L'Ottocento: biologia. La chimica biologica
La chimica biologica
Le nuove conoscenze sviluppate nel campo della chimica alla fine del Settecento, in particolare le scoperte dell'ossigeno da parte di Joseph Priestley, Carl Wilhelm Scheele, Antoine-Laurent Lavoisier, nonché la spiegazione dei processi inerenti alla combustione, generarono una nuova branca della chimica, la chimica organica. Nel XIX sec. furono soprattutto i fisiologi e i medici a interessarsi alle applicazioni della chimica ai processi fisiologici dell'organismo vivente, sviluppando in tal modo una nuova disciplina, la chimica fisiologica (o fisiologia chimica), che però sino alla fine dell'Ottocento rimase strettamente legata alla fisiologia. Le denominazioni oggi usuali di biochimica e chimica biologica si diffusero soltanto agli inizi del XX sec.; Vincenz Kletzinsky, comunque, già nel 1858 aveva definito la biochimica come quella parte della biologia che studia il substrato materiale degli organi e le loro funzioni.
All'inizio di una moderna chimica della vita deve essere collocata l'opera di Lavoisier i cui studi di fisiologia presero l'avvio dalle sue ricerche concernenti la combustione e furono strettamente legati a esse.
Per lo sviluppo della chimica fisiologica ebbe una grande importanza la ricerca di Lavoisier sulla composizione elementare delle sostanze organiche, Mémoire sur la combinaison du principe oxygine (1784). Bruciando alcune sostanze (alcol, olio d'oliva e cera d'api) in presenza di ossigeno, e misurando l'acqua e l''aria fissa' (diossido di carbonio) prodottesi nel processo, Lavoisier aveva stabilito che le sostanze esaminate consistono di percentuali differenti di carbonio, di idrogeno e di ossigeno. Claude-Louis Berthollet (1748-1822) dimostrò poco dopo, servendosi di un metodo differente, che i materiali di origine animale contengono anche azoto. Mediante l'analisi dei gas prodotti durante la combustione si era trovato quindi un sistema per accertare quantitativamente e qualitativamente la composizione dei materiali ricavati dagli organismi viventi.
Le scoperte di Lavoisier permisero di sviluppare al principio del XIX sec. l'analisi chimica elementare dei composti organici mediante la combustione e quindi di porre le fondamenta metodologiche su cui poté sorgere la chimica della vita, ovvero la chimica fisiologica. Egli, inoltre, con i suoi studi sulla respirazione animale, aveva fornito anche importanti contributi diretti a questa disciplina. Già nel 1777, infatti, Lavoisier aveva scoperto che un passero tenuto in un recipiente di vetro consumava ossigeno e produceva 'aria fissa'. Alcuni anni dopo riprese i suoi esperimenti sulla respirazione animale, per esaminare il problema della produzione di calore mediante il processo di combustione che avveniva nell'organismo. Insieme al fisico Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) egli costruì un calorimetro che utilizzava la fusione del ghiaccio per misurare il calore prodotto; venivano ugualmente registrate le quantità di diossido di carbonio formatesi e la diminuzione di ossigeno nell'aria. Lavoisier e Laplace giunsero al risultato che sia nella combustione del carbone sia nella respirazione si producevano diossido di carbonio e calore in maniera analoga e ipotizzarono che i polmoni fossero il luogo di produzione del calore animale nei corpi viventi.
Una terza serie di esperimenti sulla respirazione e sul calore animale fu condotta da Lavoisier insieme ad Armand Séguin (1767-1835) intorno al 1790. Il loro intento era quello di misurare il consumo di ossigeno e l'emissione di diossido di carbonio, nonché la temperatura corporea in stato di quiete e durante l'attività fisica sia nell'uomo sia negli animali. Nel Premier mémoire sur la respiration des animaux Seguin e Lavoisier affermano che: "Sia nella respirazione sia nella combustione l'aria atmosferica fornisce ossigeno e calore, ma nella respirazione è la sostanza stessa dell'animale a fornire il materiale combustibile" (Séguin 1789, p. 570). Mentre nel Premier mémoire sur la transpiration des animaux (1790) esaminarono l'emissione di vapore acqueo attraverso la respirazione e la pelle, ossia la traspirazione, riprendendo in tal modo gli studi sulla perspiratio insensibilis, misurata per la prima volta nel 1614 da Santorio Santorio (1561-1636) utilizzando una bilancia.
Grazie alla scoperta, da parte di Lavoisier, della composizione elementare delle sostanze organiche, erano state poste le basi per l'analisi chimica sistematica delle materie provenienti dal regno vegetale e da quello animale. Un importante requisito per la realizzazione di tale analisi era la tecnica dell'isolamento di sostanze pure mediante solventi e reagenti precipitanti; oltre a ciò fu necessario che l'analisi elementare raggiungesse un livello di sviluppo tale da diventare una tecnica quantitativa applicabile nella pratica.
Le prime analisi sistematiche di questo tipo furono effettuate da Antoine-François de Fourcroy (1755-1809), il quale analizzò, insieme a Nicolas-Louis Vauquelin (1763-1829) numerosi materiali animali e vegetali, caratterizzando i composti chimici in base alle loro qualità fisiche (peso specifico, punto di fusione, solubilità) nonché mediante reazioni chimiche. Le ricerche di Fourcroy erano fortemente improntate a problematiche fisiologiche e mediche. Egli analizzò le sostanze presenti nel muscolo animale per scoprire le eventuali differenze tra questi organi contrattili e gli altri tessuti. In questo modo riscontrò l'alto contenuto di azoto delle fibre muscolari. Grande interesse riscossero inoltre le sue indagini sistematiche su oltre 600 concrezioni animali e umane (calcoli vescicali, renali, biliari, salivali, ecc.). Dai calcoli biliari riuscì a isolare una sostanza cristallina, lipoide, che Michel-Eugène Chevreul (1786-1889), un allievo di Vauquelin, nei suoi successivi studi sui grassi descrisse più precisamente come 'colesterolo'. Fourcroy e Vauquelin si occuparono in maniera approfondita anche di molti liquidi corporei, isolando per esempio l'urea dall'urina. Nell'ambito delle ricerche sulle sostanze vegetali occorre inoltre menzionare il ritrovamento di proteine nei materiali vegetali, una scoperta che ha rivestito in seguito una grande importanza per la biochimica dell'alimentazione animale e umana.
Agli inizi del XIX sec. fu soprattutto Jöns Jacob Berzelius (1779-1848) a dare contributi fondamentali alla chimica delle sostanze organiche. Berzelius, che già durante i suoi studi di medicina a Uppsala si era ampiamente occupato di chimica, divenne nel 1806 insegnante di questa disciplina all'Accademia militare di Stoccolma. Nel quadro della preparazione di un corso di lezioni sulla fisiologia chimica iniziò a occuparsi di sostanze animali. Il suo corso fu pubblicato con il titolo Föreläsningar i Djurkemien (Lezioni di chimica organica, 1806-1808), opera in cui tracciò un bilancio dello stato della chimica animale in quel momento. Nel 1807 fu nominato professore di chimica alla Scuola chirurgica di Stoccolma (che nel 1810 divenne parte del nuovo Karolinska Medico-kirurgiska Institutet) e la Kongelige Vetenskops Academien Fözhandlingar (Accademia Reale delle Scienze Svedese) lo elesse tra i suoi membri nel 1808. Nel 1810 presentò all'Accademia un rapporto sullo stato degli studi di chimica animale, nel quale faceva rilevare le grandi lacune ancora esistenti; egli, si aspettava progressi soprattutto da un legame più stretto tra la chimica e la fisiologia.
Sulla spinta delle ricerche effettuate da Jeremias Benjamin Richter (1762-1807) per determinare l'esatta composizione di composti chimici inorganici, Berzelius aveva iniziato ad analizzare quantitativamente, in maniera sistematica, molti di questi composti. Lo scopo di tali analisi era quello di verificare sperimentalmente le allora assai discusse leggi sulle proporzioni chimiche enunciate da Joseph-Louis Proust (1754-1826) e soprattutto da John Dalton (1766-1844). Berzelius tentò di analizzare nello stesso modo anche i composti organici, ma i primi tentativi non furono soddisfacenti. Dopo lo sviluppo da parte di Joseph-Louis Gay-Lussac (1778-1850) e Louis-Jacques Thenard (1777-1857), nel 1810-1811, di un nuovo procedimento per l'analisi chimica elementare dei composti organici, Berzelius modificò questo metodo e riscontrò in numerose sostanze organiche proporzioni altrettanto definite di quelle presenti nei composti inorganici. Egli descrisse i suoi risultati mediante formule che indicano il numero degli atomi di C, H e O, per esempio 5H+4C+5O per l'acido tartarico (anidro). Queste ricerche sono state particolarmente importanti per lo sviluppo della chimica fisiologica perché hanno dimostrato che anche i composti organici presenti nei corpi viventi rispettano la legge delle proporzioni definite, una questione che era allora del tutto aperta. Divenne anche comprensibile come fosse possibile avere un numero pressoché incalcolabile di composti organici, pur essendo questi costituiti soltanto da pochi elementi. Negli anni seguenti Berzelius seguì accuratamente l'evoluzione della chimica vegetale e della chimica animale, sia descrivendole nel suo Lärbok i Kemien (Manuale di chimica, 1808-1818) e nel successivo Lärbok i Organiska Kemien (Manuale di chimica organica, 1827-1830) sia offrendo una discussione critica nella sua pubblicazione annuale "Jahresbericht über die Fortschritte der physischen Wissenschaften" (1822-1848).
All'incirca nello stesso periodo, Chevreul effettuò ricerche sistematiche e pionieristiche sulla chimica dei grassi animali e vegetali, molto importanti dal punto di vista chimico-fisiologico. Egli identificò i grassi come composti di quella che Scheele aveva chiamato Ölsüss (cui Chevreul diede il nome di 'glicerina') e acidi grassi, e identificò come idrolisi il processo di saponificazione dei grassi mediante gli alcali. Con un procedimento di soluzione e cristallizzazione frazionata egli riuscì a scindere i grassi naturali in diversi composti; poté così dimostrare che la varietà osservata in Natura, che sembrava contraddire la legge delle proporzioni costanti, era dovuta al fatto che i grassi naturali dovevano essere considerati miscele di grassi contenenti diverse percentuali di acidi grassi. Per i grassi isolati e purificati estratti da queste miscele valevano le proporzioni fisse. Nel 1823, alla conclusione delle sue ricerche, presentò i risultati in un libro rimasto influente per lungo tempo, Recherches chimiques sur les corps gras d'origine animale e, l'anno seguente, raccolse le sue esperienze sull'analisi dei composti organici in una monografia notevole anche dal punto di vista teorico, Considérations générales sur l'analyse organique et sur ses applications (1824).
Le ricerche di Berzelius e Chevreul avevano reso evidente la grande importanza dell'analisi elementare per l'identificazione e la comparazione delle sostanze organiche e per lo studio delle reazioni che avvenivano fra esse. Justus von Liebig (1803-1873) la trasformò in un metodo preciso e rapidamente applicabile. Nel 1825 insieme a Friedrich Wöhler (1800-1882) si accorse che i dati dell'analisi di due sostanze organiche totalmente differenti erano identici; per esempio, l'acido cianico e l'acido fulminico, nonostante avessero caratteristiche del tutto diverse, avevano la stessa composizione. Ciò poteva essere spiegato soltanto mediante l'ipotesi che in un composto organico gli atomi potessero essere disposti in maniere diverse. Berzelius coniò per definire tale fenomeno il termine 'isomeria'.
I nuovi metodi dell'analisi organica furono impiegati in maniera crescente anche per problematiche chimico-fisiologiche. Lo dimostrano alcuni esempi della prima metà del XIX secolo. Il medico londinese William Prout (1785-1850), che contribuì in modo notevole al miglioramento dell'analisi elementare, nel 1827 indirizzò le sue ricerche all'alimentazione dell'uomo. Sulla base delle sue analisi egli propose la suddivisione dei cibi, ancora oggi in uso, in tre classi: 'saccarinosi' (oggi detti carboidrati), 'oleaginosi' (lipidi) e 'albuminosi' (proteine). Liebig e Wöhler, nel corso di ricerche effettuate in comune, avevano esaminato mediante l'analisi elementare le reazioni chimiche di sostanze importanti dal punto di vista biochimico, come per esempio l'acido urico. Il metodo da loro impiegato consisteva nel trasformare, mediante un gran numero di reazioni chimiche diverse, una sostanza sconosciuta in altre sostanze di cui si determinava la composizione. In questo modo era possibile scoprire numerose relazioni chimiche che permettevano di caratterizzare la sostanza studiata. L'applicazione coerente dell'analisi elementare organica era allora l'unico metodo a disposizione per questo procedimento. Essa non serviva soltanto a caratterizzare e a distinguere in maniera univoca i prodotti delle reazioni, ma la formula ottenuta descriveva anche la costituzione di un composto. Soprattutto, però, essa permetteva di individuare le relazioni chimiche tra la sostanza di partenza e il prodotto ottenuto e di formulare equazioni di reazione. Oltre agli esempi citati vanno menzionate anche le ricerche di Gerardus Johannes Mulder (1802-1880) sulle sostanze proteiche, nel corso delle quali divennero evidenti i limiti del metodo analitico allora in uso. Mulder dedusse dalle sue analisi che le proteine vegetali e quelle animali hanno le stesse formule, ipotizzando un radicale comune, che chiamò 'proteina', la cui formula era C40 H62 N10 O12. Le differenze tra le diverse proteine consistevano per lui solamente in atomi supplementari rispettivamente di zolfo e di fosforo. Quando, successivamente, nel laboratorio di Liebig la presenza di zolfo e di fosforo non poté tuttavia essere confermata, si accese una grave controversia tra questi e Mulder.
Nei primi decenni l'analisi elementare venne spesso impiegata con poco criterio. Poteva accadere che si tentasse di analizzare invece di composti ben definiti, accuratamente depurati ed essiccati, tessuti animali non preparati oppure interi organismi. Questi esordi muovevano, esplicitamente o implicitamente, dalla concezione allora assai diffusa che la chimica degli organismi viventi dovesse essere fondamentalmente diversa dalla chimica inorganica. Un indizio di ciò si pensava fosse, per esempio, l'esperienza pratica per cui i corpi organici morti vanno in putrefazione e si decompongono in poco tempo, mentre gli organismi viventi possono esistere per lunghi periodi. Ciò portava a supporre che le trasformazioni chimiche che avvenivano nel corpo animale o in quello vegetale vivente si svolgessero in modo totalmente diverso da quelle artificiali, di laboratorio. A questo punto la questione riguardava la validità della teoria chimica dell'affinità anche nell'organismo vivente. Negli anni Settanta del XVIII sec. si tentò perciò di definire una particolare forza alla quale poter ricondurre le funzioni dell'organismo vivente. Su proposta di Friedrich Casimir Medicus (1736-1808) questa venne chiamata 'forza vitale'. L'espressione francese corrispondente, principe vital, fu coniata e dettagliatamente motivata da Paul-Joseph Barthez (1734-1806), divenuto uno dei fondatori della teoria del vitalismo. Nel frattempo gli studi di Lavoisier avevano dimostrato che determinate attività fisiologiche come la respirazione erano spiegabili come processi chimici e ciò influì anche sulla concezione della forza vitale. Nell'opera di Alexander von Humboldt, Aphorismen aus der chemischen Physiologie der Pflanzen (Aforismi di fisiologia chimica delle piante, 1794), il nesso tra la forza vitale e la teoria chimica dell'affinità diventa particolarmente evidente: "Quell'intima forza la quale dissolve i legami dell'affinità chimica, impedendo la libera combinazione degli elementi all'interno dei corpi, la chiamiamo forza vitale. Perciò non esiste segno della morte più incontrovertibile della putrefazione, con la quale gli elementi recuperano i loro diritti di sempre, e si dispongono secondo le affinità chimiche. I corpi inanimati non possono andare in putrefazione" (Humboldt 1794, p. 9). Il clinico Johann Christian Reil esaminò il concetto di forza vitale in Über die Lebenskraft (Sulla forza vitale, 1796), un saggio divenuto poi assai influente. Secondo Reil la causa generale di tutti i fenomeni corporei che hanno luogo nell'organismo vivente era il 'miscuglio e la forma della materia', un binomio divenuto il contrassegno della scuola di Reil. La forma della materia si basava sull'attrazione elettiva degli elementi e dei loro prodotti. Per motivi di principio, egli rifiutava una subordinazione delle forze fisiche, chimiche e meccaniche alla forza vitale, respingendo con ciò anche la definizione data da Humboldt. Inoltre, egli si mostrava restio a dare una propria definizione della forza vitale, "fintanto che la chimica non ci avrà fatto conoscere con più precisione gli elementi costitutivi della materia organica e le loro qualità" (Reil 1796, p. 48).
I chimici che nella prima metà del XIX sec. operavano nel campo della chimica organica, avevano differenti opinioni riguardo all'implicazione di una forza vitale nei processi chimici nell'organismo vivente. Berthollet, il quale aveva ampiamente descritto la teoria dell'affinità, vedeva nei processi chimici nel corpo animale unicamente un effetto dell'affinità chimica. In un primo tempo Berzelius aveva descritto in Über einige Fragen des Tages in der organischen Chemie (Alcune questioni del giorno di chimica organica, 1839) i processi nell'organismo vivente come effetto di una qualche forza vitale, ipotizzando un legame con l'attività del sistema nervoso. In seguito però ammoniva di non vedere nel concetto di forza vitale più di una descrizione delle "singolari circostanze […] nelle quali le comuni forze naturali esplicano qui la loro attività" (Berzelius 1839, p. 3). Egli giudicava con scetticismo la possibilità di sintetizzare composti organici; la sintesi dell'urea, resa nota dal suo allievo Wöhler nel 1828, era da lui considerata un caso limite. Ancora nel 1848 Leopold Gmelin (1788-1853), uno dei maestri di Wöhler, nel caratterizzare i composti organici faceva riferimento alla forza vitale insita in essi e riteneva possibile una produzione sintetica solamente per le sostanze con un basso numero di atomi di carbonio. Fino alla fine degli anni Trenta dell'Ottocento, durante le sue ricerche di chimica organica, Liebig non aveva utilizzato il concetto di forza vitale. Solamente quando iniziò ad applicare la chimica alla fisiologia e all'agricoltura, si servì di questo termine per spiegare i fenomeni negli organismi viventi, sottolineando l'analogia tra la forza vitale e l'energia chimica. Verso la fine degli anni Quaranta il concetto di forza vitale cominciò a scomparire dalla chimica come anche dalla fisiologia.
Un dato caratteristico della chimica fisiologica sviluppatasi nel XIX sec. è il fatto che non si occupa soltanto di analizzare il carattere dei composti organici, ma tenta anche di chiarire sperimentalmente i processi chimici che avvengono nell'organismo vivente. Lavoisier, con i suoi esperimenti sulla respirazione e sul calore animale, aveva dato esempi di questo nuovo indirizzo di ricerca destinati a fare scuola. La chimica fisiologica divenne in tal modo una chimica della vita nel vero senso del termine, ma sino alla fine del XIX sec. i confini tra questa disciplina, la chimica e la fisiologia rimasero incerti. Un importante approccio per l'indagine dei processi biologici nel corso del XIX sec. fu dato dallo studio dei fenomeni legati alla fermentazione, alla putrefazione e alla decomposizione, nonché dalla ricerca sperimentale concernente il metabolismo animale.
Lavoisier, nel suo Traité élémentaire de chimie (1789), aveva descritto la fermentazione alcolica e acetica e quella derivante dalla putrefazione delle sostanze animali, processi conosciuti fin dall'Antichità. La fermentazione richiede, com'era noto da lungo tempo nell'esperienza pratica, la presenza di un fermento. Lavoisier aveva descritto correttamente il processo chimico della fermentazione alcolica, tuttavia il modo in cui agivano i fermenti del lievito rimaneva oscuro. L'italiano Giovanni Fabbroni (1752-1822) aveva supposto già nel 1787 che la cosiddetta 'sostanza vegeto-animale' (una proteina glutinosa) trovata nel lievito fosse responsabile della fermentazione. Nel 1837 Charles Cagniard de la Tour (1777-1859), Theodor Schwann (1810-1882) e Friedrich Traugott Kützing (1807-1893) riscontrarono indipendentemente l'uno dall'altro che il lievito utilizzato per la produzione della birra era costituito da funghi microscopici. Liebig, che nel 1839 aveva iniziato a occuparsi di questioni fisiologiche, respingeva l'interpretazione biologica della fermentazione a favore di una teoria chimica dei processi a essa legati: gli atomi del materiale organico in decomposizione si mettevano in movimento e lo comunicavano ad altre sostanze, dando luogo a trasformazioni chimiche. Liebig continuò a sostenere questa ipotesi anche quando Louis Pasteur, negli anni dal 1857 al 1860, dimostrò che i processi di fermentazione sono causati da organismi microbiologici. Nel 1836 Berzelius aveva proposto nel suo "Jahresbericht" di raccogliere determinati tipi di reazioni chimiche, non spiegabili chiaramente in base alla teoria dell'affinità, sotto la dicitura di 'processi catalitici'. Si tratta di processi chimici provocati dal contatto con una sostanza, che però non entra nell'equazione di reazione, come accade per l'acido solforico nella formazione degli eteri o per il platino per una serie numerosa di reazioni. Per la chimica fisiologica fu importante l'idea di Berzelius che anche fermentazioni come quella alcolica potessero essere processi catalitici. Berzelius aveva addirittura già espresso l'ipotesi che tra i tessuti e i liquidi delle piante e degli animali viventi avvengano migliaia di processi catalitici. Moritz Traube sviluppò nel 1858 una teoria puramente chimica dei processi fermentativi accompagnati rispettivamente da ossidazione o riduzione. Anselme Payen (1795-1871) e Jean-François Persoz (1805-1868) erano riusciti a isolare il primo fermento, la diastasi, in grado di scindere gli amidi. Nel 1836 seguì la preparazione della pepsina, che scindeva le proteine, da parte di Schwann. Nel 1877 Wilhelm Friedrich Willy Kühne (1837-1900) distinse i fermenti organizzati, legati a strutture vitali, dagli enzimi, che sono solubili e mantengono il loro effetto anche al di fuori delle strutture organiche. Alla fine del XIX sec., infine, Eduard Büchner (1860-1917) riuscì a isolare l'enzima responsabile della fermentazione dal lievito e a provocare così questo processo in assenza di cellule, cosa che gli valse nel 1907 l'assegnazione del premio Nobel per la chimica.
Le informazioni raccolte nei primi decenni del XIX sec. sulle sostanze chimiche presenti nelle piante e negli animali incoraggiarono i chimici e i medici a formulare ipotesi sulle reazioni chimiche che avvengono negli organismi viventi e a verificarle sperimentalmente. In un primo tempo, è la digestione nel corpo animale a trovarsi al centro dell'attenzione; questo processo aveva suscitato interesse sin dall'Antichità, ed era stato ipotizzato che nello stomaco avvenisse una triturazione meccanica, una fermentazione o una cottura mediante calore, che produceva una poltiglia detta 'chimo'. Nell'intestino il chimo veniva poi trasformato in un liquido, il chilo, che veniva assorbito dal sangue. Le componenti inutilizzabili del chimo venivano espulse come feci. Le sostanze assorbite dal sangue insieme al chilo subivano una trasformazione con la formazione di sangue e di sostanze solide (tessuti). Tale processo era denominato 'assimilazione'. Nel 1823 Prout riuscì a dimostrare che il succo gastrico, la cui acidità era stata rilevata già in precedenza, contiene acido cloridrico. Negli anni seguenti il medico americano William Beaumont (1785-1853) poté effettuare dettagliati esperimenti sulla digestione gastrica su un paziente al quale una ferita d'arma da fuoco aveva provocato una fistola gastrica. Il fisiologo Friedrich Tiedemann (1781-1861) e il chimico Gmelin pubblicarono nel 1824 un'ampia analisi chimica della digestione e dei processi chimici a essa connessi, indicando diverse nuove componenti del processo digestivo. Grandi difficoltà presentava allora la comprensione dell'assimilazione. Il medico francese Jean-Noël Hallé (1754-1822) aveva distinto l'assimilazione dalla 'animalizzazione', termine con cui intendeva la trasformazione di alimenti vegetali in sostanze animali. Dato che queste ultime in genere contengono più azoto delle sostanze vegetali, l'animalizzazione, come già supposto da Fourcroy, doveva essere accompagnata da un aumento del contenuto di azoto. Il giovane Wöhler analizzò nel 1824 in quale forma le sostanze chimiche introdotte nel corpo animale o umano venissero espulse nell'urina. Egli notò che in seguito alla somministrazione di iodio viene espulso ioduro e che il prussiato rosso (ferricianuro di potassio) si ritrova sotto forma di prussiato giallo (ferrocianuro di potassio). In entrambi i casi, dunque, nel corpo avviene una 'riduzione', cioè un preciso processo chimico. Dopo la somministrazione di acido benzoico Wöhler rilevò nell'urina di un cane la presenza di cristalli che egli considerò come acido benzoico rimasto invariato. In seguito alla scoperta da parte di Liebig di acido ippurico nell'urina di cavallo, Wöhler ripeté l'esperimento e stabilì che in conseguenza della somministrazione di acido benzoico, nelle urine è espulso acido ippurico. Era stata così dimostrata per la prima volta la sintesi di una sostanza organica attraverso un processo chimico nell'organismo animale.
L'assunzione, la trasformazione e l'emissione di sostanze da parte dei corpi animali viventi, denominata a partire dal XVII sec. oeconomia animalis, al principio del XIX sec. fu interpretata sempre di più come un processo chimico. Si parlava di metabolismo, derivato dall'espressione 'fenomeni metabolici' coniata da Schwann nel 1839. Egli vedeva in essi alcuni processi chimici che si svolgono soprattutto nell'unità funzionale da lui definita 'cellula'. Un costante mutamento delle sostanze nell'organismo vivente veniva discusso allora da diversi studiosi. Joseph Servatius Doutrepont (1776-1845), che vedeva nell'ininterrotto mutamento della materia l'origine della vita, si occupò con particolare assiduità di questo problema. Partendo dall'analisi chimica elementare dei composti organici, Gmelin sviluppò l'ipotesi che le piante, mediante processi di riduzione, producessero composti gradualmente sempre più complessi, mentre negli organismi animali queste sostanze venivano man mano scomposte in seguito a processi di ossidazione.
Negli anni dal 1840 al 1842 Liebig illustrò ampiamente i processi chimici che si svolgono negli organismi vegetali e animali. In due libri molto famosi, Die organische Chemie in ihrer Anwendung auf Agricultur und Physiologie (La chimica organica applicata all'agricoltura e alla fisiologia, 1840) e Die Thierchemie oder die organische Chemie in ihrer Anwendung auf Physiologie und Pathologie (La chimica animale o la chimica organica applicata alla fisiologia e alla patologia, 1842), sviluppò la sua idea del metabolismo, secondo la quale esso provocherebbe l'assunzione di sostanze nutritive, la formazione di sostanze organiche nonché la produzione di forza (oggi diremmo energia) per le funzioni vitali e l'eliminazione dal corpo delle sostanze non necessarie. Dal punto di vista del metodo il suo obiettivo era quello di scoprire le metamorfosi o i movimenti, vale a dire le trasformazioni chimiche nell'organismo vivente. Egli tentava pertanto di determinare con reazioni in provetta le relazioni chimiche dei composti organici. I prodotti di partenza e i prodotti di reazione ottenuti venivano caratterizzati da formule ricavate con l'analisi chimica elementare. Le trasformazioni potevano poi essere rappresentate quantitativamente mediante equazioni di reazione. Nella Thierchemie, Liebig applicò tale procedimento a numerose sostanze, per spiegare così i possibili percorsi di reazione chimica. Molte delle sue conclusioni erano tuttavia ipotetiche, dato che nel corpo vivente, a differenza della provetta, non si possono escludere altri percorsi di reazione, ignoti invece con altri prodotti intermedi. Questa fu una delle principali critiche avanzate contro le tesi di Liebig. Il chimico francese Jean-Baptiste-André Dumas (1800-1884) pubblicò contemporaneamente all'uscita della Thierchemie di Liebig un corso di lezioni, nel quale sviluppava la propria concezione del metabolismo che però si accostava maggiormente alle tesi di Gmelin: le piante sono in grado di sintetizzare sostanze chimiche organiche, mentre gli animali si limitano a scomporre tali sostanze.
Nelle due opere sopra citate Liebig non affrontò soltanto i processi metabolici nelle piante e negli animali, ma descrisse chiaramente anche i grandi cicli chimici della Natura. Questi libri e le Chemische Briefe (Lettere sulla chimica) pubblicate in seguito (1851) ebbero un grande successo. Grazie a queste opere fu richiamata sulla chimica biologica l'attenzione degli scienziati e dei profani, e fu dato l'impulso a ricerche di fisiologia, agraria e medicina. Gli studi metabolici divennero così un nuovo campo di ricerca all'interno della chimica fisiologica; ulteriori approfondimenti condussero anche a modificare diverse tesi di Liebig. Di rilevante importanza, inoltre, erano le applicazioni in clinica medica. Inizialmente vennero sviluppati metodi di analisi chimica per la diagnostica cui, più tardi, fecero seguito le ricerche sulla patogenesi delle malattie; nelle università e nei grandi ospedali furono quindi allestiti laboratori chimici.
Due importanti aspetti biochimici del metabolismo animale vanno ancora brevemente menzionati: l'alimentazione e la produzione di calore e lavoro meccanico nell'organismo, entrambi temi centrali della ricerca di fisiologia chimica del XIX secolo. Prout, cui dobbiamo anche la suddivisione degli alimenti, aveva affrontato in una monografia del 1834, Chemistry, meteorology and the function of digestion, questioni relative all'alimentazione. Un'ampia teoria chimica fu sviluppata alcuni anni dopo da Liebig nelle due opere citate del 1840 e 1842. Egli operò una distinzione tra alimenti plastici e respiratori. I primi sono le proteine contenenti azoto, assolutamente necessarie per la costituzione dei tessuti animali. Le sostanze respiratorie prive di azoto (grassi e zuccheri) sono usate invece nel corpo animale per produrre il 'calore animale'. Liebig si basò sulle ricerche di Jean-Baptiste Boussingault (1802-1887), che aveva stilato un accurato bilancio dell'assunzione e dell'emissione di carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto negli animali; analoghe ricerche sull'uomo furono effettuate in seguito dal chimico Jean-Auguste Barral (1819-1884). Secondo Liebig il lavoro meccanico prodotto dalla contrazione muscolare derivava dalla scomposizione ossidativa delle proteine muscolari, nel corso della quale si produceva l'urea; il consumo di proteine muscolari doveva essere reintegrato mediante l'alimentazione. Il problema dell'approvvigionamento dell'organismo animale con sostanze proteiche azotate era diventato oggetto di discussione da quando François Magendie (1783-1855), con esperimenti effettuati sui cani, aveva dimostrato che un'alimentazione assolutamente priva di azoto causava la morte degli animali in alcune settimane. Liebig si ricordò dei risultati di Mulder, secondo i quali le proteine vegetali mostrano una composizione elementare corrispondente a quella delle proteine animali, e suppose che negli animali erbivori il fabbisogno proteico venisse coperto dalle proteine vegetali.
La produzione del calore animale, mediante l'ossidazione delle sostanze contenenti carbonio attraverso l'ossigeno assunto con la respirazione, era già stata correttamente spiegata da Lavoisier, il quale però aveva supposto che tale processo avvenisse nei polmoni. Liebig invece, come già prima Adair Crawford (1748-1795), riteneva che la sede della combustione fosse il sangue. Sotto l'impulso della Thierchemie di Liebig, il giovane Hermann von Helmholtz (1821-1894) dimostrò su un muscolo stimolato elettricamente che, durante la contrazione, si ha una produzione di calore accompagnata da un consumo di sostanza muscolare. Le ricerche sulla produzione di calore e di lavoro meccanico nel corpo animale diedero a Helmholtz lo spunto per le riflessioni che portarono al suo trattato del 1847 Über die Erhaltung der Kraft (Sulla conservazione dell'energia), nel quale, così come nelle opere di Julius Robert von Mayer (1814-1878), sono trattate questioni strettamente legate all'energetica dei processi vitali.
Un importante presupposto per l'ulteriore sviluppo della chimica biologica, soprattutto per le ricerche sulle funzioni chimiche nella cellula, fu la conoscenza più dettagliata dei composti organici implicati. A tale sviluppo contribuirono anche i rapidi progressi della chimica strutturale organica nella seconda metà del XIX sec., in particolare le ricerche sui carboidrati e, alla fine del XIX sec., quelle sulle proteine.
A metà del XIX sec. il chimico fisiologo di Lipsia Carl Gotthelf Lehmann (1812-1863) passò in rassegna criticamente i risultati ottenuti fino a quel momento nel campo della chimica fisiologica, mettendo in evidenza quali di quegli sviluppi fossero da considerare errati. Egli riteneva promettenti tre metodi di ricerca: la comparazione quantitativa delle 'entrate' e delle 'uscite' degli organismi animali; il metodo chimico-sperimentale, nel quale singole reazioni chimiche vengono riprodotte al di fuori dell'organismo vivente; il metodo fisiologico-sperimentale su animali da laboratorio. Quest'ultimo metodo, a opera di Claude Bernard (1813-1878), ha portato a scoperte rivelatesi di grande importanza per lo sviluppo della chimica fisiologica.
Bernard era figlio di un vignaiolo del Beaujolais. Dopo un periodo di apprendistato presso un farmacista, studiò medicina a Parigi e nel 1839 iniziò a lavorare come preparatore presso il fisiologo Magendie, del quale nel 1855 divenne il successore. Da questi apprese il metodo della vivisezione, di cui divenne un maestro e che lo portò a importanti scoperte sulla funzione del pancreas nel processo digestivo e sul metabolismo degli zuccheri. Nel 1848, osservando la cavità addominale aperta di un coniglio, notò che nei vasi linfatici intestinali, soltanto dopo l'afflusso del succo pancreatico, scorre una linfa grassa e lattiginosa. Accurati esperimenti dimostrarono successivamente che il succo pancreatico emulsiona i grassi neutri, scindendoli in acidi grassi e glicerina. Sempre nel 1848 egli riscontrò nel sangue degli animali affamati uno zucchero (glucosio), rilevato fino ad allora soltanto dopo una ricca alimentazione a base di carboidrati oppure in caso di diabete; osservò inoltre che il fegato è in grado di produrre glucosio. Tra il 1855 e il 1857 egli riuscì a scoprire e isolare nel fegato la cosiddetta 'sostanza glicogena'. Fino agli inizi del XX sec. non fu però chiarito se il glicogeno fosse sintetizzato a partire dalle proteine, dai grassi oppure dai carboidrati provenienti dall'alimentazione.
Per sostenere la sua ipotesi sulla teoria dell'alimentazione e del metabolismo, Liebig aveva eseguito un solo esperimento sull'assunzione e sull'emissione di sostanze, su una compagnia di soldati. Nonostante la vivace discussione intorno alle tesi di Liebig, ci volle quasi un decennio prima di arrivare ai primi studi sperimentali sull'argomento. Nel 1848, a Gottinga, Friedrich Theodor Frerichs (1819-1885), poi divenuto professore di clinica medica a Berlino, aveva tentato di chiarire sperimentalmente l'importante questione della quantità minima di proteine necessaria per l'alimentazione animale. L'anno seguente Henri-Victor Regnault (1810-1878) e Jules Reiset (1818-1896) determinarono con un apparecchio per la respirazione di nuova costruzione il 'quoziente respiratorio', ovvero il rapporto tra emissione di CO2 e assunzione di O2. Un altro grande apparecchio respiratorio, adatto anche per esperimenti sull'uomo e sui grandi animali, fu costruito da Max Josef von Pettenkofer (1818-1901) nel 1865. Il primo ampio studio sul metabolismo animale, basato sul principio del confronto tra assunzioni ed emissioni, fu effettuato da Friedrich Heinrich Bidder (1810-1894) e Carl Schmidt (1822-1894) nel 1852 a Dorpat. Essi chiamarono questa notevole e ampia ricerca 'critica sperimentale del metabolismo'. Il risultato fu l'equazione normale del metabolismo animale, mediante la quale venivano descritti quantitativamente tutti gli spostamenti e le variazioni chimiche nel corpo e lo scambio con l'ambiente. Il collega di Liebig a Giessen, il fisiologo Theodor Ludwig Wilhelm von Bischoff (1807-1882), aveva tentato nel 1853 di dimostrare con esperimenti sugli animali la tesi dell'urea come misura del metabolismo (cioè della decomposizione delle proteine muscolari) formulata da Liebig. Insieme al suo assistente e futuro successore Carl von Voit (1831-1908), Bischoff ripeté questi esperimenti usando un metodo migliore, rendendo così evidente che la concezione di Liebig, secondo la quale soltanto le proteine presenti negli organismi e decompostesi nel corso del lavoro muscolare venivano espulse sotto forma di urea, era falsa. In effetti, a seconda dell'apporto proteico, sono decomposte anche le proteine degli alimenti. In un famoso esperimento il fisiologo Adolf Eugen Fick (1829-1901) e il chimico Johannes Wislicenus (1835-1902) intrapresero nel 1865 una scalata del Faulhorn, nel corso della quale misurarono costantemente il lavoro che essi stessi producevano e le variazioni del metabolismo. Essi giunsero al risultato, pubblicato nell'articolo Über die Entstehung der Muskelkraft (Sull'origine della forza muscolare, 1865), che "la macchina muscolare può essere alimentata senza alcun dubbio da combustibile privo di azoto" (Fick 1865, p. 347). Rimase sconosciuta in un primo momento la sede in cui avvengono i processi ossidativi. Lavoisier aveva ipotizzato i polmoni, Crawford il sangue; soltanto Eduard Friedrich Wilhelm Pflüger (1829-1910) contribuì all'ipotesi che la combustione avvenisse nei tessuti, ipotesi che del resto era già stata avanzata nel secolo precedente da Lazzaro Spallanzani.
Con i progressi della chimica organica e della metodica analitica divenne importante anche il secondo metodo di ricerca menzionato da Lehmann, l'analisi del funzionamento di determinate sostanze dell'organismo vivente in vitro, cioè al di fuori dell'organismo. Un esempio significativo è la spiegazione della funzione del colorante rosso del sangue. Questo composto, l'emoglobina, fu ottenuto per la prima volta in forma cristallina e quindi pura da Carl Bogislaus Reichert (1811-1883). Lo spettroscopio inventato nel 1860 da Gustav Robert Kirchhoff (1824-1887) e Robert Bunsen (1811-1899) si dimostrò perfettamente adatto anche all'analisi di soluzioni colorate. Nel 1862 Félix Hoppe (che si faceva chiamare Hoppe-Seyler), professore di chimica applicata a Tubinga, osservò due caratteristiche bande di assorbimento in una soluzione di sangue posta in un recipiente di vetro davanti alla fessura di uno spettroscopio (come fonte di illuminazione era stata impiegata la luce solare). Due anni dopo il fisico inglese George G. Stokes (1819-1903) dimostrò che Hoppe-Seyler aveva osservato lo spettro dell'emoglobina arteriosa, rosso chiaro, carica di ossigeno. Grazie a uno speciale riducente, Stokes poté osservare anche lo spettro dell'emoglobina venosa, priva di ossigeno. L'analisi spettroscopica permetteva quindi di valutare lo stato funzionale dell'emoglobina. Nei decenni seguenti furono poi chiarite ulteriori reazioni chimiche dell'emoglobina e il suo rapporto con i pigmenti biliari. Lo spettroscopio divenne un importante strumento della chimica biologica, in particolare per le sue applicazioni nella spettroscopia microscopica che permise di scoprire e caratterizzare molti pigmenti vegetali e animali, come la mioematina, scoperta da Charles Alexander MacMunn (1852-1911), il cui ruolo importante per la respirazione cellulare fu però riconosciuto soltanto nel XX secolo.
Furono anche compiuti progressi nell'esame dei mutamenti chimici nel caso di alcune malattie; a questo riguardo sono emblematiche le ricerche di Bernard sul metabolismo degli zuccheri, divenute importanti per la comprensione della patogenesi del diabete (Diabetes mellitus). Per alcuni gruppi di sostanze biologicamente importanti dovettero in primo luogo essere create le basi di chimica organica, per poi poterne iniziare lo studio chimico-fisiologico. Ciò avvenne soprattutto per le proteine e gli acidi nucleici. La struttura chimica delle proteine, costituite da aminoacidi, fu compresa soltanto alla fine del XIX sec., grazie agli studi di Emil Hermann Fischer (1852-1919) e Franz Hofmeister (1850-1922). Diversi ricercatori avevano isolato, mediante la scomposizione chimica delle proteine, acidi caratteristici contenenti azoto, che vennero riconosciuti come elementi costitutivi delle proteine. Alla fine del XIX sec. erano noti tredici di tali 'amminoacidi'. Mediante la concatenazione sintetica degli amminoacidi, Fischer poté ipotizzare con buona probabilità che le proteine dovevano avere una struttura polipeptidica. Soltanto su queste basi divenne poi possibile nel XX sec. lo studio della biochimica delle proteine. Un discorso analogo vale per le nucleine contenenti fosforo, descritte per la prima volta da Johann Friedrich (1844-1895), che le isolò dal nucleo cellulare. Albrecht Kossel (1853-1927) chiarì la struttura di questi composti, che chiamò 'acidi nucleici', ma la loro importanza in biologia venne riconosciuta soltanto nel XX secolo.
Alla fine del XIX sec. si era rafforzata la convinzione che i processi chimici del metabolismo avvenissero soprattutto nelle cellule. Si riteneva che l'origine fisica della vita, come Thomas H. Huxley (1825-1895) sostenne nel 1869, fosse da ricercare nel protoplasma delle cellule. In una conferenza del 1901 di impostazione molto avveniristica, Die chemische Organisation der Zelle (L'organizzazione chimica della cellula), Hofmeister abbozzò un quadro delle funzioni cellulari dal punto di vista biochimico. Lo sviluppo della chimica biologica come disciplina a sé stante, quindi, iniziò nella seconda metà del XIX sec., quando si distinse la chimica organica da quella fisiologica. Friedrich August Kekulé (1829-1896), per esempio, definì la chimica organica come 'chimica dei composti del carbonio', facendo notare nel Lehrbuch der Organischen Chemie (Trattato di chimica organica, 1866-1867) "che la chimica organica non ha nulla a che fare con lo studio dei processi chimici negli organi delle piante o degli animali" (Kekulé 1861-87, p. 11). La chimica organica, in effetti, aveva come punti di forza la sintesi organica e l'analisi della struttura dei composti organici. La nascita della biochimica fu segnata dalle più grandi difficoltà, ma alla fine le denominazioni 'biochimica' o 'chimica fisiologica' riuscirono a imporsi e Hoppe-Seyler nel 1877 diede a questa disciplina la sua prima rivista scientifica. Ciononostante, le forti resistenze da parte della fisiologia contro il distacco della biochimica ne ritardarono lo sviluppo fino agli inizi del XX secolo. Nel 1908 Kossel mise in rilievo i due lati della biochimica che andavano coltivati: la descrizione del corpo quiescente, cioè la chimica delle sostanze importanti dal punto di vista biochimico, e lo studio dell'organismo attivo, cioè i processi metabolici nell'organismo. Frederick Gowland Hopkins (1861-1947), uno dei maggiori biochimici degli inizi del XX sec., fece propri questi precetti, sottolineando l'importanza di una biochimica dinamica, che si svilupperà in particolare nel corso del XX secolo.
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