L'Ottocento: biologia. Da Lamarck a Darwin
Da Lamarck a Darwin
La prima teoria compiuta dell'evoluzione fu formulata da Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829). Membro di una piccola famiglia della nobiltà piccarda, dopo una breve carriera militare interrotta per motivi di salute e studi di medicina non portati a termine, si dedicò alla storia naturale, in particolare alla botanica. La sua prima opera, la Flore françoise, fu pubblicata in tre volumi nel 1778, per intervento di Georges-Louis Leclerc de Buffon. Nel Discours préliminaire Lamarck attaccava il sistema linneano e i metodi artificiali di classificazione e affermava la necessità di comprendere il procedimento effettivo (marche) seguito dalla Natura, anziché imporle un ordine arbitrario. Classi e generi sono invenzioni umane: la Natura, infatti, conosce soltanto le specie, che sono immutabili e vengono stabilite in base al criterio riproduttivo; le varietà sono il risultato delle influenze ambientali ma non vanno confuse con le specie. L'ordine naturale è una gradazione decrescente, che procede dalla pianta più complessa a quella più semplice.
In altri scritti dello stesso periodo, in particolare nelle voci per la parte botanica dell'Encyclopédie méthodique dell'editore Panckoucke, da lui curata fra il 1783 e il 1789, Lamarck attenua la polemica verso i sistemi artificiali, si serve dei generi, delle famiglie e delle classi per tracciare un abbozzo del sistema naturale e adduce l'incompletezza delle conoscenze a giustificazione dell'impossibilità di costruire una gradazione regolare e naturale delle forme vegetali. In questo periodo è un convinto sostenitore del fissismo, tanto che, se da una parte riafferma la tesi buffoniana secondo la quale in Natura vi sono soltanto individui raggruppabili in specie mediante il criterio riproduttivo, dall'altra non mostra simpatia per l'idea (anch'essa buffoniana) della degenerazione delle specie da forme prototipiche. Netto è il suo rifiuto della generazione spontanea: fino al 1800 crederà che una distanza infinita separi gli esseri viventi dagli esseri inorganici.
Fino al 1794 Lamarck scrive soltanto di botanica e come botanico viene ammesso all'Académie Royale des Sciences di Parigi (membro aggiunto nel 1779, membro effettivo nel 1790). Tuttavia coltiva numerosi interessi: dalla chimica alla meteorologia, dalla fisica alla geologia e si dedica anche alla classificazione delle conchiglie, di cui raccoglie una collezione ragguardevole. Questi interessi convergono nelle Recherches sur les causes des principaux faits physiques (1794), un'opera ambiziosa che vuole offrire una visione unitaria dei fenomeni naturali e nella quale si esprime la forte avversione dell'autore per la specializzazione e la separazione tra le discipline. L'anno precedente era stato nominato dalle autorità rivoluzionarie professore di 'zoologia degl'insetti, dei vermi e degli animali microscopici' al Muséum d'Histoire Naturelle di Parigi, l'istituzione che aveva preso il posto del Jardin des Plantes.
Nelle Recherches Lamarck espone una concezione della materia e della vita che per molti aspetti costituirà la base del suo pensiero successivo e che si fonda su una dottrina chimica in netto contrasto con le teorie di Antoine-Laurent Lavoisier. Si tratta di una rielaborazione della vecchia chimica dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), tra i quali il fuoco ha un'importanza centrale. È assurdo, sostiene Lamarck, affermare che vi sia un numero limitato e fisso di elementi e di composti: i componenti di ogni composto sono invece indefinitamente variabili e combinabili. Come farà anche in tutti gli scritti in cui toccherà problemi di chimica, Lamarck lancia un attacco violento a coloro che riducono la chimica al vano tentativo di dare un nome a tutte le forme minerali e a tutte le combinazioni chimiche, considerando come sostanze effettive quelle che sono soltanto condizioni transitorie e accidentali. I composti chimici e i minerali non possono formarsi spontaneamente per legami di affinità o per cristallizzazione: al contrario, poiché i quattro elementi tendono naturalmente a raggiungere lo stato puro, tutti i composti tendono alla disgregazione. La loro formazione non può dunque essere dovuta a cause puramente materiali.
Contro la tendenza alla disgregazione che domina la natura inorganica agiscono gli esseri viventi. Animati da una forza ordinatrice e costruttiva che Lamarck non esita a definire "principio vitale", assimilano la materia inorganica e la organizzano fino al momento della morte, quando i prodotti della loro sintesi cedono definitivamente alle forze disgregatrici. Tutti i composti che esistono sulla Terra sono il prodotto dell'attività degli esseri viventi o il residuo di processi vitali. Fra la materia inorganica e gli esseri viventi vi è "una distanza infinita", un abisso incolmabile: è come se gli esseri viventi non facessero affatto parte della Natura, poiché "tutto ciò che si può indicare con il termine 'natura' è incapace di dare la vita" (Lamarck 1794, II, p. 214). Sulle origini della vita Lamarck rifiuta di pronunciarsi, e così pure sulla natura del principio vitale, destinato a rimanere per sempre al di là della portata dell'uomo. Alla condanna della nuova chimica egli unisce quella delle speculazioni sull'origine della Terra e sui rapporti fra la storia della Terra e la storia della vita.
Le teorie chimiche di Lamarck furono accolte con freddezza negli ambienti scientifici. Anziché desistere o rivederle, egli s'intestardì, convinto che l'indifferenza dei colleghi fosse una prova della verità e dell'originalità delle sue idee, che furono quindi ribadite nella Réfutation de la théorie pneumatique, ou de la nouvelle doctrine des chimistes modernes (1796) e nei Mémoires de physique et d'histoire naturelle (1797). Analoga fu la sorte delle dottrine meteorologiche che sviluppò dal 1798, nel tentativo di fondare su una teoria dell'influenza della Luna sull'atmosfera terrestre una scienza meteorologica capace di fornire previsioni anche per un anno intero. Nel 1799 pubblicò il primo di una serie di Annuaires météorologiques (conclusasi nel 1810), che ebbero un discreto successo commerciale. Giunse perfino ad assicurarsi l'appoggio del ministro degli Interni Jean-Antoine-Claude Chaptal per l'istituzione di una rete nazionale di rilevazioni climatiche, ma l'iniziativa fallì per la scarsa adesione degli scienziati. Un suo saggio, Sur les variations de l'état du ciel, letto nel 1802 e pubblicato nel 1803, suscitò commenti ironici da parte di Pierre-Simon de Laplace.
Il discredito avrebbe accompagnato a lungo l'immagine pubblica di Lamarck: nel 1809 Napoleone rifiutò il dono di una copia della Philosophie zoologique, appena pubblicata, credendo che si trattasse dell'ennesimo almanacco meteorologico. Questo ulteriore insuccesso, tuttavia, rafforzò Lamarck nella convinzione di essere un antesignano del progresso scientifico e accrebbe il suo isolamento. Il carattere orgoglioso e la tendenza a non riconoscere sempre i meriti altrui gli alienarono anche le simpatie di quei naturalisti che, o perché relegati ai margini dell'accademia dalle nuove élites scientifiche, vuoi perché più affini allo spirito della filosofia naturale lamarckiana, sarebbero stati più aperti a collaborare e a discutere le sue teorie, come il geologo e naturalista Jean-Claude de La Métherie (1743-1817), direttore del "Journal de physique". I geologi, anche quelli che attribuivano la formazione del calcare all'azione degli organismi, non erano disposti ad accettare l'idea che tutti i minerali fossero di origine organica.
Accoglienza molto diversa ebbero i lavori che Lamarck, anche in ossequio ai suoi compiti istituzionali di professore del Muséum e di responsabile delle collezioni, dedicò in misura sempre crescente agli invertebrati (la distinzione fra vertebrati e invertebrati fu introdotta proprio da lui nel settimo dei Mémoires pubblicati nel 1797) e soprattutto alle conchiglie. Fra il 1802 e il 1806 egli pubblicò una lunga serie di Mémoires sur les fossiles des environs de Paris. Se in scritti precedenti aveva basato la classificazione delle conchiglie sull'esame del solo guscio esterno, ora rivolgeva l'attenzione ai molluschi e attingeva ai lavori che il giovane Georges Cuvier (1769-1832) aveva prodotto a partire dai primi anni Novanta. I rapporti fra i due erano destinati a deteriorarsi, ma in questi anni essi collaboravano; in particolare, concordavano sull'assumere come chiave della classificazione naturale il criterio della complessità dell'organizzazione (un'idea che Cuvier avrebbe abbandonato per sostituire alla serie unica quattro embranchements o piani di organizzazione assolutamente separati).
Agli occhi di Lamarck il regno animale si presenta come una serie di forme disposte secondo una graduale semplificazione degli organi, dalle facoltà dell'uomo all'"ultimo rudimento dell'animalità", individuato ora nei "polipi", ora nelle "molecole animate", organismi microscopici che vivono nell'acqua. Negli scritti lamarckiani di questo periodo non si trova il minimo spunto evoluzionistico; eppure i suoi lavori sulle conchiglie fossili contribuivano a un dibattito molto vivo nella comunità scientifica del tempo: quello sulla relazione tra i fossili e i loro analoghi viventi. Nel 1796 Cuvier aveva negato che vi fosse affinità fra gli organismi del passato e quelli viventi: la discontinuità tra le forme fossili e quelle attuali era dovuta alle catastrofi che periodicamente avevano interrotto la continuità della vita in ampie regioni. Altri, però, pur ammettendo la frequenza delle estinzioni, tendevano a ridimensionare il ruolo degli eventi geologici eccezionali; sostenevano inoltre che le somiglianze tra le forme fossili e le forme attuali erano analoghe a quelle tra le varietà di una stessa specie e spiegabili con i cambiamenti subiti per effetto delle modificazioni della crosta terrestre (per es., in seguito a mutamenti climatici o al ritiro delle acque che un tempo coprivano vaste zone montuose).
Alcuni si erano spinti fino a ipotizzare che la vita avesse avuto origine da diverse forme elementari sorte per generazione spontanea nel mare che un tempo ricopriva vaste regioni della Terra, se non tutto il pianeta; da queste erano poi derivate, attraverso la catena della generazione e sotto l'influenza dei fattori ambientali, tutte le altre forme, fino a quelle attuali. Idee del genere furono espresse da de La Métherie, da Eugène-Louis-Melchior Patrin (1742-1815) e Philippe Bertrand (1730-1811) e subito condannate da Cuvier. Nel discorso Sur la durée des espèces, premesso all'Histoire naturelle des poissons (1800), un'opera intesa a completare l'Histoire naturelle, générale et particulière (1749-1767) di Buffon, anche un naturalista rispettato come Bernard-Germain-Étienne de la Ville conte di Lacépède (1756-1825) affermava che le specie potevano estinguersi "quando giunge l'ora" o trasformarsi (se métamorphoser) in altre. Attraverso una sorta di processo degenerativo, passando "di degradazione in degradazione", una specie "sparisce per una serie di sfumature insensibili e di alterazioni successive". Queste possono dare inizio all'estinzione (perché gli organi perdono "forma, volume, flessibilità, elasticità, irritabilità", oppure perché la loro attività è tanto sollecitata che le energie "si scombinano, si deformano e si spezzano") o alla trasformazione in un'altra specie, se determinate influenze ambientali agiscono per lunghi periodi di tempo (Lacépède 1800 [1979, p. 130]).
Le ipotesi della trasformazione delle specie, dell'estinzione e della generazione spontanea furono ammesse dal medico e filosofo Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808) in alcune pagine dei suoi Rapports du physique et du moral de l'homme (1802). Se Cabanis e Lacépède erano scienziati autorevoli, gli altri erano perlopiù persone che, per la loro attività professionale, per vicende personali o per il tipo di storia naturale che coltivavano si muovevano ai margini dell'accademia, erano più inclini degli scienziati di professione a concepire grandi visioni unitarie della Natura e della storia della Terra e si rivolgevano a un pubblico di dilettanti colti che accoglieva con favore grandi vedute d'insieme nello stile di Buffon.
Fino al 1800, dunque, Lamarck crede nella fissità delle specie e rifugge dallo speculare sulla storia della vita sulla Terra, nonostante le sue ricerche sulle conchiglie fossili gli impongano di porsi il problema e benché il tema della trasformazione degli organismi sia oggetto di discussioni nell'ambiente scientifico. Il suo primo pronunciamento evoluzionistico si trova nel Discours d'ouverture del corso di zoologia tenuto al Muséum, letto il 28 fiorile dell'anno VIII della Repubblica (18 maggio 1800) e poi premesso al Système des animaux sans vertèbres (1801). Vi si legge che la classificazione dal semplice al complesso può essere applicata solamente alle "grandi masse" dell'organizzazione (per es., alle "grandi famiglie"), poiché fra i generi e le specie non è possibile stabilire alcuna serie lineare e regolare. L'ordine dal semplice al complesso, tuttavia, è quello seguito dalla Natura stessa nel produrre gli esseri viventi. Il testo contiene anche una vaga allusione alla generazione spontanea delle forme più elementari dell'"animalizzazione", cioè degli esseri più semplici, "quelli con cui forse la natura ha iniziato, quando, con l'aiuto di molto tempo e di circostanze favorevoli, ha prodotto tutti gli altri" (Lamarck 1801a, p. 12).
In queste pagine Lamarck introduce il concetto, destinato a diventare il cardine del suo meccanismo evolutivo, che il movimento dei fluidi all'interno dei "corpi organici" ne alteri le strutture. Vi si trova anche l'idea che i bisogni e le abitudini, attraverso l'uso e il disuso degli organi, modifichino gli organismi consentendo loro di adattarsi all'ambiente. È il principio secondo il quale non è l'organo a determinare la funzione bensì l'inverso: "Non è la forma del corpo o delle sue parti che dà luogo alle abitudini, al modo di vivere degli animali ma, al contrario, sono le abitudini, il modo di vivere e tutte le circostanze influenti che, con il tempo, hanno prodotto la forma del corpo e delle parti degli animali. Con nuove forme, sono state acquisite nuove facoltà, e a poco a poco la Natura ha raggiunto la condizione in cui la troviamo adesso" (ibidem, p. 15). Questa concezione è spiegata con esempi che saranno ripresi nelle opere successive e contribuiranno, con la loro infelice formulazione, a diffondere un'immagine caricaturale del meccanismo evolutivo lamarckiano e a fornire alimento all'ironia degli avversari.
L'uccello che va sull'acqua spinto dal bisogno di trovare la preda da cui dipende il suo sostentamento allarga le dita dei piedi quando vuole battere l'acqua e muoversi alla sua superficie. La pelle che unisce queste dita alla base acquisisce così l'abitudine di distendersi. Così, col tempo, si sono formate le ampie membrane che oggi vediamo unire le dita delle oche, delle anatre, ecc.
Ma l'uccello che il modo di vita abitua a stare appollaiato sugli alberi finisce necessariamente coll'avere dita dei piedi più lunghe e di forma diversa. Le unghie si allungano, si affilano e s'incurvano a uncino, in modo da afferrare i rami su cui tanto spesso si posa.
E così pure si capisce come l'uccello che vive sulle spiagge, a cui non piace nuotare ma che deve avvicinarsi all'acqua per trovarvi la preda, sia costantemente esposto a sprofondare nel fango. Ora, volendo far sì che il corpo non affondi nel liquido, farà contrarre ai piedi l'abitudine di allargarsi e distendersi. Per effetto del succedersi di generazioni e generazioni di uccelli simili che continuano a vivere in questo modo, gl'individui si ritroveranno sollevati su lunghe gambe nude, come su trampoli, cioè su gambe prive di penne fino alle cosce e oltre. (ibidem, p. 14)
La concezione evoluzionistica di Lamarck si precisa nella lezione inaugurale dell'anno successivo, che viene ripetuta nel 1802 e inclusa come capitolo introduttivo nelle Recherches sur l'organisation des corps vivans, pubblicate nello stesso anno. Questa prima sintesi del pensiero lamarckiano contiene tutti gli elementi che si ritrovano nella più famosa Philosophie zoologique e nell'introduzione alla monumentale Histoire naturelle des animaux sans vertèbres (1815-1822). Nelle Recherches Lamarck si pronuncia esplicitamente a favore della generazione spontanea delle forme più elementari di vita e sostiene che si tratta di un fenomeno non limitato alle origini della vita, ma ricorrente in Natura, ogni volta che vi siano circostanze favorevoli. Ripropone gli esempi ornitologici del 1800 e ne aggiunge altri, come quello delle unghie retrattili dei felini e, in extremis (a integrazione della Table des matières!), quello, ripetuto in seguito e destinato a diventare famoso, della giraffa "che, vivendo in luoghi in cui la terra è arida e senza erba, è costretta a brucare le foglie degli alberi e a sforzarsi continuamente per raggiungerle" (Lamarck 1802, p. 208).
Le Recherches dovevano essere, nelle intenzioni di Lamarck, l'anticipazione di una "biologia" (egli usa tra i primi questo termine per indicare lo studio dell'"origine, dell'organizzazione e degli sviluppi dei corpi viventi") che avrebbe completato un'ambiziosa "fisica terrestre" prevista in tre parti, di cui le prime due dovevano essere una "meteorologia" ("teoria dell'atmosfera") e una "idrogeologia" ("teoria della crosta del globo"). Di queste vide la luce soltanto l'Hydrogéologie (1801), pochi mesi prima delle Recherches. Essa contiene una teoria secondo la quale è il movimento delle acque che ha sagomato e sagoma la superficie terrestre, determinando un equilibrio instabile fra continenti e bacini marini. Vi si ritrovano anche gli attacchi alla chimica moderna e a coloro che ricorrono a catastrofi per spiegare i fenomeni geologici, indulgono in illecite speculazioni sull'origine e le condizioni primordiali della Terra e pretendono di ricostruirne la storia.
Il sistema terrestre descritto da Lamarck non ha un inizio, una storia o una direzione; è solamente un susseguirsi ciclico di operazioni uniformi per intensità e continuità. Lamarck fa soltanto qualche accenno fugace alle trasformazioni subite dagli organismi nel tempo, ma non dice nulla né dell'origine della vita né della generazione spontanea. Del resto, secondo le sue teorie chimiche, gli organismi sono necessari per produrre i minerali e dunque sono presupposti dal sistema delle cause geologiche che qui viene descritto; in altri termini, devono essere stati presenti fin dall'inizio. Lamarck non rispose mai chiaramente alla domanda: se tutti i composti inorganici presuppongono l'azione degli organismi, come sorsero le prime forme di vita? Così come nelle sue opere non si trova mai una chiara esposizione della successione delle forme nel tempo geologico. Inoltre, i fossili hanno un peso molto scarso tra gli argomenti addotti a sostegno della sua teoria dei meccanismi evolutivi.
Non è chiaro che cosa abbia orientato Lamarck verso l'evoluzionismo. Un fattore importante può essere stato il rifiuto di ammettere l'estinzione. Convinto, infatti, che in Natura non ci fossero fenomeni straordinari, Lamarck non poteva accettare che le catastrofi avessero aperto d'un colpo vuoti incolmabili nell'economia della Natura. Egli credeva che le cosiddette "specie perdute" non fossero veramente scomparse per sempre: si erano, invece, trasformate nelle specie attuali oppure si erano conservate in acque o terre ancora inesplorate e, prima o poi, sarebbero state ritrovate. L'aumento delle conoscenze e l'ampliamento delle collezioni avrebbero colmato le lacune delle classificazioni, mostrando in modo inconfutabile che la Natura procede sempre per gradi. Forse si erano estinte veramente soltanto alcune specie di grandi mammiferi, ma per colpa dell'uomo, non dei processi naturali.
Un altro fattore importante dovette essere la revisione del concetto di vita e la scoperta delle capacità dei fluidi di modificare la struttura degli organismi. La definizione lamarckiana di vita era divenuta più materialistica: già nei Mémoires non si parla più di principio vitale e la vita viene definita come "un movimento che risulta dallo svolgimento delle funzioni essenziali". Tuttavia, l'ammissione chiara della generazione spontanea avviene solamente dopo che sono emersi tutti gli altri elementi della teoria. I fluidi, del resto, hanno un ruolo centrale non soltanto nella chimica e nella fisiologia di Lamarck ma anche nella sua classificazione degli animali: egli adotta il sistema nervoso come criterio principale, seguendo del resto l'esempio di altri, in primo luogo di Cuvier. Nell'introduzione all'Histoire naturelle des animaux sans vertèbres divide gli animali in "apatici" (cioè insensibili), sensibili e intelligenti, secondo che siano sprovvisti di sistema nervoso, ne abbiano uno poco sviluppato o uno molto sviluppato. Nei nervi circola il "fluido nervoso", una delle tante modificazioni del fuoco, che è il principio dinamico fondamentale, la vera base fisica della vita e di ogni attività chimica. La sostanza ignea, che nella forma pura è detta "fuoco etereo", assume diversi stati: fluido elettrico, fluido magnetico, calorico, fuoco fisso, fluido nervoso, sangue, linfa, fluidi elastici nelle piante. Il fuoco etereo, tenuissimo, è in grado di penetrare tutti i corpi e di trasformarli. È questa capacità che fa di ogni organismo qualcosa di straordinariamente plastico. La vita è "un fenomeno affatto naturale, un fatto fisico, ancorché complesso nei suoi principî […], un ordine e uno stato di cose nelle parti di ogni corpo che la possiede, i quali consentono o rendono possibile lo svolgimento del movimento organico e, fin tanto che persiste, contrasta con successo la morte" (Lamarck 1802, pp. 70-71).
Stabilendo un'ardita analogia fra la generazione spontanea e la fecondazione sessuale, Lamarck sostiene che in entrambe il processo è messo in moto da un fluido o vapore che penetra nella materia e dà inizio al movimento. I fluidi pervadono la Natura e la loro azione, puramente meccanica (descritta da Lamarck talora in termini chimici, talora in termini idraulici), tende di per sé a complicare la struttura e l'organizzazione dei corpi organici e a indirizzarne lo sviluppo nel senso, si direbbe oggi, della specializzazione.
Il movimento organico non ha solo la proprietà di sviluppare l'organizzazione dei viventi, ma anche quella di moltiplicare gli organi e le funzioni da compiere […]. Esso tende a ridurre a funzioni specifiche di certe parti le funzioni che prima erano generali, cioè comuni a tutte le parti del corpo […]. Il compito del movimento dei fluidi nelle parti molli dei corpi viventi che li contengono è di aprirvisi vie, depositi e uscite; di crearvi canali e, di conseguenza, vari organi; di differenziare questi canali e organi secondo la diversità dei movimenti o della natura dei fluidi che li producono; infine, di ingrandire, allungare, dividere e consolidare gradualmente questi canali e organi con il materiale che è costantemente prodotto e ceduto dai fluidi in movimento. (ibidem, pp. 7-9)
Queste modificazioni si producono tanto più facilmente negli embrioni e negli organismi giovani, le cui parti sono ancora malleabili. Proprio lo sviluppo dell'embrione dimostra che il movimento organico tende a produrre strutture più complicate. L'altra prova, come è noto, è fornita dal sistema tassonomico, poiché tutte le "grandi masse dell'organizzazione" possono essere disposte secondo una serie crescente di complessità. Il "potere della vita" è anche il "piano della Natura", cioè il cammino da questa seguito (la marche de la Nature) nel produrre tutte le forme attualmente esistenti, cominciando con gli organismi più "imperfetti", ossia più semplici, per concludere con i più "perfetti", cioè più complessi e specializzati. Nonostante la terminologia, non vi è nulla di vitalistico o di finalistico in questa concezione, poiché la tendenza alla complicazione non può affatto essere considerata prescindendo dalla sua base nella meccanica dei fluidi. In Natura non c'è alcun progetto o fine: tutto avviene per una concatenazione necessaria di cause ed effetti.
Dopo il 1802, tuttavia, lo stesso Lamarck tende a formulare la legge della complessità crescente in termini soprattutto zoologici, come se si trattasse soltanto di un dato di fatto tassonomico, mettendo in secondo piano le sue origini nella chimica stessa della vita. Ciò, unitamente a un'espressione faticosa e contorta, favorirà letture affrettate e parziali, quando non superficiali, e molti intenderanno la tendenza alla complicazione come una sorta di predisposizione intrinseca della Natura al perfezionamento. Una parte del neolamarckismo di fine Ottocento riprese proprio questo (preteso) aspetto della teoria lamarckiana per contrapporlo alla casualità del processo evolutivo darwiniano. Comunque sia, Lamarck enuncia così, nell'introduzione all'Histoire naturelle des animaux sans vertèbres, le "leggi generali della vita":
Prima legge: La vita, per le sue forze intrinseche (propres), tende continuamente ad aumentare il volume di ogni essere che la possiede e ad accrescere le dimensioni delle parti di questo fino a un limite che essa stessa predetermina.
Seconda legge: La produzione di un nuovo organo in un corpo animale deriva dal presentarsi di un nuovo bisogno che si fa sentire costantemente e parimenti da un nuovo movimento organico che questo bisogno fa nascere e alimenta.
Terza legge: Lo sviluppo e l'efficienza (force d'action) degli organi sono costantemente proporzionali all'uso degli organi stessi.
Quarta legge: Tutto quello che è stato acquisito, delineato o modificato nell'organizzazione degl'individui durante la loro vita viene conservato attraverso la riproduzione e trasmesso ai nuovi individui nati da quelli che hanno subito i cambiamenti. (Lamarck 1815-22, I, pp. 181-182)
Secondo Lamarck, dunque, la gradazione è visibile solamente nelle "grandi masse" dell'organizzazione, cioè tra le classi, e non fra i generi e le specie. Infatti, l'influenza delle circostanze ambientali "fa insorgere, nella forma e nei caratteri esterni, delle anomalie, delle specie di scarti, che la sola complicazione crescente non avrebbe potuto causare" (Lamarck 1809, I, p. 107). Tuttavia, benché egli li presenti talvolta come due processi nettamente distinti, il "piano della Natura" e il "potere delle circostanze" sono solo due aspetti di un unico processo, che ha la sua base fisica nell'azione dei fluidi. È, infatti, attraverso i fluidi che le circostanze esercitano la loro influenza. Esse determinano "bisogni" (besoins) per soddisfare i quali i fluidi si dirigono verso il punto del corpo dove possono esplicare l'azione adatta a soddisfare quel bisogno. Con l'"abitudine" (habitude), cioè con la ripetizione meccanica degli stessi atti per un lungo periodo di tempo ‒ e dunque se le circostanze ambientali rimangono le stesse ‒ vengono sviluppati organi già esistenti o ne sono creati di nuovi; viceversa, il disuso atrofizza gli organi, causandone la riduzione e perfino la scomparsa. Gli effetti di questi processi vengono trasmessi alla discendenza (non bisogna dimenticare che la credenza nell'ereditarietà dei caratteri acquisiti è un luogo comune in questo periodo, e tale rimase fino ai primi del Novecento).
Tutto questo avviene in modo assolutamente meccanico, solo che negli organismi inferiori (piante e animali "apatici", cioè privi di sistema nervoso e quindi di sensibilità) l'ambiente esercita direttamente la sua influenza, mentre negli animali superiori interviene un "sentimento interno" (sentiment intérieur) che funge da mediatore fra l'ambiente esterno e l'"ambiente interno" (milieu intérieur) dell'organismo, vale a dire tra i fluidi esterni e quelli interni, e in qualche modo orienta e dirige il movimento di questi ultimi verso le parti interessate, stimolandone la risposta alle esigenze poste dall'ambiente. "Oscuro, ma molto potente" (ibidem, II, p. 279), esso è la fonte dei movimenti e delle azioni degli esseri che ne sono dotati e deriva probabilmente dalle attività di un insieme di parti del sistema nervoso, cioè dalle emozioni che si possono produrre in questo insieme. È un "sentimento fisico", precisa Lamarck, ma anche questa idea fu fraintesa sia dagli avversari, che vedevano in essa un'antropomorfica attribuzione agli animali di una sorta di volontà, sia dai sostenitori, che vi notarono un meccanismo capace di spiegare il fatto che il vivente non reagisce in modo meramente passivo agli stimoli ambientali ma è capace di iniziativa e di adattamento attivo, ancorché inconscio. Quest'ultima interpretazione ebbe una certa fortuna alla fine dell'Ottocento, quando il cosiddetto 'psicolamarckismo' rappresentò una delle tante alternative cercate al darwinismo.
Del resto, Lamarck sostiene la continuità fra i comportamenti degli organismi inferiori e le facoltà mentali degli animali superiori. Nella seconda parte della Philosophie zoologique svolge questa indagine considerando lo sviluppo dello psichismo in tutto il regno animale, in una trattazione affatto materialistica della trasformazione graduale delle facoltà animali nei superiori poteri dell'uomo. Già in alcune brevi pagine delle Recherches del 1802, ma poi soprattutto alla fine della prima parte della Philosophie zoologique, egli afferma l'origine dell'uomo da una razza di quadrumani ("o meglio ancora la più perfezionata") che, "necessitata dalle circostanze o da altre cause", aveva perso l'abitudine di arrampicarsi sugli alberi e di afferrare i rami con i piedi e i cui individui erano stati costretti, per parecchie generazioni, a usare i piedi solo per camminare; "mossi dal bisogno di dominare e di riuscire a veder più lontano", essi si erano sforzati di tenersi diritti e, "costantemente, di generazione in generazione", ne avevano acquisita l'abitudine; divenuti bimani, avevano conseguito una superiorità sulle altre specie affini, si erano diffusi su tutto il pianeta, avevano formato società sempre più complesse, "moltiplicato le loro idee" e, sotto la pressione di bisogni sempre nuovi ‒ e soprattutto del bisogno di comunicare ‒ avevano sviluppato suoni articolati e infine il linguaggio (ibidem, I, pp. 350-351, 355). Naturalmente, questo aspetto delle concezioni di Lamarck contribuì a ostacolarne ancora di più la diffusione negli ambienti accademici.
Dopo le Recherches del 1802 Lamarck lasciò in secondo piano, nelle esposizioni della teoria, le sue idee chimiche, fisiche, geologiche e meteorologiche; ma non per questo essa incontrò migliore accoglienza. Le discussioni pubbliche, infatti, furono pochissime. Il principale oppositore, Cuvier, aveva già esposto i suoi argomenti contro l'evoluzione in una memoria del 1799 sui rapporti fra gli elefanti fossili e quelli attuali e nel primo volume delle Leçons d'anatomie comparée (1800-1805). Egli non reagì pubblicamente né alle Recherches né alle opere successive di Lamarck; quando si pronunciò, negli scritti e soprattutto nelle lezioni, lo fece con pesante ironia, alludendo all'avversario senza nominarlo. Nelle teorie di Lamarck vedeva soltanto una riedizione di vecchi errori contro cui si era già pronunciato: la generazione spontanea, un sistema geologico puramente speculativo, la credenza nella plasticità infinita degli organismi (una violazione del principio delle "condizioni di esistenza" che Cuvier aveva posto alla base dell'anatomia comparata), la negazione dell'estinzione, delle catastrofi e del carattere recente dell'attuale configurazione del globo, l'assurdo voler risolvere ogni difficoltà invocando il tempo infinito a disposizione della Natura. A queste critiche, mosse sia in privato sia durante le lezioni, Cuvier aggiunse anche l'accusa di materialismo.
L'insegnamento di Lamarck, tuttavia, non cadde nel vuoto. Alcuni naturalisti fecero circolare le sue idee, spesso modificandole e contaminandole con altre teorie, come quella della ricapitolazione embriologica, e con i risultati di indagini recenti in campi non esplorati da Lamarck. Il più impegnato in quest'opera fu Jean-Baptiste Bory de Saint-Vincent (1778-1846), direttore del Dictionnaire classique d'histoire naturelle (1822-1831) in diciassette volumi che ebbe notevole diffusione in tutta Europa (Darwin ne aveva una copia a bordo del Beagle).
Gli sviluppi più originali, tuttavia, furono proposti dallo studioso di anatomia comparata Étienne Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844). Questi, che già nel 1796 aveva ipotizzato l'idea di un piano unico di composizione dei vertebrati e aveva speculato sull'evoluzione, negli anni Venti ripropose in veste evoluzionistica i risultati delle sue ricerche anatomiche e morfologiche. In una memoria del 1825 sui gaviali e sui rapporti fra i coccodrilli fossili e quelli attuali, avanzò un'interpretazione embriologica dei due fattori evolutivi di Lamarck: la tendenza alla complessità crescente dell'organizzazione diventava la tendenza dello sviluppo embrionale a produrre un individuo differenziato da un abbozzo indifferenziato; il potere delle circostanze diventava l'influenza dell'ambiente sullo sviluppo embrionale. In due memorie presentate nel 1828 all'Académie des Sciences, Geoffroy Saint-Hilaire addusse poi come prove della plasticità delle forme organiche le modificazioni delle specie domestiche, le varietà geografiche della stessa specie e la successione di specie distinte ma simili negli strati geologici. Era possibile, affermava, stabilire relazioni di affinità e di parentela fra le specie attuali e "le specie antidiluviane e perdute". Il mutamento era dovuto agli effetti dei cambiamenti geologici, ambientali e climatici. Tali fattori, la cui azione era stata molto più potente in passato, potevano alterare lo sviluppo dell'embrione, come dimostravano gli esperimenti con cui lo stesso Geoffroy Saint-Hilaire, uno dei fondatori della teratologia moderna, aveva prodotto mostruosità artificiali modificando le condizioni di incubazione di uova di gallina: i mostri prodotti in questo modo dall'uomo hanno vita breve, ma la Natura, che ha tempo infinito a disposizione ed è immensamente più potente, può raggiungere risultati impensabili per lo sperimentatore più abile. Geoffroy Saint-Hilaire riproponeva in forma evoluzionistica la sua vecchia teoria dell'unità del piano di composizione di tutti i vertebrati. Paleontologia, embriologia, anatomia comparata e teratologia contribuivano a una grande sintesi: una nuova filosofia zoologica che si richiamava direttamente a Lamarck ne aggiornava alcuni aspetti e sfidava apertamente quella di Cuvier. Questi veniva accusato di distorcere a fini polemici le idee di chi non la pensava come lui e di mascherare con l'arroganza la propria arretratezza scientifica: aveva smesso di fare ricerca, chiudendosi ai nuovi sviluppi delle varie discipline, per limitarsi a gestire il suo enorme potere accademico e politico.
Cuvier rispose con commenti sarcastici, ridicolizzando le tesi dell'avversario e ribadendo il disprezzo per quelli che considerava voli dell'immaginazione. Un suo eloquente pronunciamento antievoluzionistico si trova nelle considerazioni con cui si chiude il primo volume dell'Histoire naturelle des poissons (1828-1849). Lo scontro si aggravò quando alcuni cercarono di estendere agli invertebrati l'idea dell'unità del piano di composizione, in un'audace attuazione dei tentativi abbozzati dallo stesso Geoffroy Saint-Hilaire in alcune memorie pubblicate nel 1820 ma in seguito accantonati.
Nel 1829 due naturalisti, Launceret e Meyranx, presentarono all'Académie una memoria in cui sostenevano la tesi dell'affinità strutturale fra i vertebrati e i cefalopodi. Nel 1830, forzando questa tesi, Geoffroy Saint-Hilaire affermò che era legittimo estendere all'intero regno animale l'idea del piano unico di composizione. Era un attacco alle fondamenta stesse dell'edificio costruito da Cuvier, che aveva diviso il regno animale in quattro embranchements assolutamente separati. Cuvier reagì rovesciando su Geoffroy Saint-Hilaire tutto il peso delle proprie competenze sugli invertebrati, che erano molto superiori a quelle dell'avversario. La polemica che seguì, e che sembrò al vecchio Johann Wolfgang von Goethe (simpatizzante di Geoffroy Saint-Hilaire) più importante della rivoluzione di luglio a Parigi, uscì dalle mura dell'Académie: l'opinione scientifica si schierò con Cuvier, il grande pubblico con Geoffroy Saint-Hilaire. Negli anni successivi questi si concentrò sulle prove paleontologiche dell'evoluzione ma, nello stesso tempo, sviluppò una filosofia biologica dai toni spesso misticheggianti, che trovò consenso all'esterno della comunità scientifica ma gli alienò in modo definitivo il favore della maggior parte dei colleghi. Cuvier morì senza poter scrivere la desiderata replica definitiva.
Dopo lo scontro fra Geoffroy Saint-Hilaire e Cuvier, il dibattito in Francia entrò in una fase di latenza. La questione dell'evoluzione sembrò perdere interesse. Presero il sopravvento studi più specializzati, settoriali, circoscritti, meno speculativi, anche per l'affermarsi di nuovi programmi di ricerca in campo medico-biologico e per gli sviluppi notevoli di discipline come l'embriologia e la zoologia degli invertebrati. Il clima filosofico generale non era favorevole all'evoluzionismo. Auguste Comte (1798-1857) dedicò pagine importanti alla "biologia" (termine alla cui affermazione contribuì in modo decisivo) e manifestò ammirazione per Lamarck, del quale discusse approfonditamente le idee, ma rifiutò l'evoluzionismo; antievoluzionista fu la maggior parte dei suoi seguaci. Una situazione per molti aspetti simile si creò in Germania; in Gran Bretagna, invece, il dibattito fu più vivace e complesso: le idee di Lamarck e di Geoffroy Saint-Hilaire si affermarono prevalentemente nell'ambiente medico, poiché molti medici solevano passare un periodo di formazione a Parigi. Veicolo di idee evoluzionistiche fu anche l'"anatomia trascendente", ovvero la morfologia idealistica proveniente dalla Germania e dalla Francia, che ebbe uno dei suoi centri di propagazione a Edimburgo. Una versione idealistica dell'evoluzionismo ‒ unita però al rifiuto della trasformazione materiale di una specie in un'altra ‒ fu sostenuta da Robert Knox (1793-1862), professore di anatomia in quella università. Naturalmente le idee di Lamarck si diffusero soprattutto attraverso le sue opere sugli invertebrati. Uno studioso degli invertebrati marini, il medico e zoologo Robert E. Grant (1793-1874), abbracciò la dottrina lamarckiana e ne parlò con entusiasmo al giovane Darwin, con il quale strinse rapporti di amicizia e di collaborazione scientifica durante il soggiorno universitario di quest'ultimo a Edimburgo.
In Inghilterra le implicazioni filosofiche della teoria lamarckiana vennero discusse forse più che altrove e le idee evoluzionistiche furono coinvolte in un dibattito che non era soltanto scientifico ma anche politico e religioso. L'evoluzionismo e le nuove filosofie biologiche di importazione continentale dovettero confrontarsi con la tradizione consolidata della teologia naturale. Negli anni turbolenti fra le guerre napoleoniche e le riforme elettorali molti teologi, ma anche numerosi scienziati, temevano infatti la diffusione di dottrine naturalistiche o, peggio, panteistiche e materialistiche. In un'epoca di agitazioni sociali l'evoluzione veniva associata al libero pensiero, al materialismo, al radicalismo sociale e all'ateismo e vista come una minaccia all'establishment; di conseguenza, le idee di Lamarck furono oggetto di letture parziali e di un uso interessato da parte sia dei sostenitori sia degli avversari. Del resto, il silenzio di Lamarck su problemi e campi di ricerca che erano nel frattempo saliti in primo piano, come l'embriologia, la paleontologia e l'anatomia comparata, rendeva inevitabile che le sue teorie fossero rivedute e aggiornate, spesso estrapolate dal contesto in cui si erano formate e mescolate con idee di provenienza estranea. Nella comunità scientifica europea della prima metà dell'Ottocento, le prese di posizione esplicite in favore dell'evoluzione furono poco frequenti ed ebbero il carattere di dichiarazioni caute e generiche sull'ammissibilità del fatto, mai di indagini approfondite sui possibili meccanismi del cambiamento.
La paleontologia stratigrafica, intanto, conosceva uno sviluppo che avrebbe assunto ritmi vertiginosi negli anni 1830-1840. Tra il 1796 e il 1808 Cuvier organizzò con Alexandre Brongniart (1770-1847) numerose spedizioni nelle cave di gesso di Montmartre, nel bacino di Parigi, nella regione di Stoccarda, nelle cave di Maastricht, nell'Italia settentrionale e nelle grandi aree alluvionali della Germania e dell'Olanda. I risultati furono esposti nelle Recherches sur les ossemens fossiles de quadrupèdes, où l'on rétablit les caractères de plusieurs espèces d'animaux que les révolutions du globe paroissent avoir détruites (1812).
Il Discours préliminaire di quest'opera, basato sul materiale raccolto per un famoso corso di geologia tenuto al Collège de France, fu ampliato e pubblicato separatamente con il titolo Discours sur les révolutions de la surface du globe (1825) e dimostrava a quali straordinari risultati potesse condurre la collaborazione fra l'anatomia comparata e la geologia. Secondo Cuvier lo studio dei fossili doveva integrare, e in molti casi sostituire, quello dei minerali come chiave per la classificazione degli strati. Compito del geologo (ovvero del paleontologo) è stabilire: se i resti in cui s'imbatte appartengano a organismi estinti o ancora esistenti; se vi siano organismi peculiari di determinati strati e assenti in altri; se gli organismi estinti vivessero dove ora si trovano i loro resti o se questi vi siano stati trasportati da agenti geologici; quali specie compaiano prima, quali dopo, quali contemporaneamente; se vi sia una relazione fra la maggiore o minore antichità degli strati e la maggiore o minore somiglianza tra i fossili e i loro analoghi viventi; se le specie fossili vivessero in condizioni climatiche simili a quelle in cui vivono i loro analoghi viventi.
Secondo Cuvier, ogni tipo di formazione geologica, anzi, ogni strato all'interno di una formazione geologica è caratterizzato da determinati tipi di fossili: a grandi fasi geologiche corrispondono grandi fasi della vita sulla Terra. In generale, i quadrupedi ovipari precedono i vivipari; i sauri estinti, i primi coccodrilli e le prime tartarughe si trovano sotto gli strati calcarei che si formarono quando il mare copriva interi continenti; i mammiferi si rinvengono negli strati superiori. Fra i mammiferi, compaiono prima i mastodonti che lo stesso Cuvier ricostruì, denominò e classificò in numerose memorie fra il 1796 e il 1806 (il Megatherium, il Mastodon, il Palaeotherium, l'Anoplotherium, ecc.), poi il mammut e gli animali simili al rinoceronte e all'ippopotamo, che si rintracciano in strati non consolidati di materiale trasportato. A mano a mano che si risale verso gli strati più recenti, i fossili sono più simili agli organismi viventi. Non si reperiscono fossili di quadrumani o di uomini: l'uomo è una creatura recente.
La superficie terrestre ha subito alterazioni frequenti e intense. Nell'Essai sur la géographie minéralogique des environs de Paris (1808; l'edizione ampliata è del 1811), Cuvier e Brongniart dimostrano che la regione parigina ha conosciuto lunghi periodi di quiete, durante i quali deposizione e fossilizzazione hanno prodotto strati regolari, e periodi di bruschi mutamenti geologici e paleontologici. Alcuni spessi strati di calcare, almeno due, attestano una prolungata permanenza del mare sopra le terre. Tuttavia, i sette strati terziari accertati (che Brongniart nel 1822 estenderà a tutta l'Europa occidentale) presentano un alternarsi di molluschi marini e di acqua dolce: dunque l'area non è emersa da un mare in graduale ritiro, ma le acque si sono ora abbassate ora sollevate. Improvvise inondazioni (non diluvi universali, ma catastrofi di dimensioni tutt'al più continentali) hanno causato l'estinzione della flora e della fauna in tutta la regione. Un cataclisma di questo tipo è all'origine della formazione del calcare europeo e della scomparsa dei grandi rettili; poi, il ritiro delle acque ha causato la morte di pesci e molluschi. Un'altra "rivoluzione", in corrispondenza dei grandi depositi alluvionali di superficie, ha segnato la fine dei mastodonti e dei mammut. Dopo ogni catastrofe, l'area è stata ripopolata dai pochi organismi superstiti o, più probabilmente, da specie migrate dalle zone vicine: si spiegano così le discontinuità verticali, cioè temporali, nella stratigrafia della stessa area.
Cuvier rifiuta l'idea che gli agenti attualmente operanti siano stati anche in passato gli unici responsabili delle trasformazioni della crosta terrestre. Pioggia, neve, ghiaccio, vento possono erodere montagne già esistenti, non formarne di nuove; la sedimentazione non può alterare sostanzialmente il livello del mare e l'attività dei vulcani può modificare solo le zone circostanti. Nessuno di questi fattori agisce in maniera uniforme per un tempo illimitato: "Il filo delle operazioni si è spezzato; il corso della natura è mutato e nessuno degli agenti di cui la natura si serve oggi sarebbe bastato alla produzione delle sue opere di un tempo […]. Invano si cercherebbero tra le forze attualmente in azione sulla superficie della terra cause sufficienti a produrre le rivoluzioni e le catastrofi di cui la superficie terrestre rivela le tracce" (Cuvier 1825, pp. 27-28, 41).
L'estinzione è parte del corso normale della Natura: sono noti casi di animali estinti in tempi recenti, come il Bos urus menzionato da Giulio Cesare e il dodo o dronte (Didus ineptus), l'uccello delle Mascarene segnalato ancora nel 1690. Né si può pensare che le specie scomparse siano migrate in zone inaccessibili all'uomo: il mammut, per esempio, con la sua pelliccia, non poteva vivere in un clima diverso da quello siberiano; dunque doveva essere morto dove era vissuto. Bisogna quindi supporre cause violente di trasformazione dell'ambiente, come, per esempio, un'improvvisa, prolungata inondazione o un crollo della temperatura. Del resto, soltanto una "rivoluzione" poteva sterminare e conservare intatti nel ghiaccio i pachidermi siberiani. La paleontologia non offre alcuna prova a favore della pretesa trasformazione graduale delle specie: non è stata rinvenuta nessuna forma di transizione fra gli organismi di un tempo e quelli attuali. In ogni nuova formazione geologica, nuove specie emergono senza legame con quelle che le hanno precedute. Le mummie egiziane, umane e animali, che hanno "non meno di tremila anni" dimostrano che gli uomini e gli altri animali non sono mutati per nulla. Per Cuvier, tutto prova il carattere recente del mondo nella sua configurazione attuale (nemmeno diecimila anni). Soltanto quattromila anni fa il genere umano era ancora immerso nella barbarie e nelle tradizioni di tutti i popoli si conserva il ricordo di grandi cataclismi e diluvi.
Sulle cause di queste rivoluzioni, l'ultima delle quali sarebbe avvenuta 5 o 6 mila anni fa, e della comparsa di nuove flore e faune Cuvier, sempre ostile a tutto ciò che gli sembrava speculazione, non si pronunciava. Egli negava esplicitamente che dopo ogni catastrofe fosse avvenuta una nuova creazione di specie e si limitava a parlare di migrazioni. Benché credente, era favorevole a una rigorosa separazione tra scienza e religione. Altri, però, specialmente in Inghilterra, non si fecero scrupolo di parlare di "creazioni successive", verificatesi in un numero che varia da autore ad autore.
Nel 1819 il reverendo William Buckland (1784-1856), primo reader di geologia all'Università di Oxford, tenne una lezione inaugurale dal titolo Vindiciae geologicae; or, the connection of geology with religion, in cui sostenne che Dio interveniva periodicamente nella Creazione, modificando per mezzo di cataclismi la superficie terrestre e ripopolando le zone interessate con specie create ex novo. L'ultima di queste catastrofi era il Diluvio biblico. Non si potevano spiegare ricorrendo a ipotesi diverse i depositi alluvionali di ghiaia e argilla (che Buckland chiamava appunto "detriti diluviali") o il trasporto di grandi massi per lunghe distanze; e solamente un'ondata gigantesca poteva avere scavato le grandi vallate. Nelle Reliquiae diluvianae; or, observations on the organic remains contained in caves, fissures, and diluvial gravel, and on other geological phenomena, attesting the action of an universal deluge (1823) Buckland affermò, diversamente da Cuvier, che il Diluvio era stato universale e rapido, non locale e prolungato: si era trattato di un'unica, gigantesca ondata. Come Cuvier, però, egli riteneva che fosse stato accompagnato da un consistente abbassamento della temperatura: in regioni artiche erano stati trovati, infatti, resti di rinoceronti, elefanti e altri mammiferi.
Buckland e i 'diluvialisti' (come furono chiamati) subirono gli attacchi sia dei sostenitori della 'geologia mosaica', cioè di chi difendeva la concordanza stretta fra la geologia e la lettera del racconto mosaico, sia di coloro che, come Charles Lyell, rifiutavano il ricorso alle catastrofi e preferivano invocare l'azione ripetuta di agenti meno eccezionali. Con il passare del tempo, di fronte alle crescenti difficoltà della sua teoria Buckland finì con l'abbandonare, se non la credenza nelle catastrofi, la convinzione che il Diluvio biblico fosse l'ultima di queste e nel 1836 l'attribuì a un periodo di molto precedente la creazione dell'uomo. Al posto delle catastrofi, egli diede un'importanza sempre maggiore all'azione dei ghiacciai, aderendo così tra i primi alla teoria glaciale proposta nel 1836 dallo svizzero Jean-Louis-Rodolphe Agassiz (1807-1873) ed esposta nelle Études sur les glaciers (1840) e nel Système glaciaire (1847).
Proseguendo gli studi compiuti dai connazionali Jean de Charpentier (1786-1855) e Ignatz Venetz (1788-1859), Agassiz sosteneva che nel Pleistocene vi era stata un'"era glaciale", durante la quale i ghiacciai avevano coperto gran parte dell'emisfero settentrionale, dal Polo alle rive del Mediterraneo, per poi ritirarsi. Dalle convulsioni avvenute sotto la crosta terrestre compressa dal peso del ghiaccio era risultato il sollevamento di catene montuose come le Alpi, con il conseguente rotolamento di enormi massi per grandi distanze, fino a regioni con la cui geologia e litologia essi non avevano alcuna apparente relazione. Diversi studiosi, per esempio, avevano sostenuto che i massi che si trovavano nelle pianure tedesche fossero stati trasportati da un'inondazione gigantesca dalla Scandinavia attraverso il Baltico. A questa spiegazione, avanzata da Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799) e da Leopold von Buch (1774-1853), altri, fra cui Lyell e Darwin, opponevano la teoria del trasporto a opera di iceberg nel mare che un tempo ricopriva quelle terre. Buckland attribuì allo sciogliersi dei ghiacciai l'inondazione che aveva causato il Diluvio biblico.
Fra gli anni 1820 e 1840 i progressi della paleontologia stratigrafica consentirono di individuare, attraverso la varietà delle formazioni locali, alcuni 'sistemi' generali caratterizzati da faune fossili peculiari. Risale a questo periodo l'istituzione della maggior parte dei nomi tuttora in uso per denotare i periodi (Carbonifero, Cretacico, Giurassico, Siluriano, Permiano, Triassico, Eocene, Miocene, Pliocene, Paleozoico, Mesozoico, Cenozoico, ecc.). Alla metà dell'Ottocento erano già note le grandi linee della storia della vita: la paleontologia evoluzionistica della seconda metà del secolo non vi avrebbe apportato modifiche rivoluzionarie, anzi spesso non avrebbe fatto altro che trascrivere in linguaggio evoluzionistico risultati conseguiti da paleontologi fissisti.
Nel Prodrome d'une histoire des végétaux fossiles (1828) Adolphe-Théodore Brongniart (1801-1876), figlio del collaboratore di Cuvier, si servì della morfologia comparata per ricostruire la storia della vegetazione. Questa risultò scandita in quattro grandi periodi: il primo terminava alla fine del Carbonifero ed era caratterizzato dalle crittogame vascolari; nei due successivi diminuivano le crittogame mentre comparivano e si diffondevano le gimnosperme; nel quarto periodo predominavano le dicotiledoni superiori (angiosperme). "Gli esseri più semplici ‒ scriveva ‒ hanno preceduto i più complessi, e la natura ha creato in successione esseri via via più perfetti" (Brongniart 1828, p. 221). La flora del Carbonifero era simile all'attuale flora tropicale, dunque nelle zone ora temperate o fredde la temperatura un tempo doveva essere di molto superiore. La grande emanazione di calore dal centro della Terra rendeva insignificanti le differenze tra le varie zone dovute all'irraggiamento solare. Per primi erano comparsi gli organismi più semplici, capaci di vivere in un ambiente molto caldo, e in seguito, con il raffreddamento progressivo, con la stabilizzazione del clima e la differenziazione degli ambienti e degli habitat, erano comparsi esseri più complessi e differenziati o, come molti non esitavano a dire, 'superiori' o 'più perfetti'. Per esempio, ipotizzava Brongniart, la flora del Carbonifero, producendo un'alta concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera, non consentiva la comparsa di animali bisognosi di ossigeno; tuttavia, a mano a mano che la percentuale di ossigeno aumentò, comparvero dapprima i rettili che, in quanto animali a sangue freddo, potevano vivere nel caldo del Secondario, e poi i mammiferi, che dovettero attendere un clima più mite.
Sulla base di considerazioni analoghe sulla correlazione fra l'apparato respiratorio dei rettili e un'atmosfera più ricca di anidride carbonica rispetto all'attuale, l'anatomista inglese Richard Owen (1804-1892) concludeva: "Il generale, progressivo avvicinarsi del regno animale alla sua condizione attuale è stato senza dubbio accompagnato da un processo corrispondente nel mondo inorganico" (Owen 1841, p. 202); l'"ordinato divenire degli esseri viventi" era regolato da leggi e faceva parte di un disegno divino.
I rettili furono i grandi protagonisti della paleontologia del tempo, soprattutto in Gran Bretagna (il termine 'dinosauri', per es., fu coniato da Owen nel 1841), tanto che già nel 1831 il geologo inglese Gideon A. Mantell aveva usato l'espressione "era dei rettili". Nelle Recherches sur les poissons fossiles (1833-1843) Agassiz individuava un'era dei pesci precedente quella dei rettili e affermava che anche la distribuzione geologica degli ordini all'interno della classe era progressiva: così, per esempio, i ganoidi e i placoidi comparivano nelle rocce di transizione, mentre i 'superiori' cicloidi e gli ctenoidi solamente nel Cretacico.
Questa concezione della successione delle forme di vita sulla Terra, che si suole indicare con il termine "progressionismo" e che fu largamente condivisa nella prima metà dell'Ottocento, non implicava affatto un'adesione a una qualche teoria evoluzionistica. Vi era una progressione manifesta nella successione delle forme animali nel tempo, affermava Agassiz dando voce a un'opinione diffusa, ma nessuna prova di una discendenza diretta. La maggior parte dei paleontologi si limitava ad accertare quelle che venivano chiamate le 'leggi' della successione dei fossili, senza prendere in considerazione ‒ oppure escludendola come mera speculazione ‒ l'idea di un legame genealogico. Per spiegare le discontinuità si ricorreva all'estinzione (causata o no da cataclismi); l'introduzione di forme nuove era semplicemente registrata, senza interrogarsi sulle cause che, in quanto non osservabili, erano fuori dei limiti della ragione scientifica. Per indicare la comparsa di specie nuove venivano usate espressioni generiche come 'comparsa', 'apparizione', 'introduzione' oppure, per una sorta di inerzia linguistica, il termine 'creazione', che quindi, in molti casi, non implicava affatto l'adesione a un'esplicita teoria delle creazioni successive ma solo una convenzionale cautela di fronte a un problema delicato, non soltanto dal punto di vista scientifico.
Sicuramente meno numerosi furono i geologi che in questo periodo si dichiararono apertamente a favore di una qualche forma di evoluzione: fra questi il belga Jean-Baptiste d'Omalius d'Halloy (1783-1875), il quale indicò nell'influsso del clima il meccanismo modificante, e il tedesco Buch che in uno studio del 1825 sulle Canarie ipotizzò che specie nuove si formassero da varietà isolate geograficamente. Altri immaginarono che ciascuna specie avesse una durata prestabilita, trascorsa la quale si estingueva per cause esclusivamente interne, dopo un periodo di invecchiamento progressivo caratterizzato da riduzione graduale delle dimensioni e perdita graduale della "virtù prolifica". Il geologo Giovanni Battista Brocchi (1772-1826), che rifiutava sia l'evoluzionismo di Lamarck sia il catastrofismo di Cuvier, invocava in proposito l'analogia fra la vita dell'individuo e quella delle specie, un principio che avrebbe esercitato una notevole influenza sull'evoluzionismo successivo. L'idea di una durata prestabilita delle specie non ebbe grande diffusione ma, attraverso Lyell, giunse a Darwin, che la prese in considerazione per breve tempo durante le sue riflessioni sulla questione delle specie. Essa, tuttavia, non fu mai completamente abbandonata; istanze simili vennero fatte valere, alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento, da non pochi sostenitori dell'evoluzione per cause interne, fra i quali l'italiano Daniele Rosa (1857-1944).
La progressione delle forme certo presentava spesso irregolarità: la produzione di strutture sempre più complesse era accompagnata da una sorta di tendenza delle forme fondamentali dei grandi gruppi a divergere dal tipo principale e a diventare non soltanto più complesse ma anche più specializzate, come per adattarsi a una grande varietà di ambienti. Per rappresentare la divergenza crescente nella successione delle forme il paleontologo tedesco Heinrich Georg Bronn (1800-1862) si servì di un modello arboreo, ma senza alcuna implicazione evoluzionistica: era prematuro ipotizzare cosa materialmente connettesse le specie sui rami alle specie sul tronco, essendo antiscientifico speculare senza dati accertabili. Con l'arricchirsi della documentazione fossile, la divergenza e la specializzazione indussero alcuni, fra i quali lo stesso Owen, a rivedere la loro concezione della progressione. Non mancò chi, come il naturalista e fisiologo William B. Carpenter (1813-1885), vide in questi dati paleontologici un'analogia con lo sviluppo embrionale come veniva descritto da Karl Ernst von Baer (1792-1876): una legge unica sembrava sottostare alle regolarità riscontrabili nello sviluppo dell'individuo e in quello della vita sulla Terra.
Darwin scrisse che i suoi libri "erano usciti per metà dal cervello di Lyell": la sua opera "aveva mutato il tono della nostra mente, tanto che, anche quando si vedeva una cosa non vista da lui, era un po' come vederla attraverso i suoi occhi" (Darwin 1903, II, p. 117). Effettivamente, l'intento dei tre volumi dei Principles of geology, being an attempt to explain the former changes of the Earth's surface by reference to causes now in operation (1830-1833) era quello di stabilire "il principio stesso del ragionamento in geologia", ossia il principio secondo il quale "dai tempi più remoti a cui può spingersi il nostro sguardo fino al presente hanno agito solo, e senza eccezione, le cause tuttora operanti, e mai con gradi di energia diversi da quelli attuali" (Lyell 1881, I, p. 234).
Lyell fa sfumare l'uno nell'altro due principî distinti: l''attualismo', secondo cui il tipo di cause è stato sempre lo stesso e non hanno mai operato agenti che non possano agire tuttora, e l''uniformismo' (termine coniato dal filosofo e scienziato William Whewell nel 1832 proprio in riferimento alle teorie di Lyell), secondo il quale l'intensità delle cause è sempre stata la stessa. Uniformità geologica non vuol dire ripetizione monotona di fenomeni di intensità costante e con effetti sempre uguali, bensì accumulazione lenta di cambiamenti dapprima perlopiù insensibili, il cui effetto diviene tutt'altro che impercettibile oltre un certo punto critico. Se si paragonano fra loro grandi estensioni di tempo, si trova che il ritmo di cambiamento, sia nell'ambiente organico sia in quello inorganico, è più o meno uniforme. Se si considerano invece separatamente l'uno dall'altro i vari fattori del cambiamento, si vede che "le cause più efficaci nel rimodellare lo stato della superficie terrestre agiscono per migliaia di anni senza produrre grandi alterazioni della superficie abitabile e poi, in un tempo brevissimo, fanno nascere importanti rivoluzioni" (Lyell 1830-33, II, p. 167). Ne consegue che l'azione, pur uniforme, delle cause inorganiche influisce in modo molto irregolare sulla condizione degli organismi, cosicché gli ambienti inorganici di zone diverse cambiano in modo disuguale in tempi uguali.
Lyell critica duramente tutti quelli che ricorrono a eventi straordinari per spiegare i fenomeni del passato, si tratti di coloro che ritengono necessario formulare ipotesi sull'origine della Terra, dei sostenitori della 'geologia mosaica' che mescolano scienza e religione, dei diluvialisti che invocano inondazioni sul modello del Diluvio biblico, dei geologi che spiegano la formazione delle catene montuose con sollevamenti improvvisi. Alla teoria del graduale raffreddamento del globo, che serve di base al progressionismo paleontologico, Lyell contrappone la propria teoria del clima secondo la quale, dal momento che il clima di ogni zona è determinato, oltre che dalla latitudine, da molti fattori che mutano continuamente quali la distribuzione della terra e del mare, i venti, le correnti, ecc., la temperatura media di ogni regione è in perenne oscillazione.
Va respinto anche il preteso avanzamento delle forme di vita verso tipi sempre superiori. È una dottrina che non ha fondamento geologico. Innanzi tutto, infatti, non esistono rocce peculiari di determinati strati o di un'epoca precisa, ma tutti i tipi di rocce possono formarsi in qualunque periodo: per esempio il granito non è la roccia più antica ma si è formato più volte. Né vi sono fossili tipici di singoli strati: in depositi lontani l'uno dall'altro, ma dello stesso periodo, si possono trovare fossili completamente diversi. Costante in tutti gli strati dello stesso periodo è invece la quantità delle specie. Reinterpretando la documentazione paleontologica con grande abilità dialettica ‒ e con inevitabili forzature ‒ Lyell sostiene che la successione progressiva delle forme organiche è soltanto apparente, poiché in realtà fa parte di un ciclo continuo, una sorta di grande anno geologico che si ripete periodicamente. Un giorno la Terra assumerà l'aspetto che aveva nelle diverse epoche passate e ospiterà di nuovo tutte le creature che si sono succedute e poi estinte. Ci sarà, per esempio, una nuova era dei rettili.
Infine, allo stato attuale delle conoscenze, i reperti fossili sono così incompleti da non consentire alcuna conclusione: un argomento che sarà usato da Darwin per rispondere all'obiezione della mancanza di tutti gli anelli di congiunzione richiesti dalla sua teoria. Le possibilità di fossilizzazione, poi, sono aleatorie e diverse da organismo a organismo; non si trovano pertanto mammiferi negli strati più antichi, non perché essi siano comparsi per ultimi ma perché, essendo quasi esclusivamente terrestri, non potevano lasciare tracce in strati di formazione marina. Parimenti, le pretese rocce primarie sono prive di fossili non perché siano anteriori all'origine della vita, bensì perché processi metamorfici le hanno alterate tanto da distruggere ogni resto organico. Se dunque la storia della vita sulla Terra sembra presentare bruschi mutamenti è perché, per la loro stessa natura, i processi geologici cancellano parte di sé. Per colmare le lacune della nostra inevitabile ignoranza non occorre immaginare cause sconosciute. Anche quelle note, infatti, sono capaci di produrre effetti di vastità insospettata: se non fosse pervenuta alcuna descrizione delle eruzioni del Vesuvio e dell'Etna, per esempio, si sarebbe tentati di attribuire la loro attuale configurazione a un unico evento catastrofico. Secondo Lyell, lo studio dei "graduali mutamenti tuttora in corso" è l'"alfabeto e la grammatica della geologia" (ibidem, III, pp. 3, 7).
Il secondo volume dei Principles of geology (1832) contiene una serrata e particolareggiata critica (ben undici capitoli) della teoria esposta da Lamarck nella Philosophie zoologique, la più ampia discussione a cui essa sia stata sottoposta nella prima metà dell'Ottocento. In queste pagine Lyell usa tra i primi il termine 'evoluzione' nel senso, poi divulgato dal filosofo Herbert Spencer (1820-1903) e divenuto corrente, di "discendenza delle forme organiche le une dalle altre". Gli argomenti sono sostanzialmente quelli usati da Cuvier, ma integrati da considerazioni ecologiche e biogeografiche molto acute. Fra l'ambiente fisico e quello biologico di una specie vi è una relazione strettissima: alle modificazioni dell'uno corrispondono mutamenti dell'altro.
Un'intera sezione è dedicata ai "modi in cui si conserva l'equilibrio fra le specie". La prosperità e la diffusione di una specie non dipendono solamente dalle sue caratteristiche e dalla sua adattabilità, ma da "una grande complicazione di circostanze, da un'immensa varietà di relazioni nella condizione del mondo organico e del mondo inorganico" (ibidem, II, p. 147). Come hanno mostrato Linneo (Carl von Linné) e il naturalista ginevrino Augustin-Pyramus de Candolle (1778-1841), tutti gli esseri viventi sono impegnati in una guerra continua. Questa "lotta perpetua", secondo Candolle, è uno dei fattori principali che spiegano la distribuzione geografica degli organismi. Lyell attinge da questi autori esempi per sostenere che "la natura ha disposto un sistema di freni e controfreni per preservare l'equilibrio dei poteri fra le specie" (ibidem, p. 138). Tale mirabile sistema si altera ogni volta che viene introdotto un elemento nuovo. Il principale fattore di disturbo è l'arrivo di una nuova specie: inizia allora un complicato intreccio di reazioni a catena (poiché le vicissitudini di una forma di vita possono ripercuotersi su molte altre), che però si conclude con il ristabilimento dell'equilibrio. Anche l'estinzione delle specie fa parte di questo sistema in equilibrio dinamico.
Secondo Lyell, le specie "fanno la loro comparsa" (come into being; egli dice anche "vengono create") ognuna in un punto preciso dello spazio e del tempo, già adatte all'ambiente in cui devono vivere. Non ci sono periodi o "centri o foci" in cui il potere creativo si sia esercitato più intensamente che altrove: i punti di origine delle diverse specie sono distribuiti uniformemente nello spazio e nel tempo. Da questi le specie si diffondono fin tanto che trovano condizioni adatte. Spesso sono costrette a farlo, perché l'ambiente in cui si trovano è modificato da mutamenti geologici e climatici o dall'arrivo di organismi invasori. In questi casi si pone l'alternativa drammatica "migrare o scomparire". L'estinzione è "parte del corso costante e regolare della natura": "fra le tante vicissitudini della superficie terrestre, le specie non possono essere immortali ma devono perire una dopo l'altra, come gli individui che le compongono" (ibidem, p. 169). L'equilibrio della Natura si conserva a prezzo di emigrazioni, lotte, estinzioni, nuovi arrivi.
Le specie sono dunque soggette a "vicissitudini incessanti". Queste però non comprendono i mutamenti che ha in mente Lamarck ma soltanto le alterazioni della distribuzione locale dei vari gruppi, l'incremento di alcuni, l'estinzione di altri. Lyell riconosce che ogni specie è dotata di una certa variabilità nei suoi caratteri ma questa, per quanto ampia possa essere in alcuni organismi, è limitata, non supera mai la barriera specifica, cioè non è mai tale da trasformare la specie in una forma nuova. E, cosa ancora più importante, tutto il cambiamento di cui una specie è capace avviene, quando le condizioni lo rendono necessario, in breve tempo:
L'intera variazione dal tipo originario che una qualunque sorta di cambiamento possa produrre può di solito aver luogo in un breve periodo di tempo, trascorso il quale, permanendo il cambiamento delle circostanze, nessuna ulteriore deviazione, per quanto graduale, può essere ottenuta; in tal modo, sarebbe impedita una divergenza indefinita sia nella direzione del miglioramento sia in quella del deterioramento e la minima trasgressione possibile di questi limiti sarebbe fatale all'esistenza dell'individuo. (ibidem, p. 67)
Perché "fatale"? Non soltanto perché vi sono limiti alla plasticità degli organismi, ma anche perché la concorrenza spietata di altri organismi non ne lascerebbe il tempo. Se infatti le specie prosperano solamente in determinate condizioni ambientali, se sono cioè 'locali', quando le condizioni mutano tanto che una specie non può adattarvisi, essa è posta di fronte all'alternativa "emigrare o estinguersi". Quando si produce un mutamento ambientale, specie confinanti già adatte alle nuove condizioni possono invadere l'area interessata e soppiantare le aborigene, che quindi non hanno nemmeno il tempo di trasformarsi.
Supponiamo, scrive Lyell, che il clima della parte più elevata della zona boschiva dell'Etna sia trasferito nella spiaggia marina ai piedi della montagna: nessuno penserebbe che l'ulivo, il limone e il fico d'India siano in grado di competere con la quercia o il castagno, che subito comincerebbero a discendere a valle, o che questi ultimi siano in grado a loro volta di resistere al pino, che nel giro di pochi anni comincerebbe anch'esso a occupare una zona più bassa. Queste migrazioni, per quanto lente, durerebbero pur sempre un tempo troppo breve perché le specie minacciate possano trasformarsi in altre capaci di vivere nel nuovo ambiente. "È ozioso disputare sull'astratta possibilità della conversione di una specie in un'altra quando si sa che ci sono cause, tanto più attive nella loro natura, che inevitabilmente intervengono a impedire che tali conversioni di fatto si compiano" (ibidem, pp. 180-181). Per compensare le estinzioni, nuove specie vengono 'create' con lo stesso ritmo. Lyell non spiega come questo avvenga: la comparsa di nuove specie è un fatto normale, attestato dall'osservazione biogeografica e dalla paleontologia. Su come ciò avvenga non è possibile pronunciarsi. Eppure, scrisse l'astronomo John Herschel (1792-1871) in una lettera a Lyell del 1836, proprio l'opera del geologo scozzese lasciava intravedere la possibilità che un giorno si arrivasse a spiegare quel "mistero dei misteri" che è l'introduzione di specie nuove senza scomodare il Creatore (ma certo senza negare il suo ruolo di Creatore sovrano): "l'origine di nuove specie […] può avvenire mediante l'intervento di cause intermedie" (Lyell 1881, I, p. 467).
Lyell non intendeva tanto speculare sulla questione delle specie, quanto dare un'ulteriore dimostrazione del fatto che sia il mondo organico sia l'inorganico fanno parte di un unico sistema stabile, ancorché dinamico, che non conosce mutamenti direzionali. Ogni cambiamento, geologico o biologico, è uniforme e consiste in "un'ininterrotta successione di eventi fisici" simile all'orbitare dei pianeti. Gli eventi fluttuano senza fine intorno a valori medi stabili. La Terra è un sistema in equilibrio dinamico, nel quale le forze distruttive sono compensate in ogni momento da quelle costruttive: l'erosione dalla deposizione e dalle eruzioni laviche, l'abbassamento dal sollevamento, le migrazioni dalle invasioni, le estinzioni dalle 'creazioni'. Nell'Universo di Lyell non ci sono né rotture né novità. L'accumulazione di fenomeni impercettibili per un tempo infinito dà luogo a trasformazioni anche gigantesche ma non a vere novità; la storia geologica è dunque continua ripetizione. La visione di Lyell ricorda per molti aspetti decisivi quella di James Hutton (1726-1797).
I Principles of geology ebbero un grande successo di pubblico ma suscitarono più interesse e ammirazione per le indubbie capacità dell'autore che adesioni effettive. L'immagine che Lyell aveva dato del catastrofismo era semplificata, se non caricaturale. Ad alcuni sembrò dogmatica e antiscientifica proprio l'esclusione a priori di ogni evento non eccezionale: visto che il passato non era direttamente osservabile, l'uniformismo non era più provato del catastrofismo. Se era sbagliato, osservava Whewell, "essere parsimoniosi di tempo e prodighi di violenza", altrettanto sbagliato era il contrario: la Natura disponeva di forza e di tempo in ugual misura. Secondo il geologo Adam Sedgwick (1785-1873), professore a Cambridge (Darwin fu suo studente), Lyell confondeva le leggi, che sono costanti, con i risultati della loro interazione, che sono mutevoli; la costanza delle cause era cosa diversa dalla loro intensità. Lyell, tuttavia, per motivi polemici, mischiava l'una con l'altra e presentava i suoi avversari "come se speculassero su cause di ordine diverso da quelle a noi familiari e quasi fondassero i loro ragionamenti sulla supposizione di leggi di natura diverse" (Lyell 1830-33, I, p. 360). Egli riteneva che nuove specie fossero introdotte da Dio in coppie, con ritmo altrettanto regolare dell'estinzione; ma si chiedeva come. Se Dio interveniva per riparare le perdite, non c'era motivo di vietargli a priori, in nome dell'uniformismo, altri e più massicci interventi sulla crosta terrestre. Insomma, se si dovevano ammettere atti ripetuti di Creazione, l'uniformismo crollava. E se non si spiegava con cause naturali l'introduzione regolare di specie nuove, perdeva forza l'idea complementare della regolarità delle estinzioni, su cui Lyell aveva basato la sua critica a Lamarck. Dunque, osservava Whewell, bisognava ammettere o la tanto temuta transmutation o "molti atti successivi di creazione e di estinzione di specie, atti che, quindi, possiamo a rigore dire miracolosi" (Whewell 1837, III, p. 625).
Nonostante gli sforzi di Lyell, l'idea che la storia geologica e paleontologica avesse una direzione rimase ben salda. Sul Continente, però, la sua influenza fu scarsa: qui gli studi sull'orogenesi, sui ghiacciai e sulla tettonica presero una direzione nettamente non uniformista. Per fare soltanto due esempi: Élie de Beaumont (1798-1874) che sostenne con successo la teoria dell'origine improvvisa di interi sistemi montuosi; e la teoria glaciale di Agassiz che incontrò grande favore. Gli studi sul raffreddamento del globo e sul gradiente geotermico sembravano provare oltre ogni dubbio che le forze geologiche erano state più attive nelle epoche più antiche. Nel frattempo, i progressi della paleontologia erano tali che alla metà dell'Ottocento erano già note le grandi linee della storia della vita.
Darwin sarebbe riuscito a conquistare il sostegno di Lyell alla teoria dell'evoluzione. Si sarebbe trattato, però, di un'adesione incerta e con una riserva decisiva: il geologo che dichiarava di voler "liberare la scienza da Mosè" e "sommergere tutti i diluvialisti e i sofisti teologici" (Lyell 1881, I, p. 268) non accettò mai l'origine animale dell'uomo. Era stato questo, ebbe a confessare, il fattore decisivo del suo rifiuto delle teorie di Lamarck. Nei Principles of geology, per sostenere l'origine recente della creatura privilegiata, aveva derogato dai principî metodologici così abilmente difesi in tutta l'opera: dando valore a una testimonianza negativa come la mancanza di resti fossili umani, dimenticava di aver insistito sulla frammentarietà della documentazione paleontologica quando questa sembrava parlare a favore dei suoi avversari. Nel 1863 Lyell pubblicò Geological evidences of the antiquity of man, in cui ammetteva che l'uomo fosse più antico di quanto egli stesso avesse creduto, ma dedicava tutta la sua abilità dialettica a difendere l'idea generale di evoluzione proposta dal suo amico Darwin senza ammettere esplicitamente che l'uomo fosse derivato per selezione naturale da forme inferiori.
Nell'opera di Lamarck si trovano soltanto pochi accenni a un tema al quale altri naturalisti avevano dato molta importanza e che sarebbe risultato decisivo per la genesi della teoria darwiniana: la 'guerra' fra gli esseri viventi. L'argomento era stato trattato ampiamente già da Linneo e in tutta una serie di scritti intesi a dimostrare come l'ordine della Natura voluto dal Creatore si conservasse grazie alla reciproca distruzione. Si tratta di opere ispirate a una concezione provvidenzialistica secondo la quale il male o non esiste oppure è funzionale a un bene superiore, come la conservazione dell'ordine e della varietà della Natura. Questa letteratura minore rivela spesso una viva sensibilità per i rapporti ecologici. Lamarck non scrive certo con questo intento ma anche lui, quando accenna alle distruzioni e alla guerra tra gli esseri viventi, lo fa per mettere in risalto l'armonia e l'ordine della Natura di cui esse sono strumento. Contro la minaccia all'"ordine generale" rappresentata dalla moltiplicazione eccessiva degli individui di una specie, la Natura ha "preso precauzioni", restringendo la moltiplicazione entro "limiti invalicabili" e mantenendo la quantità degli individui di una data specie entro "giuste proporzioni", così che nessuna "diventi dominante e renda il globo inabitabile alle altre" (Lamarck 1809, I, p. 99). Gli animali si limitano a vicenda e l'uomo li limita tutti.
Probabilmente questa credenza nell'equilibrio e nella conservazione del sistema e dei suoi elementi ebbe un peso notevole nel determinare il rifiuto lamarckiano dell'estinzione. Non è credibile che nell'ordine della Natura si aprano falle: si può forse credere che "i mezzi di cui la natura dispone per assicurare la conservazione delle specie o delle razze possano essere stati tanto insufficienti da aver permesso che razze intere siano scomparse?" (ibidem, p. 75). Tutt'al più possono essere scomparsi alcuni grandi animali terrestri, ma soltanto a opera dell'uomo, che può aver distrutto tutti gli individui di quelle specie che non ha voluto conservare o addomesticare; ma è tutto da dimostrare, anche se l'uomo, unico fra gli esseri viventi, può in effetti alterare l'ordine della Natura e provocare vere e proprie catastrofi (e Lamarck mette più volte in guardia contro quella che noi chiameremmo la distruzione dell'ambiente). Si tratta, tuttavia, di eventi eccezionali. Se si prescinde dall'uomo, le forze conservatrici della Natura sono invincibili: la vita non distrugge sé stessa. Le spoglie fossili che si rinvengono non appartengono a "specie perdute", che furono annientate perché la Natura cessò di prendersene cura, ma a specie che si sono ritirate in acque o terre inesplorate o si sono gradualmente trasformate in quelle attuali. L'evoluzione è il processo uniforme grazie al quale la vita si conserva nell'ambiente che muta.
Per una schiera di naturalisti, invece ‒ e si è visto l'esempio di Lyell ‒ la conservazione dell'equilibrio naturale comporta l'estinzione delle specie ma non la loro trasformazione. Ognuna di esse, come scrive il naturalista inglese Edward Blyth (1810-1873) in alcune memorie pubblicate nel "Magazine of natural history", è stata creata già mirabilmente adattata all'ambiente in cui doveva vivere e "alla funzione che le fu ordinato di svolgere nel sistema universale di adattamento" (Blyth 1836b [1959, p. 135]). Tutte le specie sono "specie locali la cui attività tende a perpetuare il sistema ambientale di cui fanno parte" (Blyth 1837 [1959, p. 143]). Quando i cambiamenti ambientali sono troppo grandi, esse inevitabilmente "periscono con la loro località" (ibidem), salvo che non siano distribuite su un'area più ampia di quella interessata dal cambiamento. E proprio questa mirabile capacità ne impedisce la sopravvivenza altrove: "i loro adattamenti le rendono inadatte a contendere l'esistenza agli abitatori legittimi di località diverse" (ibidem). Più in generale, se ogni specie è perfettamente adattata alle particolari condizioni ambientali a cui è stata assegnata, ogni variazione che comporti una deviazione da una certa norma è dannosa. In Natura non c'è posto per le varietà che esorbitino dai limiti previsti originariamente dal Creatore. Le differenze individuali di dimensioni o colore e quelle dovute a cambiamenti alimentari o all'influsso del clima vengono cancellate attraverso l'incrocio con individui normali nel giro di poche generazioni. La "lotta per l'esistenza" (Blyth usa proprio l'espressione struggle for existence) è un meccanismo provvidenziale che preserva le "qualità tipiche" della specie, un meccanismo che può essere paragonato all'azione dell'uomo quando cerca di produrre varietà artificiali di piante e animali eliminando le forme sgradite. In Natura i predatori rendono un duplice servigio alla specie predata: non soltanto ne frenano l'aumento eccessivo ma ne preservano anche il "carattere tipico", "eliminando tutti gli individui che deviano dalla condizione normale e sana o che si trovano lontano dalle località a loro adatte e peculiari, a vantaggio di quelli impegnati a svolgere la funzione a cui la Provvidenza li ha destinati" (ibidem, p. 142).
Questa tendenza a privilegiare l'aspetto conservatore della lotta per l'esistenza era legata a una concezione tipologica della specie: le varietà sono inferiori alla forma tipica, sono copie più o meno riuscite del modello e dunque hanno minori possibilità di sopravvivere nell'ambiente al quale il tipo specifico, ovvero la forma normale, è destinato. È questa una concezione opposta a quella che sarà sviluppata da Darwin. "Senza dubbio ‒ scriverà ancora Owen ‒ la forma tipica di ogni specie è quella meglio adattata alle condizioni in cui una data specie in un dato momento esiste e, fin tanto che queste condizioni rimangono immutate, il tipo resta quello e tutte le varietà che se ne allontanano sono proporzionalmente meno adatte alle condizioni ambientali d'esistenza" (Owen 1860, p. 405).
L'immagine della guerra della Natura descritta dai naturalisti predarwiniani non è un'anticipazione del concetto di lotta per l'esistenza che avrà un ruolo centrale nella teoria di Darwin. Linneo, Candolle, Blyth e tutti gli altri descrivono una concorrenza interspecifica grazie alla quale si conserva l'equilibrio ecologico. Essi non toccano, se non marginalmente, la concorrenza intraspecifica che Darwin indicherà come il terreno della selezione naturale e della formazione di specie nuove a partire dalle varietà vittoriose nella lotta. È noto che Darwin formulò le linee essenziali della sua teoria non sotto lo stimolo degli scritti di Linneo o di Candolle, che pure ben conosceva, ma in seguito alla lettura, nell'ottobre del 1838, della sesta edizione (1826) dell'Essay on the principle of population (1798) scritto dall'economista Thomas R. Malthus (1766-1834). Le terribili conseguenze della sproporzione inevitabile stabilita da Malthus fra la crescita geometrica della popolazione e la crescita aritmetica delle risorse alimentari offrirono a Darwin una rappresentazione vivida di quella competizione fra individui della stessa specie in cui solamente pochi riescono a sopravvivere, a riprodursi e a trasmettere le loro caratteristiche alla generazione successiva. Un'opera sulle popolazioni umane forniva dunque un modello secondo il quale interpretare le vicissitudini delle popolazioni animali e vegetali.
Il principio malthusiano fu decisivo anche per un altro protagonista della biologia evoluzionistica. Nel 1855 un naturalista inglese autodidatta, Alfred R. Wallace (1823-1913), pubblicò un breve saggio intitolato On the law which has regulated the introduction of new species. Vi è una stretta corrispondenza, sosteneva, fra la distribuzione geografica delle specie e la loro successione geologica: quelle che i classificatori considerano strettamente affini fra loro si trovano negli stessi strati e la sostituzione di una specie con un'altra sembra essere stata graduale nel tempo come nello spazio. Si poteva enunciare la seguente legge: "Ogni specie è comparsa in coincidenza sia spaziale sia temporale con una specie preesistente strettamente affine" (Wallace 1855, p. 185). Wallace non avanzava alcuna ipotesi sul modo in cui avvenisse questa sostituzione. Lo fece in un altro saggio, On the tendency of varieties to depart indefinitely from the original type (1858), che ha una storia particolare. Una sera di febbraio del 1856, mentre si trovava in un'isola dell'arcipelago malese ‒ vittima di un attacco di febbre intermittente, che gli impediva di lavorare ma non di riflettere sul problema dell'origine delle specie ‒ qualcosa gli ricordò l'argomento del testo di Malthus sul principio della popolazione. Allora gli balenò alla mente che gli "ostacoli repressivi" (malattie, carestie, guerre, disastri, siccità), che secondo Malthus frenano l'aumento delle popolazioni umane, dovevano agire con forza ancora maggiore sugli animali selvatici, che si moltiplicano molto più velocemente dell'uomo, ma le cui popolazioni rimangono in media costanti; ne derivava una distruzione enorme e continua. Alcuni individui sopravvivevano quando tutti gli altri morivano perché, grazie a qualche caratteristica, erano in grado di sottrarsi alle tante forme di morte da cui erano minacciati: alle malattie, infatti, scampavano i più sani, ai predatori i più forti, veloci o astuti, alle carestie i migliori nella caccia o quelli con la digestione più efficiente. Questo processo, grazie al mutamento ambientale e alla variabilità individuale sempre presente in Natura, tendeva lentamente a "migliorare" la specie attraverso la conservazione degli individui 'superiori' e l'eliminazione di quelli 'inferiori'. Poiché i grandi mutamenti ambientali sono sempre lenti, ci sarebbe tutto il tempo perché "ogni parte dell'organizzazione animale" sia modificata secondo le esigenze. L'eliminazione dei meno adatti spiegherebbe la progressiva definizione dei caratteri specifici e il netto isolamento di ogni nuova specie. Ecco "la tanto cercata legge di Natura" che risolveva il problema dell'origine delle specie.
Nelle ore successive all'attacco febbrile, Wallace fissò i punti essenziali della teoria. Il risultato fu il breve saggio On the tendency of varieties to depart indefinitely from the original type, che egli mandò a Darwin e che fu presentato il 1° luglio 1858 alla Linnean Society di Londra in una comunicazione congiunta. La teoria della formazione di specie nuove per selezione naturale delle variazioni vantaggiose nella lotta per l'esistenza sarebbe divenuta nota anche come 'darwinismo', e alla diffusione di questo termine avrebbe dato un contributo decisivo proprio Wallace, pubblicando nel 1871 un volume dal titolo Darwinism. An exposition of the theory of natural selection, with some of its applications. Con il tempo, tuttavia, fra i due sarebbero emersi dissensi, soprattutto in relazione alla selezione sessuale e all'evoluzione dell'uomo. Wallace finì con l'assumere posizioni nettamente spiritualistiche, sostenendo che le facoltà intellettuali e morali dell'uomo eccedevano di molto i bisogni dell'adattamento e della sopravvivenza; di conseguenza l'evoluzione umana era guidata da un'intelligenza superiore secondo fini trascendenti.
Una considerazione a sé meritano alcuni aspetti della biologia tedesca tra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento. L'aspirazione romantica a una concezione unitaria della Natura fondata su principî semplici e universali trova espressione nella visione della Natura come un tutto vivente: si è giustamente parlato di 'biocentrismo' della scienza romantica. In questo clima, infatti, riprende vigore l'antico tema di un''anima del mondo' ma prende anche forma il progetto di una teoria generale della vita, perseguito da Gottfried Reinhold Treviranus (1776-1837), non a caso uno dei primi a usare il termine "biologia". L'interesse preminente per lo sviluppo delle "forme", vale a dire delle strutture animali e vegetali, dà un impulso notevole all'anatomia comparata, mediante la quale esse possono essere ricondotte a un "tipo" generale, una sorta di piano originario che si realizza progressivamente nel tempo secondo modalità non spiegabili con le leggi causali meccaniche. Al fine di comprendere le "metamorfosi" del tipo bisogna ricorrere al metodo storico-genetico dell'analogia tra le forme: è quella che in Francia e in Gran Bretagna diverrà in seguito nota come "anatomia trascendentale".
Il motivo della metamorfosi si riallaccia a un'altra vecchia idea che conosce rinnovata fortuna in questo periodo: quella dell'uomo come microcosmo nel quale si riflette l'ordine del macrocosmo. Secondo Karl Friedrich von Kielmeyer (1765-1844), con il quale studiò per qualche tempo Cuvier, ogni essere vivente, nel corso dello sviluppo dalla condizione embrionale alla maturità, ripercorre le fasi di quelli a esso inferiori nella scala degli esseri viventi. Questa concezione fu ripresa da Johann Friedrich Meckel (1781-1833), il quale formulò la legge che divenne nota come 'legge del parallelismo' della filogenesi e dell'ontogenesi. Essa era destinata a grande fortuna nella versione evoluzionistica divulgata da Ernst Heinrich Haeckel (1834-1919).
Il rapporto fra microcosmo e macrocosmo è al centro della filosofia biologica di Lorenz Oken (od Okenfuss, 1779-1851), professore a Jena, Monaco e Zurigo. In collaborazione con Dietrich Georg Kieser (1779-1862) egli compì ricerche di embriologia comparata che stabilivano la coincidenza fra la membrana vitellina dell'uovo degli uccelli e la vescicola ombelicale dell'embrione dei mammiferi. Nei suoi studi del 1807 sulla formazione delle ossa del cranio sostenne una tesi di fondamentale importanza e sulla cui priorità nella formulazione condusse una polemica con Goethe: la scatola cranica è il risultato della trasformazione delle vertebre. In Die Zeugung (La riproduzione, 1805) Oken delineò una teoria generale del vivente e tentò di stabilire i rapporti di proporzionalità che legano fra loro tutti gli esseri, viventi e no. Nel Lehrbuch der Naturphilosophie (Trattato di filosofia della Natura, 1809-1811) asserì l'esistenza di "animali originari" o "infusori", cioè di forme elementari di vita che erano il materiale costitutivo di ogni essere organizzato: si tratta di vescicole primitive, sorte per generazione spontanea da una "mucillagine originaria" (Urschleim), che si uniscono in masse organiche da cui si formano le piante e gli animali. Negli organismi via via superiori che costituiscono, gli infusori perdono la loro individualità. Qualcuno ha visto in questa dottrina un'anticipazione della teoria cellulare che Matthias Jacob Schleiden (1804-1881) e Theodor Schwann (1810-1882) avrebbero sviluppato circa trent'anni dopo e nell'Urschleim un'anticipazione del concetto di protoplasma.
Ogni processo naturale è, secondo Oken, un processo di sviluppo. Nelle trasformazioni del Cosmo non ci sono soluzioni di continuità: il divenire è eterno e ciclico, causato dalle tensioni polari che percorrono la materia originaria, l'etere. Così come fra i processi, vi è continuità non soltanto tra vegetali e animali ma anche fra organico e inorganico. Vi è una fondamentale analogia fra la struttura cristallina dei minerali e le forme regolari che s'incontrano nel regno vegetale. L'intero Cosmo è un grande organismo.
Oken applica la teoria della ricapitolazione alla classificazione del regno animale. In questo distingue quattro "circoli", ognuno dominato da uno dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) e corrispondente a uno dei quattro complessi fondamentali di organi (i sistemi digerente, circolatorio, respiratorio, nervoso). I primi tre circoli costituiscono la "provincia" degli invertebrati, il quarto quella dei vertebrati.
Il regno animale non è altro che "l'uomo anatomizzato, il macrozoon del microzoon" (in Poggi 2000, p. 457). Per converso, l'organismo dell'uomo è una sorta di ritratto vivente del pianeta. Infatti è l'essere che presenta la maggiore varietà di organi. Poiché ogni organo è a fondamento della vita di una determinata classe animale, l'uomo è "l'unione di tutti i caratteri propri dell'animale, e gli animali sono perciò solo singoli sviluppi di alcuni di questi singoli caratteri […], i modi in cui i singoli, specifici organi dell'uomo si vengono di volta in volta a presentare nella loro totalità" (Oken 1806 [1996, III, 2, p. 281]). Le differenze tra gli animali sono puramente quantitative, poiché consistono nello sviluppo sproporzionato degli organi. In ogni classe animale solo un tipo di organo giunge a perfezione; quell'organo si sviluppa a svantaggio di altri (sottraendo loro il nutrimento), cosa che invece non avviene nell'uomo, frutto di un equilibrio unico. Ogni classe animale è fondata sullo sviluppo preponderante di un determinato organo: vi sono "tante classi quanti sono gli organi animali". Considerato nella sua totalità, "il regno animale è solo l'animale individuale sezionato" (ibidem, p. 284). Gli animali "sono in realtà solo parti di quel grande animale che è il regno animale […]. Il regno animale è solo l'animale più elevato ‒ l'uomo ‒ fatto a pezzi" (Oken 1809-11 [1996, III, 2, p. 292]).
Oken condivide la teoria meckeliana del parallelismo tra lo sviluppo embrionale e lo stato permanente degli animali superiori, ovvero del successivo, graduale presentarsi, nel corso dello sviluppo embrionale, delle forme di organizzazione inferiori a quella che assumerà l'individuo maturo. "L'animale ‒ scrive ‒ attraversa, nel corso del suo sviluppo, tutti i gradi del regno animale. Nell'embrione, tutte le classi animali vengono a presentarsi distribuite nel tempo". In altri termini, "gli animali sono solo fasi della vita fetale dell'uomo" (ibidem, pp. 291-292).
Rimane tuttavia il dubbio se di vero e proprio evoluzionismo si possa parlare a proposito di Oken e della Naturphilosophie in generale. Certo, ampi settori della biologia e della filosofia romantiche sono permeati dall'idea che poche forze immanenti producano i fenomeni dei diversi ordini di realtà attraverso una tensione di forze polari ‒ come attrazione e repulsione, espansione e contrazione ‒ in una dialettica di costanza e diversità, permanenza e successione, unità e molteplicità. Molti zoologi e botanici escogitano sistemi di classificazione in cui cercano di dare espressione visiva all'intuizione fondamentale secondo cui tutte le forme di vita sono legate da una fitta rete di corrispondenze e simmetrie; quindi le classificazioni, se vogliono riprodurre l'ordine della Natura, devono assumere una forma geometrica. Soprattutto si impone l'idea che l'essere sia processo e si realizzi nel tempo e che la Natura crei forme sempre superiori. Il fattore temporale entra dunque definitivamente nello studio del vivente. Eppure il tempo nel quale avvengono le metamorfosi di cui parlano i romantici non è tanto quello geologico quanto piuttosto un tempo ideale-mitico in cui avvengono processi ideali. Allo stesso modo la "pianta originaria" e l'"animale originario" dei quali parla Goethe nei suoi scritti morfologici non sono entità storiche ma forme ideali o archetipi a cui ricondurre il molteplice fenomenico per dargli unità. Non si trovano affermazioni chiare sull'effettiva discendenza delle specie le une dalle altre. L'anatomia trascendentale, che in Geoffroy Saint-Hilaire aveva condotto alla teoria dell'unità del piano di composizione e quindi all'evoluzionismo, finì anzi con il costituire un repertorio di argomenti antievoluzionistici: la variazione, si disse, non può uscire dai limiti del tipo morfologico. La grande tradizione della morfologia tedesca, che si forma proprio nei primi decenni dell'Ottocento, alimentò fino alla metà del Novecento una resistenza all'empirismo darwiniano in nome delle leggi della forma. In una concezione tipologica delle forme viventi non è accettabile l'idea di una trasformazione graduale delle stesse: se vi è evoluzione, essa deve avvenire per 'salti', per passaggi improvvisi da un piano di organizzazione all'altro.
L'evoluzionismo, nel senso che si dà oggi a questa parola, non attecchisce tra i filosofi tedeschi. In Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854) il perpetuo divenire della Natura è apparente: tutti gli esseri viventi hanno origine dalla forza formativa che agisce in essa, ma anche qui si tratta di un'origine ideale, poiché la Natura è un'emanazione dell'assoluto, non una sua produzione nel senso materiale: ha una storia, ma soltanto nel senso che si avvicina indefinitamente all'ideale attraverso l'infinita molteplicità delle sue manifestazioni. Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che conosce bene la letteratura scientifica del suo tempo (comprese le opere di Lamarck), è nettamente antievoluzionista: si può parlare di storia e sviluppo soltanto per lo spirito, non per la Natura. Per contro, il suo fiero avversario Arthur Schopenhauer (1788-1860), influenzato dalla lettura dell'opera di Robert Chambers, ingloba una concezione evoluzionistica nella propria filosofia vitalistica della Natura: la "volontà", la forza oscura e cieca che produce la realtà, si manifesta anche nella irrefrenabile pulsione generativa della Natura che produce l'infinita diversificazione ed espansione delle forme di vita. Sono motivi per molti versi affini a quelli che si ritrovano in seguito in certi evoluzionismi vitalistici antidarwiniani di fine Ottocento e in Henri-Louis Bergson (1859-1941): a ragione lo storico delle idee Arthur O. Lovejoy (1873-1962) ha coniato la definizione di "evoluzionismo romantico".
La Naturphilosophie esercitò un'influenza duratura, ancorché sotterranea, sulla scienza tedesca, ma la reazione ai suoi eccessi speculativi comportò negli anni 1840-1850 un diffuso atteggiamento di cautela empirica e di limitazione al direttamente osservabile, almeno nelle dichiarazioni programmatiche e metodologiche. Non poche delle pagine in cui si accenna al problema dell'evoluzione in questo periodo hanno un carattere vago e ambiguo, anche perché i loro autori associavano la riflessione sulla trasformazione delle specie a quelle che ormai era consuetudine bollare come le fantasie dei Naturphilosophen. Sul concetto di 'forza vitale' si aprì tuttavia una discussione molto vivace, che raggiunse il culmine nel dibattito sul materialismo, il Materialismusstreit, degli anni Cinquanta. È importante precisare che contro la forza vitale e a favore di un'impostazione meccanicistica nello studio dei fenomeni biologici si schierarono anche autori per nulla disposti ad accettare un materialismo filosofico radicale del tipo di quello esposto nelle fortunate opere divulgative di figure come il medico e filosofo Ludwig Büchner (1824-1899), il fisiologo olandese Jacob Moleschott (1822-1893) e il medico, antropologo e politico Carl Vogt (1817-1895). Viceversa, essere materialisti non voleva dire di per sé essere evoluzionisti. Infatti, se tutti e tre gli autori appena citati abbracciarono con entusiasmo il darwinismo (Vogt addirittura lo applicò all'uomo prima che lo facesse Darwin, nelle Vorlesungen über den Menschen, seine Stellung in der Schöpfung und in der Geschichte der Erde, Lezioni sull'uomo, la sua posizione nella Creazione e nella storia della Terra,1863), in cui videro il compimento del loro materialismo monistico, soltanto Büchner sembra essere stato nettamente evoluzionista prima della pubblicazione di On the origin of species (1859).
Fra i pronunciamenti chiaramente evoluzionistici bisogna ricordare quello di Karl Heinrich Baumgärtner (1798-1886), professore di clinica medica a Friburgo, il quale affermò che la vita ebbe origine da cellule sorte per generazione spontanea, dalle quali si svilupparono forme più complesse, destinate però a essere sterminate dalle grandi catastrofi che periodicamente avevano devastato la superficie del pianeta. Dopo ogni catastrofe, una nuova generazione spontanea di cellule aveva dato inizio a un nuovo ciclo e le mutate condizioni ambientali avevano modificato gli organismi derivati dalle poche uova sopravvissute alla catastrofe. Anche lo svizzero Karl Wilhelm von Nägeli (1817-1891), in un saggio del 1856, sostenne la generazione spontanea delle prime sostanze organiche e quindi lo sviluppo di forme via via superiori a partire da queste. Nägeli, che sarebbe diventato uno dei maggiori sostenitori dell'evoluzione per cause interne, riteneva possibile anche nelle condizioni attuali la generazione spontanea degli organismi più elementari. Un attacco alla costanza delle specie fu lanciato da Hermann Schaaffhausen (1816-1893) in un saggio (über Beständigkeit und Umwandlung der Arten, Sulla stabilità e la modificazione delle specie, 1853) che Darwin avrebbe menzionato nella rassegna storica premessa alla terza edizione di On the origin of species. Schaaffhausen ammise anche l'unità del genere umano e la sua origine per trasformazione graduale da forme inferiori.
Una riflessione evoluzionistica sull'origine e la storia della vita si trova in Die Pflanze und ihr Leben (La pianta e la sua vita, 1848), una serie di conferenze divulgative tenute da Schleiden, con Schwann padre della teoria cellulare. Devoto cristiano, Schleiden rifiuta sia il materialismo sia la forza vitale. Il mondo è creato da Dio, ma la Creazione è compatibile con l'origine graduale dell'intero mondo vegetale da una singola cellula e dai suoi discendenti. I primi germi degli esseri viventi si formarono negli oceani, a opera di forze che forse agiscono tuttora, ma in combinazioni e condizioni che non sembrano più essere possibili. In periodi successivi forme elementari di vita sorsero forse anche sulla Terra. Schleiden però ritiene superflua la supposizione di ripetute generazioni spontanee. Dall'unica cellula originaria (o dalle poche cellule originarie) si sono sviluppate per influsso dell'ambiente, attraverso lente e graduali trasformazioni avvenute in tempi lunghissimi, forme via via più complesse e tutta la straordinaria ricchezza del mondo vegetale. I fattori della modificazione sono il clima, il suolo e il nutrimento, che inducono variazioni nei processi chimici della pianta e quindi maggiori o minori deviazioni dalla forma originaria. Se rimangono per lunghi periodi esposte alle stesse influenze, le varietà si stabilizzano in sottospecie e poi in specie. Questa è soltanto un'ipotesi, scrive Schleiden, ma "è come minimo altrettanto possibile di qualunque altra opinione, e forse più verosimile e in accordo coi fatti di qualunque altra, poiché riconduce l'assolutamente inspiegabile, cioè la generazione originaria di un essere organico, entro i limiti più stretti che si possano immaginare" (Schleiden 1848, p. 271).
Come si è accennato, in Inghilterra le idee evoluzionistiche furono associate, forse più che altrove, con il libero pensiero, il materialismo, il radicalismo sociale e politico, l'ateismo e si scontrarono con una forte tradizione di teologia naturale. Gli ultimi fasti di questo genere letterario apologetico, che sul continente era ormai stato abbandonato da tempo, furono celebrati con la pubblicazione, fra il 1833 e il 1836, dei Bridgewater treatises on the power, wisdom and goodness of God as manifested in the works of Creation, otto trattati finanziati dal lascito testamentario del conte di Bridgewater (donde il titolo generale), scritti da personalità di spicco della scienza britannica e dedicati ciascuno a un diverso ambito scientifico: dall'astronomia alla geologia, dalla chimica alla fisiologia, dall'economia politica alla storia naturale. Tuttavia, proprio questa serie di volumi mostra che, sotto l'apparente unità, la teologia naturale non era più un corpo uniforme di dottrine ma ospitava ormai una pluralità di voci e di modi di intendere il rapporto fra la Creazione divina e le leggi e i processi secondo i quali si attuava. L'intero dibattito britannico sui rapporti fra scienza e religione rivela continui, anche se spesso impercettibili, mutamenti nelle strategie apologetiche e aggiustamenti per aggiornare gli argomenti tradizionali alla luce degli sviluppi delle diverse discipline. Tutti i partecipanti al dibattito concordavano nel respingere ogni forma di materialismo, ma, mentre alcuni ribadivano la convinzione che le cause naturali (o 'cause seconde') non erano sufficienti a spiegare integralmente i fenomeni, e quindi bisognava invocare un disegno divino e la presenza di fini nella Natura, altri erano disposti a lasciare un più ampio margine di autonomia alle cause seconde. In generale si delineavano due tendenze. La prima, secondo cui l'ordine della Natura non è spiegabile senza ammettere qualche forma di interferenza divina più o meno frequente. La seconda, che proprio nella regolarità dei fenomeni naturali e nella loro conformità a leggi generali e stabili, agenti mediante cause seconde costanti e affatto naturali rinviene la migliore prova del disegno divino. A una teologia naturale degli adattamenti al minuto si contrapponeva dunque una teologia naturale delle leggi generali. Dio non interviene a capriccio, sostengono gli esponenti di questa seconda interpretazione, per esempio creando questa o quella specie, oppure modificando una sfumatura di colore su una conchiglia, ma secondo un piano preordinato, fissato inizialmente una volta per tutte, la cui attuazione è demandata integralmente a cause naturali. Naturalmente, sia il progressionismo paleontologico sia, a maggior ragione, la questione delle specie erano il terreno principale di conflitto fra queste due correnti. Nel suo trattato Geology and mineralogy considered with reference to natural theology del 1836 (il sesto dei Bridgewater treatises), Buckland afferma che la regolare progressione degli organismi documentata dalla paleontologia è perfettamente compatibile con l'idea del piano divino: la Creazione ha seguito un ordine, uno schema progressivo. Anche se pochi parlano chiaramente di derivazione o di filogenesi delle specie, si fa lentamente strada l'idea che l'introduzione di specie nuove non sia un evento miracoloso ma avvenga secondo leggi ancora ignote: le cosiddette 'creazioni speciali' sarebbero violazioni della regolarità della Natura indegne del Creatore. Il trasformismo lamarckiano è unanimemente dichiarato inaccettabile ma, mentre il medico e fisiologo Charles Bell (1774-1842) rifiuta nel suo trattato The hand. Its mechanism and vital endowments as evincing design del 1833 (il quarto dei Bridgewater treatises) anche l'idea che l'uomo possa essere rappresentato come il culmine della scala zoologica, essendo Dio il diretto responsabile del salto compiuto con la creazione dell'uomo, il fisiologo Peter M. Roget (1779-1869) sottoscrive la teoria dell'unità del piano sostenuta da Geoffroy Saint-Hilaire, la teoria della ricapitolazione e l'idea che la superiorità dell'uomo sia dovuta alla superiorità delle sue facoltà.
La tesi che il progresso delle scienze avrebbe condotto a una grande sintesi e alla scoperta di cause naturali che, sostituendo completamente gli interventi miracolosi del Creatore, avrebbe reso possibile una concezione più nobile della mente divina fu sostenuta dall'autorevole reverendo Baden Powell (1796-1860), professore di geometria all'Università di Oxford. Egli difese l'uniformismo lyelliano dagli attacchi di Whewell, il quale vedeva nella sostituzione della flora e della fauna di un'epoca geologica con "forme organiche completamente nuove" nella successiva "la manifestazione chiara di un potere creativo che trascende l'azione delle leggi di natura note" (Whewell 1831, p. 194). Non c'è motivo di credere, replicava Powell, che i mutamenti della natura organica non siano dovuti esclusivamente a leggi naturali. Non è degno di Dio scomodarsi per creare ex novo un intero sistema di vita o per modificare direttamente, violando le leggi da lui stesso stabilite, un minuto particolare di questo o quell'organismo: Dio è un architetto, non un artigiano. È conforme ai principî della ragione e della teologia e allo spirito della scienza induttiva immaginare che nuove specie siano introdotte mediante cause seconde. La trasformazione delle specie è la conclusione più lecita dal punto di vista filosofico, teologico ed epistemologico. La teoria di Lamarck è pertanto erronea e va respinta, perché il meccanismo proposto non è convincente; tuttavia, non c'è motivo di escludere che un giorno si possa proporre una spiegazione accettabile della successione delle specie. Quando uscì On the origin of species, Powell salutò il "volume magistrale" che stabiliva "l'origine di specie nuove mediante cause naturali".
Attraverso questi dibattiti interni, la cultura teologico-scientifica britannica si avviava verso un faticoso e delicato compromesso, le cui basi erano la condanna dell'ateismo e del materialismo, l'adesione a un empirismo più dichiarato che praticato, l'esclusione delle indagini sulle cause prime e le origini dei fenomeni naturali (in ossequio al monito newtoniano secondo il quale la scienza induttiva non deve trattare di questi argomenti, che sono di pertinenza della teologia) e l'accettazione del progressionismo geologico come manifestazione del piano divino della Creazione. La difesa del carattere induttivo della scienza andava di pari passo con quella dei valori morali cristiani.
Tale equilibrio fu sconvolto dalla pubblicazione, nel 1844, dell'opera che impose il tema dell'evoluzione all'attenzione del grande pubblico, le anonime Vestiges of the natural history of Creation. L'autore, mai rivelatosi in vita e dichiarato soltanto dopo la morte da un amico che scrisse la prefazione alla dodicesima edizione del 1884, era l'editore e poligrafo scozzese Robert Chambers (1802-1871). Il volume ebbe un successo enorme: quattro edizioni in sette mesi, più di 23 mila copie vendute al 1860 e un seguito anch'esso anonimo (Explanations: a sequel to 'Vestiges of the natural history of Creation', 1845). Subito cominciò una caccia all'autore che non risparmiò nemmeno la corte: fu sospettato anche il principe Alberto, di cui si disse che leggeva il libro ad alta voce alla regina Vittoria, e lo stesso Darwin temette per qualche tempo di essere identificato come l'autore di un'opera che, per così dire, rovinava la piazza ad altre, ben più solide, teorie.
Le Vestiges si presentavano come "il primo tentativo di unificare le scienze naturali in una storia della Creazione" (Chambers 1844, p. 388). La chiave di volta di questa sintesi grandiosa, che abbracciava la formazione dell'Universo, la storia della vita sulla Terra, l'origine e il destino dell'uomo, era l'idea che vi fosse un ordine progressivo nella Creazione e che ogni aspetto della Natura rivelasse una tendenza allo sviluppo di forme sempre superiori. Chambers non scriveva per risolvere la questione delle specie. Il problema dell'evoluzione biologica (naturalmente egli non usava questo termine) era un aspetto secondario di un progetto molto più vasto: delineare la storia naturale della Creazione e aggiornare in senso dinamico la concezione dell'Universo, mostrandone la compatibilità sia con la credenza nella Creazione e nel disegno divini sia con la fiducia nel sistema di leggi universali costruito dalla scienza moderna. Tutto, nell'Universo, si sviluppa dal semplice al complesso: la formazione delle galassie dalla nebulosa originaria; la successione delle forme di vita; la comparsa delle razze umane (per ultima, ovviamente, la caucasica); lo sviluppo del bambino. In geologia e paleontologia Chambers era gradualista e progressionista: le classi più complesse erano comparse dopo le più semplici, e anche al loro interno erano apparse prima le forme più semplici; per esempio, i mammiferi avevano esordito con i marsupiali e concluso con l'uomo. Per una curiosa combinazione della teoria della ricapitolazione con la teoria di Baer (giunta in Inghilterra attraverso Carpenter) secondo la quale lo sviluppo embrionale consiste in una progressiva differenziazione, l'intera storia della vita era un processo analogo allo sviluppo dell'embrione. Il meccanismo evolutivo di Chambers era infatti basato sul modello embriologico: un prolungamento (dovuto a che cosa, non veniva detto) del tempo di gestazione peculiare a ogni specie fa sì che l'embrione si sviluppi più del normale; in questo modo, una forma inferiore può talora, anziché riprodurre sé stessa, dare origine a una forma superiore, la quale rappresenta l'inizio di un nuovo tipo animale. La storia della vita è una successione di prolungamenti simili, di scatti in avanti lungo una direzione lineare. Questo meccanismo, che sembra miracoloso all'occhio umano, può essere stato progettato da Dio ed essere il risultato affatto regolare di un sistema di leggi più alto e comprensivo di quelle conosciute. Per addurre una prova della possibilità logica di un processo simile, Chambers ricorreva a un'analogia usata nel 1837 dal matematico Charles Babbage (1792-1871): si supponga che una macchina calcolatrice sia stata programmata in modo da cambiare le sue operazioni periodicamente, secondo uno schema prestabilito; di conseguenza, quelle che a un osservatore ignaro potrebbero sembrare irregolarità di funzionamento si spiegherebbero, invece, con una legge di ordine superiore, che comprende e determina le apparenti disfunzioni. Allo stesso modo, Dio poteva aver predisposto modificazioni periodiche delle leggi della Natura, che avevano tutta l'apparenza del miracolo senza esserlo (non a caso, l'opera in cui Babbage aveva svolto questa analogia s'intitolava The ninth Bridgewater treatise). L'origine di nuove forme organiche era perfettamente compatibile con il disegno divino. Anche l'uomo aveva avuto origine da forme inferiori; la sua intelligenza, del resto, era una conseguenza del suo particolare sviluppo cerebrale.
Chambers sosteneva anche un'altra ipotesi pericolosa: forme elementari di vita potevano sorgere per generazione spontanea dalla materia inorganica. Egli citava gli esperimenti in cui un dilettante, Arthur Crosse, aveva creduto di produrre acari mediante l'applicazione di corrente galvanica. Comunicati nel 1837 alla British Association for the Advancement of Science, tali esperimenti avevano suscitato scandalo, ma anche l'interesse di un biologo autorevole come Carpenter, il quale riteneva possibile la generazione spontanea dei parassiti intestinali dell'uomo. Carpenter scrisse una recensione positiva delle Vestiges nella prestigiosa "British and foreign medical review" e si spinse fino ad affermare che forse anche l'origine dell'uomo si sarebbe un giorno potuta spiegare in qualche modo simile: "Dobbiamo confessare la nostra preferenza per l'idea che in un periodo, per quanto lontanissimo, il Creatore abbia dotato […] certe forme di materia inorganica delle proprietà richieste per essere in grado di combinarsi […] in organismi umani, rispetto a quella che ci porta a considerare il bisnonno del nostro comune progenitore come uno scimpanzé o un orango" (Carpenter 1845, pp. 170-172).
Come si è detto, le Vestiges ebbero un grande successo di pubblico ma provocarono anche reazioni violente. Sedgwick ne scrisse molto negativamente e Thomas H. Huxley (1825-1895), il futuro difensore di Darwin, ne mostrò tutti gli errori in una recensione della quale in seguito riconobbe l'eccessiva "ferocia". Benché Chambers (tutt'altro che clericale) avesse avvolto la trattazione in una celebrazione dell'ordine provvidenziale e dell'armonia della Creazione, si levò l'accusa di materialismo. In una recensione, l'astronomo David Brewster (1781-1868) accusò l'anonimo autore di avere rotto la "santa alleanza" fra scienza e religione. Il compromesso fra religione e scienza sembrava sfuggire al controllo degli scienziati devoti che lo avevano faticosamente costruito. Insistendo nell'ammettere le cause naturali, avevano scatenato il materialismo di chi non era avvezzo alla cautela necessaria nell'accademia. Nell'allocuzione presidenziale alla riunione del 1845 della British Association, Herschel si sentì in dovere di precisare che le sue affermazioni nella lettera a Lyell del 1836 sulla possibilità di spiegare la successione delle specie con cause seconde erano state fraintese; infatti, non aveva voluto dichiararsi a favore di una spiegazione naturalistica della vita e ancora meno confinare il Creatore nell'inattività: Dio interveniva secondo leggi, sì, ma introducendo direttamente nuove specie ogni volta che fosse necessario per conservare l'equilibrio della Natura; e nessuna "legge speculativa" poteva dare una spiegazione sufficiente del mistero delle specie.
Prima di Darwin, dunque, al centro del dibattito britannico non stava il meccanismo, ma la teoria dell'evoluzione. Non mancarono i tentativi di conciliare il deismo cosmologico con l'idea di evoluzione e coloro che ne erano gli autori insistevano sul valore apologetico dell'ipotesi dello sviluppo mediante cause seconde. Nel frattempo, però, altri tentavano un'operazione diversa: l'evoluzionismo non soltanto era una dottrina scientifica lecita ma era l'unica ammissibile se non si voleva credere nei miracoli. Inoltre, proprio nell'evoluzione si trovava la sanzione dei valori etici, sociali e politici della società moderna. Già all'inizio del 1850 Spencer, che sarebbe divenuto il più influente filosofo evoluzionista della seconda metà del secolo, esponeva una concezione generale dell'evoluzione biologica e su questa edificava la propria dottrina sociale e politica. Nelle piante e negli animali, l'interazione continua fra organismo e ambiente e la tendenza essenziale di ogni forma vivente ad adattarsi alle circostanze sempre mutevoli producono continui aggiustamenti; nell'uomo determinano un progressivo adattamento alle esigenze della vita in società. In Spencer l'evoluzionismo biologico fa tutt'uno con la credenza nella perfettibilità dell'uomo e nel progresso: "la legge del progresso organico è la legge di ogni progresso" (Spencer 1857 [1858, p. 3]). In ogni ordine della realtà il progresso consiste nel passaggio dal semplice al complesso, dall'omogeneo all'eterogeneo, dall'indifferenziato al differenziato. "Non vi sono ‒ ribadirà più volte in seguito ‒ molte specie di evoluzione aventi certi caratteri comuni, ma una sola evoluzione che in tutte procede nello stesso modo" (Spencer 1862, par. 188). Spencer articolerà poi l'"evoluzione cosmica" in inorganica, organica e "superorganica" (cioè sociale). La convinzione, caratteristica della "filosofia sintetica" di Spencer, secondo la quale è possibile ricondurre a una legge unica i fenomeni di ogni livello della realtà sarà il fattore più importante dello straordinario successo che essa avrà presso gli scienziati, i filosofi e il grande pubblico.
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