di Riccardo Mario Cucciolla
Un confine terrestre lungo circa 4250 km separa la Federazione Russa dalla Repubblica Popolare Cinese, due paesi che come pochi si conoscono, stimano e temono allo stesso tempo. Questa frontiera è il frutto delle conquiste territoriali russe nel corso dell’Ottocento e della Seconda guerra mondiale, e nel 1929 e 1969 è stato teatro di scontro armato tra le due potenze, antagoniste sul piano ideologico e strategico nel corso della Guerra fredda. Dopo la normalizzazione dei rapporti nel 1989 e il crollo dell’Urss, questo lungo confine oggetto di secolare contrapposizione tra le due potenze è stato definitivamente stabilizzato con le concessioni territoriali russe del 1999 e del 2008. Ma le preoccupazioni di Mosca non sono terminate: sin dagli anni Novanta, questa frontiera è stata al centro del catastrofismo russo con il mito della sinizzazione della Siberia, una paranoia diffusa e generalmente strumentalizzata da parte della classe politica russa che denunciava un’invasione cinese silenziosa, non convenzionale, irreversibile e incontrollabile verso le spopolate regioni dell’Estremo Oriente russo. In realtà, questo trend non è mai stato effettivo.
Un confine che, soprattutto negli ultimi mesi, sta rappresentando la principale opportunità strategica della Russia per uscire dall’attuale crisi di isolamento internazionale: le recenti tensioni tra Mosca e l’Occidente sulla questione ucraina hanno ulteriormente accelerato la propensione del Cremlino a diversificare le proprie partnership strategiche e a spostare l’asse d’interesse russo verso oriente. Ciò ha offerto ulteriori spiragli di collaborazione strategica, politica ed economica soprattutto verso Pechino. Mosca ricorre così allo storico avversario della Guerra Fredda per uscire dalla marginalizzazione diplomatica e rafforzare un’intesa strategica capace di contrastare il vacillante predominio americano.
A livello globale, questa nuova alleanza tra le due potenze emergenti si rafforza, inoltre, all’interno del fronte Brics o nei confronti di quei partner del Medio Oriente, Africa, Oceania e America Latina che non sono propriamente vicini a Washington. Sul fronte regionale, invece, l’intesa sino-russa rafforza la concezione strategica euroasiatica di Mosca e viene attuata attraverso importanti piattaforme internazionali a carattere regionale come Apec (sul piano economico), Sco (su priorità strategiche come la lotta al terrorismo, all’estremismo e al separatismo etnico) e Cica sul piano diplomatico.
La dichiarazione congiunta nel maggio 2014 tra Putin e Xi ha rappresentato una svolta radicale nelle relazioni Russia-Cina, confermando la volontà di aumentare la cooperazione in molteplici settori come commercio (pari a circa novanta miliardi di dollari ma che potenzialmente potrebbe crescere a 200 entro il 2020), finanza (con un maggiore ruolo di yuan e rublo rispetto al dollaro), trasporti (per la realizzazione di una Tav che colleghi Mosca a Pechino in 48 ore) , difesa (come le esercitazioni navali congiunte nel Mar Cinese Orientale) infrastrutture, edilizia, ‘progetti verdi’ e, ovviamente, energia. Soprattutto a seguito della crisi ucraina, la Russia punta sulla crescente domanda energetica cinese per diversificare le proprie rotte energetiche e ottenere maggiori garanzie in una delicata fase di apparente stagflazione. L’intesa sul fronte energetico ha subito un’accelerazione determinante negli ultimi anni, con l’inaugurazione dell’oleodotto Espo (2011) che trasporta in Cina 300 mila barili di petrolio russo al giorno, l’accordo decennale (2013) che impegna Rosneft a fornire al mercato cinese 100 Mt di petrolio, e l’acquisto del 20% del progetto Novatek per Lng a Yamal da parte della compagnia cinese Cnpc (2014).
Ciò nonostante, l’accordo da 400 miliardi di dollari tra Gazprom e Cnpc nel maggio 2014 rappresenta il vero punto di svolta di una Cina che è determinata a diversificare l’approvvigionamento energetico puntando sul gas russo – rispetto all’inquinante carbone che ancora rappresenta 2/3 della produzione energetica cinese, il caro Lng e le limitate forniture da Birmania, Kazakistan e Turkmenistan – impegnandosi ad acquistare con clausola ‘take or pay’ 1000 Gcm di gas naturale entro il 2048 attraverso ‘Power of Siberia’, un nuovo gasdotto che passerà proprio per il suddetto confine, escludendo onerosi transiti presso stati terzi.
Sul piano politico la Cina rappresenta per la Russia un partner meno affidabile che sostiene le mosse del Cremlino nei limiti del proprio interesse. È stato esemplare lo sconcerto di Mosca nel constatare l’astensione cinese sull’annessione della Crimea o sulle sanzioni contro la Russia in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Un. I due giganti, inoltre, hanno una visione diversa e competitiva dell’Asia Centrale i cui mercati vengono sempre più insidiati dagli investimenti e dalla penetrazione commerciale di Pechino, particolarmente interessata alla realizzazione della cosiddetta Silk Road Economic Belt, la nuova via della seta; mentre la Russia cerca di rilanciare la propria leadership nella regione attraverso iniziative come Csi, Csto e l’Unione euroasiatica che – nata dal successo dell’Unione doganale Russia-Kazakistan-Bielorussia del 2010 ha coinvolto anche Kirghizistan e Tagikistan – potrebbe diventare una realtà politico-economica effettiva entro il 2015.
Pechino sembra usare la partnership con la Russia per ridefinire e ribilanciare la potenza americana ma non in funzione antagonista. La definizione di un possibile assetto G-2 Usa-Cina sembra essere la maggiore preoccupazione di Mosca che teme di essere esclusa dallo scenario internazionale e vuole tornare a essere una potenza globale credibile. Sembra allora che questa nuova intesa tra due rivali strategici naturali vacilli su varie questioni e sia dettata più da una contingenza di interessi piuttosto che da una visione strategica comune.