbedienza» o anche una «offesa minore» come «ingratitudine», con la conseguenza del ritorno alla schiavitù del liberto. Questa norma allineò la legge romana con i poteri sociali già considerevoli del patrono. La legge è un segno del fatto che Costantino si preoccupava dell’ordine e del mantenimento del rispetto per la gerarchia legittima. La sua riforma fu l’ultima della tarda antichità, racchiusa anche nella codificazione di Giustiniano (che fu un ben più vero difensore della libertas, e un legislatore cristiano più autentico di Costantino)62.
Le riforme di Costantino relative alla legislazione romana sulla schiavitù sembrano essere state intese a stabilizzare l’ordine sociale lungo solide e tradizionali direttrici di gerarchia. Costantino, per certi aspetti, fu forzato a rispondere ai più ampi mutamenti religiosi che si producevano sullo sfondo del suo principato. La progressiva conversione della popolazione al cristianesimo significò che sempre più persone venivano a contatto con le norme cristiane. Un canone del concilio della Chiesa di Elvira, ad esempio, stabiliva una penitenza per le donne le cui schiave fanciulle morivano entro tre giorni da una percossa63. Proibizioni relative a uccisioni intenzionali e specialmente a punizioni spaventose devono esser state frequenti nella Chiesa. Tuttavia Costantino non avrebbe incluso tali limiti nella legislazione romana64. Egli ordinò esplicitamente che il periodo di tempo entro il quale lo schiavo muore dopo una percossa non fosse legalmente probante dell’intenzione di uccidere. Nella stessa legge però l’imperatore specificò alcuni limiti:
Il padrone non usi del suo diritto senza moderazione, ma sia accusato di omicidio se uccide intenzionalmente lo schiavo con il colpo di un bastone o di una pietra o senza alcun dubbio [cioè a prescindere dall’‘intenzione’] se infligge una ferita letale con una lancia o ordina che sia impiccato a un capestro o con un ordine orribile comanda che sia lasciato morire o lo uccide con un veleno mortale o fa in modo che il suo corpo mortale sia lacerato con pene pubbliche, strappando i suoi fianchi con gli artigli delle fiere o ustionando il suo corpo con l’uso del fuoco, o se, con la brutalità di barbari selvaggi, nel mezzo di torture, mentre i loro corpi diventano bianchi e il sangue nero scorre mischiato ad altro sangue, il padrone lo fa morire65.
Costantino quindi considerò illegale solo l’uccisione intenzionale di schiavi o l’uccisione di schiavi mediante mezzi così brutali da rendere esplicito l’intento. Alle «pene pubbliche» dovevano essere riservate punizioni veramente sadiche.
Appena dieci anni dopo, Costantino emanò un’altra legge sull’uso della violenza contro gli schiavi66. Questa volta l’imperatore dichiarò che l’intenzione, di fatto, era immateriale e non avrebbe potuto essere oggetto di indagine da parte dello Stato. Le leggi di Costantino erano attente a non indebolire i poteri disciplinari del padrone. Semmai, esse rappresentavano una blanda regressione rispetto alle norme della legge classica, ma in ogni caso non bisogna immaginare che l’amministrazione romana monitorasse da vicino l’uso di punizioni corporali da parte dei padroni. Un certo grado di decenza era richiesto, ma le fonti presumono universalmente che le relazioni padrone-schiavo nella tarda antichità fossero assolutamente violente.
La religiosità di Costantino non ispirò mutamenti sostanziali nella legislazione sulla schiavitù. Piuttosto, motivò politiche come quella dei nuovi limiti sul possesso di schiavi da parte degli ebrei67. La documentazione legislativa di Costantino sulla schiavitù mostra un imperatore le cui preoccupazioni erano incentrate sulla solidità istituzionale, l’ordine sociale, la gerarchia legittima. Anche se lo stato di preservazione è, nel migliore dei casi, mediocre, ci sono più riforme della legislazione sulla schiavitù di natura significativa nel regno di Costantino che in quello di ogni altro imperatore della tarda antichità fino a Giustiniano. La stessa cosa è vera per le riforme riguardanti la legislazione familiare e le dinamiche dei privilegi aristocratici. Le modifiche apportate da Costantino alla legge sulla schiavitù erano parte di un ampio pacchetto di legislazione sociale che mirava a ristabilire l’ordine romano, in stile tardoantico: moralizzante in modo esplicito, fiammeggiante sul piano retorico e aggressivamente violento.
Se è in un certo senso improprio parlare della ‘politica sociale’ costantiniana, è del tutto anacronistico parlare di un approccio costantiniano all’economia in quanto tale. Per ogni antico imperatore la politica economica consisteva principalmente in un problema: come pagare l’esercito. Il preambolo dell’editto sui prezzi di Diocleziano è un richiamo al fatto che la politica economica era condizionata dalle spese militari68. Moneta, tassazione, benessere dei cittadini e privilegi aristocratici erano sussidiari a questo imperativo primario. Tuttavia, anche a confronto con quella di Diocleziano, la politica economica di Costantino, fuorché per la creazione di nuove imposte, fu relativamente limitata e passiva. L’Impero era entrato in una fase di crisi economica all’incirca attorno al 270, quando, improvvisamente, l’inflazione salì alle stelle69. È stato recentemente ipotizzato che le riforme monetarie di Aureliano abbiano innescato un crollo catastrofico della fiducia pubblica, rovinando il valore fiduciario del conio romano, che era riuscito a mantenere buona parte del suo valore nominale nonostante l’enorme diminuzione del metallo prezioso contenuto nelle monete70. L’inflazione s’impennò ancora nel decennio 290-300 e, in risposta, Diocleziano adottò riforme su larga scala del conio e del sistema di tassazione71. Più in profondità, forse, egli tentò di fermare l’inflazione imponendo prezzi massimi per un’ampia lista di beni72. Queste misure non riuscirono a fermare l’inflazione, e Costantino prese il comando di un Impero ancora nella morsa delle turbolenze finanziarie.
Le differenze tra le politiche monetarie di Diocleziano e Costantino furono sottili e per apprezzare l’impatto che ebbe il solidus costantiniano è importante essere precisi riguardo alle differenze fondamentali tra gli approcci dei due imperatori. Fu Diocleziano a creare il solidus, di nome e di fatto, come una moneta d’oro di alta qualità emessa a 1/60 di libbra73. Al tempo stesso, tuttavia, Diocleziano fece due cose che impedirono al solidus di acquisire un valore medio stabile. In primo luogo egli lo tariffò al valore nominale della moneta in lega. In altre parole, egli tentò di fissare il prezzo dell’oro. Ad esempio, nell’editto sui prezzi massimi, egli stabilì un rapporto a valore fisso tra l’oro, sia come lingotti sia come monete, e il denarius, così che 1 solidus equivalesse a 1,200 denarii communes. Apparentemente egli svalutava l’oro, cosa che avrebbe dovuto spingerlo fuori circolazione secondo il familiare modello della legge di Gresham. In secondo luogo, in risposta a queste pressioni, lo Stato dioclezianeo fece acquisti forzosi di oro a prezzi artificialmente bassi74. Perciò, la creazione da parte di Diocleziano di un conio d’oro non implicò l’effettiva circolazione di un conio con un valore di mercato stabile.
Dal 309 circa, Costantino iniziò a emettere una moneta d’oro di alta qualità a 1/72 di libbra, il solidus costantiniano75. Tale moneta era destinata a diventare il punto di ancoraggio del sistema monetario bizantino per i successivi mille anni. Questo, tuttavia, è senno di poi: all’epoca la politica di Costantino poteva apparire non particolarmente radicale. Quel che era nuovo nell’approccio di Costantino non era il peso leggermente minore della moneta d’oro, ma il fatto che egli permise al valore dell’oro di fluttuare a tassi di mercato piuttosto che decretare ufficialmente i rapporti con il lingotto. Costantino, usando la terminologia di Elio Lo Cascio, «liberalizzò» il prezzo dell’oro76. Questa ricostruzione è basata sul fatto che le requisizioni forzate d’oro spariscono dai papiri nel 324. Inoltre Costantino aumentò l’emissione di monete d’oro, aiutato almeno in parte dal sequestro da lui ordinato di numerosi tesori nei templi, il cui oro venne fuso, coniato e messo in circolazione77.
La liberalizzazione del valore dell’oro, in effetti, creò un affidabile valore medio, fissato nella moneta. Esso tuttavia non ridusse l’inflazione rispetto all’unità di misura dominante, il denarius, rappresentato da monete di lega lavate nell’argento78. I prezzi in denarii crebbero esponenzialmente negli anni 320-330. Si discute se la riduzione continua della quantità di argento nel conio in lega fosse la causa di o la risposta a questi aumenti di prezzi79. In ogni caso l’aumento dei prezzi avvenne. L’anonimo autore del De rebus bellicis, un testo unico pubblicato – sebbene vi siano discussioni riguardo alla datazione – attorno al 369 d.C., descrive gli effetti della politica costantiniana:
Fu ai tempi di Costantino che la smodata largizione di denaro assegnò ai piccoli commerci l’oro al posto del rame, che prima era considerato di grande valore. È credibile che l’avidità abbia avuto origine dalle seguenti cause. Quando l’oro, l’argento e la grande quantità di pietre preziose, che da epoca remota erano depositati presso i templi, raggiunsero il pubblico, si accese in tutti la cupidigia di spendere e di acquisire […]. Questa abbondanza d’oro riempì le dimore dei potenti, diventate sempre più belle a danno dei poveri, essendo i meno abbienti oppressi con la violenza80.
L’autore ritiene che il regime monetario di Costantino sia stato disastroso per le classi più umili, che ebbero difficoltà economiche allorché fu consentito all’oro di dominare anche i piccoli commerci. Ciò significa, in effetti, che, liberalizzato il prezzo dell’oro, il valore del conio in metallo scadente diviene di fatto una espressione del suo valore in rapporto all’oro. È chiaro dunque che il sistema monetario sarebbe rimasto instabile per un’altra generazione, finché l’oro sarebbe divenuto non solo un mezzo di scambio e una riserva di valore, ma anche un’unità dominante di contabilità. Nel 359 la prima transazione privata in oro, attestata in un papiro, riguarda la vendita di uno schiavo; e negli anni 360-370 il solidus iniziò a soppiantare il denarius come prima unità di misura e ritornò nell’Impero la stabilità monetaria81.
Il danno arrecato ai poveri dal passaggio a un’economia fondata sull’oro fu l’effetto collaterale di una riforma monetaria necessaria. Non si può dire che la politica di Costantino fosse deliberatamente recessiva. In verità, Costantino istituì due tasse che, se si considerano i parametri antichi, furono progressiste. La collatio lustralis, o chrysargyron, era una tassa sul commercio riscossa in metalli preziosi in cicli di quattro anni, per sottoscrivere donazioni all’esercito82. Inoltre, Costantino creò un prelievo supplementare diretto contro i senatori, conosciuto come la collatio glebalis o follis. Anch’esso venne riscosso in oro e portò una non irrilevante quantità di entrate83. Erano dunque le entrate, e non certamente la giustizia sociale o l’equità, a motivare le tasse. Si deve però ammettere che Costantino sembra aver voluto stabilire nuove imposte che avrebbero distribuito in maniera più equa parte del carico fiscale generale. Persino l’avverso Zosimo pensò che Costantino intendesse ‘terrorizzare’ il povero e il ricco allo stesso modo84.
Un numero considerevole di leggi del regno di Costantino mirava a proteggere il benessere generale dei contadini comuni, che erano la base produttiva del sistema imperiale. Due di esse, una per l’Italia e l’altra per l’Africa, ripristinarono una sorta di sistema di alimenta per coloro i quali si trovavano in condizioni disperate, avendo l’esplicito obiettivo di dissuadere i genitori dall’idea di vendere o abbandonare i propri figli85. Un certo numero di costituzioni mirava a controllare gli abusi del potente contro il debole. I governatori furono incaricati di tenere gli occhi aperti sugli accertamenti tributari, «così che la moltitudine delle classi minori non possa essere soggetta alla licenziosità e subordinata all’interesse del più forte e quindi soffra la punizione di gravi e iniqui oltraggi»86. Se qualcuno era troppo potente perché un semplice governatore se ne potesse occupare, questi doveva riferire la questione all’imperatore in persona87. Chiaramente non era nell’interesse dello Stato indebolire i contadini e i piccoli proprietari, i cui contributi fiscali erano così importanti per l’attività dello Stato stesso. Una costituzione del 315 ordinava ai governatori di giustiziare ogni decurione o esattore che accettasse schiavi aratori o animali da traino come pegno in cambio di tasse arretrate, «perché in questo modo verrebbe ritardato l’afflusso degli introiti fiscali»88. Costantino abolì l’uso della lex commissoria come strumento per incamerare le proprietà ipotecate: tale legge proteggeva in modo rilevante i debitori rispetto ai creditori89. Tutte queste misure contribuirono a proteggere i contribuenti dagli abusi del potere.
Le istituzioni romane furono essenziali nella protezione degli affittuari vulnerabili contro i loro proprietari. In una legge importante del 325, Costantino rafforzò i diritti con cui gli affittuari potevano proteggersi da pressioni economiche. Egli dispose che gli affitti ordinari fossero legalmente rilevanti:
Qualunque affittuario che è oggetto di riscossione da parte del proprietario più di quanto prima fosse solito [esserlo] e più di quanto in tempi anteriori fosse oggetto di riscossione, si presenti dal giudice, il primo da cui potrà avere udienza, e dimostri la verità del crimine, perché colui che è dimostrato colpevole di pretendere di più di quello che era solito [pretendere] sia impedito di fare ciò in futuro, dopo avere restituito ciò che si apprende avere egli estorto con la richiesta di una esazione superiore al dovuto90.
Sotto questo regime, i governatori romani avrebbero trattato gli abituali accordi per il possesso come legalmente esecutivi, per gli affittuari, a svantaggio dei proprietari. Nelle parole di Dennis Kehoe, «il fatto che un ‘affitto consuetudinario’ fosse un concetto significativo per Costantino suggerisce non solo che gli affittuari occupavano le loro terre senza un termine stabilito, ma anche che la società aveva da tempo fissato le norme di base per definire le condizioni secondo le quali gli affittuari occupavano le loro terre»91. Norme come questa contraddicono direttamente l’idea del tardoantico come un tempo in cui il ricco diveniva più ricco e coloro che erano senza terra sprofondavano sempre di più nella miseria. Rispetto al Medioevo, gli anni del tardo Impero romano furono un periodo in cui istituzioni statali relativamente forti offrirono rimedi contro gli abusi evidenti, ponendosi come parte terza. Le esigenze fiscali, anziché astratte idee di giustizia sociale, possono aver motivato simili leggi, ma di fatto queste politiche furono tanto più autentiche ed efficaci in quanto lo Stato aveva un forte interesse economico nel far rispettare le norme di un gioco leale nella società rurale.
Sia nell’affrontare il tema della schiavitù, sia nel concepire misure economiche, gli obiettivi di Costantino furono fortemente tradizionali e i suoi metodi innovativi. L’imperatore poté presentarsi ai veterani e ai contadini in tutto l’Impero come il loro patrono, il loro protettore, ragionevolmente in buona fede, anche se il passaggio all’oro forzò relazioni sociali ed economiche asimmetriche, creando costantemente nuove occasioni di sfruttamento. Ancora una volta si può constatare come Costantino abbia voluto intraprendere iniziative che potrebbero sembrare pragmatiche più che impegnarsi, ad esempio, nel riconoscimento degli affitti ordinari. Sullo sfondo di tutti questi mutamenti, si può cogliere la ricostituzione graduale dell’aristocrazia, dato che i normali cicli di ricambio demografico erano stati accelerati dalla spirale inflazionistica e dalla riorganizzazione formale dei ranghi aristocratici, dei privilegi e dei mezzi per ottenerli. L’ultimo preposto finale prende in considerazione questi cambiamenti come sfondo alle riforme di Costantino, che riguardavano la schiavitù e l’economia.
L’istituzione di una nuova capitale, una seconda Roma, fu solo uno, benché il più visibile, degli elementi del programma di Costantino come fondatore. Costantino poté essere considerato un rifondatore della società romana: egli realizzò mutamenti del sistema dei ranghi e privilegi nell’ordine sociale romano più ampi di quelli attuati da ogni altro imperatore, eccezion fatta, forse, per Augusto. La società romana era caratterizzata da una gerarchia ufficiale e ben regolata, e da ricchezze e servizi intrecciati in modo complesso all’interno di un sistema stabilito di gradi e onori. Si è forse prestata poca attenzione alla riforma introdotta da Costantino in questo sistema e alle sue conseguenze sulla politica sociale. Gli sforzi dell’imperatore sono stati correttamente definiti come un episodio della costruzione di un regime92. Il modello che emerge dietro i complessi mutamenti messi in atto da Costantino fu che essi contribuirono tutti a rifocalizzare la lealtà delle élite romane attorno alla persona e al simbolo dell’imperatore. Costantino riorientò più che mai l’aristocrazia attorno all’autocrazia.
Diocleziano aveva favorito sistematicamente l’ordine equestre rispetto a quello senatorio, portando al culmine una tendenza che era evidente già da un secolo. «Diocleziano, nella sua riorganizzazione dell’Impero, portò avanti questo processo e alla fine del suo regno i senatori erano eleggibili solo a poche cariche, esclusivamente di carattere civile e di minore importanza»93. Questa politica, in primo luogo, avrebbe creato l’opportunità per Costantino di guadagnare consenso politico facendo appello a una categoria insoddisfatta dell’aristocrazia romana. La preferenza accordata da Costantino al ceto senatorio fu notevole. Egli riassegnò in modo sistematico gli uffici più alti, come i governatorati delle province, al ceto senatorio, pieno di consulares che dovevano tenere il grado di clarissimi94. Più radicalmente, Costantino creò un secondo Senato a Costantinopoli; originariamente i suoi membri erano insigniti del grado di clari, ma venivano rapidamente promossi al grado di clarissimi, essendo così posti alla pari dei loro colleghi occidentali95. Questo atto avrebbe infine condotto a una considerevole inflazione dell’ordine senatorio, che sarebbe aumentata sotto i figli di Costantino. Se con Diocleziano l’ordine senatorio rimase il cuore dell’alta élite, costituita da circa seicento aristocratici sommamente ricchi, alla fine del IV secolo si conteranno circa tremila uomini di rango senatorio96. Di conseguenza, nel 372 Valentiniano e Valente furono spinti a dividere l’ordine in tre gradi: i clarissimi, sopra di loro gli spectabiles e, al livello più alto, gli illustres97. Secondo un modello ben noto, questa nuova aristocrazia imperiale venne reclutata dai livelli più elevati dell’élite municipale, imponendo una pressione fiscale straordinaria sui consigli cittadini. Si può dire che Costantino mise in moto una delle dinamiche sociali e fiscali decisive del tardo Impero.
La creazione del Senato orientale fu un’astuta manovra per rafforzare la lealtà del neo-conquistato Oriente nei confronti della corte di Costantino. Ma la riorganizzazione degli onori operata dall’imperatore fu ancor più ampia. Sembra che questi abbia contribuito a produrre profondi cambiamenti nell’ordine equestre, nella misura in cui l’unico grado equestre a sopravvivere fu quello di perfectissimus98. I viri egregii sparirono dagli atti a metà del decennio 320-330, resta poco chiaro se per abolizione o per un più graduale assorbimento in altri ranghi. Inoltre Costantino regolarizzò i membri della corte, i comites, mediante un sistema ufficiale di onorificenze99. Egli utilizzò il titolo di comes come distinzione ufficiale di privilegio accordata a ministri negli uffici palatini. Significativamente, i comites includevano sia i senatori che i perfectissimi, producendo, così, una distinzione trasversale all’antica élite e riorientando la fedeltà in modo uniforme attorno al servizio prestato all’imperatore. Negli ultimi anni del suo principato, l’ordine dei comites, che Arnold Hugh Martin Jones definì «the Order of the Imperial Companions», fu esso stesso diviso in tre gradi: ordinis primi, secundi e tertii100. Allo stesso modo Costantino rivitalizzò l’antico titolo di patricius; lungi dall’essere una casta elitaria ereditaria, il patriziato venne allora conferito esclusivamente come un dono da parte dell’imperatore stesso101.
Su più ampia scala, Costantino creò un sistema mediante il quale agli uomini al servizio dell’Impero, sia militari sia civili, era concesso di fregiarsi del gentilicium dell’imperatore: Flavio. Sulla scia della costituzione antoniniana, il gentilicium Aurelio si diffuse tra una vasta parte degli abitanti dell’Impero. Tra il III e il IV secolo, il nome Valerio iniziò a diffondersi come un segno distintivo per coloro che servivano nel governo, incluso certamente Costantino stesso102, il quale avrebbe adottato, trasformato e radicalmente accresciuto questa pratica attorno al suo primo nome di famiglia: Flavio. Già durante il suo principato, iniziò a diffondersi l’uso del nome Flavio, un incrocio fra un nome e un titolo assegnato agli ufficiali di governo, alcuni anche di grado relativamente modesto. Diversamente dal gentilicium Valerio, l’uso di Flavio come titolo si sarebbe mantenuto nel corso della tarda antichità, riflettendo il successo di Costantino come fondatore di un nuovo ordine sociale. La diffusione dell’uso del nome Flavio andò in parallelo all’aumento del numero dei senatori e alla creazione di nuovi alti onori come il patriziato e i comites, ma il suo scopo era ben più ampio: quello di creare vasti corps di servi fedeli, almeno in teoria, in tutto l’Impero.
La struttura della riorganizzazione di Costantino e gli aggiustamenti successivi per tutto il IV secolo possono essere considerati in due modi. In primo luogo, le sue riforme servirono a orientare l’intera élite più direttamente attorno all’imperatore e al suo potere di garantire cariche e privilegi. Condividere il nome di Flavio fu un segno altamente simbolico di questo riorientamento. Certamente tra le vittime di questa riforma ci furono le strutture intermedie dell’élite, come i consigli cittadini, che soffrirono inesorabilmente (altre riforme fiscali andarono in parallelo alla nuova politica imperiale e contribuirono ulteriormente ai gravami posti sui consigli cittadini – ad esempio, il pesante intervento imperiale nella riscossione delle tasse e la confisca delle proprietà municipali103). In secondo luogo, l’aristocrazia costantiniana fu più strettamente connessa alla carica più che alla ricchezza. L’intreccio di ricchezza e carica nella creazione dell’élite romana era antico. La prima sarebbe rimasta fondamentale per tutta la tarda antichità, ma l’equilibrio scivolò in favore della seconda. Questa divisione ebbe la sua espressione in termini amministrativi nella distinzione fra militiae, incarichi professionali a vita, e dignitates, uffici di breve termine detenuti dall’alta aristocrazia104. In termini sociali, la burocrazia di Costantino creò le opportunità per un significativo avanzamento – che è la ragione per cui Giuliano e Zosimo e, forse più notoriamente, Libanio, denunciano la mobilità verso l’alto concessa dal regime di Costantino di ranghi e privilegi.
È alla luce di questi mutamenti che molte delle politiche sociali di Costantino devono essere interpretate. Nel periodo in cui regnò da solo, Costantino mise in atto importanti riforme del vecchio regime augusteo. Costantino, proprio come Augusto prima di lui, non solo riformò l’aristocrazia, ma simultaneamente mirò anche a riformare la morale delle classi rispettabili. In verità, per molti aspetti la legislazione familiare di Costantino può essere considerata il corrispettivo diretto della decisiva legislazione sociale di Augusto. Molte di queste riforme sembrano da datare attorno al 326, sebbene lo stato altamente frammentario delle testimonianze che viene dal Codex Theodosianus lascia aperti alla ricerca molti aspetti puntuali riguardanti la natura e il tempo delle riforme. Tuttavia, si può citare ad esempio il fatto che attorno al 326 Costantino operò una coerente e più ampia riforma del matrimonio105.
In primo luogo, Costantino emendò la lex Iulia. Egli limitò la facoltà del popolo di muovere accuse di adulterium contro una donna sposata106. Se Augusto aveva fatto dell’adulterio un problema di attenzione pubblica piuttosto ampia, Costantino avrebbe limitato la capacità di muovere accuse al più ristretto circolo familiare, che si supponeva dovesse vigilare per primo sull’onore sessuale delle proprie donne. Non è impossibile, inoltre, immaginare che, in una società fieramente competitiva che subiva rapidi cambiamenti di ranghi e privilegi, la capacità di rivolgere accuse scandalose fosse uno strumento facile di sabotaggio sociale, che l’imperatore intendeva rimuovere.
In questo stesso anno Costantino ritoccò ancora la lex Iulia, specificando che le donne che possedevano taverne non erano soggette alle regole sull’adulterio, mentre le donne che servivano il vino erano oggetto di attenzione da parte dello Stato: una riforma che, come si è visto, rifletteva i giudizi profondamente conservatori dell’imperatore107.
Anche nel 326 Costantino emanò una costituzione che aveva a che fare con il concubinato. Il concubinato era una forma accettabile di relazione (sia pre che postmatrimoniale) fra uomini di alto rango – sia che non fossero mai stati sposati, sia che lo fossero già stati – e donne di basso rango, specialmente liberte. Costantino emanò un editto Ad Populum asserendo che non era legale avere una moglie e una concubina allo stesso tempo – formalizzando, di fatto, una buona abitudine sociale già diffusa108. Nella stessa ottica, Costantino offrì un’amnistia a uomini che vivevano con una donna nata libera in una relazione di concubinato. In particolare, questa legge è nota solo attraverso sue citazioni posteriori e non dalla promulgazione stessa109. Essa si applicava alle donne nate libere: in breve, donne che avrebbero potuto essere regolarmente delle mogli. Si trattò di uno sforzo di legittimare matrimoni de facto110. Ma non è neppure difficile immaginare, dietro il provvedimento, l’ascesa di uomini di origini umili, attraverso i gradi del servizio imperiale romano, ai quali era offerta un’occasione unica per legittimare le relazioni di natura ambigua.
Più importante ancora, Costantino estese e rafforzò le proibizioni augustee sul matrimonio, che servivano per mantenere distinte le prassi matrimoniali dell’alta élite da quelle degli elementi meno onorevoli della società111. Costantino ampliò il raggio d’azione delle restrizioni, includendo in questo modo un numero maggiore di aristocratici. Al contempo la disposizione rendeva ‘intoccabile’ ai fini matrimoniali un più largo numero di persone collocate al fondo della scala sociale. Anche questa legge è andata perduta e si può ricostruire la sua natura solo da una costituzione successiva, emanata nel 336 d.C. Questa legge112 includeva nella élite «senatori o perfectissimi o chiunque sia onorato con il duumvirato o con il quinquennaliato di una città o con gli emblemi di un flamen o di un sacerdote di una provincia»113. Secondo la legge del 336, questi uomini dovevano essere severamente puniti se tentavano di legittimare i figli nati da donne di cattiva fama o di umile condizione. A uomini di alto rango, infatti, non era permesso di dare alcunché in proprietà a queste donne o a questi figli. In realtà la legge che ci è giunta non proibisce il matrimonio fra i membri di determinate élite e donne che esercitavano determinate professioni inferiori – questo però implica che simili unioni fossero, di fatto, proibite da un precedente atto oggi perduto. In un’altra legge, anch’essa perduta, ma che ha lasciato una traccia di legislazione nel suo solco, Costantino deve aver vietato tutti i trasferimenti di proprietà a figli illegittimi114.
In un certo senso è perfettamente ovvio che il nuovo sistema di Costantino di ordine aristocratico abbia provocato un rinnovamento dei divieti augustei, adattati ai termini della gerarchia tardoantica. Le leggi di Costantino però, di fatto, vanno oltre i provvedimenti di Augusto per quanto riguarda il tentativo di proibire i trasferimenti di proprietà a figli illegittimi. Questa norma restrittiva (che vessò Libanio, ad esempio) può esser vista nel contesto della nuova aristocrazia di servizio, che consentì una rapida ascesa sociale a uomini di origini relativamente modeste, senza grandi tradizioni di ricchezza familiare115. Per tali uomini, l’uso del concubinato era parte di una strategia per ritardare il matrimonio nella speranza di assicurarsi alla fine una moglie di rango elevato. Si può solo immaginare, ad esempio, che cosa sarebbe potuto accadere al figlio dello ‘scalatore sociale’ più conosciuto della tarda antichità, Agostino, se Adeodato non fosse morto e suo padre non si fosse ritirato dal servizio imperiale. Le fonti più tarde, come Giovanni Crisostomo, avrebbero offerto vividi commenti sulle aspirazioni sociali di uomini che accumulavano ricchezza e gradi sociali e tentavano di far leva su questo per ottenere matrimoni vantaggiosi116. Le riforme delle leggi sul matrimonio attuate da Costantino non incisero solo sul sistema delle classi sociali, ma introdussero anche nuovi modi per la formazione dell’aristocrazia.
Infine, e molto più speculativamente, le limitazioni al divorzio fissate da Costantino possono essere viste in questo stesso contesto. Nel 331 d.C. Costantino emanò una costituzione che metteva fine all’antica tradizione del divorzio unilaterale117. È stato osservato, in modo persuasivo, che la misura adottata da Costantino non si adatta facilmente al disagio cristiano nei confronti del divorzio, perché, ad esempio, Costantino non proibì il divorzio per mutuo consenso (come avrebbe invece fatto Giustiniano). Costantino limitò il divorzio unilaterale per un assai ristretto gruppo di offese. Una donna poteva presentare una proposta di divorzio a suo marito se egli era un assassino, uno stregone o un saccheggiatore di tombe. Il marito poteva fare lo stesso se la moglie era un’adultera, una strega o una ruffiana. I motivi che stavano dietro una simile legge erano complessi. Questi includevano il fatto che nella realtà le coppie spesso trattavano la proprietà come un fondo coniugale, ciò che configgeva con la nozione romana di fondi distinti per il marito e la moglie; questa tendenza rese il divorzio unilaterale assai più complicato118. Né l’opposizione cristiana al divorzio può essere del tutto ignorata. Tuttavia, considerando che il matrimonio nel mondo antico era così profondamente legato al processo di competizione e di riproduzione sociali, in un’epoca di grande sommovimento nell’aristocrazia i limiti al divorzio possono aver agito come una rottura e un limite rispetto al rivolgimento interno delle classi più elevate. Si trattava, nel senso più pieno, di una misura conservativa.
Eusebio apre il quarto libro della sua Vita di Costantino onorando la liberalità dell’imperatore cristiano nel concedere onori e doni «ripetutamente e senza sosta»: «Ad alcuni erano concesse grandi somme di denaro, ad altri una ricchezza fondiaria. Ad alcuni era dato l’onore dei pretori, ad altri il rango senatorio e ad altri ancora quello di console. A molti fu concesso il titolo di governatore. Alcuni furono fatti comites del primo ordine, altri del secondo, altri del terzo. Allo stesso modo molti altri parteciparono dell’onore di perfectissimi e di molti altri onori. Questo perché l’imperatore ideò nuove distinzioni così che molti potessero essere onorati»119. Con queste parole di lode abbiamo chiuso il cerchio, dal momento che esse rispecchiano le critiche conservate nella tradizione pagana, in Ammiano e Zosimo. Qui, però, la liberalità di Costantino è rappresentata in termini elogiativi, in maniera diametralmente opposta alle invettive della tradizione ostile. La munificenza di Costantino appariva ai suoi beneficiari tanto quanto ai suoi nemici come del tutto dissoluta. Questi estremi attorno ai quali queste opinioni si polarizzano mostrano quale radicale mutamento di regime abbiano rappresentato le riforme sociali di Costantino – e quanto politica e patronato fossero inestricabilmente intrecciati.
Sarebbe certamente riduttivo limitare tutta la politica economica e sociale di Costantino ai miseri imperativi della costruzione di un regime. Tuttavia nessuno studio della sua opera legislativa dovrebbe ignorare i poteri politici sempre presenti sullo sfondo. Che si trattasse del riconoscimento del potere episcopale della manumissio in ecclesia, della creazione di nuove forme di introiti imperiali, del riconoscimento di ranghi e privilegi o della promulgazione di leggi sul matrimonio, le politiche di Costantino erano modellate dalla Realpolitik di un comandante militare che tentava di governare un vastissimo impero premoderno. Costantino tentò di farlo principalmente indirizzando la fedeltà imperiale verso la corte e i suoi ufficiali in modo più diretto di quanto fosse stato fatto prima di allora, e presentandosi come un leale difensore dei valori romani, anche se in privato affermava il suo credo in un Dio sconosciuto. Con pari decisione egli volle sacrificare le sottigliezze della legge classica, quando necessario, a un lucido pragmatismo. È la volatile combinazione di finalità conservatrici e mezzi rivoluzionari che caratterizza il principato di Costantino, inclusi quegli aspetti del suo governo che noi anacronisticamente chiamiamo politiche sociali ed economiche. E per molti aspetti (come le controversie dottrinali della Chiesa cristiana avrebbero rivelato con tanta evidenza) il perno del sistema fu la persona di Costantino stesso, e dopo la sua morte i suoi successori, per molte generazioni, avrebbero tentato di definire il significato della rivoluzione costantiniana non da ultimo per quel che concerne le sue politiche sociali ed economiche.
1 Amm., XXI 10,8: «tunc et memoriam Constantini ut novatoris turbatorisque priscarum legum et moris antiquitus recepti vexavit, eum aperte incusans, quod barbaros omnium primus ad usque fasces auxerat et trabeas consulares».
2 Zos., II 38,2-3: «Κωνσταντῖνος δὲ ταῦτα δια;πραξάμενος διετέλεσε δωρεαῖς οὐκ ἐν δέοντι γινομέναις, ἀλλὰ εἰς ἀναξίους καὶ ἀνωφελεῖς ἀνθρώπους, τοὺς φόρους ἐκδαπανῶν, καὶ τοῖς μὲν εἰσφέρουσι γινόμενος φορτικός, τοὺς δὲ μηδὲν ὠφελεῖν δυναμένους πλουτίζων· τὴν γὰρ ἀσωτίαν ἡγεῖτο φιλοτιμίαν. Οὗτος καὶ τὴν εἰσφορὰν ἐπήγαγε χρυσοῦ τε καὶ ἀργύρου πᾶσι τοῖς ἁπανταχοῦ γῆς μετιοῦσι τὰς ἐμπορίας καὶ τοῖς ἐν ταῖς πόλεσι πανωνίαν προτιθεῖσι, μέχρι καὶ τῶν εὐτελεστάτων, οὐδὲ τὰς δυστυχεῖς ἑταίρας ἔξω ταύτης ἐάσας τῆς εἰσφορᾶς […]. ̕Ήδη δὲ καὶ μητέρες ἀπέδοντο παῖδας, καὶ πατέρες ἐπὶ πορνείου θυγατέρας ἐστήσαντο, ἐκ τῆς τούτων ἐργασίας ἀργύριον τοῖς τοῦ χρυσαργύρου πράκτορσιν εἰσενεγκεῖν ἐπειγόμενοι· βουλόμενος δὲ καὶ τοῖς ἐν λαμπρᾷ τύχῃ περινοῆσαί τι λυπηρόν, ἕκαστον εἰς τὴν τοῦ πραίτωρος ἀξίαν ἐκάλει».
3 Si vedano tra gli altri J. Evans Grubbs, Law and Family in Late Antiquity. The Emperor Constantine’s Marriage Legislation, Oxford 1995; J. Beaucamp, Le statut de la femme à Byzance, 2 voll., Paris 1990-1992; A. Arjava, Women and Law in Late Antiquity, Oxford-New York 1996; F. Millar, A Greek Roman Empire. Power and Belief under Theodosius II (408-450), Berkeley 2006; J. Harries, Law and Empire in Late Antiquity, Cambridge 1999; D. Kehoe, Law and the Rural Economy in the Roman Empire, Ann Arbor 2007; questo nuovo lavoro è costruito sulla base di diverse eccellenti opere di dottrina, ad esempio M. Sargenti, Il diritto privato nella legislazione di Costantino: persone e famiglia, Milano 1938.
4 S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs: Imperial Pronouncements and Government, AD 284-324, ed. rev., Oxford 20002; D. Feissel, Les constitutions des tétrarques connues par l’épigraphie: inventaire et notes critiques, in Antiquité Tardive, 3 (1995), pp. 33-53.
5 Sulla legislazione sociale augustea si veda ad esempio T. McGinn, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, New York 1998; R. Astolfi, La Lex Iulia et Papia, Padova 1970.
6 Sugli antenati si veda Cod. Theod. IV 8,6 (anno 323).
7 Sull’anonimo si veda E.A. Thompson, A Roman Reformer and Inventor, Being a New Text of the Treatise De rebus bellicis, Oxford 1952; per un commento recente J. Banaji, Agrarian Change in Late Antiquity. Gold, Labour, and Aristocratic Dominance, ed. rev., Oxford 20072, pp. 46-49.
8 In generale si veda A.J.B. Sirks, The Theodosian Code. A Study, Friedrichsdorf 2007; J. Matthews, Laying Down the Law. A Study of the Theodosian Code, New Haven-London 2000; G.G. Archi, Teodosio II e la sua codificazione, Napoli 1976; per riflessioni sull’uso del Codex Theodosianus quale fonte storica si veda K. Harper, The Senatus Consultum Claudianum in the Codex Theodosianus: Social History and Legal Texts, in Classical Quarterly, 60 (2010), pp. 610-638.
9 Si vedano, in aggiunta alla nota precedente, T. Honoré, Law in the Crisis of Empire, 379–455 AD: The Theodosian Dynasty and Its Quaestors, Oxford 1998; M. Sargenti, Il Codice teodosiano: tra mito e realtà, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995), pp. 373-398; T. Honoré, The Making of the Theodosian Code, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsge;schichte, 103 (1986), pp. 133-222; E. Volterra, Intorno alla formazione del codice Teodosiano, in Bullettino del’Istituto di Diritto Romano, 83 (1980), pp. 109-145.
10 K. Harper, The Senatus Consultum, cit., pp. 613-617, per una breve panoramica.
11 T. Honoré, Law in the Crisis, cit., p. 127; J. Harries, Law and Empire, cit., p. 42; O. Robinson, Roman Criminal Law: Rhetoric and Reality. Some forms of Rhetoric in the Theodosian Code, in Audelà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz, éd. par M. Zabłocka, J. Adamczyk, II, Varsovie 2000, pp. 765-785; E. Voss, Recht und Rhetorik in den Kaisergesetzen der Spätantike: eine Untersuchung zum nachklassischen Kauf-und Übereignungsrecht, Frankfurt a.M. 1982.
12 J. Matthews, Laying down the Law, cit.
13 Si veda infra.
14 K. Harper, The Senatus Consultum, cit., pp. 614-615; J. Matthews, Laying Down the Law, cit., p. 67; J. Harries, Law and Empire, cit., p. 25.
15 Si veda il recente S. Connolly, Lives Behind the Laws: The World of the Codex Hermogenianus, Bloomington (IN) 2010.
16 Cod. Theod. II 25,1 (anno 325): «oportuit sic possessionum fieri divisiones, ut integra apud possessorem unumquemque servorum agnatio permaneret. Quis enim ferat liberos a parentibus, a fratribus sorores, a viris coniuges segregari?». Si veda K. Harper, Slavery in the Late Roman World, AD 275-425, Cambridge 2011, pp. 271-273.
17 Si veda ad esempio Ulp., reg. 5,5: «cum servis nullum est connubium».
18 G. Bassanelli Sommariva, L’uso delle rubriche da parte dei commissari teodosiani, in La critica del testo nello studio delle fonti giuridiche tardoantiche, XIV Convegno internazionale in memoria di Guglielmo Nocera (Perugia, Spello 30 settembre-2 ottobre 1999), Napoli 2003, pp. 197-239.
19 Cod. Theod. IX 9,1: «de mulieribus quae se servis propriis iunxerunt».
20 G. Bassanelli Sommariva, L’uso delle rubriche, cit.; K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit., pp. 438-440.
21 Mos. et Rom. legum collatio V 3,1; su questo testo si veda R. Frakes, Compiling the Collatio legum Mosaicarum et Romanarum in Late Antiquity, Oxford 2011, p. 168; sul significato della legge si veda D. Dalla, Ubi Venus Mutatur: omosessualità e diritto nel mondo romano, Milano 1987, pp. 71-99; K. Harper, From Shame to Sin: The Christian Transformation of Sexual Ethics in Late Antiquity, Cambridge (MA), in corso di stampa.
22 Cod. Theod. IX 7,6 (anno 390).
23 Cod. Theod. IX 9,1 (anno 329): «Si qua cum servo occulte rem habere detegitur, capitali sententiae subiugetur, tradendo ignibus verberone, sitque omnibus facultas crimen publicum arguendi, sit officio copia nuntiandi, sit etiam servo licentia deferendi, cui probato crimine libertas dabitur, quum falsae accusationi poena immineat».
24 K. Harper, The Senatus Consultum, cit.; A.J.B. Sirks, Der Zweck des Senatus Consultum Claudianum von 52 n. Chr., in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, 122 (2005), pp. 138-149.
25 Cod. Theod. IV 12,3 (anno 320).
26 Cfr. Cod. Theod IX 7,2 (anno 326); si veda J. Evans Grubbs, Law and Family, cit., pp. 208-209.
27 T. McGinn, The Social Policy of the Emperor Constantine in Codex Theodosianus 4.6.3, in Tijdschrift voor rechtsgeschiedenis, 67 (1999), pp. 57-73.
28 R. MacMullen, Judicial Savagery in the Roman Empire, in Chiron, 16 (1986), pp. 147-166; D. Grodzynski, Tortures mortelles et catégories sociales. Les Summa Supplicia dans le droit romain aux IIIe et IVe siècles, in Du châtiment dans la cité: supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Actes de la table ronde (Rome 9-11 novembre 1982), Roma 1984, pp. 397-403.
29 Cod. Iust. VI 1,3: «si fugitivi servi deprehendantur ad barbaricum transeuntes, aut pede amputato debilitentur aut metallo dentur aut qualibet alia poena adficiantur». Anche se, come è poco probabile, la costituzione venne promulgata da Licinio, si può comunque affermare che essa riflette lo stile tardoantico.
30 T. McGinn, Prostitution, Sexuality, cit.; K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit.
31 T. McGinn, Prostitution, Sexuality, cit., pp. 99-102.
32 Cod. Theod. IX 7,1 (anno 326): «quae adulterium commisit, utrum domina cauponae an ministra fuerit, requiri debebit, et ita obsequio famulata servili, ut plerumque ipsa intemperantiae vina praebuerit; ut, si domina tabernae fuerit, non sit a vinculis iuris excepta, si vero potantibus ministerium praebuit, pro vilitate eius, quae in reatum deducitur, accusatione exclusa, liberi, qui accusantur, abscedant, quum ab his feminis pudicitiae ratio requiratur, quae iuris nexibus detinentur, hae autem immunes a iudiciaria severitate praestentur, quas vilitas vitae dignas legum observatione non credidit». Sulla complessa relazione di questa legge con una norma simile ma un po’ diversa nelle Sententiae Pauli, si vedano K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit., p. 446; T. McGinn, Social Policy, cit., pp. 94-97; A.D. Manfredini, Costantino la ‘tabernaria’ il vino, in Matrimonio e filiazione nel diritto tardo-imperiale romano (da Costantino a Teodosio II). Influssi religiosi e fattori sociali, VII Convegno internazionale (Spello, Perugia, Norcia 16-19 ottobre 1985), Napoli 1988, pp. 325-341; G. Rizzelli, In margine a Paul. Sent. 2, 26, 11, in Bullettino dell’Istituto Romano, 30 (1988), pp. 733-743.
33 K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit., pp. 382-385.
34 Cod. Theod. IV 8,4 (anno 322). È opportuno notare che sono andate perdute anche le prime tre leggi in questo titolo, che doveva contenere altre tre leggi di Costantino sui casi di dispute riguardo allo stato sociale.
35 Cod. Theod. IV 8,5 (anno 322). N. Lenski, Constantine and Slavery: Libertas and the Fusion of Roman and Christian Values, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XVIII Convegno internazionale (Spello 18-20 giugno 2007), Roma 2012, pp. 235-260.
36 Cod. Theod. IV 8,6 (anno 323): «libertati a maioribus tantum inpensum est, ut patribus, quibus ius vitae in liberos necisque potestas permissa est, eripere libertatem non liceret».
37 N. Lenski, Constantine and Slavery, cit.
38 Dig. XL 12,37: «conventio privata neque servum quemquam neque libertum alicuius facere potest».
39 W.V. Harris, Child-Exposure in the Roman Empire, in Journal of Roman Studies, 84 (1994), pp. 1-22.
40 Frg. Vat. 33 (anno 315): «Ingenuos progenitos servitutis adfligi dispendiis minime oportere etiam nostri temporis tranquillitate sancitur, nec sub obtentu initae venditionis inlicite decet ingenuitatem infringi». Per l’idea che Frg. Vat. 34, che assume una diversa posizione, appartenga a Licinio, si veda K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit., pp. 399-402, anche se il problema è ambiguo.
41 Cod. Theod. V 10,1 (anno 329): «secundum statuta priorum principum, si quis infantem a sanguine quoquo modo legitime comparaverit vel nutriendum putaverit, obtinendi eius servitii habeat potestatem: ita ut, si quis post seriem annorum ad libertatem eum repetat vel servum defendat, eiusdem modi alium praestet aut pretium, quod potest valere, exsolvat. Qui enim pretium competens instrumento confecto dederit, ita debet firmiter possidere, ut et distrahendi pro suo debito causam liberam habeat».
42 K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit., pp. 404-409, per una discussione completa con riferimenti.
43 P. Garnsey, Roman Citizenship and Roman Law in the Late Empire, in Approaching Late Antiquity: The Transformation from Early to Late Empire, ed. by S. Swain, M. Edwards, Oxford 2004, pp. 133-155.
44 Cod. Theod. V 9,1 (anno 331): «omni repetitionis inquietudine penitus summovenda eorum, qui servos aut liberos scientes propria voluntate domo recens natos abiecerint».
45 E. Hermann-Otto, Konstantin, die Sklaven, und die Kirche, in Antike Lebenswelten: Konstanz – Wandel – Wirkungsmacht, Festschrift für Ingomar Weiler zum 70. Geburtstag, hrsg. von P. Mauritsch, R. Rollinger, W. Permandl, Wiesbaden 2008, pp. 354-366; M. Sargenti, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, in Id., Studi sul diritto del tardo impero, Padova 1986, pp. 1-109, in partic. 55-70; F. Fabbrini, La manumissio in ecclesia, Milano 1965.
46 W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery: The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, Cambridge 1908, pp. 437-597.
47 Inscriptions du sanctuaire de la mère des Dieux autochtone de Léukopetra (Macédoine), éd. par P.M. Petsas, M.B. Hatzopoulos, L. Gounaropoulou et al., Athènes 2000.
48 M. Sargenti, Il diritto privato, cit., pp. 58-61.
49 Soz., h.e. I 9,6: «ὑπὸ γὰρ ἀκριβείας νόμων καὶ ἀκόντων τῶν κεκτημένων πολλῆς δυσχερείας οὔσης περὶ τὴν κτῆσιν τῆς ἀμείνονος ἐλευθερίας, ἣν πολιτείαν ῬΡωμαίων καλοῦσι, τρεῖς ἔθετο νόμους ψηφισάμενος πάντας τοὺς ἐν ταῖς ἐκκλησίαις ἐλευθερουμένους ὑπὸ μάρτυσι τοῖς ἱερεῦσι πολιτείας ῬΡωμαϊκῆς ἀξιοῦσθαι».
50 K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit., pp. 475-476, per una recente discussione.
51 Cod. Iust. I 13,1 (anno 316): «iam dudum placuit, ut in ecclesia catholica libertatem domini suis famulis praestare possint, si sub adspectu plebis adsistentibus christianorum antistitibus id faciant, ut propter facti memoriam vice actorum interponatur qualiscumque scriptura, in qua ipsi vice testium signent».
52 Cod. Theod. IV 7,1 (anno 321): «Qui religiosa mente in ecclesiae gremio servulis suis meritam concesserint libertatem, eandem eodem iure donasse videantur, quo civitas Romana sollemnitatibus decursis dari consuevit; sed hoc dumtaxat his, qui sub aspectu antistitum dederint, placuit relaxari».
53 Cod. Theod. IV 7,1 (anno 321): «clericis autem amplius concedimus, ut, cum suis famulis tribuunt libertatem, non solum in conspectu ecclesiae ac religiosi populi plenum fructum libertatis concessisse dicantur, verum etiam, cum postremo iudicio libertates dederint seu quibuscumque verbis dari praeceperint, ita ut ex die publicatae voluntatis sine aliquo iuris teste vel interprete conpetat directa libertas».
54 M. Sargenti, Il diritto privato, cit., pp. 68-69.
55 Si vedano fra gli altri J. Glancy, Slavery in Early Christianity, Oxford 2002; J. Harrill, Slaves in the New Testament: Literary, Social, and Moral Dimensions, Minneapolis 2006.
56 Chrys., hom. in 1 Cor. 40,5 (PG 61, cc. 353-354).
57 Cod. Theod. I 27,1 (anno 318); Const. Sirm. 1 (anno 333); J. Harries, Law and Empire, cit., pp. 191-192.
58 Cod. Iust. VI 7,2.pr: «si manumissus ingratus circa patronum suum extiterit et quadam iactantia vel contumacia cervices adversus eum erexerit aut levis offensae contraxerit culpam, a patronis rursus sub imperia dicionemque mittatur, si in iudicio vel apud pedaneos iudices patroni querella exserta ingratum eum ostendat: filiis etiam qui postea nati fuerint servituris, quoniam illis delicta parentium non nocent, quos tunc ortos esse constiterit, dum libertate illi potirentur»; Cod. Theod. II 22,1: «si is, qui dignitate Romanae civitatis amissa Latinus fuerit effectus, in eodem statu munere lucis excesserit, omne peculium eius a patrono vel a patroni filiis sive nepotibus, qui nequaquam ius agnationis amiserint, vindicetur». Si veda M. Sargenti, Costantino e la condizione del liberto ingrato nelle costituzioni tardo imperiali, in I problemi della persona nella società e nel diritto del tardo impero, VIII Convegno internazionale (Spello, Perugia, Città di Castello 29 settembre-2 ottobre 1987), Napoli 1990, pp. 181-197.
59 W. Waldstein, Operae Libertorum. Untersuchungen zur Dienstpflicht freigelassener Sklaven, Stuttgart 1986.
60 Dig. XXXVII 14,1; Dig. XXXVII 15,5,1; Dig. XXXVII 15,7,2; Dig. XLIV 44,16; Dig. XLIII 16,1,43; Dig. XXXVII 15,5,10.
61 Tac., ann. XIII 26-27.
62 Inst. I 16,1; Novell. Iust. 78,2 (anno 539).
63 C. Elib. (306), can. 5.
64 A. Stuiber, Konstantinische und christliche Beurteilung der Sklaventötung, in Jahrbuch für Antike und Christentum, 21 (1978), pp. 65-73.
65 Cod. Theod. IX 12,1 (anno 319, sebbene la data sia incerta perché Costantino non era a Roma, dove la sottoscrizione lo colloca): «nec vero inmoderate suo iure utatur, sed tunc reus homicidii sit, si voluntate eum vel ictu fustis aut lapidis occiderit vel certe telo usus letale vulnus inflixerit aut suspendi laqueo praeceperit vel iussione taetra praecipitandum esse mandaverit aut veneni virus infuderit vel dilaniaverit poenis publicis corpus, ferarum vestigiis latera persecando vel exurendo admotis ignibus membra aut tabescentes artus atro sanguine permixta sanie defluentes prope in ipsis adegerit cruciatibus vitam linquere saevitia immanium barbarorum».
66 Cod. Theod. IX 12,2 (anno 329).
67 G. De Bonfils, Gli schiavi degli ebrei nella legi;slazione del IV secolo. Storia di un divieto, Bari 1993.
68 Edictum Diocletiani et collegarum de pretiis rerum venalium in integrum fere restitutum Latinis Graecisque fragmentis, rec. M. Giacchero, 2 voll., Genova 1974.
69 J.-M. Carrié, Les crises monétaires de l’Empire romain tardif, in La monnaie dévoilée par ses crises, I, Crises monétaires d’hier et d’aujourd’hui, éd. par B. Théret, Paris 2007, pp. 131-163; M. Haklai-Rotenberg, Aurelian’s Monetary Reform. Between Debasement and Public Trust, in Chiron, 41 (2011), pp. 1-39.
70 M. Haklai-Rotenberg, Aurelian’s Monetary Reform, cit.
71 D. Rathbone, Monetization, Not Price-Inflation, in Third-century A.D. Egypt?, in Coin Finds and Coin Use in the Roman World, Thirteenth Oxford Symposium on Coinage and Monetary History (Oxford 25-27 March 1993), ed. by E. King, D. Wigg, Berlin 1996, pp. 321-339.
72 E. Lo Cascio, Prezzo dell’oro e prezzi delle merci, in L’“inflazione” nel quarto secolo d.C., Atti del Convegno internazionale (Roma 23-25 giugno 1988), Roma 1993, pp. 155-188.
73 R. Abdy, Tetrarchy and the House of Constantine, in The Oxford Handbook of Greek and Roman Coinage, ed. by W. Metcalf, Oxford 2011, pp. 584-600.
74 E. Lo Cascio, Prezzo dell’oro, cit., pp. 158-169.
75 R. Abdy, Tetrarchy, cit.
76 E. Lo Cascio, Considerazioni su circolazione monetaria, prezzi e fiscalità nel IV secolo, in Finanza e attività bancaria tra pubblico e privato nella tarda antichità. Definizioni, normazione, prassi, XII Convegno internazionale in onore di Manlio Sargenti (Perugia, Spello 11-14 ottobre 1995), a cura di G. Grifò, Napoli 1998, pp. 121-136, in partic.135; Id., Aspetti della politica monetaria nel IV secolo, in Il tardo impero. Aspetti e significati nei suoi riflessi giuridici, X Convegno internazionale in onore di Arnaldo Biscardi (Spello, Perugia, Gubbio 7-10 ottobre 1991), Napoli 1995, pp. 481-502, in partic. 495-496.
77 Tuttavia è opportuno notare che gli sviluppi più significativi nella circolazione dell’oro sembrano essere emersi subito dopo Costantino. Si veda, ad esempio, R. Bland, The Changing Pattern of Hoards of Precious-Metal Coins in the Late Empire, in Antiquité Tardive, 5 (1997), pp. 29-55.
78 R. Bagnall, Currency and Inflation in Fourth Century Egypt, Chico (CA) 1985.
79 Si veda R. Bagnall, Currency and Inflation, cit., e L’“inflazione” nel quarto secolo, cit.
80 Anon. de reb. bell. 2,1-4 (trad. A. Giardina): «Constantini temporibus profusa largitio aurum pro aere, quod antea magni pretii habebatur, vilibus commerciis assignavit; sed huius avaritiae origo hinc creditur emanasse. Cum enim antiquitus aurum argentumque et lapidum pretiosorum magna vis in templis reposita ad publicum pervenisset, cunctorum dandi habendique cupiditates accedit […]. Ex hac auri copia privatae potentium repletae domus in perniciem pauperum clariores effectae, tenuioribus videlicet violentia oppressis».
81 BGU I 316 (anno 359); più in generale, J.-M. Carrié, Solidus et crédit: qu’estce que l’or a pu changer?, in Credito e moneta nel mondo romano, Atti degli incontri capresi di storia dell’economia antica (Capri 12-14 ottobre 2000), a cura di E. Lo Cascio, Bari 2003, pp. 265-279.
82 A.H.M. Jones, The Later Roman Empire, 284-602. A Social, Economic, and Administrative Survey, Norman 1964, pp. 431-432.
83 Ivi, p. 432; S.J.B. Barnish, A Note on the collatio glebalis, in Historia, 38 (1989), pp. 254-256.
84 Zos., II 38,3.
85 Cod. Theod. XI 27,1-2.
86 Cod. Theod. XI 16,3: «ne libidini et commodo potiorum multitudo mediocrium subiecta gravibus et iniquissimis adficiatur iniuriis».
87 Cod. Theod. I 16,4 (anno 328).
88 Cod. Theod. II 30,1 (anno 315): «ex quo tributorum inlatio retardatur».
89 Cod. Theod. II 26,1 (anno 320).
90 Cod. Iust. XI 50,1 (anno 325): «quisquis colonus plus a domino exigitur, quam ante consueverat et quam in anterioribus temporibus exactus est, adeat iudicem, cuius primum poterit habere praesentiam, et facinus comprobet, ut ille, qui convincitur amplius postulare, quam accipere consueverat, hoc facere in posterum prohibeatur, prius reddito quod superexactione perpetrata noscitur extorsisse».
91 D. Kehoe, Law and Rural Economy, cit., p. 34.
92 C. Kelly, Bureaucracy and Government, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lenski, Cambridge 2006, pp. 183-204.
93 A.H.M. Jones, Later Roman Empire, cit., p. 525.
94 Ivi, pp. 527-528; P. Heather, Senators and Senates, in The Cambridge Ancient History, ed. by Av. Cameron, P. Garnsey, XIII, Cambridge 1998, pp. 184-210.
95 Anon. Vales. VI 30; P. Heather, Senators and Senates, cit.; cfr. Eusebius, Life of Constantine, Introduction, Translation, and Commentary by Av. Cameron, S. Hall, Oxford 1999, p. 310.
96 P. Heather, Senators and Senates, cit.
97 Cod. Theod. VI 7,1; 9,1; 11,1; 14,1; 22,4 (tutti dell’anno 372); P. Heather, Senators and Senates, cit., pp. 188-189.
98 C. Lepelley, Fine dell’ordine equestre: Le tappe dell’unificazione della classe dirigente romana nel IV secolo, in Società romana e impero tardoantico, a cura di A. Giardina, I, Roma 1986, pp. 227-244, 664-667; A. Chastagnol, La fin de l’ordre équestre. Réflexions sur la prosopographie des derniers chevaliers romains, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Age, 100 (1988), pp. 199-206.
99 A.H.M. Jones, Later Roman Empire, cit., pp. 333-334; C. Kelly, Bureaucracy and Government, cit., pp. 196-197.
100 A.H.M. Jones, Later Roman Empire, cit., p. 104.
101 C. Kelly, Bureaucracy and Government, cit., p. 197.
102 J.G. Keenan, The Names Flavius and Aurelius as Status Designations in Later Roman Egypt, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 11 (1973), pp. 33-63; 13 (1974), pp. 283-304.
103 G. Bransbourg, Fiscalité impériale et finances municipales au IVe siècle, in Antiquité Tardive, 16 (2008), pp. 255-296.
104 P. Heather, Senators and Senates, pp. 191-197.
105 Per una discussione sulla data e la natura di queste riforme, K. Harper, Slavery in the Late Roman World, cit., pp. 442-455.
106 Cod. Theod. IX 7,2 (anno 326); J. Evans Grubbs, Law and Family, cit., pp. 205-216.
107 Cod. Theod. IX 7,1 (anno 326): si veda supra.
108 Cod. Iust. V 26,1 (anno 326).
109 Cod. Iust. V 27,5 (anno 477), con J. Evans Grubbs, Law and Family, cit., pp. 296-297; G. Luchetti, La legittimazione dei figli naturali nelle fonti tardo imperiali e giustinianee, Milano 1990, pp. 180-182.
110 J. Evans Grubbs, Law and Family, cit., p. 298.
111 T. McGinn, Social Policy, cit., p. 60; M. Sargenti, Il diritto privato, cit., pp. 40-45.
112 Cod. Theod. IV 6,3 (anno 336).
113 Cod. Theod. IV 6,3 (anno 336).
114 H.J. Wolff, The Background of the Post-Classical Legislation on Illegitimacy, in Seminar, 3 (1945), pp. 21-45.
115 Lib., Or. I 145.
116 Si veda K. Harper, Marriage and Family in Late Antiquity, in The Oxford Handbook of Late Antiquity, ed. by S. Johnson, Oxford 2012, pp. 667-714.
117 Cod. Theod. III 16,1 (anno 331).
118 R. Bagnall, Church, State, and Divorce in Late Roman Egypt, in Florilegium Columbianum: Essays in Honor of Paul Oskar Kristeller, ed. by K.-L. Selig, R. Somerville, New York 1987, pp. 41-61.
119 Eus., v.C. IV 1-2: «οἱ μὲν χρημάτων, οἱ δὲ κτημάτων περιουσίας ἐτύγχανον, ἄλλοι ὑπαρχικῶν ἀξιωμάτων, οἱ δὲ συγκλήτου τιμῆς, οἱδὲ τῆς τῶν ὑπάτων, πλείους δ’ ἡγεμόνες ἐχρημάτιζον, κομήτων δ’ οἱ μὲν πρώτου τάγματος ἠξιοῦντο, οἱ δὲ δευτέρου, οἱ δὲ τρίτου, διασημοτάτων θ’ ὡσαύτως καὶ ἑτέρων πλείστων ἄλλων ἀξιωμάτων μυρίοι ἄλλοι μετεῖχον· εἰς γὰρ τὸ πλείονας τιμᾶν διαφόρους ἐπενόει βασιλεὺς ἀξίας».