L'Ottocento: astronomia. La spettroscopia e la nascita dell'astrofisica
La spettroscopia e la nascita dell'astrofisica
Agnes Mary Clerke, nella sua storia dell'astronomia del XIX sec. pubblicata nel 1885, elencò le scoperte che avevano contrassegnato i recenti progressi in tale disciplina, attirando l'attenzione del lettore sui fondamenti di quella che chiamò 'fisica astronomica', o 'fisica cosmica', una scienza nuova e marcatamente diversa per finalità e metodi rispetto alla vecchia disciplina matematica. A tal proposito scrisse: "È piena dell'audacia, dell'incoerenza, dei difetti e delle opportunità della giovinezza. Promette di tutto; ha già prodotto tanto e farà senza dubbio molto di più" (Clerke 1885, pp. 183-184).
L'entusiasmo della Clerke non era isolato. Sia chi vi prendeva parte attiva, sia chi ne era soltanto osservatore, percepiva lo sviluppo di questa disciplina ibrida come l'annuncio di una nuova era: un'era di cooperazione fruttuosa tra studiosi di scienze fisiche accomunati dall'uso dello spettroscopio, un semplice strumento costituito principalmente da un prisma per disperdere la luce proveniente da una sorgente e da un cannocchiale per osservare i dettagli dello spettro che ne risultava. Per molto tempo lo spettroscopio era stato utilizzato da fisici, chimici e fabbricanti di strumenti scientifici per studiare le proprietà fisiche della luce e le proprietà chimiche dei materiali.
Negli anni intorno al 1860 si unì a loro un altro gruppo, più eclettico, composto in gran parte da astronomi dilettanti. Questi neofiti della spettroscopia erano attratti dalle potenzialità dello strumento come mezzo per analizzare la luce emessa dai corpi celesti; con il suo ausilio, miravano a scoprire la costituzione e la struttura delle stelle, indagine a lungo considerata al di fuori dei confini della scienza.
L'associazione dello spettroscopio e del telescopio astronomico servì ad amalgamare i metodi, gli strumenti e le teorie della chimica e della fisica con quelli dell'astronomia, stimolando nuove domande, che a loro volta generarono nuovi obiettivi per le misurazioni e finirono per ridefinire i confini consueti della ricerca astronomica considerata soddisfacente.
I chimici e i fisici, come del resto gli astronomi, si rendevano perfettamente conto della relazione sempre più stretta e della reciproca dipendenza dei rispettivi settori di competenza. Alle soglie del XX sec. questa 'nuova' astronomia vantava ormai una serie di interrogativi peculiari, strumenti propri, un suo gergo, le sue riviste scientifiche, e anche i suoi standard per valutare la capacità tecnica e la competenza nell'interpretazione dei dati.
Andare oltre la storia convenzionale della nascita dell'astrofisica consente di fare luce sui fattori sociali, culturali e intellettuali che catalizzarono e favorirono lo sviluppo di questa nuova branca della scienza. Invece di una sequenza ordinata di scoperte scaturite in modo naturale dalle ingegnose applicazioni dello spettroscopio ai problemi astronomici, ci si imbatte in un processo dinamico e spesso incerto.
Coloro le cui vite e carriere furono rivolte a questa nuova scienza si trovarono molto spesso di fronte a scelte strategiche, piene di sfide e senza alternative chiare, in un panorama sovente confuso di opzioni teoriche e sperimentali. Ancor prima che qualcuno potesse intravedere queste opzioni, la comunità scientifica nel suo insieme ‒ e quella astronomica in particolare ‒ doveva prepararsi e familiarizzare con l'idea che i corpi celesti, al pari di quelli terrestri, manifestassero comportamenti in grado di offrire indicazioni sulla loro struttura interna. Doveva inoltre accettare il fatto che anche le proprietà invisibili dei corpi celesti, come di quelli terrestri, potessero esser rese visibili e analizzate in modo affidabile con mezzi sperimentali.
Una simile ristrutturazione degli scopi e dei metodi dell'astronomia richiese una coraggiosa 'miscela' di rischio calcolato, di negoziazione e di persuasione da parte di una massa critica di pionieri volenterosi e capaci.
Nei primi decenni del XIX sec., la concezione dominante dell'astronomia, che la poneva, tra le scienze esatte, seconda soltanto alla matematica, imponeva standard severi a chi la praticava professionalmente, sia riguardo agli argomenti da trattare sia ai metodi da utilizzare. Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846), uno dei maggiori studiosi di astronomia posizionale, dichiarava che l'astronomia "deve stabilire le regole per la determinazione dei movimenti dei corpi celesti, così come essi ci appaiono dalla Terra. Ogni altra cosa che si possa imparare sui corpi celesti [...] non è propriamente di interesse astronomico" (in Hufbauer 1991, p. 43). All'affermazione di Bessel faceva eco il filosofo positivista francese Auguste Comte (1798-1857).
Poiché gli astronomi, vincolati alla Terra, possono raccogliere sulle stelle e sugli altri corpi celesti soltanto limitate informazioni sensoriali dirette, secondo Comte la conoscenza dei cieli si doveva basare solamente su ciò che si può vedere; tutto il resto era, a suo avviso, una congettura non verificabile: "Possiamo immaginare di poter determinare la forma delle stelle, le loro distanze, dimensioni e movimenti, mentre non c'è alcun metodo che ci consentirà mai di esaminare la loro composizione chimica, la struttura mineralografica o, in particolare, la natura degli organismi che vivono sulla loro superficie [...]. La nostra conoscenza positiva delle stelle è inevitabilmente limitata alle proprietà geometriche e al comportamento meccanico che osserviamo" (Comte 1830-42 [1864, p. 9]).
Una volta risolto il problema della longitudine, e non ancora percepita la sfida insita nelle perturbazioni orbitali del pianeta Urano, uno studioso di meccanica celeste dell'epoca descriveva così le sue preoccupazioni: "Nell'astronomia l'ingegno umano non sarà probabilmente capace, in futuro, di ottenere molto di più di un miglioramento dei mezzi di osservazione, o dell'analisi mediante la quale si studiano le regole del calcolo" (Narrien 1833, p. 520). In effetti, però, restrizioni epistemologiche come quelle espresse da Bessel e da Comte non vincolarono la fantasia investigativa degli astronomi. Un programma rigoroso di astronomia posizionale poteva rivelare, e in effetti lo fece, nuove e importanti informazioni sui cieli; per esempio, la riuscita determinazione delle parallassi del Sole e delle stelle, la scoperta di Nettuno e la conferma dell'esistenza di una compagna non osservata della stella Sirio, soltanto per menzionare alcune delle più note scoperte del periodo, offrivano la possibilità di poter misurare, attraverso uno studio più esteso e molto intenso, le masse delle stelle, le loro distanze, la luminosità intrinseca e, probabilmente, di determinare le caratteristiche della loro distribuzione nello spazio.
Nel frattempo, nello studio del cielo, i sempre più numerosi astronomi dilettanti non erano da meno, per serietà ed esperienza, di quelli professionisti, ma occupavano un più ampio ventaglio di nicchie di ricerca. Si trattava di commercianti, artigiani, avvocati, sacerdoti, medici e proprietari terrieri. Molti di loro avevano scarsa istruzione in matematica ed erano meno interessati ai dettagli quantitativi della meccanica celeste, che non alle caratteristiche qualitative degli astri. Erano dilettanti in chimica, fotografia, microscopia ed elettricità, che osservavano i fenomeni astronomici e li interpretavano contemporaneamente con l'occhio e il cervello.
Si trattava di appassionati che utilizzavano i corpi celesti per verificare in situazioni estreme la sensibilità o l'accuratezza dei loro strumenti. Sapevano cogliere ogni opportunità per setacciare pazientemente e incessantemente il pagliaio celeste, sperando di essere i primi a scoprirvi uno dei proverbiali aghi.
Fu il richiamo della scoperta che spinse Samuel Heinrich Schwabe (1789-1879) a iniziare nel 1826 la ricerca della prova dell'esistenza di un pianeta all'interno dell'orbita di Mercurio. Nella speranza di rilevare il transito del corpo celeste sul disco solare, per molti anni il farmacista tedesco registrò quotidianamente le sue osservazioni sulle macchie solari. Anche se la ricerca dell'elusivo pianeta si rivelò infruttuosa, la sua opera diligente di registrazione dimostrò un'indubbia periodicità del numero delle macchie solari.
Johann Rudolf Wolf (1816-1893), allora professore di matematica e di astronomia a Berna, fu uno dei pochi che si attivò, sotto lo stimolo del rapporto di Schwabe del 1843. Tra il 1847 e il 1851 infatti Wolf portò avanti un proprio programma di osservazioni delle macchie solari, giungendo all'elaborazione di un sistema standard di enumerazione ancora in uso.
Edward Sabine (1788-1883), misuratore appassionato del magnetismo terrestre e sovrintendente della rete globale britannica degli osservatori magnetici, fu uno dei molti che, al diffondersi dei risultati di Schwabe, cominciò a controllare tanto la frequenza quanto l'intensità delle perturbazioni del campo magnetico terrestre. Sabine fu subito colpito dall'evidente sincronia esistente tra il ciclico aumentare e diminuire del numero di macchie solari e le tempeste geomagnetiche. L'idea che le macchie solari potessero essere indicative, o forse anche sintomatiche, di attività solari non visibili era contraria alla convinzione diffusa che queste caratteristiche superficiali fossero eventi transitori e casuali. Non c'era, dopo tutto, alcuna teoria fisica che potesse giustificare un legame tra fenomeni solari e terrestri. Ciononostante, non si poteva negare che Sabine avesse notato una coincidenza interessante, ed essa sembrò giustificare, per un piccolo ma tuttavia crescente numero di persone, ulteriori osservazioni e analisi.
La nuova attenzione rivolta al Sistema solare segnò un importante mutamento di pensiero sul ruolo del Sole nella ricerca scientifica. Fino agli anni Cinquanta dell'Ottocento, il Sole aveva rappresentato una componente essenziale degli esperimenti progettati in una varietà di contesti di ricerca. I fisici, i chimici e gli ottici lo utilizzavano come sorgente standard di luce e di calore. Gli astronomi sfruttavano la sua affidabilità come 'orologio celeste', organizzando spedizioni in corrispondenza delle eclissi solari per migliorare le stime dei parametri orbitali lunari e cronometrando i transiti di Mercurio e Venere per perfezionare la stima della distanza tra la Terra e il Sole. Sulla scia degli annunci fatti da Schwabe e Sabine, il Sole divenne di per sé stesso oggetto degno di studio per coloro che avessero la curiosità, la strumentazione e la perseveranza per intraprenderlo. L'incremento di interesse per la documentazione dei mutamenti delle macchie solari e di altri fenomeni relativi alla superficie del Sole fu particolarmente rapido in Gran Bretagna, dove i dilettanti erano divenuti una presenza significativa nella comunità astronomica. La natura eclettica dei loro programmi individuali di osservazione rese questi studiosi indipendenti particolarmente aperti alle nuove opportunità di ricerca.
Nel 1852, Richard C. Carrington (1826-1875), per esempio, ampliò l'orizzonte del suo personale programma di ricerca al di là della catalogazione delle stelle circumpolari, allo scopo precipuo di intraprendere una ruotine quotidiana di identificazione delle macchie solari sulla superficie del Sole. Nel 1858, sulla base di 5000 osservazioni, Carrington concluse che le macchie solari non sono distribuite a caso, ma appaiono a latitudini intermedie, in entrambi gli emisferi, all'inizio di ogni fase nuova di attività, spostandosi quindi verso la regione equatoriale alla fine del ciclo. Utilizzando poi le macchie solari come indicatori della rotazione del Sole, lo scienziato riuscì a stabilire che la sua superficie non ruota come un tutt'uno, ma si muove più rapidamente vicino all'equatore piuttosto che ai poli.
Anche le istituzioni scientifiche nutrirono interesse per i dati relativi alle macchie solari, in particolare al momento in cui si affermò l'ipotesi che i cicli di attività solare potessero essere collegati a certi cambiamenti nei fenomeni meteorologici terrestri. La Gran Bretagna prese di nuovo tempestivamente l'iniziativa, in gran parte motivata dalla distribuzione geografica delle sue colonie. Nel 1854, la British Association for the Advancement of Science formulò programmi per avviare, presso le sue strutture dei Kew Gardens, una serie periodica di osservazioni solari basate sulla fotografia. La fotografia astronomica era ancora agli inizi e catturare un'immagine del Sole presentava particolari difficoltà tecniche; non sorprende quindi che il compito di progettare una strumentazione adatta a questo scopo fosse affidato a Warren De la Rue (1815-1889), uomo d'affari, astronomo dilettante e pioniere della fotografia astronomica. De la Rue escogitò il 'fotoeliografo', una macchina fotografica solare con un otturatore abbastanza veloce da imprimere un'immagine adeguatamente esposta delle caratteristiche superficiali del Sole su lastre impregnate di collodio. Utilizzando questa tecnica a Kew si ripresero regolarmente fotografie solari dal 1857-1858 fino al 1872 quando, a causa di preoccupazioni di carattere sia politico sia economico, la responsabilità del mantenimento di un registro ininterrotto di osservazioni solari fu trasferita all'astronomo reale e ai suoi collaboratori, presso l'Osservatorio reale di Greenwich.
Prima dell'avvio del programma fotografico di Kew, Wolf approfittò dell'incarico di direttore del nuovo Osservatorio di Zurigo, nel 1855, per avviare una prassi di registrazione delle macchie solari. Questi furono i primi di numerosi sforzi intrapresi appena gli astronomi si resero conto, in tutto il mondo, che il Sole rappresentava ben più di una sorgente celeste di luce o di un riferimento temporale. In Germania, per esempio, l'appassionato osservatore di macchie solari Gustav Friedrich Wilhelm Spörer (1822-1895) suggerì la fondazione di un istituto nei dintorni di Berlino, dedicato allo studio sistematico e di lungo periodo del Sole. Con il supporto della Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften (Accademia Reale Prussiana delle Scienze) di Berlino e l'approvazione di Guglielmo I, l'Osservatorio astronomico di Potsdam divenne operativo nel 1874. Spörer e lo spettroscopista Hermann Carl Vogel ricevettero l'incarico di guidare il programma di ricerca di Potsdam, che nel frattempo si era arricchito e includeva ricerche su tutti gli aspetti dell'astrofisica. Nel 1876 al fisico francese Pierre-Jules-César Janssen (1824-1907) furono assegnati i permessi e i finanziamenti per fondare un osservatorio solare sul vasto terreno di una ex proprietà reale a Meudon, vicino Parigi. Durante i quasi venti anni che furono necessari a rendere pienamente operativo questo osservatorio, Janssen lavorò alacremente per porre le basi del pionieristico programma di ricerche solari di Meudon, acquisendo una serie di strumenti sofisticati e attirando al contempo il talento dell'esperto osservatore Henri-Alexandre Deslandres.
Alcuni astronomi della metà del XIX sec. si occupavano delle macchie solari, del magnetismo terrestre e di fotografia, altri invece studiavano le stelle variabili, quelle doppie, le novae, i pianeti minori, le comete e la superficie della Luna e dei pianeti. I diversi interessi di ricerca degli astronomi crearono la trama e la tessitura di quell'arazzo che poi sarebbe divenuto l'astrofisica, mentre la spettroscopia ne rappresentò l'ordito. In effetti, i primi sottili fili di questo tessuto erano stati già messi insieme quando, nel Seicento, Robert Boyle aveva definito il prisma "il più utile strumento" per la comprensione di quella evanescente serie di colori che si generava quando la luce del Sole lo attraversava. Cercando di cogliere maggiori dettagli nello spettro che aveva proiettato su un foglio di carta bianca, egli esaminò la serie di colori al microscopio, ma non vide nulla che non potesse distinguersi a occhio nudo. Gli esperimenti di Boyle sul colore, insieme alla sua attraente ipotesi che, "forse", il prisma si sarebbe dimostrato utile nel fornire risposte sulle cause prime in tutti i casi in cui si osservava il colore, incoraggiò altri scienziati a utilizzarlo nei loro studi di ottica.
Newton fu uno di questi. Motivato dal desiderio di eliminare dalle immagini telescopiche i colori estranei che le distorcevano, già in gioventù aveva iniziato una serie di esperimenti con i prismi, allo scopo di stabilire la causa della presenza dei "celebri fenomeni relativi al colore" in tutti gli strumenti ottici a rifrazione e trovarvi un rimedio. Le sue osservazioni lo convinsero che l'origine dell'estensione dello spettro solare fosse nella composizione di una serie di immagini sovrapposte del Sole, ognuna delle quali di colore leggermente diverso. Questa scoperta gli suggerì di adottare un programma di lavoro che lo mettesse in condizione di analizzare in modo affidabile lo spettro solare, utilizzando la legge dei seni di Descartes.
Colpito dall'eleganza con cui tale legge riduceva la complessità della rifrazione a una semplice rappresentazione matematica, Newton l'applicò al caso della luce solare che entra ed esce da un prisma. Le sue ricerche lo portarono alla conclusione che quando un fascio di luce bianca è rifratto da un prisma, esibisce non una, ma molte 'rifrangibilità', ognuna associata a un colore diverso. Nella visione di Newton, queste scoperte dimostravano chiaramente e in modo inconfutabile che il colore non consisteva, come alcuni avevano sostenuto, in una modificazione della luce bianca derivante dal contatto con la materia e dall'interazione con essa, ma era invece una proprietà immutabile intrinseca alla costituzione della luce stessa.
Quando la nuova teoria di Newton sulla luce e sul colore fu pubblicata, nel 1672, fece un certo scalpore. Alcuni ricercatori, che avevano condotto studi di ottica, erano dell'opinione che le osservazioni di Newton si potessero spiegare modificando le teorie esistenti sul colore. La loro incapacità di riprodurre quanto aveva sostenuto li portò a mettere in dubbio la legittimità del metodo e della teoria. Essi criticavano in particolare la scarsità di informazioni fornite sul progetto dell'esperimento e sui prismi utilizzati e lamentavano il fatto che Newton avesse idealizzato le sue osservazioni al punto che i suoi risultati non erano, di fatto, ottenibili da nessun altro.
Addolorato per la controversia che ne derivò, Newton osservò un silenzio volontario sull'argomento per più di trent'anni, lasciando che la discussione fosse portata avanti dai suoi discepoli e dai loro oppositori. L'attenzione critica riservata alla teoria del colore di Newton non risolse la controversia, ma servì a far familiarizzare i filosofi sperimentali di tutte le correnti con quelli che sarebbero divenuti gli elementi fondamentali del metodo dell'analisi prismatica, ossia una piccola apertura per far entrare un fascio di luce solare in una camera buia, una lente per focalizzare il fascio, un prisma per disperdere il fascio focalizzato e infine un mezzo per esaminare lo spettro risultante.
Nel 1704 Newton pubblicò l'Opticks, il trattato sulla luce e il colore; l'opera si concludeva con sedici Queries, che egli corresse e rivide nelle edizioni successive. Nelle Queries ipotizzava che la luce fosse costituita da una mescolanza eterogenea di 'corpuscoli' che rispondevano dinamicamente se sollecitati da particolari forze ottiche a corto raggio d'azione e da certi agenti attivi: i fenomeni di riflessione, rifrazione e diffrazione sarebbero derivati dalla deflessione delle particelle di un raggio di luce nel loro movimento sottoposto all'azione di tali forze.
La dispersione, in questo quadro, è una conseguenza naturale della differente risposta a tali forze delle particelle di luce di diversa costituzione. Per i discepoli di Newton le domande sollevate fornirono una stimolante guida per le successive ricerche su queste forze; per i suoi oppositori esse costituivano semplicemente una provocazione. Comunque, nel XIX sec. i filosofi sperimentali aggiunsero l'analisi della dispersione della luce all'arsenale di strategie sperimentali con cui affrontarono le sempre più diversificate direzioni della ricerca in ottica: l'identificazione di un esperimento per determinare se la luce fosse di natura corpuscolare oppure ondulatoria; la derivazione di una legge matematica per descrivere la dispersione, valida sempre e per tutti i materiali; la scoperta del ruolo della luce come agente di modificazione di sostanze; infine, la comprensione delle somiglianze e delle differenze tra la luce e i fenomeni relativi al calore, all'elettricità, all'attività chimica e al magnetismo. Nel tempo, i prismi triangolari di cristallo o di vetro si sarebbero trasformati da novità visivamente straordinaria e divertente a veri e propri strumenti di analisi.
Gli anni che seguirono la pubblicazione dell'Opticks furono contrassegnati da un vivace fermento metodologico e programmatico. Nel contesto dello sviluppo della spettroscopia astronomica sono di particolare interesse le ricerche di ottica di John Michell (1724 ca.-1793), poiché egli fu il primo a proporre l'uso dell'analisi prismatica della luce delle stelle per conoscere qualcosa sulla costituzione fisica di una sorgente di luce non terrestre. Michell nel 1784 argomentò che le particelle di luce avrebbero dovuto essere rallentate dall'attrazione gravitazionale dei corpi da cui erano emesse. Anche se un calcolo preliminare lo convinse che la gravità esercitata dal Sole avrebbe avuto un effetto trascurabile sulla velocità della luce solare, egli si rese conto in seguito che le particelle di luce uscenti dalla superficie di una stella di massa molto più grande avrebbero potuto essere considerevolmente rallentate. Predisse che queste particelle più lente di luce stellare sarebbero state maggiormente deflesse dalla loro direzione originaria, rispetto alle più veloci particelle di luce solare, dalle forze ottiche a corto raggio d'azione di un prisma. Se si fosse potuto osservare uno spostamento misurabile dello spettro di una stella, rispetto a quello del Sole, sarebbe stato possibile dedurre la massa della stella, ponendola in relazione con quella solare.
Le osservazioni non verificarono però le previsioni di Michell, minando la fiducia nella linea di ricerca astronomica da lui proposta. Ciononostante, la sua capacità d'immaginare un tale ruolo 'diagnostico' dell'analisi prismatica fornisce un'idea dell'ampiezza e della profondità del potenziale di ricerca del metodo per gli studiosi di ottica della fine del Settecento.
Nel 1783 William Herschel (1738-1822), tedesco di nascita, musicista, fabbricante di telescopi e astronomo dilettante, ricevette da conoscenti il suggerimento di utilizzare un prisma nell'osservazione delle stelle. Egli però non approfondì questa linea di ricerca fino al 1798, quando aggiunse un prisma all'oculare del suo telescopio, allo scopo di confrontare la luce dispersa di alcune stelle luminose di diverso colore, potendo in tal modo cogliere le differenze tra le intensità e le distribuzioni relative dei colori in questi spettri. Anche se la misura e la natura di tali differenze sembravano confermare la sua visione delle stelle come "globi planetari opachi e abitabili", diversi dai pianeti soltanto per la dimensione e la luminosità intrinseca, per quasi due decenni William Herschel non pubblicò i risultati di queste sue osservazioni astronomiche basate sul prisma.
La mancata conoscenza dei meccanismi fisici che presiedevano all'azione delle forze a corto raggio ritenute responsabili della rifrazione e della dispersione ispirò gli sperimentatori, anziché ostacolarli. Queste forze erano viste come analoghe, e forse identiche, alle affinità chimiche e all'attrazione elettrica, gli altri agenti dei mutamenti dei corpi materiali ancora poco compresi che sembravano operare a corto raggio tra particelle di piccole dimensioni. Nel 1800 Herschel posizionò una batteria di termometri lungo il percorso di un raggio solare che aveva subito dispersione e trovò che lo schema di variazione della intensità dei raggi termici era simile allo spettro della luce visibile, ma non coincideva con esso; in effetti, lo spettro termico si estendeva ben oltre l'estremità rossa dello spettro visibile. Malgrado Herschel riuscisse a procurare la riflessione e la rifrazione dei raggi termici, e sebbene avesse scoperto che alcuni di essi avevano lo stesso indice di rifrazione dei raggi luminosi, concluse comunque che i due tipi di raggi dovessero rappresentare l'azione di principî molto diversi tra loro.
La scoperta da parte di Herschel di raggi invisibili al di là dell'estremità rossa dello spettro fu accolta con entusiasmo dal medico tedesco Johann Wilhelm Ritter (1776-1810). Con altri seguaci della Naturphilosophie, Ritter condivideva la convinzione che vi fosse un'unità alla base delle forze naturali e che la loro polarità fosse la causa fondamentale di tutti i mutamenti dei corpi, sia inanimati sia viventi. Dopo aver appreso dei raggi di Herschel, Ritter tentò di individuare le loro controparti di opposta polarità, cioè i raggi invisibili al di là dell'estremità violetta dello spettro. Al posto dei termometri utilizzati da Herschel per rilevare e misurare l'intensità dei suoi raggi termici, Ritter utilizzò come indicatori gli effetti chimici. Anni prima, Carl Wilhelm Scheele (1742-1786) aveva scoperto che esponendo il cloruro d'argento alla luce, il composto subiva una reazione chimica di riduzione e che la reazione era molto più efficace se si utilizzavano raggi di colore viola. Ritter (1801, 1803) pose della carta imbevuta di cloruro d'argento sul percorso di un raggio solare disperso e osservò che, se l'azione riducente dei raggi violetti era significativa, questa era ancor maggiore nella porzione di foglio appena oltre l'estremità violetta dello spettro. Studi successivi misero in luce uno spettro chimico bimodale, in cui l'azione riducente dei raggi di Ritter (Desoxygeneität) diminuiva e alla fine scompariva nella parte centrale dello spettro visibile. L'intensità dei raggi di Herschel, dei quali Ritter scoprì un'azione ossidante (Oxygeneität), aumentava gradualmente verso l'estremità rossa dello spettro e al di là di questa. Da tali osservazioni Ritter concluse che la luce visibile non rifratta era il risultato dell'azione contrapposta di queste due azioni chimiche, che si neutralizzavano a vicenda.
L'estensione dello spettro oltre il rosso e il violetto sottolineava i limiti della percezione sensoriale dell'uomo. Via via che l'analisi prismatica attirava l'attenzione degli studiosi, ansiosi di scoprire i legami tra luce visibile, calore radiante e raggi attinici (in grado cioè di produrre effetti chimici), diventava sempre più chiaro che si sarebbe dovuto cambiare la progettazione degli esperimenti per poter osservare, registrare e analizzare effetti non visibili. John Herschel (1792-1871), figlio dell'illustre astronomo, si era guadagnato una fama internazionale grazie alle sue ricerche astronomiche e ai risultati conseguiti in chimica. Questi interessi divergenti gli furono molto utili quando, negli anni intorno al 1830, iniziò a interessarsi alla fotografia, un'arte con basi scientifiche che si andavano proprio allora consolidando. La possibilità che raggi al di là dell'estremità rossa dello spettro provocassero cambiamenti in sostanze chimiche fotosensibili, spinse Herschel a verificare gli effetti della luce su varie sostanze, dirigendo raggi visibili e invisibili di luce solare rifratta su carta trattata chimicamente.
Nel 1840, per sostituire il termometro come strumento per rilevare e misurare l'azione del calore e per isolare gli effetti del calore radiante da quelli dovuti ad altri processi termici, John Herschel sviluppò un metodo per produrre quella che chiamò 'termografia', un'immagine evanescente che permetteva, anche se per breve tempo, di esaminare la portata dell'azione dei raggi termici. Lo spettro termico che Herschel osservò non era continuo, ma formato piuttosto da una serie di chiazze ovali tra loro collegate. Nel 1842, lo statunitense John W. Draper, inglese di nascita, chimico, fisiologo e pioniere della fotografia, modificò l'apparato sperimentale di Herschel inserendo una sottile fenditura sul cammino dei raggi solari. Con questo perfezionamento, semplice ma importante, Draper riuscì a separare le chiazze di Herschel in una serie di linee distinte, che ricordavano quelle che Fraunhofer aveva osservato nello spettro della luce solare visibile.
Ulteriori progressi nella misurazione del calore si ottennero utilizzando strumenti basati sul principio della termocoppia. Nel 1831 Leopoldo Nobili e Macedonio Melloni perfezionarono uno strumento per la misurazione del calore, chiamato termopila, che convertiva piccole differenze di temperatura in correnti elettriche misurabili. Posizionando una termopila nel fuoco di un telescopio, nel 1846 Melloni effettuò la prima misurazione affidabile del calore lunare. Seguendo l'esempio di Melloni, anche altri puntarono telescopi equipaggiati con una termopila verso la Luna, non per un interesse specifico come corpo celeste, ma come sorgente campione per standardizzare la sensibilità degli strumenti calorimetrici.
Anche se la legge dei seni dava agli studiosi un certo controllo sperimentale sulle variabili che influenzano la rifrazione, la dispersione determinata dalla rifrazione risultava più elusiva, essendo variabile a seconda del prisma e del colore. Nel 1802 William Hyde Wollaston, medico in pensione e sperimentatore indipendente, studiò la rifrazione e la dispersione della luce in diversi materiali, apportando due piccole modifiche ‒ che si rivelarono però cruciali ‒ all'organizzazione dei suoi esperimenti con i prismi. In primo luogo, invece di utilizzare un piccolo foro per far entrare la luce proveniente dalla sorgente, si servì come apertura di una lunga e stretta fessura. Inoltre non proiettava lo spettro su uno schermo per esaminarlo, ma teneva il prisma direttamente davanti all'occhio. Nell'osservare lo spettro solare in questo modo, fu sorpreso di scoprire che esso era interrotto da linee scure ben distinte, che lo suddividevano in quattro regioni rispettivamente di colore rosso, giallo-verde, blu e viola. Analisi ulteriori permisero di individuare sette linee scure in tutto, che Wollaston ritenne delimitassero i confini delle regioni dei colori fondamentali.
Le linee scure nello spettro furono riscoperte un decennio più tardi da un giovane ottico tedesco, Joseph von Fraunhofer (1787-1826). Egli lavorava presso una vetreria bavarese nota per l'alta qualità dei suoi prodotti; in effetti, poiché questi vetri erano praticamente privi delle irregolarità e impurità interne che avevano per lungo tempo impedito agli ottici di perfezionare la loro arte, Fraunhofer intravide l'opportunità di scoprire ed eliminare le cause dell'aberrazione dovuta alla rifrazione. Per decenni gli ottici avevano assemblato sistemi di lenti passabilmente acromatiche utilizzando vetri con proprietà di dispersione complementari; l'identificazione di quelli adatti per costruire queste lenti era però una noiosa procedura per tentativi ed errori.
Nel 1814 Fraunhofer cominciò a cercare un metodo più affidabile ed efficiente, basato sulla teoria ottica. Per contenere il numero di variabili in gioco, andò alla ricerca di una sorgente di luce monocromatica; filtrando la luce solare attraverso liquidi o vetri colorati non ottenne risultati soddisfacenti, mentre ebbe maggior successo esaminando la luce dispersa emessa da una fiamma colorata. Anche se osservò con disappunto che ogni fiamma colorata produceva un ampio spettro di colori, invece del segnale monocromatico di cui aveva bisogno, la sua attenzione fu attirata da una riga arancione brillante e ben definita che sembrava comune a tutti gli spettri delle fiamme. Cercò una riga brillante analoga nella luce solare, ma trovò invece, nella stessa regione dello spettro solare, una coppia di righe scure molto vicine. Un'analisi più accurata gli permise di accertare che lo spettro solare era interrotto da "innumerevoli" (unzählig) linee scure.
Fraunhofer introdusse una modifica nella configurazione strumentale utilizzata nell'analisi prismatica, che avrebbe avuto conseguenze di ampia portata per la ricerca futura in questo settore. Invece di osservare lo spettro a occhio nudo, pose un teodolite sul percorso del fascio rifratto, creando così uno strumento di osservazione e di misura che era di fatto l'antesignano del moderno spettroscopio. Con questo strumento individuò centinaia di righe scure nello spettro solare, riuscendo a determinare con precisione le posizioni relative di molte di esse. Elaborò inoltre un sistema alfabetico per etichettare alcune righe di riferimento, assegnando la lettera A a una riga vicina all'estremità rossa dello spettro, la lettera D alla coppia di righe scure associate alla riga arancione brillante che aveva osservato nello spettro della fiamma, la lettera H a una riga vicina all'estremità viola del visibile e la I a una riga nell'ultravioletto.
Come Wollaston, Fraunhofer scoprì che una fessura sottile era la migliore apertura attraverso la quale osservare una sorgente di luce estesa, preoccupandosi però del fatto che gli effetti della diffrazione ai bordi della fessura potessero influenzare l'aspetto delle righe spettrali. Alla ricerca di una sorgente di luce puntiforme luminosa e stabile, Fraunhofer volse il suo spettroscopio verso Venere e diverse stelle brillanti, non per interesse astronomico, ma per avere l'opportunità di esaminare spettri non affetti da diffrazione; non riuscì però a discernere le caratteristiche spettrali di queste sorgenti puntiformi di luce. Per estendere la luce del corpo celeste lungo l'asse perpendicolare all'azione dispersiva del prisma, Fraunhofer aggiunse inoltre al sistema ottico una lente cilindrica. Notò che lo spettro di Venere conteneva righe identiche a quelle della luce solare, ma che gli spettri delle stelle mostravano maggiore variabilità, giungendo a ipotizzare che ogni spettro stellare fosse unico.
Poco tempo dopo che il fisico francese Augustin-Jean Fresnel rese noto il suo pionieristico lavoro sulla diffrazione, Fraunhofer intraprese uno studio quantitativo del comportamento dispersivo associato alla diffrazione. Scoprì che le ampiezze degli spettri risultanti erano legate in modo inverso alle larghezze delle fenditure utilizzate per produrli e, cosa ancora più importante, progettò e costruì diversi reticoli di diffrazione, prima avvolgendo in modo regolare un filo teso su una struttura graduata, e poi incidendo linee parallele su una lastra di vetro coperta da un foglio d'oro, creando centinaia di fenditure sottili ed equispaziate. Infine, guidato dalla matematica dell'interferenza ottica, e forte della precisa incisione dei reticoli con il diamante, con migliaia di divisioni a pollice, riuscì a calcolare le singole lunghezze d'onda delle righe spettrali. Anche se la distribuzione normalizzata dei colori negli spettri di diffrazione dava a questi un chiaro vantaggio rispetto a quelli prodotti dalla rifrazione, sarebbero stati necessari diversi decenni prima che i reticoli di diffrazione fossero abitualmente inclusi nella costruzione degli spettroscopi: essi rimasero in effetti una rarità fino alla fine del decennio 1860-1870. Fino ad allora, i pochi reticoli disponibili erano quelli realizzati dal pomerano Friedrich Adolph Nobert (1806-1881), che utilizzava metodi personali, e coperti da un segreto, per fabbricarne esemplari con 100.000 righe per pollice.
Le righe di Fraunhofer rimasero un imbarazzante enigma sia per i professionisti dell'ottica sia per i teorici fino a oltre quattro decenni dopo la pubblicazione delle sue mappe spettrali. Anche se gli studiosi attribuivano le interruzioni scure dello spettro solare all'azione di qualche processo di assorbimento, non vi era accordo sull'identificazione della causa di esso, e non vi era alcuna teoria fisica in grado di spiegare la sua marcata selettività. Alcuni sperimentatori, tra cui David Brewster, William H.F. Talbot, Charles Wheatstone e William A. Miller, erano convinti che vi fosse una stretta relazione tra i fenomeni ottici e la chimica fisica, e confidavano nel fatto che la chiave per la comprensione di questo legame fosse nell'ordinamento della lunga serie di schemi spettrali. Cercarono quindi di trasformare l'insieme disordinato dei dati sperimentali disponibili in qualcosa di simile a una spiegazione coerente della presenza e della possibile causa delle righe, ricercando sorgenti di luce monocromatica, esaminando lo spettro della luce solare trasmessa attraverso vetri e vapori colorati e studiando gli spettri di fiamme, archi elettrici e scintille di centinaia di sostanze.
Le modalità di approccio utilizzate e gli schemi interpretativi erano però troppo ad ampio raggio, non correlati tra loro e in generale poco produttivi. Il programma di questi ricercatori, ovvero identificare i principî fisici o chimici generali alla base dell'analisi spettrale, rimase quindi inattuato finché non si riuscì a dimostrare, in modo riproducibile, che un certo schema spettrale ottenuto in laboratorio era associato univocamente a una determinata sostanza. Inoltre, affinché i teorici potessero formulare simili principî, e dalle osservazioni spettroscopiche si potesse derivare un significato fisico, era necessario osservare e dimostrare con certezza la corrispondenza diretta tra gli schemi spettrali ottenuti in laboratorio e quelli delle righe di Fraunhofer. Nonostante la loro accuratezza, però, questi studiosi erano ostacolati dalla ubiquità delle righe D di Fraunhofer, dalla complessità delle caratteristiche spettrali, oltre che dall'imbarazzante constatazione che alcuni campioni producevano sia righe di assorbimento sia di emissione.
L'intuizione cruciale che aiutò a mettere un po' d'ordine in merito risale al 1857; essa fu la conseguenza di una ricerca svolta in tutt'altra direzione dal professore scozzese William Swan (1818-1894). Nella speranza di svelare i meccanismi che producono una luce diversa da quella solare, egli osservò gli spettri di idrocarburi posti nella fiamma incolore prodotta da un nuovo bruciatore da laboratorio ideato dal chimico tedesco Robert Bunsen (1811-1899) e dal suo studente Henry E. Roscoe (1833-1915). Nel corso dei suoi studi, Swan fu attratto dal fatto che la parte esterna della fiamma della lampada emanasse bagliori colorati quando qualsiasi cosa, anche il più piccolo granello di polvere, l'attraversava. Si chiese quindi quale fosse la minima quantità di sostanza necessaria per produrre uno spettro colorato.
Per iniziare questo studio, pubblicato nel 1857, Swan disciolse una piccola quantità di comune sale da cucina in abbondante acqua; con sua grande sorpresa scoprì che meno di un milionesimo di grano (64,8 mg) di sale era in grado di colorare la fiamma di un giallo brillante. Risultava chiaro che l'analisi spettrale era un metodo di analisi molto più sensibile di quanto chiunque avesse immaginato. Swan ammonì quindi i chimici che avessero voluto utilizzare la spettroscopia come metodo analitico di assicurarsi che il campione da analizzare non contenesse alcun materiale estraneo prima di trarre qualsiasi conclusione sulla sua costituzione chimica.
Facendo tesoro dell'ammonimento di Swan, Bunsen e il fisico Gustav Robert Kirchhoff (1824-1887) studiarono gli spettri luminosi di fiamme e di scintille della luce generati da campioni altamente purificati di diversi sali. Ritennero che le loro osservazioni confermassero ciò che i fisici sospettavano da tempo, e cioè che ogni singolo metallo, bruciando, producesse la propria sequenza caratteristica di righe spettrali luminose. Per contro, osservarono che quando una luce intensa passa attraverso una nube fredda di vapore della stessa sostanza, il consueto arcobaleno della luce bianca viene interrotto da righe scure di assorbimento, disposte esattamente nello stesso modo dello schema spettrale caratteristico di quella sostanza. Proseguendo questi esperimenti, Kirchhoff compì anche osservazioni dello spettro solare ottenuto dopo aver fatto passare la luce del Sole attraverso una fiamma contenente sale da cucina. Ne concluse che le righe scure di Fraunhofer nello spettro solare "esistono a causa della presenza, nell'atmosfera incandescente del Sole, delle stesse sostanze che nello spettro della fiamma producono righe luminose nella medesima posizione" (Kirchhoff 1859 [1860, p. 196]).
Il 20 ottobre 1859 Kirchhoff presentò all'Accademia di Berlino un lavoro sulle righe di Fraunhofer, in cui forniva sia un'interpretazione chimica sia un accenno di spiegazione fisica che ne desse giustificazione. La notizia della posizione di Kirchhoff si diffuse rapidamente in tutto il mondo scientifico, attraverso riviste specializzate, corrispondenze personali e passaparola. In effetti, nell'ottobre 1860 era ormai difficile trovare un fisico, un chimico o un fabbricante di strumenti ottici che non avesse sentito parlare della scoperta di Kirchhoff. Nessuno metteva in dubbio che egli avesse effettivamente osservato il comportamento descritto, ma si discuteva sulla legittimità della sua affermazione di aver determinato la causa fisica della presenza delle righe di Fraunhofer. Alcuni, per esempio, si domandavano ancora se le righe non fossero dovute all'assorbimento della luce solare da parte dell'atmosfera della Terra; altri obiettavano che gli studi effettuati sugli spettri degli elementi terrestri noti erano insufficienti per trarre qualsiasi conclusione sensata dall'esame delle righe di assorbimento della luce solare.
Malgrado queste riserve, il comportamento osservato da Kirchhoff negli spettri di emissione e di assorbimento dei gas luminosi appariva a molti così ben definito, così simile a una vera e propria legge, da renderli disposti ad accettare alla stregua di una dimostrazione l'evidenza sperimentale, fortemente evocativa, di un legame fisico tra gli spettri dei metalli e le righe di Fraunhofer nello spettro solare. La scoperta, mediante metodi spettroscopici, di tre nuovi elementi (il cesio, il rubidio e il tallio) incrementò notevolmente, soprattutto tra i chimici, l'interesse per il valore sperimentale dell'analisi spettrale in grado di produrre nuove informazioni e promuovere nuove scoperte.
Il clamore sulla validità della spiegazione delle righe di Fraunhofer fornita da Kirchhoff, nelle conferenze divulgative così come negli articoli di riviste, mantenne viva l'attenzione pubblica sulla teoria di Kirchhoff abbastanza a lungo da farla assimilare e diffondere anche in altri ambiti disciplinari. Nel 1861 il chimico inglese Roscoe parlava entusiasticamente di una nuova "chimica stellare", la quale "ci fornisce ora informazioni che riflettono la composizione chimica del Sole e delle stelle fisse lontane" (Roscoe 1862a). Pochi anni dopo, l'astronomo tedesco Johann Karl Friederich Zöllner parlava di "astrofisica", salutata come l'unione "della fisica e della chimica con l'astronomia", un primo importante passo verso l'unificazione di queste "discipline distinte in qualcosa di superiore e di maggior generalità". Malgrado alcuni dubbi su ciò che il perseguimento di questa ricerca avrebbe dovuto alla fine insegnare agli studiosi, il chimico Miller riconosceva che l'interpretazione delle righe spettrali data da Kirchhoff poteva far "intravedere qualcosa in più della macchina dell'Universo" (Miller 1862).
Era allettante pensare che l'interpretazione delle caratteristiche spettrali potesse consentire agli uomini di comprendere la composizione chimica del Sole e delle stelle lontane con lo stesso livello di certezza raggiunto dalla meccanica celeste. Se gli studiosi di questa disciplina avevano fondato il rigore della loro scienza sulle accurate osservazioni dei mutamenti di posizione dei corpi celesti, gli spettroscopisti erano più interessati ai cambiamenti degli spettri dei corpi celesti, per ricavarne indicazioni sulla corretta successione dei loro stadi evolutivi. Così come le numerosissime varianti degli spettri delle sostanze terrestri si potevano organizzare ragionevolmente in molti modi, gli spettri dei corpi celesti mostravano strutture simili a certe caratteristiche distintive dei loro corrispettivi terrestri. Tutto questo diede luogo a un'interazione dinamica tra osservazione, interpretazione e spiegazione da parte di coloro che si erano impegnati a dotare la spettroscopia dei corpi celesti di una solida base teorica.
Nonostante non ci fosse accordo tra i fisici e i chimici teorici circa l'effettivo significato delle caratteristiche spettroscopiche dei singoli corpi celesti, ciò non arrestò la formulazione di ipotesi, anzi, al contrario, la incoraggiò. In effetti la spettroscopia astronomica trasse presto beneficio dallo scambio produttivo che generò tra le osservazioni di laboratorio e quelle dirette. Questo suscitò e mantenne vive le discussioni, le critiche e le controversie necessarie a consolidare la fiducia nel potere interpretativo dell'analisi spettrale della luce proveniente dai corpi celesti. Ci si chiedeva se ogni stella possedesse un proprio spettro, o se le stelle fossero composte, come alcuni spettri stellari sembravano indicare, da comuni elementi terrestri.
Gli spettri stellari
Giovanni Battista Donati (1826-1873) fu tra i primi astronomi a intraprendere uno studio spettroscopico delle stelle; nel 1860 esaminò gli spettri di quindici tra le stelle più luminose. Raggruppandole in funzione del loro colore, Donati (1863) fu colpito dall'"aria di famiglia" che accomunava gli spettri all'interno di ognuna delle categorie di colore. Anche se il suo lavoro suscitò le critiche dei colleghi per l'esigua dimensione del campione, ispirò comunque altri studiosi ad avviare studi autonomi, richiamando la loro attenzione sugli aspetti potenzialmente più stimolanti legati alle osservazioni.
Pietro Angelo Secchi (1818-1878), direttore dell'Osservatorio del Collegio Romano, fu uno di questi scienziati. Egli aveva già mostrato interesse per la spettroscopia anni prima, riproducendo alcune delle osservazioni compiute da Fraunhofer, ma la sua analisi spettroscopica sistematica delle stelle ebbe inizio soltanto quando venne a conoscenza dei lavori di Donati. Invece di sottoporre a un esame accurato un insieme selezionato di stelle rappresentative, Secchi decise di avviare uno studio sul maggior numero di stelle possibile. Ipotizzò che le caratteristiche spettrali fornissero informazioni circa le proprietà fisiche della sorgente di luce, e che quindi la sua indagine spettroscopica avrebbe fornito indizi circa la natura delle atmosfere stellari e contribuito a dare risposta a domande più generali sulla struttura dell'Universo e sul movimento delle stelle.
Come si evince dagli studi pubblicati nel 1867 e nel 1868 Secchi catalogò negli anni gli spettri di oltre quattromila stelle, dai quali trasse uno schema di classificazione basato sulla struttura delle linee spettrali, piuttosto che sul colore della stella. Via via che aumentava il numero di spettri osservati, il suo schema di classificazione divenne sempre più sofisticato: partendo da un semplice sistema con due categorie, gradualmente arrivò a distinguere prima tre e poi quattro tipi spettrali. Egli integrò le sue osservazioni degli spettri stellari con i dati che aveva precedentemente raccolto sulla temperatura solare e con i risultati di nuovi studi circa gli effetti dei cambiamenti di temperatura sugli spettri in laboratorio. Fondandosi su queste ricerche formulò una semplice sequenza di temperature stellari, costruita sulla base di questi quattro tipi fondamentali di stelle. Nel suo schema di classificazione gli spettri delle stelle più calde, di tipo I, mostrano evidenti righe dell'idrogeno, mentre quelli delle stelle di tipo II contengono numerose righe scure sottili. Gli spettri delle stelle di tipo III sono suddivisi al loro interno da sistemi di bande sfumate, ma più marcate verso l'estremità violetta dello spettro; le stelle di tipo IV, le più fredde, hanno spettri simili a quelli delle stelle di tipo III, meglio definiti però verso l'estremità rossa dello spettro. La fiducia di Secchi nel valore e nella correttezza del suo schema di classificazione fu corroborata dalla facilità con cui così tante stelle rientravano in queste quattro categorie fondamentali, e dal fatto che le stelle di un dato tipo sembravano confinate, rispetto al piano della Via Lattea, in regioni definite dello spazio.
Un altro pioniere della spettroscopia stellare fu Lewis M. Rutherfurd (1816-1892), statunitense scienziato dilettante e costruttore di strumenti. Poiché non vi erano spettroscopi disponibili in commercio, quando seppe per la prima volta del lavoro di Kirchhoff sull'analisi spettrale, nell'autunno del 1861, Rutherfurd dovette costruirsi da solo il suo strumento per poter iniziare le ricerche. Ignaro del contemporaneo lavoro di Secchi, egli osservò gli spettri di ventitré stelle, e fu colpito dalla variabilità del numero e della posizione delle righe di assorbimento. Malgrado queste differenze, Rutherfurd, nel 1863, definì tre categorie generali di spettri stellari, sulla base di uno schema molto simile a quello ottenuto da Secchi: stelle simili al Sole per colore, numero e posizione delle righe di assorbimento; stelle con lo spettro simile a quello della stella Sirio; stelle che non mostravano righe di assorbimento.
Rutherfurd era però guidato più dalla passione per il raffinamento e il perfezionamento degli strumenti di osservazione e di misura che dall'interesse per gli oggetti osservati. Già prima di aver saputo del lavoro di Kirchhoff egli, come Fraunhofer, aveva usato la spettroscopia per verificare l'acromaticità delle lenti e per poter portare avanti i suoi studi di fotografia astronomica. Il suo interesse per la precisione degli strumenti lo condusse a progettare micrometri perfezionati, apparecchi fotografici e spettroscopi.
Un serio ostacolo verso l'ulteriore standardizzazione delle mappe di righe spettrali risiedeva nel componente centrale dello spettroscopio: il prisma. L'utilità specifica del prisma è la sua capacità di disperdere la luce, ma il principio ottico che sottende la produzione dell'immagine colorata, cioè la rifrazione, non è un processo fisico lineare. È quasi impossibile per osservatori diversi che utilizzino prismi ineguali in condizioni differenti confrontare direttamente i loro risultati. Fraunhofer aveva mostrato come superare questa difficoltà, sostituendo il prisma con un reticolo di diffrazione quale elemento di dispersione dello spettroscopio.
Essendo i reticoli di diffrazione costosi e difficili da reperire, Rutherfurd cominciò a sperimentare i metodi di incisione fin dal 1863. In meno di un decennio fu in grado di produrre reticoli di qualità migliore e più facilmente riproducibile di quelli normalmente disponibili, mettendoli generosamente a disposizione di quanti erano in grado di utilizzarli. Potremmo dire in effetti che il maggior contributo di Rutherfurd alla spettroscopia astronomica fu il suo lavoro sui reticoli di diffrazione e l'opera di promozione attiva del loro uso negli spettroscopi stellari.
Tra gli spettroscopisti stellari della prima generazione, quello che diede il maggior contributo alla definizione dei contorni della nascente disciplina astrofisica fu l'astronomo dilettante inglese William Huggins (1824-1910). Ex uomo d'affari con scarsa istruzione formale ma ricco di interessi scientifici, Huggins fu celebre in vita come un pioniere autodidatta che giocò un ruolo chiave nell'introdurre l'analisi spettrale nel lavoro astronomico. Egli venne a conoscenza della scoperta di Kirchhoff da un suo vicino e amico, William Miller, da lungo tempo spettroscopista.
L'ingresso dei moderni strumenti e dei nuovi obiettivi di ricerca poneva esigenze che richiesero cambiamenti sostanziali nell'organizzazione tradizionale del lavoro in un osservatorio. Huggins ebbe un ruolo centrale nel porre le basi del trasferimento dello spettroscopio dal laboratorio del chimico agli astronomi. Insieme a Miller, Huggins preparò un tipo di apparato che rendesse visibili le righe principali delle stelle più luminose, in modo da poter verificare il lavoro precedente di Fraunhofer e di Donati. Anche se i due collaboratori non danno alcun dettaglio sul loro apparato sperimentale, è probabile che si trattasse di qualcosa di improvvisato, in grado di fornire loro impressioni qualitative preliminari. L'obiettivo della loro ricerca era però molto più ambizioso. Essi miravano ad "accertare, se possibile, gli elementi costitutivi delle diverse stelle" e, contemporaneamente, spendevano molto tempo ed energia a perfezionare un apparato che si potesse fissare all'estremità di un telescopio, verso l'osservatore, con una dispersione sufficiente da consentire un confronto rigoroso tra gli spettri stellari e quello del Sole.
Huggins e Miller riportarono disegni schematici degli spettri di assorbimento di Sirio, Betelgeuse e Aldebaran, confrontati con quello del Sole. Non si erano però limitati a queste tre stelle; a completamento della loro prima fase di ricerca, avevano analizzato con questo strumento gli spettri di circa cinquanta stelle, come pure quelli di Marte, di Giove e della Luna, anche se soltanto gli spettri di Aldebaran e di Betelgeuse furono 'mappati' con un livello di completezza tale da soddisfarli.
Il confronto visivo diretto degli spettri stellari con quelli prodotti da elementi terrestri noti era ostacolato dalla mancanza di mappe standard e precise degli spettri. Huggins e Miller intrapresero un'analisi sistematica degli spettri dei metalli, perfezionando in modo significativo la progettazione degli strumenti e la metodologia di ricerca. Huggins escogitò uno strumento dotato di un cerchio graduato intorno al quale si poteva muovere il telescopio per allinearlo con singole righe spettrali, utilizzando viti micrometriche accuratamente calibrate. Scelse come standard di riferimento l'intervallo tra le righe D di Fraunhofer, rendendo così possibile la calibrazione delle misurazioni effettuate da diversi osservatori che utilizzassero differenti strumenti basati su prismi. Le modifiche apportate da Huggins spostarono l'attenzione dell'analisi spettroscopica della luce stellare dal Sole al laboratorio, consentendo agli astronomi di basarsi sugli spettri chimici come standard di confronto e liberandoli quindi dalla necessità di seguire quotidianamente il Sole o di aspettare la sua comparsa per portare avanti le loro ricerche.
Nel 1864 l'attenzione di Huggins si spostò dall'analisi degli spettri stellari alla soluzione di quello che nel 1897 avrebbe definito "l'enigma delle nebulose". Si trattava di una mossa audace, che alla fine lo fece assurgere a una posizione di prestigio e di autorità negli ambienti astronomici.
Le nebulose costituiscono un insieme di oggetti tra i meno visibili del cielo e malgrado decenni di osservazioni, molte domande circa la natura fisica di questi oggetti celesti rimanevano ancora senza risposta. Herschel aveva definito un insieme di categorie distintive, sulla base delle differenze morfologiche, che egli organizzò poi in sequenza temporale. La risoluzione di alcune nebulose in ammassi di stelle, ottenuta grazie a osservatori successivi che utilizzavano telescopi più grandi di quello di Herschel, sollevò il dubbio che il cosiddetto 'fluido splendente' ‒ una specie di humus celeste che avrebbe nutrito il ciclo naturale della crescita e del declino nei cieli ‒ non fosse altro che una chimera, generata dall'inadeguato potere risolutivo degli strumenti disponibili. Sulla base di un'analisi esaustiva di numerose nebulose effettuata con il suo impareggiabile riflettore da sei piedi (1,83 m ca.), William Parsons (1800-1867), terzo conte di Rosse, dichiarò che molte di esse erano aggregati di stelle tra loro vicine. Confessò però che le sue osservazioni erano servite soltanto a rendere l'argomento più misterioso e inavvicinabile. Sembrava che l'enigma delle nebulose dovesse rimanere senza alcuna soluzione positiva e verificabile.
Huggins scelse una nebulosa planetaria luminosa come primo oggetto da esaminare, aspettandosi di scoprire che le nebulose differissero dalle stelle, non tanto rispetto alla materia di cui sono composte quanto alla temperatura e alla densità. Fu sbalordito invece di scoprire che la luce della nebulosa si concentrava in una sola riga luminosa, che non corrispondeva ad alcun elemento terrestre. Gli spettri di altre nebulose planetarie mostravano caratteristiche simili, e ciò lo spinse a concludere che queste non soltanto erano di natura gassosa, ma rappresentavano una categoria di oggetti celesti a sé stante. La scoperta di Huggins attrasse la fantasia dei colleghi e aumentò la loro consapevolezza delle potenzialità dell'analisi spettrale nel produrre nuove conoscenze astronomiche.
L'analisi spettrale come strumento di lavoro
Il nuovo settore di studio inaugurato dall'ingresso dello spettroscopio nella ricerca astronomica si sviluppò rapidamente e in molte direzioni diverse, e nessuno sapeva quale si sarebbe dimostrata più utile. In effetti, l'atteggiamento di Huggins fa capire come fosse possibile che scelte personali si componessero in modo da determinare un mutamento importante nella teoria e nella pratica di una scienza. Invece di affrontare l'arduo compito di catalogare sistematicamente gli spettri delle stelle dell'emisfero nord, Huggins esplorò molti argomenti diversi, in modo innovativo e spesso tecnicamente stimolante. Lo studio spettroscopico delle novae ne costituisce un buon esempio.
L'impossibilità di modificare artificialmente gli oggetti celesti e di effettuare quindi esperimenti su di essi nel senso proprio del termine incoraggiò gli astronomi a prestare particolare attenzione a quelli che mostravano cambiamenti propri. Durante il XIX sec. tra gli astronomi crebbe l'interesse per il rilevamento e la misurazione della variabilità degli oggetti celesti, e quando nel 1866 apparve una 'nuova stella' nella costellazione della Corona Boreale (T Coronae), Huggins e Miller furono i primi ad analizzarne lo spettro. Essi scoprirono che lo spettro della nova era composito, comprendeva cioè una serie di righe luminose sovrapposte a uno sfondo praticamente continuo, e correlarono l'osservazione dell'improvviso aumento e della successiva rapida diminuzione di luminosità con i contemporanei mutamenti dello spettro. Huggins sviluppò una teoria per spiegare queste caratteristiche inconsuete. Il suo schema interpretativo era guidato, ma in effetti anche limitato, dalla ricerca delle corrispondenze tra le righe spettrali della nova e le loro controparti terrestri prodotte artificialmente; inoltre, era centrato sull'attribuzione delle righe luminose al gas caldo luminoso e delle righe scure di assorbimento al passaggio di luce bianca attraverso vapori più freddi. Huggins concluse che questa stella, a causa di qualche evento cataclismatico, avesse rilasciato una gran quantità di idrogeno nella regione immediatamente circostante. In questo quadro, l'intenso calore emanato dalla stella avrebbe incendiato il gas, che si sarebbe quindi consumato in breve tempo.
Huggins definì la nova una "stella in fiamme", sottolineando con ciò di essere in grado di proporre una spiegazione fisica dei cambiamenti di luminosità della nova soltanto eseguendo un accurato esame spettroscopico della luce della stella. Pose quindi provocatoriamente il problema di quale potesse essere stato lo spettro della stella appena prima dell'esplosione, di cosa si potesse dire delle righe luminose osservate in altre stelle e della possibilità che una tale caratteristica potesse far presagire anche per esse cataclismi analoghi in un prossimo futuro. Huggins era convinto che l'interpretazione corretta delle differenze tra le caratteristiche spettrali delle stelle avrebbe dovuto portare a una comprensione delle cause fisiche delle loro variazioni di luminosità. Se si fosse osservata metodicamente nel tempo una stella non variabile, con righe luminose nello spettro, si sarebbe forse potuta identificare una più ampia catena di eventi in grado di stabilire una connessione tra le nebulose, le novae e le stelle, in una sequenza progressiva e fisicamente giustificabile.
Quando T Coronae non fu più visibile e si perse nel crepuscolo a Occidente, Huggins riprese a dedicarsi ai progetti più disparati, come lo sviluppo di un metodo per osservare le protuberanze solari senza bisogno di un'eclisse, la determinazione spettroscopica della composizione chimica delle meteore e la conferma visiva di alcuni cambiamenti delle caratteristiche della superficie lunare di cui era stata data notizia. Fu in questo periodo che Huggins fece una breve incursione nella termometria.
I lavori precedenti in questo settore si erano focalizzati sulla natura del calore radiante e sulle verifiche della sensibilità degli strumenti. Dopo l'annuncio della scoperta di Kirchhoff, però, lo studio termometrico era stato riconosciuto come un mezzo per ottenere informazioni sui processi fisici e chimici che avevano luogo nei corpi celesti. Huggins fu il primo a tentare la misurazione del calore delle stelle; convinto che questo si potesse calcolare più facilmente di quello proveniente dalla Luna, confidava nella possibilità di usare misure quantitative e affidabili del calore stellare per integrare i dati spettrali, con l'importante obiettivo di determinare "le condizioni della materia da cui era emessa la luce nelle diverse stelle" (Huggins 1869b).
Durante le misurazioni, Huggins pose particolare attenzione nell'isolare la termopila da tutte le possibili sorgenti estranee di calore, racchiudendola tra due tubi riempiti di cotone; inoltre, per ridurre la possibilità di trasferimento termico per conduzione, separò con il legno l'intero apparato dal corpo del telescopio. A partire dall'inverno del 1866, osservò almeno cinque stelle luminose, oltre alla Luna, lavorando tenacemente per ottenere risultati coerenti dal suo apparato, ma con poco successo. Si convinse allora di aver bisogno di un telescopio più grande, per concentrare in modo sufficiente la debole radiazione stellare. La sua delusione per l'inaffidabilità dei risultati, insieme alla difficoltà di convertire le deviazioni dell'ago del galvanometro in una quantità equivalente di calore, lo convinsero ad abbandonare la termometria per altri progetti.
I suoi contemporanei, comunque, non vennero a conoscenza dei tentativi effettuati dall'astronomo inglese in questo settore finché il lavoro di altri non spinse Huggins a pubblicare il suo; non sorprende quindi che la ricerca da lui realizzata in termometria sia stata ignorata tanto dai suoi biografi quanto dagli storici dell'astronomia.
Huggins è invece noto per lo sviluppo di un innovativo metodo spettroscopico per determinare il movimento di una stella lungo la visuale. Gli astronomi avevano da molto tempo accettato il fatto che le stelle si muovessero l'una rispetto all'altra, ma il loro movimento si poteva misurare soltanto rispetto alla linea di vista (moto trasversale); nel caso delle stelle, infatti, i normali segnali visivi che servono a valutare se un corpo si muove verso la Terra o in direzione opposta (moto radiale) non erano disponibili. Huggins peraltro era convinto che si potesse usare la spettroscopia al fine di misurare il moto di una stella lungo la visuale, osservando una data riga del suo spettro e contemporaneamente la controparte prodotta da un elemento terrestre noto. Pensava infatti che, come nel caso del cambiamento di altezza previsto correttamente da Johann Christian Doppler (1803-1853) relativamente al suono emesso da una sorgente in movimento, qualsiasi disallineamento delle righe spettrali si sarebbe dovuto attribuire a uno spostamento delle lunghezze d'onda della luce della stella, a causa del suo movimento rispetto all'osservatore sulla Terra.
Nel febbraio 1868 Huggins iniziò una serie di osservazioni in cui confrontava la riga F dell'idrogeno nello spettro di α Canis Maioris (Sirio) con quella ottenuta in laboratorio facendo scoccare una scintilla in un ambiente saturo d'idrogeno. Per aumentare le probabilità di successo, si dotò di una serie di prismi molto dispersivi, e progettò un sistema per proiettare la scintilla di riferimento nel telescopio, il che rendeva più facile l'allineamento e il confronto del suo spettro con quello della stella osservata. Malgrado la non congruenza di alcune misure, concluse che la stella Sirio si allontanava dalla Terra a una velocità di quasi 50 km/s (secondo misure moderne, la velocità radiale di Sirio è di 8 km/s verso la Terra).
Huggins annunciò i suoi risultati con tono sicuro ed 'eroico'. Possiamo dire in effetti che il suo maggior contributo alla riuscita introduzione di questo nuovo metodo nella ricerca astronomica fu proprio la capacità di convincere i contemporanei di aver davvero ottenuto ciò che diceva, malgrado le schiaccianti difficoltà di misurazione e di interpretazione che il metodo poneva. Anche se pochi comprendevano la teoria fisica su cui si basavano queste sue misurazioni, e malgrado l'applicazione del suo metodo fosse di gran lunga al di là delle capacità e delle risorse di molti dilettanti come lui, studiosi di meccanica celeste come per esempio quelli dell'Osservatorio di Greenwich ne riconobbero le potenzialità, ritenendo di poterlo adottare per mappare le posizioni e i movimenti dei corpi celesti.
Gli spostamenti osservati negli spettri stellari erano molto piccoli rispetto agli spettri di riferimento prodotti in laboratorio. Gran parte della difficoltà nella definizione del metodo nasceva dal rilevare questi spostamenti attraverso l'osservazione visiva diretta. A quel tempo i limiti della risposta visiva dell'uomo erano considerati come un ostacolo minore rispetto alle difficoltà intrinseche delle tecniche fotografiche disponibili. Fortunatamente, nel decennio che seguì il primo annuncio di Huggins, i progressi della fotografia resero possibile la registrazione delle immagini degli spettri dei corpi celesti con una definizione sufficiente a consentire agli osservatori una misurazione affidabile delle posizioni delle righe spettrali.
Due notevoli programmi di ricerca contribuirono in modo rilevante a rivelare l'enorme potenzialità analitica e interpretativa fornita dalle misure di velocità radiale. Nel 1886 Edward C. Pickering, direttore dell'Osservatorio dell'Harvard College, inaugurò un monumentale studio spettrografico, sul quale in seguito basò il suo The Draper catalogue of stellar spectra (1890). Inoltre, nel 1887 Hermann Carl Vogel, che era diventato direttore dell'Osservatorio astronomico di Potsdam, e Julius Scheiner avviarono uno studio fotografico intensivo delle velocità radiali delle stelle. Oltre a fornire agli studiosi di meccanica celeste una visione dinamica e tridimensionale della struttura e della forma dei sistemi stellari, questi studi portarono alla sorprendente scoperta che alcune stelle, che sembravano isolate all'osservazione visiva, erano in effetti coppie, o gruppi, di stelle non visivamente scomponibili. Così come lo spettroscopio aveva prodotto nuove conoscenze non appena era stato applicato all'astronomia nel decennio 1860-1870, lo spettrografo indirizzò gli astronomi in filoni di ricerca fertili e mai prima concepiti.
Per tutto l'ultimo quarto del XIX sec. ci si basò sempre più sulla spettroscopia per analizzare la luce di comete, meteore, atmosfere planetarie, protuberanze solari, e perfino della corona solare. Naturalmente, via via che le spettroscopie chimica e astronomica si andavano raffinando, aumentavano i disaccordi sulle interpretazioni dei dati; lo spettrografo si rivelò essenziale per la risoluzione di queste controversie.
Nel 1888 Huggins, in collaborazione con la moglie Margaret L. Murray, si concentrò sull'arduo compito di fotografare lo spettro della nebulosa di Orione (M42). Voleva determinare la natura della cosiddetta 'riga nebulare principale', la riga verde di emissione che aveva individuato anni prima nello spettro delle nebulose planetarie. Fin dalla sua scoperta, la riga nebulare principale era stata generalmente accettata come una caratteristica specifica di alcune classi di nebulose, ma dal momento che si trova vicino a righe spettrali associate a elementi terrestri, i tentativi di spiegare i processi fisici e chimici che la producono innescarono accese polemiche.
Joseph N. Lockyer (1836-1920), direttore di "Nature" e professore di astronomia alla Normal School of Science a South Kensington, riteneva che la riga coincidesse con quella prodotta dal magnesio incandescente, interpretazione a sostegno della sua teoria meteoritica dell'evoluzione stellare. I coniugi Huggins, nel frattempo, ritenevano che la riga indicasse la presenza di un nuovo elemento che chiamarono 'nebulio'. Nella speranza di risolvere in loro favore la controversia, gli Huggins studiarono lo spettro di M42 tra l'ottobre 1888 e l'aprile 1889. Tali osservazioni erano difficili e richiedevano ripetuti confronti diretti dello spettro generato dal magnesio incandescente con quello prodotto dalla nebulosa. Per consentire agli occhi affaticati di riposarsi senza interrompere le osservazioni serali, i coniugi si alternavano nei ruoli di osservatore e di addetto all'apparato; le osservazioni congiunte confermarono la loro convinzione che la riga nebulare, anche se vicina a quella del magnesio, era comunque distinta da essa.
Convinti che le osservazioni visive non sarebbero state sufficienti a dirimere la questione con certezza, gli Huggins, superando frustrazione e avversità, ottennero una dimostrazione fotografica a sostegno della loro affermazione. Le argomentazioni che presentarono contro l'interpretazione di Lockyer dello spettro della nebulosa furono considerate convincenti da molti dei loro colleghi.
Anche se la loro indagine contribuì notevolmente a mettere in dubbio il ruolo delle meteoriti incandescenti come origine della riga nebulare principale, i coniugi Huggins non riuscirono a identificare il 'nebulio' quale unica alternativa possibile. Come tutti gli altri spettroscopisti sperimentali del tempo, si attenevano al metodo usuale di comparare gli spettri sconosciuti con quelli di campioni noti e in molti casi tale metodo era effettivamente adeguato per decidere la validità della tesi. In mancanza di una teoria fisica da usare come guida per lo sviluppo di strategie sperimentali alternative, la spiegazione autentica della riga nebulare rimase un mistero fino al 1927, quando, sulla scia dei recenti progressi della teoria atomica, il fisico e astrofisico statunitense Ira S. Bowen la identificò come segnale di una cosiddetta transizione 'proibita' nell'ossigeno doppiamente ionizzato (OIII), un processo fisico assolutamente non previsto, e in effetti non prevedibile, da pionieri della spettroscopia come Huggins e Lockyer.
Nel 1892, dopo più di un quarto di secolo dall'indagine spettroscopica svolta sulla nova nel 1866, Huggins ebbe l'opportunità di esaminare lo spettro di un'altra nova che era apparsa nel gennaio di quell'anno nella costellazione dell'Auriga. Huggins e sua moglie si unirono agli astronomi di mezzo mondo nell'analizzarne la luce.
Gli astronomi, i fisici e i chimici non comprendevano ancora bene i meccanismi fisici responsabili di tali eventi e lavoravano alle ipotesi sulle cause della presenza stessa delle linee spettrali, nonché sui motivi della loro occasionale scomparsa, del loro allargamento, della loro separazione in doppietti, oppure del loro spostamento. Ciononostante le indicazioni disponibili per l'interpretazione dei dati erano maggiori rispetto al passato. Huggins stesso aveva messo in relazione lo spostamento delle linee spettrali con il moto relativo della sorgente luminosa lungo la visuale. Le caratteristiche principali da lui notate nella nova del 1866, cioè la presenza di righe luminose e di righe scure, venivano ora universalmente osservate nello spettro della nova di Auriga. Questa volta però le righe luminose potevano essere (e furono) descritte come molto allargate e spostate verso l'estremità rossa dello spettro.
Un buon numero di queste righe luminose si accompagnava a righe adiacenti di assorbimento, spostate verso il blu. Secondo l'interpretazione adottata, gli spostamenti indicavano che la luce analizzata proveniva da almeno due sorgenti distinte: una costituita da gas luminoso o da una stella in allontanamento dalla Terra, l'altra identificabile con un oggetto più simile al Sole in movimento verso la Terra, entrambi a velocità enorme. Alcune delle righe scure e di quelle luminose apparivano come doppietti e forse tripletti, e questa osservazione portò subito all'ipotesi che l'evento coinvolgesse l'urto esplosivo di diversi oggetti, forse anche sei.
Huggins preferì costruire uno scenario basato su elementi più familiari, secondo il quale le righe spettrali luminose e quelle scure significavano, forse, l'inizio di eruzioni stellari violente che riversavano nello spazio materiale gassoso caldo, rimasto intrappolato sotto la crosta in raffreddamento di una stella antica. Queste eruzioni sarebbero state simili a quelle visibili quotidianamente sul Sole, ma molto più violente. In alternativa, le righe potevano indicare la creazione di 'strati di inversione' multipli dovuti a turbolenze nella normale struttura dell'atmosfera stellare, causate probabilmente da forze di marea provocate da una stella compagna vicina o da una stella di passaggio. Simili inversioni multiple, secondo Huggins, erano state indotte artificialmente nei laboratori terrestri e potevano segnalare l'esistenza di processi dinamici all'interno delle stelle. Se da un lato condizioni di questo genere si potevano difficilmente ritenere ordinarie, dall'altro Huggins le considerava comunque più probabili rispetto alla circostanza di avere sei stelle che, in modo indipendente, si muovevano l'una verso l'altra su una rotta di collisione.
L'ampio intervallo di tempo durante il quale la luce emessa dalla nova rimase abbastanza intensa da consentirne l'analisi diede agli astronomi di tutto il mondo l'opportunità senza precedenti di esaminarla in modo molto accurato. William W. Campbell (1862-1938), dell'Osservatorio Lick in California, affermò che foto recenti della nova mostravano chiaramente un aspetto nebulare e, infatti, analisi successive dello spettro della nova indicavano le caratteristiche distintive di una nebulosa planetaria.
A Huggins pareva difficile immaginare che potessero realisticamente determinarsi cambiamenti così rapidi nella nova o nel suo spettro. Ritenne che l'immagine fotografica sfocata della stella prodotta presso il Lick fosse imputabile a una mancata messa a fuoco appropriata per le lunghezze d'onda emesse durante l'esplosione, e mise energicamente in dubbio l'interpretazione di Campbell dello spettro della nova. In effetti, quando la nova dell'Auriga tornò in posizione favorevole nel cielo serale, il febbraio seguente, Huggins esaminò la sua ormai flebile luce, cercando specificamente tracce di caratteristiche nebulari. Egli sarebbe stato senz'altro in grado di riconoscere lo spettro di una nebulosa planetaria e lo spettro della nova di Auriga, con la sua complessa sequenza di linee luminose, non mostrava le caratteristiche necessarie per classificarla come tale.
Huggins, al contrario, nel 1892 associava lo spettro della nova a quello di β Lyrae, una stella con uno spettro di righe luminose e righe scure variabili in modo complicato in luminosità, larghezza e struttura. Il punto di vista moderno è a sostegno dell'interpretazione dei dati fornita da Campbell, ma è importante rendersi conto che essa non fu la sola a essere presa seriamente in considerazione quando la nova apparve. Se la spiegazione fisica di Huggins degli eventi che avrebbero portato all'esplosione improvvisa della nova ci appare oggi artificiosa, per Huggins era lo schema di Campbell a essere difficile da accettare sulla base dei limiti imposti dalle regole della spiegazione scientifica alle interpretazioni dei dati; questi legittimano, infatti, soltanto le interpretazioni basate sui più semplici meccanismi noti e sul numero minimo di ipotesi.
Non essendo in grado di modificare artificialmente le condizioni in cui i corpi celesti producono la loro luce, osservatori eclettici e pronti a cogliere al balzo le opportunità, come Huggins, potevano solamente estrapolare i risultati ottenuti in laboratorio, rivolgerli poi verso la volta celeste e tornare al laboratorio, elaborando in modo ambiguo un sistema di teorizzazione fisica ancora incompleto e incerto. Si trattava di un metodo rischioso; ciononostante, permettendo la coesistenza e la fruttuosa interazione di un ampio repertorio di schemi interpretativi, la mancanza di indicazioni esplicative chiare in tale disciplina ancora immatura si rivelò spesso di aiuto, piuttosto che di ostacolo, per questi audaci pionieri.
Per altri, prevalentemente astronomi professionisti legati alle istituzioni scientifiche, l'incertezza di questa fase preparadigmatica della ricerca in astrofisica richiedeva un approccio più baconiano, caratterizzato da studi sistematici e su larga scala delle stelle, come quelli condotti nel decennio 1860-1870 da Secchi. Progetti di questa dimensione richiedevano un sostegno finanziario di lungo periodo da parte di mecenati ricchi e affidabili. Le istituzioni pubbliche dipendevano, nel bene e nel male, da finanziamenti governativi, mentre le istituzioni private corteggiavano la generosità dei singoli che mostravano interesse per questi studi. Fu grazie ai fondi e agli strumenti donati da Mary A. Palmer, vedova dell'astronomo Henry Draper, che Pickering poté intraprendere il compito ambizioso di fotografare e catalogare gli spettri di tutte le stelle più luminose visibili nell'emisfero settentrionale. Lo svolgimento di un simile compito non consentì agli astronomi il lusso di dedicarsi con attenzione a ogni singola stella. Ponendo un grande prisma davanti alle lenti dell'obiettivo del telescopio, e lasciando che il movimento della Terra durante un'esposizione di durata opportuna allargasse abbastanza lo spettro di ogni stella, il gruppo di Pickering fu in grado di registrare in una sola immagine gli spettri di tutte le stelle, qualche volta fino a 200, all'interno del campo visivo del telescopio.
La prima versione di The Draper catalogue of stellar spectra, pubblicata nel 1890, conteneva gli spettri di oltre 10.000 stelle. Non si trattava semplicemente di una tabella di dati; fin dall'inizio il catalogo era concepito in modo da fungere da sistema di classificazione stellare: era strutturato secondo una sequenza di diciassette categorie (A-Q), derivate dallo schema di Secchi, ma nello stesso tempo era suscettibile di modifiche e perfezionamenti, via via che si registravano nuovi spettri. Il catalogo, composto da un numero straordinariamente grande e continuamente crescente di campioni di spettri stellari, era uno strumento ideale per quel tipo di analisi statistica rigorosa che, come giustamente previsto da Pickering, avrebbe fornito nuove informazioni sulla costituzione fisica e chimica delle stelle.
Nel 1911, Annie Jump Cannon, allora responsabile della fotografia astronomica presso l'Harvard Observatory, iniziò a lavorare alla creazione del nuovo Draper catalogue classificando gli spettri di 5000 nuove stelle al mese per quattro anni (Cannon 1915). Il catalogo in nove volumi che ne risultò, comprendente quasi 250.000 spettri stellari, costituiva un successo senza precedenti.
Per i pionieri dell'astrofisica, che si trattasse di ricercatori indipendenti come Huggins o di responsabili di progetti di grandi dimensioni quali Pickering, la relazione tra le osservazioni in laboratorio e quelle sul campo costituiva una simbiosi fertile, anche se a volte conflittuale. Attraverso le discussioni, le critiche e le controversie che questa provocava si consolidò la fiducia nella capacità interpretativa della spettroscopia astronomica empirica. I contemporanei progressi nella fisica atomica incrementarono il potenziale esplicativo delle caratteristiche spettrali. Quando il XIX sec. si avvicinava ormai alla fine, le domande che gli astronomi potevano porsi sui corpi celesti che osservavano, come pure i metodi considerati appropriati per esaminarli, erano cambiati in un modo che difficilmente i loro predecessori avrebbero potuto immaginare. Nella generazione successiva, chi avesse scelto di intraprendere una carriera in astronomia poteva aspettarsi di comprendere la natura delle novae, il significato fisico e chimico della varietà delle righe del calcio negli spettri stellari, il motivo dell'intensità variabile delle righe dell'idrogeno e dell'elio in stelle diverse, le cause delle eruzioni solari, la struttura e la composizione della corona solare, la struttura della Via Lattea, la dinamica dei moti stellari e persino l'origine della stessa luminosità delle stelle.
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