L’oro blu: la battaglia per l’acqua
Kofi Annan, ex segretario generale dell’ONU, ha previsto che l’accesso alle risorse idriche e il loro controllo potranno essere una tra le cause delle guerre del 21° secolo. La definizione di oro blu, in riferimento all’acqua, evidenzia come una risorsa basilare e prioritaria, bene comune dell’umanità, stia rappresentando un interesse economico tale da essere paragonato a un bene di consumo e di mercato (Barlow, Clarke 2002). Oggi, alla crisi idrica che coinvolge molte popolazioni che vivono nei Paesi a basso reddito si affianca una scarsità di risorse in quelli più sviluppati che – a causa di politiche ambientali discutibili e della crescita demografica – si stanno trasformando in aree a stress idrico o con scarsità idrica.
Disponibilità e consumi
Il 71% della superficie terrestre è coperto da acqua, di cui il 97% è salata, il rimanente 3% è acqua dolce proveniente da ghiacciai e nevi perenni (68,9%), falde sotterranee (29,9%) e acque superficiali (1,2%); solo l’1% è acqua accessibile per uso umano.
Secondo il Pacific institute (The world’s water 2008-2009, 2009), le risorse idriche di acqua dolce rinnovabili nel 2006 erano di 55.096,9 km3, distribuite nei vari continenti come segue: 5723,5 km3 in Africa, 7620,8 km3 nell’America Settentrionale e Centrale, 17.139,7 km3 in America Meridionale, 15.378,2 km3 in Asia, 7565,4 km3 in Europa e 1669,3 km3 in Oceania. Da questi dati generali si può notare che la distribuzione delle risorse idriche rinnovabili non è omogenea, in particolare se ci si riferisce alle aree più densamente popolate. Tredici Paesi (7%) su 177 detengono ben il 64,5% delle risorse idriche mondiali rinnovabili: Brasile (14,9%), Russia (8,2%), Canada (6%), Stati Uniti (5,6%), Indonesia (5,2%), Cina (5,1%), Colombia (3,9%), India (3,5%), Perù (3,5%), Congo (2,3%), Venezuela (2,2%), Bangla Desh (2,2%), Myanmar (1,9%).
I prelievi mondiali di acqua dolce, divisi per continenti e uso finale, sono riportati nella tabella. Il prelievo medio europeo si attesta su 600 m3/anno per abitante, con punte fino a 1334 m3/anno, come nel caso della Lombardia, dove incide pesantemente l’acqua utilizzata per far fronte alla produzione energetica (Regione Lombardia 2005).
Nella figura 1, elaborata in base ai dati del Pacific institute, si evidenzia che il 70% del prelievo mondiale di acqua dolce è destinato all’agricoltura, il 18% all’industria e il 12% all’uso domestico. Secondo la Regione Lombardia (2006), nell’utilizzo medio italiano il 18% è destinato all’uso domestico, il 19% a quello industriale, il 50% a quello agricolo e il 13% alla produzione energetica. I prelievi si riferiscono alla sorgente e non sono correlabili all’acqua effettivamente consumata. Il settore domestico riguarda gli usi familiari e municipali, inclusi quelli commerciali e statali; il settore industriale include l’uso dell’acqua per il raffreddamento degli impianti e per la produzione; l’uso agricolo comprende irrigazione e allevamento. Nel 21° sec. saranno Africa e Asia i maggiori utilizzatori di acqua per l’agricoltura, in quanto dovranno soddisfare la grande richiesta di cibo causata dalla crescita demografica.
Pur prelevando solo il 6,7% delle risorse idriche rinnovabili, la popolazione mondiale si trova di fronte a un allarme idrico. Il motivo principale è da imputarsi alla difficoltà di accedere alle risorse disponibili, difficoltà condizionata sia dalla loro distribuzione non uniforme sia da alcuni fattori fra loro concatenati: la crescita demografica; la povertà e gli alti investimenti necessari ad accedere a risorse idriche sicure; l’ambiente (clima e inquinamento); i conflitti per il controllo dell’accesso alle risorse; le scelte politiche e tecnologiche. Infine, non si devono dimenticare gli interessi privati che si sono indirizzati sulle risorse accessibili.
Attualmente 1,2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua potabile, mentre 2 miliardi di persone soffrono di carenze sanitarie a causa della scarsità e della cattiva qualità dell’acqua. Secondo stime, più di 13.000 persone muoiono ogni giorno per l’insorgere di malattie legate alla mancanza d’acqua oppure all’utilizzo di acque inquinate.
Nel novembre 2002 il Committee on economic, social and cultural rights (CESCR) delle Nazioni Unite ha dichiarato che l’accesso ad adeguate quantità di acqua potabile per uso personale e domestico è un diritto fondamentale per tutta la popolazione mondiale. Si considera adeguata una quantità di acqua in grado di prevenire la disidratazione, ridurre il rischio di malattie e provvedere al consumo quotidiano, destinato sia a scopi alimentari, sia all’igiene personale e domestica. L’accesso all’acqua è un diritto umano indispensabile per condurre una vita dignitosa ed è un prerequisito per la realizzazione di altri diritti, inclusi quelli per la salute, la casa e il cibo (CESCR, Substantive issues arising in the implementation of the International covenant on economic, social and cultural rights. General comment n. 15, 2002). Tali contenuti sono stati ribaditi all’Earth summit sullo sviluppo sostenibile, tenutosi a Johannesburg nel 2002, e al Fifth world water forum, tenutosi a Istanbul nel 2009. Nel programma delle Nazioni Unite, Agenda 21, dedicato allo sviluppo sostenibile nel 21° sec., i governi concordano che, nell’estrazione e nell’uso delle risorse idriche, la priorità deve essere diretta a rispondere ai bisogni primari e alla salvaguardia dell’ecosistema.
Crescita demografica e domanda idrica
La popolazione mondiale nel 2005 era stimata pari a 6450,6 milioni di persone e si ritiene che nel 2015 sarà di circa 7219 milioni. Il 2015 è l’anno di riferimento dei Millennium development goals, otto obiettivi adottati da tutti gli Stati membri dell’ONU al Millennium summit del settembre 2000, tra i quali la necessità di dimezzare il numero di persone nel mondo prive di accesso all’acqua potabile. La crescita demografica svolge un ruolo importante sull’incidenza dello stress idrico di un Paese, basato sulle risorse idriche rinnovabili disponibili per ogni persona in un anno (m3). La situazione è considerata accettabile se la disponibilità annua per abitante è maggiore di 1700 m3, mentre non lo è se la disponibilità è compresa tra 1000 e 1700 m3. Le risorse sono definite scarse se comprese tra 500 e 1000 m3, e assolutamente scarse se inferiori a 500 m3. Allo stato attuale 700 milioni di persone in 43 Paesi vivono sotto la soglia di scarsità idrica (UNDP 2006). Nel rapporto dell’UNESCO del 2003, Water for people, water for life, si trovano, tra i Paesi (o territori) più poveri d’acqua: Kuwait (10 m3/anno per abitante), Striscia di Gaza (52 m3), Emirati Arabi Uniti (58 m3), Bahama (66 m3), Qaṭar (94 m3), Maldive (103 m3), Libia (113 m3), Arabia Saudita (118 m3), Malta (129 m3) e Singapore (149 m3). I più ricchi d’acqua, invece, sono: Guiana francese (812.121 m3/anno per abitante), Islanda (609.319 m3), Guiana (316.689 m3), Suriname (292.566 m3), Congo (275.679 m3), Papua Nuova Guinea (166.563 m3), Gabon (133.333 m3), Isole Salomone (100.000 m3), Canada (94.353 m3) e Nuova Zelanda (86.554 m3). L’Italia si classifica al 107° posto, con 3325 m3/anno per abitante.
Riguardo ai consumi domestici, per poter parlare di condizioni accettabili di vita occorrono non meno di 40 l d’acqua al giorno per ogni essere umano (secondo il parametro della World health organization, WHO, ossia l’Organizzazione mondiale della sanità). Nel mondo si passa da una disponibilità media di 425 l al giorno di un abitante degli Stati Uniti ai 10 l al giorno di un abitante del Madagascar, dai 237 dell’Italia ai 150 della Francia. In Italia a fronte di 10 l pro capite per bere, cucinare, lavare mani e denti, si consumano quotidianamente fra 10 e 16 l di acqua per lo scarico dei servizi igienici, fra 120 e 160 l per un bagno in vasca, 30 l per una doccia di tre minuti, fra 80 e 120 l per un carico di lavatrice, 20 l per lavare i piatti a mano.
Sotto la spinta della crescita demografica e per effetto dei cambiamenti climatici, le risorse idriche disponibili pro capite negli ultimi cinquantaquattro anni si sono dimezzate, da 16.800 m3 a 8470 m3, e si prevede che nel 2025 si arriverà a 4800 m3.
Per il consumo domestico, le aree più a rischio saranno quelle urbane, in quanto la forte crescita demografica sarà difficilmente bilanciata dall’estensione dei servizi di distribuzione di acqua potabile. Dal 1990 al 2004 la popolazione urbana in Cina è aumentata di circa il 12%, mentre la percentuale di cittadini serviti da acqua potabile è passata dal 99% al 92%. La stessa situazione si è verificata nelle Filippine con un aumento del 13% della popolazione urbana rispetto a una perdita del 7% del servizio di distribuzione idrica. Data la tendenza all’urbanizzazione, che si pensa porterà il 60% della popolazione mondiale a vivere nelle città nel 2015, le reti di distribuzione delle grandi città, dimensionate per un numero di abitanti più contenuto, dovranno essere potenziate con alti costi di investimento e i prelievi acuiranno il pericolo di un eccessivo sfruttamento delle risorse idriche.
Il settore più a rischio rimane l’agricoltura, soprattutto nei Paesi a basso reddito, che dipendono in massima parte dalla produzione agricola per il proprio sostentamento. L’International food policy research institute (IFPRI) prevede che, agli attuali tassi di crescita demografica e di consumo idrico, entro il 2025 il fabbisogno di acqua aumenterà di oltre il 50% e gli agricoltori saranno i più colpiti, in particolare nei Paesi a basso reddito, dove i raccolti dipendono molto più direttamente da sistemi di irrigazione ad alto consumo d’acqua rispetto all’America Settentrionale o all’Europa. La rapida crescita demografica sta condizionando la disponibilità di risorse idriche soprattutto nei Paesi sotto la soglia di criticità (<1000 m3/abitante). Si stima che nel 2025 saranno circa 3 miliardi le persone a rischio, principalmente nelle aree subsahariane (dove dall’attuale 30% di popolazione senza accesso all’acqua si passerà all’80%), nel Medio Oriente e nell’Africa settentrionale (con una riduzione del 25% di persone che avranno acceso all’acqua), in Cina e India (in particolare nelle aree urbane). È evidente la correlazione tra domanda di acqua e produzione di cibo, e quindi crescita demografica, in quanto, mediamente, la produzione di cibo per una famiglia richiede 70 volte la quantità di acqua utilizzata per uso domestico. Si è stimato che per produrre 1 kg di riso occorrano fra 2000 e 5000l, per un hamburger 11.000 l e per 1 kg di pane 1000 l.
Sulla base dei dati pubblicati dalla FAO (Food and Agriculture Organization) nel 2006 e rielaborati, nella figura 2 è possibile osservare l’aumento della popolazione che vivrà nelle aree a stress idrico o con scarsità di acqua (UNDP 2006).
Povertà e mancanza di accesso all’acqua
Vi è uno stretto legame tra povertà e accesso alle risorse idriche, in quanto il loro sfruttamento e la loro distribuzione richiedono un ingente investimento; e contemporaneamente la mancanza di acqua limita lo sviluppo economico. Si ipotizza che attualmente l’investimento medio per dare l’accesso ad acqua potabile sia di 100 euro a persona, variando secondo l’economia di scala. In ambienti urbani dove gli utenti finali sono concentrati, i costi si abbassano rispetto a zone rurali dove le distanze tra utenti sono molto grandi. Nella distribuzione dell’acqua bisogna anche tener conto dei costi per il suo trattamento e smaltimento, in particolare laddove i consumi superano i 50l per persona al giorno. Infatti, l’acqua distribuita necessita di essere poi smaltita e trattata per non rappresentare un possibile vettore di malattia.
Le popolazioni con minore percentuale di accesso all’acqua sono principalmente quelle dei Paesi a basso reddito, inferiore a 855 dollari a parità di potere di acquisto nel 2004. Nella maggioranza di questi, gli investimenti più consistenti nella distribuzione di acqua potabile dipendono dagli aiuti internazionali o da fondi governativi che spesso concentrano i finanziamenti nelle capitali, a discapito dei centri urbani più periferici e delle zone rurali.
Le zone di maggiore criticità, per percentuale di accesso all’acqua e di popolazione, rimangono quelle dell’Africa subsahariana e dell’Asia orientale e meridionale. Tra i Paesi più popolati con minor accesso alle risorse idriche (dati 2004) si segnalano l’Etiopia (22% dei 77,4 milioni di persone), il Mozambico (43% dei 19,8 milioni di persone), il Niger (46% dei 14 milioni di persone), la Nigeria (48% dei 131,5 milioni di persone). In Congo, che è uno dei 13 Paesi più ricchi di risorse idriche rinnovabili, solo il 46% dei 57 milioni di abitanti ha accesso all’acqua.
Acqua e ambiente
Bacini e falde sono contenitori che devono essere sfruttati rispettando il bilancio idrico tra alimentazione e prelievo. L’inquinamento delle risorse idriche superficiali e sotterranee diminuisce la disponibilità di acqua potabile e ne aumenta i costi di gestione, poiché l’utente si fa carico dell’intervento curativo, per quanto precedentemente non preventivato come misura di salvaguardia ambientale.
Un eccessivo prelievo delle risorse idriche è comune nelle aree che dipendono fortemente dall’agricoltura, come avviene nel bacino dell’Indo-Gange, nelle piane settentrionali della Cina e negli altopiani dell’America Meridionale. Si stima che un quarto delle acque del Fiume Giallo nel Nord della Cina sia necessario per mantenere l’equilibrio ambientale, mentre l’attuale prelievo umano lascia solo il 10% delle risorse al fiume, riducendo pericolosamente la sua capacità di far fronte a periodi di minore alimentazione, come avvenne durante la siccità del 1997 quando rimase asciutto per 600 km, causando una perdita di produzione agricola stimata intorno a 1,7 miliardi di dollari (UNDP 2006). In Australia il bacino del Murray-Darling fornisce acqua all’agricoltura per circa l’80% della sua capacità. Di fronte a una richiesta dell’ecosistema di circa il 30% delle sue risorse idriche, l’eccessivo sfruttamento del fiume ha innalzato la salinità delle acque, diminuito l’apporto nutritivo ai terreni e ridotto le terre alluvionate. Negli ultimi anni, in superficie, le acque del Murray-Darling non raggiungono più il mare (Pearce 2006). Gli agricoltori vicino a Ṣan῾ā᾿, nello Yemen, hanno approfondito i pozzi di 50 m in 12 anni per far fronte all’abbassamento delle falde acquifere, riducendo la loro produttività di due terzi (Shetty 2006).
La difficoltà di utilizzare acque superficiali spinge allo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, con costi decisamente maggiori e con alto rischio di squilibrio ecologico. In Messico l’80% dei consumi di acqua è destinato all’agricoltura e oggi, a causa della continua richiesta, il 40% delle risorse proviene da pozzi profondi. Tuttavia 100 dei 653 acquiferi sono sovrasfruttati, a rischio quindi di prosciugarsi nel corso degli anni con gravissimo danno economico per i contadini (UNDP 2006).
L’eccessivo prelievo produce anche parte dell’inquinamento che ha ridotto in questi anni la disponibilità di acqua dolce. Nella Striscia di Gaza, area che fa già parte di una delle regioni di maggiore criticità per le risorse idriche rinnovabili, il continuo sovrasfruttamento della falda ha causato l’ingresso delle acque salate marine nell’acquifero dolce sovrastante, rendendo salmastra la maggioranza delle acque. La difficile situazione politica dell’area non ha permesso scelte più rispettose dell’ambiente e la necessità di acqua, in particolare per la produzione agricola, ha superato di gran lunga la capacità di ricarica della falda, comportando così un inquinamento di cloruri e nitrati, abbondantemente sopra i limiti di potabilità fissati dalla WHO. Lo stato delle cose continua a peggiorare in quanto alla domanda crescente si somma il mancato trattamento delle acque utilizzate che vengono rimesse in falda, aumentandone così l’inquinamento sia chimico sia batteriologico.
Ogni anno 450 km3 di acqua di scarico (pari al 12,1% dei prelievi) vengono riversati nelle falde, nei fiumi e nei mari, aumentando il carico inquinante. Circa il 90% dei liquami e il 70% dei rifiuti industriali vengono smaltiti senza subire alcun trattamento: ne pagano le conseguenze soprattutto le acque superficiali, incanalate nei principali corsi fluviali, e le falde superficiali, con la conseguente necessità di approfondire i pozzi per trovare acque non inquinate, facendo crescere i costi di estrazione e minacciando sensibilmente l’equilibrio ecologico delle falde profonde, la cui ricarica è più fragile rispetto a quelle superficiali.
Il massiccio utilizzo di prodotti chimici in agricoltura e lo scarico di minerali pesanti da parte dell’industria aumentano sempre più la necessità di impianti di trattamento, incidendo sul costo dell’acqua, che rappresenta uno degli ostacoli al suo accesso per le popolazioni più povere.
Il disboscamento e i fenomeni sempre più accelerati di desertificazione comportano una minore attività di ritenzione delle acque e di alimentazione degli acquiferi, in quanto l’evapotraspirazione e il forte dilavamento superficiale non permettono all’acqua di penetrare nei terreni e di ricaricare le falde. L’acqua, rimanendo in superficie, tende anche a scaricarsi prepotentemente a valle, aumentando l’erosione e provocando più frequenti piene e inondazioni. Il regime idrico viene pertanto sconvolto, l’accesso alle risorse si rende più difficile, comportando investimenti per riparare danni ecologici talora irreversibili ed esponendo le popolazioni più povere sempre più al rischio idrico. In particolare, il continuo allargamento della frontiera agricola nelle regioni boschive andine comporta un accrescimento della velocità delle acque verso valle, con la conseguente perdita di materiale nutriente per le coltivazioni, aumento dei regimi torrentizi e diminuzione delle inondazioni naturali delle aree pedemontane e vallive.
Cambiamento climatico
Si stima che, nel 21° sec., il 20% della scarsità di acqua sarà dovuto ai cambiamenti climatici, che produrranno grandi variazioni nell’evaporazione e nelle precipitazioni, insieme a mutamenti non prevedibili del ciclo idrogeologico. L’innalzamento delle temperature comporterà una maggiore evaporazione negli oceani, intensificando il ciclo dell’acqua e la formazione di nuvole ma, nello stesso tempo, il sovrariscaldamento delle terre farà sì che una minore quantità di acqua piovana possa raggiungere i fiumi in quanto vaporizzerà più velocemente. Le zone umide saranno probabilmente interessate da maggiori precipitazioni, più intense e concentrate nel tempo, causando quindi fenomeni alluvionali, mentre nelle zone più aride, nonché in alcune zone tropicali e subtropicali, vi sarà presumibilmente una diminuzione e una maggiore irregolarità delle piogge.
I cambiamenti climatici potranno incidere negativamente sulle risorse idriche rinnovabili in alcune aree del mondo particolarmente legate alla produzione agricola, come Angola, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Senegal, Mauritania, Medio Oriente, parte del Brasile, del Venezuela e della Colombia. L’influenza del cambiamento climatico è una combinazione di fattori che condizionano la quantità di precipitazione, l’evapotraspirazione e la durata delle precipitazioni. Nell’area subsahariana, inclusi il Sahel e l’Africa orientale, si potranno avere maggiori precipitazioni distribuite su tempi più brevi e, contemporaneamente, la forte evapotraspirazione, dovuta all’innalzamento del clima, potrà causare periodi di siccità. In Asia meridionale si potrà avere un aumento della piovosità con frequenti rischi di alluvione, in quanto i monsoni potranno diventare più intensi per l’innalzamento della temperatura che aumenta la quantità di acqua estratta dall’oceano per evapotraspirazione. Si continuerà ad assistere, in linea generale, a una maggiore imprevedibilità di fenomeni alluvionali e di siccità. L’evoluzione e la frequenza degli eventi alluvionali sono strettamente legate sia alla capacità di scarico dei corsi d’acqua sia alle variazioni delle forme di precipitazione e, pertanto, a cambiamenti climatici a lungo termine, determinando quindi un elemento di criticità per il 21° sec., in quanto il regime dei principali fiumi sarà in parte condizionato dagli eventi meteorologici dipendenti dai cambiamenti climatici.
I ghiacciai si stanno sciogliendo: negli ultimi 35 anni lo spessore è calato del 35%. In gran parte del mondo i ghiacciai agiscono come riserve di acqua, immagazzinando ghiaccio e neve in inverno e rilasciando acqua lentamente con l’aumento della temperatura, che viene in seguito distribuita ai produttori agricoli nelle pianure. Le riserve d’acqua dei ghiacciai sono diminuite e i cambiamenti climatici determinano rilasci in tempi più brevi, causando eventi alluvionali in primavera e mancanza d’acqua in estate. I ghiacciai del Tibet e dell’Himalaya forniscono acqua potabile a più di 2 miliardi di persone. Piccoli e medi ghiacciai sono in via di esaurimento nelle zone andine, che rappresentano il serbatoio naturale d’acqua per molti Paesi dell’America Meridionale durante la stagione estiva (UNDP 2006).
Secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il livello del mare potrebbe innalzarsi tra 9 e 88 cm entro i prossimi 100 anni, con conseguenze significative sulla sicurezza all’accesso di risorse di acqua potabile. Oltre all’aumento della salinità degli acquiferi costieri, si assisterebbe a fenomeni di accelerazione dell’erosione delle coste e le inondazioni minaccerebbero milioni di persone. Le aree più a rischio sono quelle dei grandi delta, in particolare in Bangla Desh, Egitto, Nigeria e Thailandia, dove vivono attualmente circa 110 milioni di persone. La World bank (ossia la Banca mondiale) stima che in Bangla Desh, alla fine del 21° sec., si perderà circa il 16% delle terre a causa dell’avanzamento delle acque marine, coinvolgendo un’area che supporta il 13% della popolazione e produce, attraverso l’agricoltura, il 12% del prodotto nazionale lordo (PNL). L’unico intervento possibile da parte della comunità internazionale per mitigare questo fenomeno è minimizzare il cambiamento climatico, indebolendo il legame tra sviluppo economico ed emissione di anidride carbonica. Il passo principale fatto negli ultimi anni nella direzione della mitigazione dei cambiamenti climatici è rappresentato dal Protocollo di Kyoto, sottoscritto da più di 160 Paesi l’11 dicembre 1997 ed entrato in vigore il 16 febbraio 2005 con la firma di 130 Paesi: nell’ottobre 2009 le nazioni firmatarie erano 184. Il trattato prevede l’obbligo per i Paesi industrializzati di operare una riduzione delle emissioni di elementi inquinanti (biossido di carbonio e altri cinque gas serra) nel periodo 2008-2012, in una misura non inferiore al 5,2% rispetto alle emissioni registrate nel 1990, considerato come anno base.
Accesso e controllo delle risorse idriche
È convincimento diffuso che l’acqua rappresenterà una delle maggiori cause dei conflitti nel 21° sec., dal momento che la sua accessibilità sarà sempre più difficile e il controllo delle risorse rinnovabili rappresenterà uno strumento politico estremamente importante nell’equilibrio mondiale.
Le tensioni relative all’accesso e controllo delle risorse idriche hanno diverse scale geografiche. A livello locale, esistono scontri tra gruppi di persone per l’accesso a un punto di distribuzione, tra allevatori e agricoltori per il controllo delle zone di pascolo e di coltivazione, o tra popolazione e Stato per la costruzione di una diga. A livello nazionale, differenti gruppi di interessi (agricoltura, industria, turismo, ambiente) si scontrano sulle politiche relative alla gestione delle acque, come, per es., alla locazione di risorse per il settore produttivo o per un centro urbano a discapito della campagna. A livello internazionale, è materia di conflitto tra Stati confinanti il controllo della distribuzione delle acque di fiumi condivisi. Oltre al controllo delle quantità di risorse, è in gioco anche l’impatto sulla qualità, in quanto l’uso a monte del corso d’acqua può condizionarne la qualità a valle, in termini di contaminazione industriale e sottrazione da parte di dighe e sbarramenti delle componenti limose utili alla fertilità dei suoli. La captazione di acque per la produzione di energia elettrica può influire sui tempi di rilascio del fiume, danneggiando la produzione dei sistemi irrigui a valle.
Il 40% della popolazione mondiale dipende da risorse fluviali transfrontaliere, e Paesi con irrigazione intensiva, quali Egitto, ῾Irāq, Siria, Turkmenistan, Uzbekistan, dipendono per i 2/3 da acque provenienti da altri Paesi. Attualmente esistono 263 bacini idrici condivisi tra Stati e sono ancora latenti 37 casi di conflitti per il controllo dell’acqua, di cui 7 in Medio Oriente. Nel 21° sec. la gestione di bacini transfrontalieri acquisterà sempre più importanza a causa della grande domanda di acqua per l’agricoltura accompagnata dalla progressiva diminuzione delle risorse idriche superficiali. Sarà l’attenta applicazione di trattati internazionali e accordi locali a garantire l’accesso all’acqua per più di 3 miliardi di persone interessate a bacini idrici transfrontalieri.
I governi esercitano diversi tipi di controllo sulle risorse idriche, a seconda politiche perseguite, protezionistiche oppure espansionistiche. Questi controlli possono rappresentare le radici delle tensioni tra i vari Paesi, laddove si difendano scelte di sviluppo economico o sociale, o anche interessi derivati da espansioni produttive private; possono suscitare iniziative militari, divenendo motivo per invasioni territoriali, strumento di controllo politico su una regione, di consolidamento o accentuazione dell’asimmetria politica tra Paesi che condividono importanti bacini idrografici.
Verranno brevemente presi in esame alcuni bacini idrografici che forniscono acqua a più Paesi, tra quelli maggiormente abitati del mondo, con una descrizione dei principali motivi di tensione che rappresentano potenziali argomenti di conflitto.
Asia e Medio Oriente
Bacino idrografico del Gange, Brahmaputra, Megna (Paesi interessati: Bangla Desh, Bhutan, Cina, India, Myanmar, Nepal). L’India controlla, attraverso un sistema di dighe costruite dal 1960 al 1970, gran parte delle acque che defluiscono in Bangla Desh il quale, pur avendo il 30% del territorio interessato dalle acque del bacino, ne utilizza solo il 6% per la propria produzione agricola. Questa situazione ha portato a venti anni di ostilità tra i due Paesi a causa della diminuzione delle risorse irrigue in Bangla Desh durante la stagione secca, con conseguente aumento del flusso migratorio verso l’India (UNDP 2006).
Bacino idrografico del Mekong (Paesi interessati: Cambogia, Cina, Laos, Thailandia, Myanmar, Vietnam). Un quinto delle acque di questo fiume viene utilizzato in Cina anche se solo il 2% del Paese è coperto dalle sue acque. Il 47% della popolazione del Laos e il 90% di quella della Cambogia vive a valle del bacino. La costruzione della diga di Yunnan, nella Cina meridionale, ha causato una riduzione delle attività di pesca in Cambogia e ha rappresentato una minaccia alla produzione di riso per 17 milioni di vietnamiti che vivono sul delta. Anche la nascente industria turistica del Laos è colpita dal calo delle acque del Mekong, in quanto le imbarcazioni turistiche devono spesso aspettare che il fiume ridiventi navigabile.
Bacino idrografico del Lago Aral (Paesi interessati: Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Turkmeni;stan, Uzbekistan, Afghānistān, Cina). Oltre che per cau;se climatiche, le acque del Lago Aral si sono ridotte di 1/4 dal 1960 a causa della deviazione per usi industriali (cotone) dei suoi immissari, il Sīr Daryā e l’Āmu Daryā. Nel 1990 il lago riceveva già 1/10 delle acque originali. La scarsa collaborazione degli Stati dell’Asia centrale e la caduta del prezzo del cotone hanno causato una grave crisi economica. Il sovrasfruttamento continua e, a causa dell’inquinamento dovuto a fertilizzanti e prodotti chimici, 4/5 delle specie ittiche sono scomparse. Vi sono però segnali positivi, come il progetto della diga del Kok-Aral in Kazakistan per ristabilire il livello delle acque nella parte settentrionale del lago (UNDP 2006).
Bacino idrografico del Tigri e dell’Eufrate (Paesi interessati: Irān, ῾Irāq, Giordania, Arabia Saudita, Siria e Turchia). La diga di Atatürk nell’Anatolia sud-orientale, la più grande in Turchia e la sesta nel mondo, insieme ad altre 21 dighe del Turkey’s southeast Anatolia project, rischia di ridurre di 1/3 il flusso delle acque in Siria che sta sviluppando progetti sull’Eufrate per la protezione dalle catastrofiche inondazioni, la produzione di elettricità, l’irrigazione, la disponibilità di acqua potabile e per uso industriale. Le dinamiche in atto potrebbero danneggiare gli interessi iracheni, salvaguardati dall’accordo del 1987 con la Turchia, in cui quest’ultima si impegna a garantire un afflusso medio di 500 m3/sec alla Siria che, a sua volta, deve trasferirne il 58% all’Irāq.
Bacino idrico del Giordano, al-Līṭānī e Yarmūk (Paesi interessati: Egitto, Israele, Giordania, Territori occupati, Siria e Libano). La guerra dei Sei giorni (giugno 1967) prese spunto dal tentativo di deviazione delle acque del Giordano da parte degli Stati arabi in risposta alla costruzione israeliana della ‘via d’acqua nazionale’. La successiva deviazione del Giordano, a nord del Lago Tiberiade, per convogliare le acque in Israele, ha lasciato solo il 10% delle sue acque a valle del lago, influendo sulle terre agricole e sulla ricarica del Mar Morto che fra 40 anni potrebbe prosciugarsi, in quanto l’alta evapotraspirazione non sarà più compensata dall’apporto di acque del Giordano. Dal 1967, la quota di terreni che gli agricoltori palestinesi sono in grado di irrigare è scesa dal 27% a circa il 5%. La distribuzione delle risorse idriche, superficiali e sotterranee, che interessano bacini comuni tra i Paesi è fortemente sbilanciata. Solo il 10-15% delle risorse è destinato alla popolazione palestinese, pari a metà di quella israeliana. I coloni israeliani che vivono in Cisgiordania consumano circa 620 l al giorno pro capite contro i 70 dei palestinesi.
Africa
Bacino idrografico del Nilo (Paesi interessati: Burundi, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Ruanda, Sudan, Tanzania e Uganda). In tale bacino, che mette in contatto il 97% della popolazione egiziana e gli abitanti di Etiopia e Uganda, vivono 150 milioni di persone. Nel 1929 gli accordi tra Egitto e Regno Unito stabilirono che ogni Paese che avesse voluto utilizzare le acque del Nilo avrebbe dovuto preventivamente chiedere l’autorizzazione all’Egitto; nel 1959 un ulteriore accordo fu firmato tra Egitto e Sudan. Il 14 maggio 2010 Etiopia, Kenya, Uganda, Ruanda e Tanzania hanno siglato un’intesa ‘separata’ per la spartizione delle acque del fiume, senza il consenso di Egitto e Sudan, che da parte loro rivendicano diritti storici sulle acque del Nilo. La posizione dell’Egitto, inizialmente di rifiuto netto dell’intesa, da alcune fonti è sembrata in un secondo momento più possibilista nei confronti di una nuova negoziazione dell’accordo. Nel 2050 si prevede che la popolazione nell’area raggiungerà i 340 milioni, comportando un aumento della domanda di approvvigionamento dal bacino del Nilo, in particolare da parte dell’Etiopia, dal cui territorio proviene l’85% delle risorse del Nilo e che è al contempo uno dei Paesi più poveri al mondo e con minor accesso all’acqua (UNDP 2006).
Bacino idrografico del Lago Ciad (Paesi interessati: Ciad, Camerun, Niger, Nigeria, Sudan, Algeria, Repubblica Centrafricana, Libia). Il lago ha oggi 1/10 della superficie di 40 anni fa. Oltre a un calo della piovosità e lunghi periodi di siccità, la causa è da ricercarsi anche nel fattore umano. Tra il 1983 e il 1994 la domanda di acqua per irrigazione quadruplicò senza un’appropriata gestione. La diga di Hadejia in Nigeria ha danneggiato le attività ittiche a valle, come altri sbarramenti in Niger, Nigeria e Camerun hanno diminuito l’afflusso delle acque nel lago.
Bacino idrografico dell’Okavango (Paesi interessati: Namibia, Angola, Botswana e Zimbabwe). Il vasto delta del fiume, nel Botswana settentrionale, attraversa una delle zone più ricche di flora e fauna del mondo, il Kalahari. Nel 1996 la Namibia deviò le sue acque per approvvigionare la capitale Windhoek. Angola e Botswana obiettarono a questa decisione unilaterale, dal momento che avrebbe danneggiato l’ecosistema del fiume e, insieme alla Repubblica Sudafricana, si formò una commissione per risolvere la disputa, che è tuttora aperta.
Anche nelle regioni a più alto reddito, la gestione dei bacini transfrontalieri rappresenta motivo di continui dibattiti e accordi. Nell’America Settentrionale, Colorado, Arizona e Nevada per anni sono stati contrapposti alla California per i suoi eccessivi prelievi dal Lago Owen e dal fiume Colorado, coinvolgendo anche il Messico (che ora non riceve più acqua dalle precedenti risorse) e alimentando continui motivi di tensione tra i due Paesi. In Europa si ricorda la forte industrializzazione che ha pesantemente sfruttato le acque del bacino idrografico del Dnepr (Ucraina, Bielorussia, Russia), riducendo a 1/5 le acque che oggi raggiungono il mare. Nell’Unione Europea, la protezione degli ecosistemi acquatici viene regolata attraverso la gestione dell’acqua a scala di bacino, sulla base della direttiva comunitaria n. 60 del 23 ottobre 2000, nota anche come Water framework directive. La dimensione sovrannazionale dei grandi bacini fluviali europei impone agli Stati membri di avere una strategia comune sull’approccio combinato per il controllo dell’inquinamento.
Nuova fonte di guadagno?
Negli ultimi anni una nuova causa di tensione per il controllo dell’acqua è rappresentata dal passaggio della gestione delle risorse idriche da parte di autorità pubbliche a società private multinazionali: nel 1980 soltanto 12 milioni di persone erano fornite da imprese private, nel 2000 si era già arrivati a 300 milioni e si prevede che tale cifra crescerà fino a 1,6 miliardi entro il 2025. Tale processo di privatizzazione è favorito da due fattori: da un lato, gli alti costi di investimento e le ridotte capacità finanziarie delle istituzioni per far fronte alla sempre più alta richiesta di acqua, dall’altro, il crescente interesse di società private verso i profitti derivanti dalla vendita di acqua e servizi associati (Clarke, Barlow 2003). La World bank valuta il potenziale mercato dell’acqua intorno ai 1000 miliardi di dollari l’anno. Secondo gli analisti economici l’industria idrica, le cui entrate già oggi sono pari al 40% di quella petrolifera, è destinata a diventare un settore produttivo di grande rilievo.
Lo slancio verso la privatizzazione nasce con la dominante filosofia del Washington consensus, una dottrina economica suggerita dalla Trilateral commission, costituita nel 1973 per iniziativa di David Rockefeller, che liberalizza commerci e investimenti senza alcun impedimento da parte dei governi, consegnando al settore privato la responsabilità di programmi sociali e di gestione dei servizi. La stessa World trade organization (WTO) e altre grandi agenzie come la North Amer;ican free trade agreement (NAFTA) e il General agreement on tariffs and trade (GATT) considerano l’acqua come un bene merceologico che segue le stesse regole di mercato, per es., del petrolio e del gas. Ciò significa che se un governo volesse vietare l’esportazione di acqua oppure la concessione dei servizi idrici a una compagnia straniera verrebbe accusato di violazione degli accordi sul libero scambio.
A capo della cordata di privatizzazioni si inseriscono grandi multinazionali europee (Vivendi, Suez e RWE), determinate, nel lungo periodo, a gestire i sistemi idrici dei Paesi a basso reddito e a risolvere la crisi idrica mondiale. Tuttavia, i fallimenti avvenuti a Buenos Aires, Johannesburg, Nuova Delhi, Manila e Cochabamba hanno fatto cambiare loro obiettivo (Clarke, Barlow 2003), spostando l’interesse verso America Settentrionale ed Europa. L’85% dei servizi idrici negli Stati Uniti è ancora in mano pubblica, ma entro il 2015 le tre grandi multinazionali, acquisendo le maggiori agenzie statunitensi del settore, potranno gestirne il 70%. In Europa diversi Paesi hanno escluso però la possibilità di privatizzazione dei servizi idrici, tra questi Belgio, Paesi Bassi e Portogallo; anche la Svizzera ha tra le norme federali l’esclusiva per la gestione pubblica dell’acqua.
La reazione verso la privatizzazione dell’acqua, da parte principalmente delle popolazioni più povere, ha portato a conflitti anche violenti, come nel caso di Cochabamba in Bolivia. La terza città del Paese andino è passata sotto la gestione di una compagnia privata che ha innalzato le tariffe tanto da rappresentare per alcuni utenti fino a un quarto del reddito. Dopo un duro e prolungato scontro (culminato nell’aprile 2000), che ha visto 30.000 cittadini manifestare nelle piazze, il conflitto si è risolto con il ritorno della gestione dell’acqua in mani pubbliche (Postel, Wolf 2001).
Contro la privatizzazione dell’acqua si è diffuso un movimento internazionale, fondato su tre principi: la conservazione delle risorse idriche; l’acqua come diritto umano; la democrazia dell’acqua. Oggetto di maggiore contestazione da parte del movimento è il fatto che il fragile equilibrio tra domanda e sfruttamento delle risorse, accompagnato dalla distribuzione ineguale e da condizionamenti ambientali, non può essere lasciato alla gestione delle multinazionali, spinte da interessi economici. Le società private non hanno alcun vantaggio ad applicare politiche di sostenibilità a lungo termine e puntano alla maggior crescita dei consumi nell’immediato, non favorendo un’educazione al risparmio. Il contenimento dei costi di gestione avviene spesso a spese dell’ambiente, con il mancato rispetto della normativa in materia di scarichi, depuratori, bonifiche. Allo stesso modo, le privatizzazioni tendono per lo più a trascurare le esigenze sociali, ad anteporre, nelle forniture, le aree residenziali abitate dai ceti abbienti piuttosto che quelle più popolari o degradate, e inoltre comportano sempre un rischio di rincaro delle tariffe: ciò acuisce i problemi di accesso, soprattutto nei Paesi a più basso reddito. Il Manifesto mondiale dell’acqua, che fu redatto a Lisbona nel settembre 1998 da un Comitato internazionale per il contratto mondiale sull’acqua, presieduto da Mario Soares e coordinato da Riccardo Petrella, è il documento finale di una serie di incontri a livello mondiale tenutisi per studiare, approfondire e diffondere il tema dell’acqua, che dev’essere riconosciuta dal punto di vista legislativo come un bene comune pubblico e non può essere oggetto di scambio commerciale di tipo lucrativo.
Per rispondere alle cattive gestioni pubbliche che hanno caratterizzato molti sistemi idrici di questi ultimi anni, la gestione dell’acqua va messa nuovamente in mano ai cittadini e alle comunità locali, che possono essere garanti della sua conservazione, per trasmetterla alle generazioni future e per farla rimanere alla Terra e a tutte le specie, cui in realtà appartiene, seguendo una frase di Vandana Shiva «la soluzione alle disuguaglianze è la democrazia. La soluzione alla crisi dell’acqua è la democrazia ecologica» (2002; trad. it. 2003, p. 32).
Ridurre la pressione idrica
Per far fronte all’aumento del numero di Paesi che si troveranno in situazione di stress o scarsità idrica e per limitare potenziali motivi di conflitto per la gestione delle risorse idriche, nel 21° sec. si dovranno concentrare gli sforzi atti a migliorare la produttività dell’uso dell’acqua in tutti i suoi settori (agricolo, industriale e domestico), ottimizzando il rapporto tra domanda e prelievo. In questo modo non solo si proteggeranno le risorse disponibili, ma si potranno salvaguardare quelle economiche per destinarle all’esigenza delle popolazioni che ancora non hanno accesso all’acqua. Questo obiettivo rappresenterà un primo momento di verifica degli impegni della comunità internazionale verso gli investimenti promessi per una politica di lotta alla povertà, di servizi per i più poveri e per una protezione dell’ambiente in conformità al Protocollo di Kyoto.
Se fino alla metà degli anni Novanta la spinta dei governi e degli aiuti internazionali era proiettata a finanziare infrastrutture dimensionate più sulle risorse estraibili, una revisione strategica, portata avanti in quegli anni dalla World bank, ha spostato l’indirizzo sulla fornitura di servizi adeguati e rispettosi di pratiche ambientali. Si presta oggi più attenzione alla gestione sostenibile delle risorse in termini di capacità dei beneficiari di farsi carico della loro manutenzione e operatività, di relazione con l’ambiente circostante e di tecnologie appropriate alle condizioni in cui si opera, coinvolgendo nella scelta gli stessi beneficiari.
La risposta per l’ottimizzazione dell’uso delle risorse idriche è nella gestione integrata dell’acqua (dall’estrazione al recupero), che rappresenta una metodologia per prendere decisioni e tramutarle in azioni, considerando aspetti diversi del processo produttivo. I passi per realizzare una gestione integrata prevedono la pianificazione del bacino idrografico, l’organizzazione di gruppi di lavoro, l’identificazione dei finanziamenti, la verifica dell’impatto ambientale dalle sorgenti alle piane di inondazione, lo sviluppo di leggi e regolamenti, e il coinvolgimento di tutti gli attori interessati, dalle istituzioni agli utilizzatori finali. La maggioranza dell’acqua ritorna nel ciclo idrogeologico, sotto forma di vapore acqueo, infiltrata nel sottosuolo e convogliata nell’acqua marina. Il mantenimento della qualità di queste acque è fondamentale per non sbilanciare continuamente il rapporto tra risorse rinnovabili e domanda mondiale. Quindi l’impegno in tutti i settori di utilizzo è di non pensare solo all’acqua nel momento dell’estrazione, ma di incidere maggiormente nella gestione, nel trattamento e nel recupero. Se nel mondo si utilizzassero il 60% delle acque che spreca l’agricoltura, il 50% perso nelle reti di distribuzioni vecchie o mal gestite – le stime delle perdite degli acquedotti in Italia sono del 40,1% (Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche 2005) – e il 20% delle acque usate nell’industria, in base ai dati di prelievo del 2004 del Pacific institute (2007), si potrebbero recuperare 1805 km3 di acqua all’anno, pari al 48,6% dei prelievi e a 278 m3 all’anno pro capite. Si stima che ogni euro non speso per la manutenzione comporti 3-4 euro da spendere poi per riparazioni.
Il grande spreco di acqua in agricoltura può essere combattuto con sistemi di irrigazione a basso consumo, come quelli a goccia che portano acqua direttamente alle radici evitando l’azione di evapotraspirazione e dispersione superficiale. Questa pratica deve essere diffusa principalmente nei Paesi a basso reddito dove l’agricoltura rappresenta l’80-90% dei consumi idrici. Città come Los Angeles e Pechino, che soffrono di carenza idrica, hanno investito nelle aree agricole circostanti in forme di minore consumo e recupero delle acque, ottenendo maggiore quantità di acqua per la popolazione urbana e mantenendo i livelli di produttività dei campi. Laddove il minore consumo di acqua per l’agricoltura e la maggiore produttività dei raccolti aumentano, si possono limitare le costruzioni di grandi dighe o di sistemi di sbarramento, evitando l’insorgere di conflitti e di cambiamenti all’ecosistema.
La gestione integrata delle risorse idriche prevede forme complementari di raccolta, come quella dell’acqua piovana, combinate a sistemi di pompaggio solari o eolici, diversificazione dell’uso delle acque potabili da quelle per uso domestico, recupero delle acque provenienti da impianti di trattamento, campagne di divulgazione sul corretto uso dell’acqua, inclusi il risparmio e il suo smaltimento, coinvolgimento degli utilizzatori sulla definizione delle tariffe, sull’uso di servizi privati e sugli investimenti.
L’economista Marianne Fay, nel suo lavoro del 2001, Financing the future: infrastructure needs in Latin America 2000-2005 (World bank, policy research working paper, 2545), stima che le perdite annuali dovute a un’inadeguata politica dei prezzi e dei sussidi e a connessioni illegali ammontavano a 18 miliardi di dollari e quelle derivate dalle perdite nelle tubazioni a 4 miliardi, cifre che potevano rappresentare l’accesso all’acqua potabile per 147 milioni di persone.
Per centrare l’obiettivo del Millennium summit occorrerebbero 60 miliardi di euro entro il 2015; tale calcolo però non prende in considerazione la crescita demografica e la riabilitazione/ricostruzione di impianti obsoleti fino a quella data. Il trend tra il 1997 e il 2004 degli aiuti internazionali per lo sviluppo delle risorse idriche e dell’igiene ambientale (Global humanitarian assistance 2006, 2006) stagnava intorno a 3,3 miliardi di dollari, con un’impennata a 4,5 miliardi di dollari nel 2004, corrispondenti a 3,6 miliardi di euro. La scarsità di risorse in gioco per raggiungere gli obiettivi del Millennium deve essere superata da uno sforzo congiunto sia dei Paesi più ricchi, nel mettere a disposizione più risorse, sia di quelli più poveri a dedicare maggiore percentuale del proprio prodotto interno lordo (PIL) al settore idrico. Molti Paesi a basso reddito hanno infatti destinato bassissime percentuali del proprio PIL a spese per acqua e igiene ambientale, soprattutto a confronto delle spesi militari, come nel caso dell’Etiopia che, nel 2000, dedicava lo 0,6% del PIL a investimenti nel settore idrico contro il 9,6% per spese militari, o del Pakistan, in cui nel 2003 solo lo 0,2% del PIL era indirizzato a investimenti per l’acqua contro il 3,8% destinato agli armamenti.
Per proteggere le acque sotterranee potrebbe venire applicata un’attenta diversificazione delle tariffe a seconda dell’uso, in modo da incoraggiare il risparmio invece dello spreco. Per combattere il degrado ambientale e il sovrasfruttamento di fiumi e laghi, la World commission on dams (2000) suggeriva un processo aperto, decisionale, su futuri interventi, coinvolgendo tutti gli interessati e valutando attentamente costi e benefici di tali investimenti, incluse compensazioni per le popolazioni coinvolte negativamente. In caso di bacini transfrontalieri, essa auspicava collaborazione e cooperazione regionale, che potrebbero rappresentare una forte spinta a risolvere controversie che ormai si trascinano da decenni. La strategia dovrà oltrepassare gli interessi unilaterali dei singoli Paesi e favorire un’azione congiunta, mettendo al centro del dibattito lo sviluppo umano nel suo complesso. La collaborazione delle istituzioni nazionali è fondamentale per mantenere i trattati già in atto, come quello relativo al bacino dell’Indo che fu firmato nel 1960 ed è ancora attivo nonostante sia passato attraverso due guerre tra India e Pakistan.
Nei Paesi sviluppati per far fronte alla relazione tra governo della domanda e sviluppo dell’offerta bisogna trovare al più presto un giusto equilibrio tra sviluppi di nuove fonti e misure di risparmio dei consumi, sostenendo un approccio integrato del ciclo dell’acqua con investimenti mirati alla ricarica degli acquiferi, al trattamento e recupero delle acque reflue, alla riduzione della salinità e alla raccolta di acque piovane.
La gestione dell’acqua è stata per secoli proiettata a fornire il maggior numero di risorse alla gente, all’industria e all’agricoltura, migliorando le tecnologie che assoggettassero la natura ai nostri bisogni. Questo successo non ha però creato un mondo sicuro dal punto di vista idrico. «I popoli antichi e quelli che oggigiorno vivono più vicini alle forze della Natura – ricordano Barlow e Clarke – sapevano che distruggere l’acqua equivaleva a distruggere sé stessi. Solo le moderne culture avanzate, spinte dalla logica dell’acquisto e convinte della propria supremazia sulla Natura, hanno mancato di onorare l’acqua» (2002; trad. it. 2004, p. 16).
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