L'Ottocento: biologia. L'evoluzionismo darwiniano: successi e controversie
L'evoluzionismo darwiniano: successi e controversie
La pubblicazione dell'opera On the origin of species nel 1859 rappresenta un evento fondamentale nella storia della biologia e della scienza in generale. Come accade per gli avvenimenti che assumono un valore simbolico, d'altra parte, è difficile distinguere con precisione gli elementi che hanno contribuito a decretarne il successo. La difficoltà è ancora maggiore nel caso di un'opera come quella di Charles Darwin che, nonostante il profondo radicamento nell'Inghilterra dell'età vittoriana, conteneva idee e suggestioni che continueranno a esercitare una forza straordinaria un secolo e mezzo più tardi, in una varietà di contesti anche assai lontani da quelli originari.
Per rendere ragione di tale successo, gli storici della scienza hanno trattato i motivi scientifici, filosofici, religiosi, ideologici e politici che hanno scandito la storia del darwinismo, privilegiando questo o quel filo della complessa trama. In quel che segue si dovranno distinguere i diversi aspetti del fenomeno. Prima, tuttavia, occorre sottolineare che forse in nessun momento questi aspetti furono del tutto separati gli uni dagli altri, così come non lo erano nella paziente, rigorosa e insieme accorta azione di Darwin a favore dell'evoluzionismo. In questo senso il darwinismo appartiene a un'epoca (in cui tuttora ci troviamo) nella quale alcune idee fondamentali della scienza godono di una visibilità pubblica che interagisce in profondità con l'opera stessa degli scienziati. Darwin era perfettamente consapevole di questa interazione: finché fu in suo potere esercitò un ruolo diretto e importante nella diffusione del darwinismo presso gli esperti e il pubblico colto del suo tempo orientandolo, per quanto poteva, con le sue nuove pubblicazioni e con la rete di corrispondenti che manteneva attiva in diversi continenti. Le idee, d'altra parte ‒ anche quelle della scienza e della tecnica, godono di una notevole autonomia nei confronti di chi le ha originate: neppure la sistematica e tenace regia di Darwin poté indirizzare le vicende del darwinismo, che assunse una varietà di accenti tale da far dubitare a volte della loro coerenza e della comune origine nell'opera di colui che intanto era diventato uno dei simboli più celebrati di quella che molti consideravano l'epoca del trionfo della scienza.
Le pagine che seguono si concentrano sul periodo che va dal 1859 alla morte di Darwin e adottano come filo conduttore ‒ ma spesso anche come contrappunto ‒ la regia da lui tessuta per i darwiniani, ossia l'insieme delle proposte conoscitive e delle mediazioni su diversi fronti che consentirono a Darwin e ai suoi ammiratori di assicurare, a partire dagli anni Settanta dell'Ottocento, l'affermazione dell'evoluzionismo. Esse posero le importanti premesse di quello che, con qualche eccezione e in forme imprevedibili agli stessi protagonisti di allora, è stato il suo successo fino a oggi.
Il titolo On the origin of species, concordato tra autore ed editore, richiamava l'attenzione sull'idea che Darwin considerava più importante nella lunga argomentazione contenuta nell'opera, ossia quella di una trasformazione naturale di tutte le forme viventi da forme precedenti, contrapposta all'idea, ritenuta fino ad allora dominante, della creazione indipendente di ciascuna specie per cause soprannaturali. Darwin, com'è noto, aveva esitato a lungo prima di pubblicare il testo e anche in esso proponeva quella contrapposizione in termini prudenti. Nell'ultima pagina, per esempio, invitava a considerare la sua teoria come capace di spiegare l'origine delle specie per trasformazioni successive a partire da una o poche forme viventi create in principio da Dio.
La contrapposizione fra la trasformazione naturale delle specie ‒ nell'Origin Darwin non usava la parola evoluzione, che però fu presto adottata dagli specialisti e dal pubblico ‒ e l'idea di una loro Creazione divina, si prestava ovviamente a confronti drammatici. Fin da quando, nell'età dell'Illuminismo, la possibilità di una trasformazione delle forme viventi si era fatta strada tra i sostenitori di una concezione laica e naturalistica del mondo, essa aveva sollevato polemiche e attirato condanne. Darwin aveva deciso di non entrare nel merito delle implicazioni filosofiche e religiose dell'evoluzionismo e nelle 500 pagine del libro aveva piuttosto accumulato una serie di prove che mettevano in gioco le conoscenze da lui acquisite in vent'anni di lavoro sull'argomento e il suo consolidato prestigio scientifico. Tuttavia, quelle implicazioni furono immediatamente rievocate dalla pubblicazione dell'opera. Le recensioni apparse nei primi mesi del 1860 non lasciavano dubbi sulla propensione del pubblico e di molti esperti a considerare l'Origin come l'occasione per un nuovo confronto tra i sostenitori di diverse concezioni dei rapporti tra scienza e religione.
Thomas H. Huxley (1825-1895), per esempio, zoologo e anatomista che a differenza dell'amico Darwin amava quel genere di polemiche, nel momento in cui, nell'aprile del 1860, coniava il termine 'darwinismo', per designare la teoria della selezione naturale, dipingeva l'Origin come 'un'arma' sofisticata e micidiale nelle mani del liberalismo. Negli stessi mesi il vescovo anglicano di Oxford, Samuel Wilberforce, recensendo l'opera protetto dall'anonimato, com'era consuetudine, ricordava le vecchie simpatie evoluzionistiche e illuministiche del nonno di Darwin, Erasmus (1731-1802), considerato dai nemici un seguace dei giacobini, e dipingeva le idee di entrambi come una minaccia per l'ordine morale e spirituale. Con il successivo confronto tra il vescovo e Huxley, avvenuto nel giugno dello stesso anno a Oxford davanti alla comunità scientifica britannica riunita e a un folto pubblico, ogni valutazione dell'opera di Darwin risultava presa nelle strettoie di un conflitto tra scienziati e teologi relativo a quale dei due gruppi avesse il diritto di pronunciarsi sull'origine delle specie e, in particolare, su quella dell'uomo.
Di fronte a tanto clamore Darwin dovette correre ai ripari. Per lui voleva dire ‒ e continuò a significare per una parte degli anni Sessanta ‒ attenuare le polemiche con concessioni tattiche agli avversari e fare leva sulle ricerche originali che intanto continuava a produrre con alacrità, anche in settori nei quali non aveva ancora pubblicato, come la botanica, e occupandosi in particolare dei meravigliosi adattamenti tra i fiori e gli insetti che ne assicurano la fecondazione.
Quegli adattamenti erano un tradizionale argomento per sostenere l'esistenza di un piano divino in Natura. Darwin dedicò ai fiori e agli insetti l'opera sulle orchidee del 1862 ‒ ancora nel mezzo delle polemiche sollevate dall'Origin ‒ concentrandosi sul caso particolare delle orchidee e senza menzionare la spiegazione evoluzionistica che, a suo giudizio, rendeva ragione di quegli adattamenti evitando il ricorso a qualsiasi piano divino e basandosi su quella che oggi si chiamerebbe la coevoluzione di fiori e insetti per lunghi periodi di tempo nelle stesse regioni. La ricchezza e la varietà degli adattamenti descritti, d'altra parte, erano tali da sedurre anche i lettori propensi a un'interpretazione religiosa. Con tale opera Darwin svolgeva così un'azione moderatrice, volta a smorzare i toni più accesi delle polemiche in corso, e contemporaneamente sembrava avvicinarsi a quelli tra i suoi ammiratori che, come il botanico statunitense Asa Gray (1810-1888), sostenevano la possibilità di conciliare la teoria darwiniana e la 'teologia naturale' della tradizione religiosa.
Gray, che intratteneva con Darwin una corrispondenza schietta, vide nell'opera sulle orchidee una "manovra di aggiramento del nemico" lanciata da Darwin per disorientare gli avversari dell'evoluzionismo. Altri, come, per esempio, il botanico italiano Federico Delpino (1833-1905) ‒ anch'egli incline a una conciliazione fra l'evoluzionismo darwiniano e una concezione vitalistica e finalistica della Natura ‒, ne trassero lo spunto per nuove e originali ricerche sul campo. Pur dissentendo sul piano teorico e filosofico, Darwin considerò con attenzione e fece circolare a sue spese in traduzione inglese alcuni scritti di Delpino. Allo stesso modo aveva favorito, all'inizio degli anni Sessanta, la diffusione in Inghilterra dell'interpretazione religiosa della teoria darwiniana proposta da Gray in America.
Verso la fine degli anni Sessanta, tuttavia, la situazione stava cambiando sensibilmente. Attraverso l'incomparabile osservatorio offertogli dalla corrispondenza internazionale, dai contatti che intratteneva con i circoli scientifici londinesi, dalle traduzioni dei suoi scritti e dagli attestati di stima che gli giungevano da ogni parte del mondo, Darwin si convinse che la battaglia a favore dell'evoluzionismo ‒ che in principio aveva anteposto all'affermazione della sua particolare teoria del cambiamento evolutivo, la teoria della selezione naturale ‒ poteva considerarsi vinta. Nelle nuove condizioni egli ritenne di poter contrastare le obiezioni che intanto erano state mosse alla selezione e, insieme, affermare senza più reticenze una concezione radicalmente naturalistica del mondo vivente e dell'uomo, capace di ricondurre anche le credenze religiose, i sentimenti morali e quant'altro era considerato esclusivo dell'uomo a un graduale processo evolutivo, che non supponeva alcun piano preordinato in Natura, né un posto privilegiato per la specie umana.
Era questa la concezione che Darwin propose nel 1871 in The descent of man and selection in relation to sex, in cui riprendeva alcuni temi che aveva affrontato nei suoi quaderni privati fin dagli anni Trenta, ma con una ricchezza di argomentazioni e di documentazione che mettevano in luce ancora una volta le qualità del 'laboratorio' privato che aveva saputo realizzare nel suo (apparente) ritiro nella campagna inglese.
Coerentemente, a partire dai primi anni Settanta, Darwin incoraggiò tra i suoi seguaci soprattutto quelli che aderivano a un naturalismo evoluzionistico vicino al suo, come Huxley, o addirittura alle filosofie monistiche e materialistiche contemporaneamente sviluppate da altri ammiratori, tra cui Ernst Heinrich Haeckel (1834-1919). Darwin, d'altra parte, evitava di aderire in prima persona a quelle filosofie, così come rifiutava di unirsi alle campagne dei propagandisti del libero pensiero e dell'ateismo ansiosi di utilizzare il suo nome. Questa linea di condotta contribuì a tenere l'autore dell'Origin fuori dall'Indice dei libri proibiti della Chiesa cattolica; ma non impedì a Karl Marx di proclamarsi "suo sincero ammiratore" nella copia del Capitale che resta, non letta, nella biblioteca personale di Darwin.
Gli storici che hanno esplorato la diffusione internazionale dell'evoluzionismo sono concordi nel collocare intorno al 1870 il picco delle vecchie e nuove adesioni a quel modo di concepire un vasto settore delle scienze biologiche, che veniva in tal modo potenzialmente sottratto ad argomentazioni di tipo religioso con le conseguenze che erano ormai sotto gli occhi di tutti, dibattute in libri e pamphlets ad alta tiratura e sulla stampa di numerosi paesi.
Per quanto riguarda esattamente le caratteristiche dell'evoluzionismo, che intanto si era affermato, gli storici convengono sul fatto che esso era assai eterogeneo e, a volte, molto poco darwiniano. Lo confermano in quegli stessi anni le vicende della teoria della selezione naturale, oggi considerata il contributo più importante di Darwin.
I naturalisti della generazione di Darwin si erano formati in una tradizione di ricerca che dedicava un'attenzione preminente alla classificazione delle forme viventi, alla loro morfologia e all'individuazione di leggi della fisiologia che insistevano sulla peculiare organizzazione interna degli organismi. A gran parte di costoro il meccanismo proposto da Darwin per spiegare la trasformazione delle forme viventi appariva difficile da accettare e in ogni caso insufficiente rispetto ai compiti ambiziosi che gli erano stati assegnati nel grande affresco delineato in On the origin of species, successivamente in The variation of animals and plants under domestication (1868) e infine in The descent of man.
Chi per esempio, come Richard Owen (1804-1892), aveva condotto raffinati studi sull'anatomia comparata degli organismi, ipotizzando l'esistenza di alcuni piani fondamentali di organizzazione che l'anatomia e la fisiologia dovevano svelare, si trovava di fronte a una teoria che postulava una lenta ma inesorabile trasformazione di ogni forma nel tempo, prodotta da forze che sembravano incommensurabili rispetto alle leggi note dell'anatomia e della fisiologia. Tali sembravano le 'variazioni' darwiniane (oggi si direbbe mutazioni) che si verificano di tanto in tanto nel processo riproduttivo per cause non ancora note, e secondo Darwin accidentali, dando vita a individui o gruppi con caratteristiche distinte all'interno della specie. Tale sembrava la 'lotta per l'esistenza', che Darwin considerava prodotta, senza alcun piano o scopo, dalla tendenziale eccedenza delle popolazioni animali (e umane) rispetto alla disponibilità di cibo. Tale, inoltre, si presentava la "selezione naturale delle variazioni favorevoli nella lotta per l'esistenza", secondo Darwin anch'essa priva di un orientamento o di un fine. Se si aggiunge che Darwin ammetteva che la sua teoria non era in grado di spiegare perché una specie particolare avesse preso il posto di un'altra nella storia della vita sulla Terra, né tanto meno di prevederne il destino futuro, si comprende quali lacerazioni l'adozione della teoria darwiniana del cambiamento evolutivo poteva comportare nei confronti della biologia del tempo e rispetto ad alcune idee generali circa gli obiettivi delle scienze naturali prevalenti nell'Ottocento.
Le caratteristiche della teoria darwiniana appena ricordate generarono difficoltà ed equivoci, tanto tra i nemici quanto tra i sostenitori dell'evoluzione. Anche chi non avvertiva il bisogno di postulare un piano divino trovava difficile conciliare la teoria della selezione con gli studi tassonomici, anatomici e fisiologici contemporanei. Perfino Huxley, che a un certo punto adottò per sé la definizione di "bulldog di Darwin", preferiva considerare la selezione naturale un'ipotesi su cui lavorare, anziché una compiuta teoria dell'evoluzione. Così, proprio quando la battaglia per l'evoluzionismo sembrava ormai vinta e Darwin pronto a rilanciare la sua spiegazione particolare del cambiamento evolutivo, la selezione naturale fu sottoposta a critiche insidiose.
William Thomson (lord Kelvin, 1824-1907) annunciò nel 1866 che, secondo la termodinamica e le stime correnti sul raffreddamento del Sole, l'età della Terra come pianeta abitabile doveva essere calcolata in non più di cento milioni di anni o forse meno (oggi la stima è dell'ordine dei 3,5 miliardi di anni, tenuto conto di fattori come la radioattività allora sconosciuti) e oppose quel dato alla tradizione della geologia britannica, che aveva ipotizzato tempi geologici praticamente illimitati. Darwin, che si riconosceva in quella tradizione geologica e aveva concepito la selezione naturale come un fattore particolarmente lento e graduale di evoluzione, si trovò in difficoltà. Nella prima edizione dell'Origin aveva stimato in trecento milioni di anni il periodo in cui si era formata una particolare regione del Sud dell'Inghilterra: era questo l'ordine di grandezza della dimensione temporale entro cui aveva concepito la sua teoria del cambiamento evolutivo. Ora si vedeva costretto ad aprire la porta a fattori diversi dalla selezione naturale, capaci di 'accelerare' l'evoluzione e di renderla compatibile con il dato proposto dai fisici per l'età della Terra.
Obiezioni non meno insidiose alla selezione naturale furono mosse nel 1867 da Henry C.F. Jenkin (1833-1885), un ingegnere, collega di Thomson a Glasgow. Oltre ad adottare la cronologia breve per la storia della Terra proposta da Thomson, Jenkin sviluppò alcune argomentazioni originali. Esse svelavano una comprensione ‒ rara tra i contemporanei di Darwin ‒ del carattere statistico delle leggi postulate dalla teoria della selezione per spiegare il cambiamento evolutivo e, insieme, sottolineavano nell'uso darwiniano di quelle leggi alcune incongruenze capaci di vanificare i propositi di Darwin.
Dall'esperienza degli allevatori ‒ utilizzata da Darwin per dimostrare che le piccole variazioni individuali possono essere accumulate (nel caso degli animali domestici a opera dell'allevatore, mosso dai suoi fini particolari; in Natura a opera della selezione naturale, senza alcun fine) ‒ Jenkin traeva una conclusione opposta. L'esperienza mostrava, secondo Jenkin, che le variazioni individuali si distribuiscono in "una sfera di variazione possibile", al centro della quale sta l'"animale medio" della specie. Mentre era relativamente facile per l'allevatore selezionare in tempi brevi gli individui con le caratteristiche a lui più gradite entro quella sfera di variazione, era arbitrario supporre che la stessa variabilità potesse estendersi indefinitamente fino al punto di produrre la trasformazione di una specie in un'altra, secondo quanto sosteneva l'argomentazione darwiniana.
Ancora più insidiosa era la trattazione cui Jenkin sottoponeva la questione dei gruppi di individui di una certa specie portatori di un insieme di caratteristiche nuove e della loro capacità di soppiantare con il tempo, riproducendosi in proporzioni più elevate degli altri, gli individui della medesima specie privi di quelle caratteristiche. Darwin aveva sostenuto che qualunque piccolo vantaggio dei primi nella lotta per l'esistenza avrebbe fatto pendere la bilancia a loro favore, consentendo ai loro discendenti di diffondersi nella popolazione della specie trasformandola. Jenkin sosteneva che l'argomentazione era tutt'altro che sicura se si utilizzavano le congetture probabilistiche che Darwin sembrava disposto a seguire solo fino a un certo punto. Secondo Jenkin il vantaggio di possedere certe caratteristiche nella lotta per l'esistenza andava posto a confronto con lo svantaggio rappresentato, al primo insorgere di una variazione del genere, dal numero ridottissimo di individui che ne sono portatori. Considerato quest'ultimo aspetto, era assai più probabile che la nuova variazione restasse sommersa, per così dire, dai numeri, piuttosto che mettere radici. Una possibile via d'uscita di fronte a questa obiezione consisteva nel supporre che ogni nuovo gruppo di individui del genere presentasse caratteristiche già profondamente distinte dal resto della specie, in modo da annullare l'effetto dei numeri a suo sfavore. Per Jenkin, tuttavia, ciò equivaleva a supporre tante piccole 'creazioni' del tipo che i darwiniani volevano escludere.
Per rispondere a critiche come queste, nelle edizioni successive dell'Origin che si continuavano a stampare (le 24.000 copie vendute nella sola Inghilterra durante la vita dell'autore rappresentavano un numero notevole in quegli anni per un trattato ponderoso), Darwin introdusse una lunga serie di revisioni e integrazioni che davano spazio a fattori evolutivi ai quali, inizialmente, non aveva riconosciuto alcun ruolo. Nella sesta edizione, la più popolare, apparsa nel 1872, tra questi spiccavano i fattori lamarckiani dell'uso e non uso delle parti, l'azione diretta dell'ambiente nel favorire il processo evolutivo e l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, che la biologia successiva avrebbe ritenuto incompatibili con una concezione propriamente darwiniana dell'evoluzione. A quei fattori, per lui nuovi, Darwin intanto aveva aggiunto anche una teoria per spiegare i fenomeni dell'ereditarietà ‒ la pangenesi ‒ e la teoria della selezione sessuale, per rendere ragione di quei caratteri degli organismi che, in quanto apparentemente inutili nella lotta per l'esistenza, non sembravano riconducibili all'azione della selezione naturale.
Non diversamente da quanto accadeva nel dibattito pubblico sull'evoluzionismo, le controversie tra gli specialisti stavano favorendo l'affermarsi di una dottrina dai tratti profondamente eclettici. La parallela, vistosa adozione da parte di Darwin dell'espressione "sopravvivenza del più adatto" come sinonimo di selezione naturale ‒ espressione, la prima, coniata da Herbert Spencer (1820-1903) per designare la teoria darwiniana inserendola in una ancor più vasta concezione evoluzionistica del Cosmo e della società, dalle implicazioni controverse per qualsiasi riflessione sulle nazioni occidentali e sulle loro proiezioni planetarie nell'età degli imperi coloniali ‒ non giovava alla chiarezza circa i tratti distintivi dell'evoluzionismo darwiniano.
Una delle manifestazioni più acute delle tensioni, scientifiche e ideologiche insieme, che percorrevano l'evoluzionismo all'inizio degli anni Settanta fu un attacco sferrato da St. George J. Mivart (1827-1900), con le reazioni che provocò in campo darwiniano. Anatomista, fautore di un evoluzionismo compatibile con l'autorità della Chiesa cattolica, e con un'esperienza di avvocato, Mivart pubblicò nel 1871 un trattato di successo, The genesis of species, in cui criticava la selezione naturale facendo leva su concetti come l'assurdità di "un'ala sviluppata soltanto a metà" e insistendo sulla frequente incapacità di riprodursi delle varietà che Darwin presentava invece come specie incipienti. Mivart aveva fatto sapere a Darwin di voler attaccare, più che lui e la sua teoria, i suoi seguaci, responsabili di una propaganda antireligiosa ritenuta pericolosissima. Darwin a quel punto, però, riteneva ormai di potersi schierare con i suoi alleati più naturali; fu lui a replicare personalmente all'attacco di Mivart e lo fece con una durezza pari o superiore a quella tipica di Huxley.
Antichi resti umani, di datazione incerta e dai tratti particolarmente 'selvaggi', erano stati individuati nella valle di Neander, vicino Düsseldorf, già nel 1857. Commentando il ritrovamento dopo la pubblicazione dell'Origin, un naturalista inglese aveva sottolineato le caratteristiche scimmiesche di quei resti. Nel 1863 Huxley ne discusse in un'opera fortunata, Evidence as to man's place in nature, e argomentò che, considerata la notevole capacità cranica, quei tratti scimmieschi potevano rientrare comunque nei margini di variabilità di Homo sapiens. L'anno seguente fu coniata l'espressione Homo neanderthalensis e si diffuse la convinzione che dovesse trattarsi di uno stadio intermedio nell'evoluzione che aveva portato dalle scimmie all'uomo. Nonostante le cautele inziali di Darwin, l'idea di un'origine animale dell'uomo si impose prepotentemente al centro delle controversie sull'evoluzionismo e produsse, tra l'altro, una lunga serie di caricature sulla stampa popolare raffiguranti Darwin in veste di scimmia. Fu così che, durante la cerimonia con cui fu conferita a Darwin la laurea ad honorem della Cambridge University nel 1877, gli studenti fecero scendere sul corteo togato il ritratto di una scimmia in abiti accademici, suscitando il trambusto generale.
Le incertezze sull'antichità dei resti di Neander e il dubbio, alimentato da autorità quali Rudolf Virchow (1821-1902), che si trattasse di un individuo dai tratti patologici furono sopiti solo nel 1886 dopo nuovi ritrovamenti. I fossili capaci di gettare luce sulle origini dell'uomo restarono comunque una rarità fino all'ultimo decennio dell'Ottocento, quando il ritrovamento in Asia di resti dai tratti ancora più scimmieschi indusse a proporre la denominazione di Pithecanthropus erectus per designare quel probabile, precedente stadio evolutivo della specie umana. Nel frattempo le controversie si concentrarono su due questioni che sembravano poter prescindere dall'incertezza della documentazione fossile: la definizione del grado e dei modi della parentela tra l'uomo e i primati attuali, che già Linneo (Carl von Linné) nel Settecento aveva classificato in una stessa grande famiglia; la necessità o meno di postulare qualche evento speciale per spiegare l'origine dell'uomo. Va da sé che la propensione a risolvere in un senso o nell'altro quest'ultima alternativa si combinava, tipicamente, con una diversa interpretazione del grado di parentela tra l'uomo e le scimmie.
Le ovvie implicazioni religiose e il carattere congetturale di molte discussioni sull'origine dell'uomo erano tali da lasciar trasparire facilmente alcuni dei motivi che stavano alla base delle aspettative degli evoluzionisti più accesi, da un lato, e della prudenza dei molti che invece, verso la fine degli anni Settanta, si consideravano evoluzionisti ma preferivano dissociarsi dalle conclusioni più radicali dall'altro.
Il confronto tra Haeckel e Virchow in occasione dell'assemblea dei naturalisti e dei medici tedeschi tenutasi a Monaco nel 1877 è esemplare al riguardo. Virchow, che si riteneva un evoluzionista ma giudicava non provata l'origine animale dell'uomo, accusò gli evoluzionisti radicali di voler fare della loro scienza una religione capace di sostituirsi a quella dei padri nell'opinione pubblica e nell'insegnamento scolastico. L'accusa coglieva nel segno se si pensa che antropologi e divulgatori dell'evoluzionismo come l'italiano Paolo Mantegazza (1831-1910) da anni parlavano della scienza come "religione dell'avvenire" e presentavano le origini animali dell'uomo come una prova della capacità della specie di progredire indefinitamente con le sue sole forze, emancipandosi dai vincoli della superstizione. Tuttavia Virchow, da anni impegnato in politica con i moderati, si spingeva oltre e, rivolgendosi a un pubblico ancora spaventato dalla Comune di Parigi e preoccupato per la diffusione del movimento socialista, additava quelle che giudicava le pericolose affinità tra l'evoluzionismo radicale e il socialismo. Haeckel si affrettò a sottolineare che, semmai, l'evoluzionismo favoriva una concezione aristocratica della società. Nello strascico che la polemica ebbe anche in Inghilterra Huxley negò a sua volta ogni simpatia socialista. A molti, però, doveva essere ormai chiaro che il dibattito pubblico stava svelando alcune possibili conseguenze del programma evoluzionistico che non tutti avevano preventivato e che, nel clima politico del tempo, non pochi nel pubblico borghese consideravano con timore.
Intorno al 1880 le valutazioni degli esperti e il dibattito pubblico sull'evoluzionismo continuavano a interagire attraverso mille canali. A vent'anni dalla prima edizione del classico trattato di Darwin sulle specie alcune conseguenze di quell'interazione erano ormai evidenti. L'adozione di un punto di vista evoluzionistico tra gli esperti e l'opera di proselitismo condotta da molti di loro sulla stampa e nel corso delle conferenze pubbliche avevano indotto la maggior parte dei commentatori, specialisti o dilettanti che fossero, a pronunciarsi a favore dell'evoluzionismo. La strategia flessibile adottata da Darwin di fronte alle polemiche dei primi anni e la risoluta azione successiva, svolta di concerto con i suoi alleati che con l'evoluzionismo perseguivano un ridimensionamento della tradizione religiosa nella scienza e nella vita pubblica, avevano raggiunto l'obiettivo desiderato. Tuttavia era evidente anche un'altra conseguenza dell'interazione tra esperti e dibattito pubblico, che Darwin non aveva preventivato, né tanto meno auspicato, vale a dire il declino della selezione naturale, che si manifestava tanto tra i seguaci di Darwin quanto tra i suoi avversari, i quali spesso si dichiaravano evoluzionisti quanto i primi.
La situazione emerge con chiarezza dal bilancio che Huxley delineò in occasione della raggiunta 'maggiore età' dell'Origin. Egli registrava con soddisfazione una serie di risultati scientifici che inducevano a pronunciarsi a favore della teoria della "discendenza con modificazione". Ricordava per esempio che il ritrovamento dei resti di Archaeopteryx, nel 1862, aveva mostrato che anche gruppi di organismi ora ben distinti quali i rettili e gli uccelli erano stati un tempo collegati, come richiedeva la teoria della discendenza. Lo stesso Huxley aveva individuato i tratti anatomici che dovevano aver consentito il passaggio dai rettili a quattro zampe agli uccelli a due zampe. Negli anni Settanta, nei depositi cretacei dell'America Settentrionale, Othniel C. Marsh (1831-1899) aveva scoperto i resti di uccelli dotati di denti. Marsh aveva anche mostrato i possibili passaggi dalle forme più antiche del cavallo e di altri mammiferi superiori a quelle attuali. Se la transizione dagli invertebrati ai vertebrati restava ancora oscura, le ricerche di Alexandr Onufrieviã Kovalevskij (1840-1901) sull'anfiosso e sui tunicati avevano mostrato che la barriera tra i due grandi gruppi di organismi non era impenetrabile. Lo stesso poteva dirsi per la linea che, nel mondo vegetale, separava le piante dotate di fiori da quelle prive: le ricerche di Wilhelm Hofmeister (1824-1877), secondo Huxley, avevano dimostrato che esistevano forme di transizione.
La possibilità di quei passaggi nella serie dei viventi, la cui ammissione nel 1859 era considerata il segno di un'inclinazione per le speculazioni più audaci, nel 1880 era ritenuta una conclusione ragionevole da parte di qualsiasi onesto ricercatore: "L'evoluzione ‒ concludeva Huxley ‒ non è più una speculazione, ma l'enunciazione di un fatto storico".
Nel redigere la cronaca dei successi ventennali dell'evoluzionismo, d'altra parte, Huxley non menzionava la teoria della selezione naturale. Per il 'bulldog di Darwin', che fin dall'inizio si era mostrato tiepido nei confronti della spiegazione del mutamento evolutivo proposta dall'amico, era un silenzio eloquente. La reticenza di Huxley non era un'eccezione tra gli ammiratori di Darwin in quegli anni. Rispondendo alle accuse di Virchow in occasione della polemica già ricordata, Haeckel aveva cercato di mettere ordine nel dibattito sull'evoluzionismo operando tre distinzioni. La prima era 'la dottrina generale dello sviluppo', cosmico e insieme biologico, che egli chiamava monismo e di cui si considerava paladino; la seconda era la 'teoria della discendenza con modificazione', che attribuiva a Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) in quanto suo primo enunciatore. Soltanto al terzo posto Haeckel metteva la 'teoria della selezione' di Darwin, considerata la più importante, ma non la sola tra le teorie che si contendevano la spiegazione del cambiamento evolutivo. L'ordine nell'elenco non lasciava dubbi sulle priorità che Haeckel avrebbe adottato nella sua difesa dell'evoluzionismo.
Intorno al 1880, tra i numerosi sostenitori di un'evoluzione conciliabile con la tradizione religiosa la selezione naturale darwiniana aveva ancora meno fortuna che tra gli alleati di Darwin. L'incarico di sferrarle un nuovo attacco a nome dei primi se lo assunse nel 1879 Samuel Butler (1825-1902), che non era un naturalista ma uno scrittore di successo, attirato come tanti altri dal clamore del dibattito pubblico sull'evoluzionismo. Butler, che si dichiarava evoluzionista, mostrava la sua abilità polemica nell'esaltare i contributi degli evoluzionisti predarwiniani a spese di quelli di Darwin. Riusciva così ad affermare i meriti di quasi tutti gli evoluzionisti ‒ da Georges-Louis Leclerc de Buffon a Erasmus Darwin, da Lamarck a Spencer ‒ denunciando contestualmente le ambiguità e le insufficienze della teoria della selezione.
Sul piano delle obiezioni scientifiche l'analisi di Butler aggiungeva poco alle critiche già sollevate da Mivart. Butler, del resto, consapevole delle sue limitate credenziali, si dedicava piuttosto a una riflessione di carattere storico e filosofico. È su questo fronte che le sue critiche possono aiutarci a capire alcune delle ragioni che continuavano a opporsi all'accettazione della selezione naturale, nonostante il trionfo dell'evoluzionismo. Se si considera poi che alcune ragioni della sfortuna della teoria darwiniana messe in evidenza da Butler richiamano concetti che, a partire dagli anni Trenta del Novecento, ne hanno invece favorito il recupero nella biologia e in alcune filosofie contemporanee, può essere utile esaminarle brevemente.
Quello che Butler trovava soprattutto inaccettabile nella teoria di Darwin era il carattere fortuito delle piccole variazioni su cui agiva la selezione naturale e sulle cui cause Darwin confessava la propria ignoranza. Occorreva spiegare come variazioni accidentali e cause sconosciute, sommandosi, potessero dare luogo alla meravigliosa serie evolutiva degli esseri viventi sulle cui caratteristiche fondamentali, intanto, gli evoluzionisti di ogni convinzione sembravano potersi mettere d'accordo.
In mezzo alle annotazioni polemiche Butler comprendeva bene che, nonostante le concessioni fatte ai meccanismi lamarckiani nelle ultime edizioni dell'Origin, Darwin non era disposto a rinunciare completamente all'elemento 'accidentale' e 'fortuito' del cambiamento evolutivo. Questo era l'aspetto della teoria della selezione che continuava ad apparire ostico a molti contemporanei di Darwin. Butler da parte sua non aveva dubbi; preferiva supporre che ogni pianta o animale avesse la capacità di orientare in qualche modo le proprie variazioni in risposta alle condizioni ambientali. Per questo rilanciava le idee 'antiche' dell'evoluzione lamarckiana contro la dottrina 'nuova' di Darwin. L'intero processo evolutivo risultava così in qualche modo orientato. Un'idea che, per ragioni diverse, piaceva anche a quei seguaci di Darwin che propendevano per un'interpretazione laica e progressiva della 'sopravvivenza del più adatto', spingendoli ad anteporre la teoria della discendenza alla difesa della selezione naturale.
Considerare la nascita della teoria neodarwiniana dell'evoluzione nel Novecento esula dai limiti di queste pagine. Quanto detto a proposito dell'evoluzionismo intorno al 1880 offrirà termini di confronto utili per comprendere le ragioni che, nel nuovo secolo, favorirono l'affermazione in biologia e in diversi settori delle scienze umane di nozioni nuovamente ispirate alla selezione naturale darwiniana, che riconoscevano ampio spazio alla componente 'accidentale', raramente accolta dai contemporanei di Darwin.
L'enfasi raggiunta dalle controversie pubbliche sull'evoluzionismo rendeva difficile separare la valutazione del merito scientifico di una nuova prova o proposta interpretativa dall'eco delle dispute che si erano susseguite fin verso la fine del secolo. Sarebbe sbagliato tuttavia dedurne che quelle controversie ostacolarono la ricerca biologica. Al contrario, la quantità degli studi condotti e messi in campo dai seguaci e dagli avversari del darwinismo nei vent'anni qui considerati fu poco meno che prodigiosa. Per rendersene conto basterà ricordare, per i darwiniani, i lavori di Alfred R. Wallace (1823-1913), Huxley, Gray, Haeckel o John Lubbock (1834-1913), oltre naturalmente a quelli di Darwin; per gli antidarwiniani, le opere di Jean-Louis-Rodolphe Agassiz (1807-1873), Owen o Mivart, cui si dovrebbero aggiungere i lavori di coloro che esploravano strade non riconducibili immediatamente agli schieramenti prevalenti. Anche per effetto delle controversie innescate dall'evoluzionismo, le opere di costoro e di tanti altri ottennero una vasta risonanza internazionale. Se a quegli studi poi si aggiunge la letteratura a circolazione eminentemente nazionale prodotta nei paesi dove l'evoluzionismo aveva raggiunto un alto livello di penetrazione ‒ come la Germania, gli Stati Uniti, l'Italia, la Francia, i paesi di lingua spagnola e la Russia ‒ si ha un'idea della vastità dell'impatto diretto e indiretto prodotto dalle controversie ottocentesche sull'evoluzione.
È importante notare, d'altra parte, che in quegli stessi decenni le ricerche collegate all'evoluzionismo si erano spesso affiancate, senza sostituirla, alla letteratura prodotta in settori importanti della biologia e non avevano modificato in maniera profonda quelle che restavano tradizioni di ricerca radicate, ben distinte, e talvolta impervie alla nuova prospettiva. Anche questo stato di cose andrà utilmente confrontato con la situazione che si produsse invece nel Novecento con l'affermazione della teoria neodarwiniana dell'evoluzione.
Nonostante le aspettative dei sostenitori e le paure degli avversari proclamate nei dibattiti pubblici, l'evoluzionismo di quei decenni dell'Ottocento aveva generato qualcosa che assomigliava più all'annuncio di un nuovo continente da esplorare che al sovvertimento delle conoscenze consolidate nei settori più importanti delle scienze della vita. Come Darwin aveva ben compreso mentre scriveva l'Origin, il successo di lunga durata dell'evoluzionismo sarebbe dipeso dalla sua capacità di convincere della centralità della prospettiva evoluzionistica gli esperti delle discipline tradizionali, come la tassonomia, la paleontologia, l'embriologia o la fisiologia, su cui poggiavano le competenze tecniche e professionali di chi praticava le scienze biologiche. Intorno al 1880 diversi segnali indicavano che un numero crescente di questi esperti, anche tra coloro che si dichiaravano evoluzionisti, non riteneva opportuno anteporre la questione dell'evoluzionismo alle ricerche che intanto si stavano moltiplicando in molti paesi per effetto dell'estensione dei corsi universitari e dei laboratori di scienze biologiche.
Per ogni ricercatore come Felix Anton Dohrn (1840-1909) ‒ il naturalista tedesco che nel 1872 aveva fondato a Napoli la stazione zoologica con un programma di ricerche embriologiche sugli invertebrati di ispirazione darwiniana ‒ ce n'erano molti altri che preferivano affermare una crescente autonomia dalle controversie sull'evoluzionismo. Ciò valeva soprattutto per la nuova generazione di biologi formata nei laboratori di fisiologia, specialmente nelle università tedesche, in cui cominciava a diffondersi uno stile di ricerca basato sull'uso di strumenti e tecniche sofisticate; al confronto i metodi di lavoro di Darwin e dei suoi seguaci apparivano antiquati, legati a una tradizione della storia naturale che non sembrava al passo con le nuove competenze professionali.
Darwin era consapevole della svolta sperimentale che si stava verificando in biologia. Nelle ricerche degli ultimi anni ‒ in lavori come Climbing plants (1875), The power of movement in plants (1880) oppure The formation of vegetable mould through the action of worms (1881) ‒ aveva introdotto, grazie anche al figlio Francis (1848-1925) che intanto aveva studiato fisiologia con Julius von Sachs (1832-1897) a Würzburg, un certo numero di tecniche sperimentali, che del resto non aveva mai trascurato nel suo peculiare laboratorio domestico. Tuttavia il contrasto tra i modesti strumenti della storia naturale, nel cui ambito Darwin continuava a muoversi, e quelli della nuova biologia ‒ in cui i microscopi più potenti si affiancavano alle tecniche messe a disposizione dalla chimica e dall'elettromagnetismo per esplorare e registrare i fenomeni della vita ‒ appariva a molti insanabile. Così per esempio Sachs criticò alcune delle ultime ricerche di Darwin e anche Francis Darwin notò, a proposito dei metodi di lavoro utilizzati da suo padre, di avere sempre trovato curioso che colui che aveva trasformato drasticamente la scienza biologica, e in questo senso era stato il primo dei moderni, avesse scritto e lavorato con uno spirito e dei modi tanto poco moderni nella sostanza.
Non erano in gioco soltanto le aporie della modernità, come pensava Francis. Negli ultimi anni di vita di Darwin lo sviluppo delle tecniche di laboratorio in biologia si combinava con le difficoltà della selezione naturale nel rendere manifesta una circostanza di cui Darwin era in parte consapevole, ma che i dibattiti sull'evoluzionismo spingevano a sottovalutare e in ogni caso non potevano modificare: le scienze della vita, in effetti, accoglievano al loro interno una varietà di tradizioni di ricerca e di metodi di lavoro profondamente eterogenei tra loro, che non si lasciavano ricondurre facilmente a un'unica, per quanto grandiosa prospettiva come quella fornita dalla teoria dell'evoluzione. Nel vivo delle controversie ottocentesche sull'evoluzionismo l'eterogeneità delle tradizioni della ricerca biologica poteva forse essere trascurata, o scambiata facilmente per qualcos'altro. Tuttavia, ora è noto, per radicare l'evoluzionismo nella tradizione e nell'insegnamento delle scienze della vita sarebbero occorse ancora diverse generazioni di ricercatori, ancor più numerose generazioni di manuali scientifici, nuove controversie sui rapporti tra scienza e religione e, infine, confronti a volte drammatici sui rapporti tra scienza e politica, dentro e fuori la comunità degli esperti.
La 'nuova sintesi' evoluzionistica elaborata nel Novecento dal neodarwinismo tentò un'altra volta di ricondurre a unità la diversità delle tradizioni di ricerca in biologia. Il nome di Darwin ‒ intanto diventato mitico ‒ fu utilizzato di nuovo per convogliare tra gli specialisti e presso il pubblico il messaggio secondo cui l'ideale di una scienza del vivente unificata all'insegna dell'evoluzionismo era un obiettivo ragionevole e opportuno. Non sorprenderà a questo punto osservare che, come ai tempi di Darwin anche se in forme diverse, quel messaggio ha continuato e continua tuttora a caricarsi di implicazioni contrastanti, non soltanto scientifiche.
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